EMILE ZOLA GIOVANNI VERGA

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EMILE ZOLA GIOVANNI VERGA
EMILE ZOLA L’inizio dell’Ammazzatoio La lavandaia Gervaise, protagonista del romanzo, abita in una squallida locanda di Parigi. Una notte attende invano il ritorno del suo uomo, Lantier, che la sta tradendo. Alla finestra spia le strade notturne della città nella vana speranza di vederlo comparire. Nella stessa camera dormono i due figli cha ha avuto da Lantier, Claude di otto anni ed Étienne di quattro. GIOVANNI VERGA L’AMANTE DI GRAMIGNA: DEDICATORIA A SALVATORE FARINA L’amante di Gramigna è una novella di Vita dei campi, prima opera verista di Verga, uscita nel 1880. Contiene, all’inizio, una dedicatoria a Salvatore Farina, scrittore e intellettuale vicino agli ambienti scapigliati milanesi. I punti principali della lettera costituiscono altrettanti principi teorici della poetica veristica verghiana riguardanti sia il linguaggio e lo stile, sia il contenuto, sia il metodo di analisi, sia, infine, l’impersonalità: •
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il linguaggio è stato raccolto dall’autore «pei viottoli dei campi» e dunque è semplice e pittoresco come quello delle «narrazioni popolari»; il narratore si attiene al «fatto nudo e schietto», nella sua oggettività, senza filtrarlo attraverso «la lente dello scrittore»; il metodo nella rappresentazione delle passioni umane deve ispirarsi allo «scrupolo scientifico» e mirare a fornire un «documento umano» (altra espressione‐chiave del Naturalismo); la narrazione deve cogliere lo sviluppo logico e necessario delle passioni, rivelando il «legame oscuro tra cause ed effetti» (ed è proprio per tale determinismo che la catastrofe apparirà «fatale»); la mano dell’autore deve restare invisibile, in modo che l’opera non conservi «alcuna macchia del peccato d’origine» (è, questa, l’impersonalità). VITA DEI CAMPI: ROSSO MALPELO Questo racconto fu pubblicato per la prima volta nel 1878 e poi riunito in Vita dei campi nel 1880. Una nuova redazione, definitiva, della novella apparve nella edizione illustrata di Vita dei campi del 1897. Nel testo del 1897 l’impersonalità e applicata in modo più rigoroso e vengono meno le note moralistiche e riformistiche della prima stesura che risentiva di più sia del dibattito parlamentare allora in corso sul lavoro minorile e sulla riduzione dell’orario di lavoro dei minorenni, sia del recente libro di Fracchetti e Sonnino, L’inchiesta in Sicilia, in cui un capitolo è dedicato al lavoro nelle miniere siciliane. Il racconto è la storia di un ragazzo che lavora in una cava di rena. Poiché ha i capelli rossi, è ritenuto malvagio e tiranneggiato da tutti. All’inizio è protetto dal padre, ma, quando questi muore in un incidente di lavoro, resta solo e indifeso, anche perché la madre, restata vedova, e la sorella si sposano. Rosso assimila la violenza che subisce e cerca di insegnare la lezione anche all’unico amico che abbia, un ragazzo sciancato, Ranocchio. Quando anche costui muore, accetta di visitare un tratto inesplorato della galleria e vi si perde per sempre. VITA DEI CAMPI: LA LUPA La novella è suddivisibile in quattro momenti: •
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il ritratto iniziale del personaggio pone in primo piano la figura di una donna che trasgredisce ogni regola sociale e che, per la determinazione con cui segue i propri appetiti sessuali, viene chiamata “la Lupa”(in siciliano “lupo” è anche l’amante); il vano amore della “Lupa”per Nanni, che invece, badando all’interesse, mira a sposare la figlia di lei, Maricchia; dopo il matrimonio fra Nanni e Maricchia, esplode l’amore incestuoso fra genero e suocera, provocando lo scandalo nel paese, la reazione drammatica di Maricchia e gli scrupoli di Nanni, che più volte tenta di sottrarsi al fascino della donna; infine Nanni, non riuscendo altrimenti a porre fine alla relazione, uccide “la Lupa”. VITA DEI CAMPI: FANTASTICHERIA Questo racconto serve come introduzione ai Malavoglia, di cui anticipa la vicenda e i temi. All’ottica della grande dama, che visita da turista la marina catanese, si contrappone quella dei poveri abitanti di Trezza che vi abitano. L’autore dichiara che solo assumendo il punto di vista di questi ultimi sarà possibile capirne la vita. Ma il racconto è interessante soprattutto perché mostra la spinta contraddittoria che è alla base della nuova materia rusticana: da un lato l’autore afferma di volerla studiare scientificamente,al microscopio, e ne avvicina darwinianamente la vita a quella delle formiche; dall’altro la idealizza, vi ritrova la «religione della famiglia» («l’ideale dell’ostrica»), una «rassegnazione coraggiosa» e una «caparbietà eroica», e addirittura una prospettiva idillica: «Sembrami che le irrequietudini del pensiero vagabondo si addormenterebbero dolcemente nella pace serena di quei sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione». Il momento veristico e quello romantico sono insomma compresenti. NOVELLE RUSTICANE: LA ROBA Protagonista del racconto è Mazzarò, un contadino siciliano che a poco a poco, tutto sacrificando alla logica economica, è divenuto il maggior proprietario terriero della regione, sostituendosi al barone. Ma il processo di accumulazione economica si scontra con la sua sostanziale insensatezza: di fronte alla morte, infatti, Mazzarò scopre il non‐senso della vita dedicata esclusivamente alla roba. MASTRO DON GESUALDO: LA MORTE DI GESUALDO È l’ultimo capitolo, quello della morte. Gesualdo va a morire nel palazzo del genero, il duca di Leyra, fra l’indifferenza dei parenti e dei servitori. I MALAVOGLIA: LA PREFAZIONE Verga scrisse due prefazioni ai Malavoglia. Venne accettata dall’editore quella più asciutta, più impersonale e “scientifica”, che compare all’inizio del romanzo. I MALAVOGLIA: L’INIZIO Nell’esordio del romanzo l’indeterminatezza favolistica del tempo e dello spazio si coniuga alla minuta precisione geografica. Le espressioni «Un tempo» e «da che il mondo era mondo» introducono una nota fantastica (da favola appunto) che unifica tempo e spazio dilatandoli in modo smisurato, salvo poi a calarli per intero nella dimensione precisa e minuscola dei paesi del litorale catanese (dal mondo a Ognina, Trezza, Aci Castello). Il procedimento di dilatazione misteriosa e indeterminata e di riduzione minutamente realistica e geograficamente determinata (procedimento su cui è costruito l’intero romanzo) è già tutto nella prima pagina. I MALAVOGLIA: L’ADDIO DI ‘NTONI Le ultime due pagine del romanzo furono aggiunte da Verga direttamente sulle bozze. ‘Ntoni, ritornato alla casa del nespolo dopo cinque anni di carcere, vi passa la notte per ripartire all’alba. Ora che ha violato la legge morale della famiglia non si sente l’animo di restare. Deve lasciare Trezza e l’ordine naturale e arcaico che il paese rappresenta. Privo della solidarietà della famiglia, ora è davvero solo ed escluso da ogni comunità. GIOVANNI PASCOLI CANTI DI CASTELVECCHIO: IL GELSOMINO NOTTURNO Questa poesia fu pubblicata nel luglio del 1901 in occasione delle nozze di Gabriele Briganti, un intimo amico di Pascoli (e poi accolta nei Canti di Castelvecchio, 1903). Accanto alla narrazione dei piccoli eventi naturali che scandiscono la notte dalla venuta della sera fino alle prime luci dell’alba, essa include con estrema delicatezza un riferimento alla notturna vicenda d’amore dei due giovani sposi dalla quale nascerà un figlio cui verranno imposti i nomi Dante Gabriele Giovanni, i primi due in omaggio del poeta preraffaellita Dante Gabriele Rossetti e il secondo in omaggio a Pascoli. MYRICAE: LAVANDARE Questo testo, composto tra il 1892 e il 1894, fa parte della sezione di Myricae intitolata «L’ultima passeggiata»: il poeta passeggia tra i campi in un giornata autunnale appena offuscata da una nebbia leggera; e senta arrivare, da un canale, un canto triste e lento con il quale le lavandaie (lavandare) accompagnano il lavoro. Se a prima vista la poesia potrebbe sembrare un quartetto di tipo impressionistico e verista, in realtà gli aspetti oggettivi della vita contadina assumono una connotazione soggettiva: il campo arato solo in parte suggerisce un senso di incompletezza, l’idea di qualcosa restato a metà; così come l’aratro che pare dimenticato anticipa la sensazione dell’abbandono espressa dal canto delle lavandaie nell’ultima strofa. MYRICAE: X AGOSTO X agosto è una poesia dedicata alla morte del padre, che Pascoli collega, in un gioco ricchissimo di parallelismi strutturali, a quella di una rondine uccisa anch’essa senza motivo mentre torna al nido dove l’attendono i suoi piccoli; il cielo dall’alto della sua infinita e serena distanza, assiste alle due morti con un lacrimare di stelle cadenti (particolarmente fitte la notte del 10 agosto). Tuttavia l’uomo e la rondine sono, al di là della loro esistenza individuale, simboli del dolore universale e della malvagia ingiustizia che regola la vita sulla Terra; e la lontananza dal cielo esprime la lontananza incolmabile del bene e della giustizia dalla sofferenza umana. GABRIELE D’ANNUNZIO IL PIACERE Pubblicato nel 1889, è il primo romanzo di d’Annunzio. Con esso penetra in Italia la nuova cultura decadente. Protagonista assoluto è Andrea Sperelli, alter ego dell’autore ed eroe dell’estetismo. Per Andrea l’arte è il valore assoluto: la vita stessa viene concepita come arte. Andrea fa di Roma il teatro della propria affermazione sociale e della propria ricerca di raffinatezza. Passa da un’avventura galante ad un’altra, immerso nelle frivolezze della mondanità. La capacità di gestire questo copione con perfetto equilibrio e superiore distacco è incrinata da Elena Muti, un’amante che ha eccezionalmente turbato Andrea. Interrotta la relazione per un’improvvisa fuga della donna, tenta invano di ristabilire i contatti quando, due anni dopo, lei torna spostata a un ricco e perverso marchese. Minacciato da un’inquietudine interiore, Andrea cerca scampo nella consueta vita frenetica e dissoluta, finché resta ferito in un duello e si apre quindi una parentesi di convalescenza nella villa in campagna della cugina, dove conoscerà Maria Ferres. Stabilito un rapporto d’amore, torna a Roma con lei, dove però continua l’attrazione per Elena. L’ambivalenza verso le due donne lo spinge a pronunciare il nome di Elena mentre è abbracciato a Maria, così che la donna lo lascia. La conclusione del romanzo registra il fallimento del protagonista e del suo progetto di esteta. ALCYONE: LA SERA FIESOLANA Questa poesia, scritta a Settignano (vicino a Firenze) il 17 giugno 1899, è la prima di Alcyone. È ambientata nella campagna di Fiesole, piccola cittadina situata su un colle che domina la valle di Firenze, nella quale, attraverso il tipico paesaggio collinare toscano (con alberi di olivi e vigneti), scorre l’Arno. È una sera di giugno, dopo la pioggia. Insieme alla donna amata che gli è accanto, il poeta contempla lo scendere della seta accompagnato dai suoi particolari profumi, rumori e odori. Alla prima pubblica zione della poesia (1899) le tre strofe recavano ognuna un sottotitolo esplicativo: «la natività della luna», «la pioggia di giugno» e «le colline». Infatti la prima strofa coglie la sera all’apparire della prima luna all’orizzonte, la seconda introduce l’immagine di una sera di giugno in cui la pioggia cade leggera sulla campagna, e la terza si sofferma sull’immagine delle colline. ALCYONE: LA PIOGGIA NEL PINETO Composta probabilmente nell’estate del 1902 o in quella del 1903, questa poesia rappresenta lo sciogliersi del soggetto nel paesaggio attraverso una sorta di incantesimo sonoro. Sorpreso con l’amata (chiamata Ermione) dalla pioggia nella pineta nei pressi di Marina di Pisa, il poeta si concentra sui suoni prodotti dal cadere dell’acqua sulle diverse varietà di vegetazione e del verso di alcuni animali, ricostituendo il tessuto sinfonico attraverso un verseggiare frantumato, tramato di riprese foniche. Al di là della prova di bravura formale, il testo rappresenta la consueta vicenda di fusione con il dato naturale, fino alla vegetalizzazione dell’umano (evidente soprattutto nell’ultima strofa). ITALO SVEVO LA COSCIENZA DI ZENO: LA PROPOSTA DI MATRIMONIO Zeno, scapolo impenitente, decide improvvisamente di sposarsi. Lo psicoanalista spiegherà questa sua decisione con la necessità che Zeno aveva di un sostituto del padre: Giovanni Malfenti, suo futuro suocero, abile e spregiudicato commerciante, sarebbe stato eletto da lui in questo ruolo (tale interpretazione sarà riferita da Zeno stesso nel capitolo Psico‐analisi). Giovanni aveva quattro figlie, tre delle quali in età da marito, e tutte con la caratteristica di avere nome che cominciava in A: Ada, Augusta, Alberta e Anna. A questo proposito, Zeno scrive: «Pareva fossero da consegnarsi in fascio. L’iniziale diceva anche qualche cosa d’altro. Io mi chiamo Zeno ed avevo perciò il sentimento che stessi per prendere moglie lontano dal mio paese»: questo è uno degli esempi della tendenza nevrotica di Zeno di dare macroscopica rilevanza a fatti che possono essere casuali, o comunque irrilevanti. Subito, tra le fanciulle, sceglie come sua futura sposa Ada, la più bella. Ma, con la precisione dell’arcere che colpisce il centro del bersaglio, però di quello posto accanto al suo, ottiene di far innamorare di sé Augusta, la cui bruttezza è evidenziata da un occhio strabico. Non si accorge intanto che Ada non è innamorata affatto di lui, anzi è colpita negativamente dalla sua tendenza a ironizzare su tutto, e che si sta innamorando invece di Guido Speier, un giovane bello e disinvolto che Zeno cordialmente odia. Gli incontri tra i pretendenti e le fanciulle si svolgono, secondo un collaudato rituale della borghesia medio‐alta , nel salotto dei Malfenti. Di questo rituale è un momento importante l’esibizione con il violino. Guido sceglie come terreno di battaglia la Ciaccona di Bach, e sconfigge facilmente Zeno. LA COSCIENZA DI ZENO: LA VITA È UNA MALATTIA La guerra sorprende Zeno mentre è in villeggiatura nella campagna di Lucinico, sul Carso, e, separandolo dalla famiglia e dall’amministratore Olivi, gli permette un’attività nuova e per lui rivitalizzante: la speculazione. Tutto dedito a questo tipo di commercio, che gli procura facili e ingenti guadagni, egli è convinto di avere finalmente raggiunto la tanto desiderata «salute». GIUSEPPE UNGARETTI IN MEMORIA Il poeta racconta la storia di uno sradicamento e di una crisi di identità. Moammed Sceab ha cercato nella Francia, come molti arabi in quegli anni e dopo, una nuova patria, ma senza trovarla veramente. In tal modo è rimasto come sospeso tra la propria tradizione d’origine, ormai rifiutata, e il nuovo orizzonte nazionale, non interiorizzato a sufficienza. I FIUMI È uno dei testi più importanti dell’Allegria e dell’intera opera ungarettiana; una specie di autopresentazione (o addirittura autobiografia) in versi. Il poeta, in un momento di riposo dalla guerra, ha fatto il bagno nel fiume Isonzo, che scorre lungo il fronte orientale. A sera ripensa a quell’esperienza, e si rende conto che l’acqua dell’isonzo ha rievocato e come riepilogato in se stessa quella di altri tre fiumi (Serchio, Nilo, Senna) rappresentativi di altri momenti della vita del poeta. All’interno di questa cornice si inserisce la rievocazione del bagno nell’Isonzo, che a poco a poco suscita l’evocazione metaforica degli altri fiumi ricordati. L’immersione nell’acqua del fiume comporta due conseguenze: una regressiva e una purificatrice. La purificazione permette al poeta di sentirsi in armonia con l’universo, di percepire la propria esistenza (e il proprio stesso corpo) come parte del tutto, alla stregua di un «sasso». La regressione permette invece di recuperare anche la dimensione temporale, cioè il proprio passato individuale, facendone quasi un attributo del presente: anche la storia della propria vita diventa per il poeta recuperabile come ricchezza presente, in nome della generale condizione di «armonia». SAN MARTINO DEL CARSO Dalla visione realistica di un paese distrutto dalla guerra, il poeta passa alla riflessione sulla fine di persone che gli erano care. Secondo uno slittamento metaforico progressivo tipico di Ungaretti (e della tradizione simbolista), il «cuore» del poeta diventa sia il cimitero posto a testimonianza dei valori andati perduti, sia il luogo più sconvolto dalla distruzione stessa. Da un lato c’è il consueto corrispondersi tra paesaggio e interiorità; dall’altro l’interiorità del poeta assume su di sé il compito di restituire alla distruzione una disperata armonia, quasi raccogliendo l’eredità di tutte le assenze. VEGLIA È una delle poesie più “forti” dell’Allegria. Il poeta resta lungamente accanto al cadavere di un compagno fino a condividere con lui l’esperienza della morte; e nondimeno riscatta la tragica condizione attraverso un intenso atto vitale: scrivere «lettere piene d’amore». L’attaccamento alla vita affermato nella conclusione è l’espressione in qualche modo religiosa di una assunzione, nell’esistenza del sopravvissuto, della vitalità del morto. MATTINA Testo tra i più famosi di Ungaretti. Vi sono portati alle estreme conseguenze i principi della poetica ungarettiana: la concentrazione spasmodica del significato coincide con la creazione di un alone di indefinitezza. La comprensione di questo testo richiede di soffermarsi sulla particolare valorizzazione del titolo, indispensabile all’interpretazione corretta del significato: lo splendore del sole sorto da poco trasmette al poeta una sensazione di luminosità che provoca immediate associazioni interiori, e in particolare il sentimento della vastità. Mi illumino di immenso significa appunto questo: l’idea della infinita grandezza mi colpisce nella forma della luce. Una sensazione fisica, legata al dato naturale della mattina, diviene immediatamente un sentimento interiore, con scambio rapidissimo (e alogico) tra sensazione e pensiero, secondo i modi tipici del simbolismo. L’intensità del testo si affida anche alla sinestesia su cui è costruito, oltre che al perfetto parallelismo fonico‐ritmico dei due brevissimi versi, aperti con un’elisione, costituiti da due ternari e ruotanti attorno a due termini comincianti per /i/ e terminanti per /o/. SOLDATI È il testo che chiude la quarta sezione del libro, «Girovago». Viene colta e dichiarata per mezzo di una secca similitudine la condizione sospesa e minacciata dei soldati durante uno scontro a fuoco. La scelta di un’immagine tradizionale come quella della foglia che in autunno sta per staccarsi dal ramo è riscattata grazie alla fulminea incisività del componimento e alla valorizzazione dei singoli elementi per mezzo dei brevissimi versi. Come in altri casi, il titolo è decisivo per la decifrazione fondata del senso: i soldati sono in una condizione che li fa assomigliare a quella, assai incerta e minacciata, delle foglie in autunno. EUGENIO MONTALE OSSI DI SEPPIA: SPESSO IL MALE DI VIVERE HO INCONTRATO A tre emblemi del male di vivere (il rivo strozzato, la foglia riarsa, il cavallo stramazzato) ne vengono contrapposti altrettanti di indifferenza (la statua, la nuvola, il falco), vista come unica soluzione esistenziale. LE OCCASIONI: LA CASA DEI DOGANIERI Questa poesia, datata 1930, apre la quarta e ultima parte delle Occasioni. Come Montale stesso ha rivelato molti anni dopo, essa è dedicata ad Arletta (o Annetta), la fanciulla morta che compare in numerosi altri testi montaliani. Si immagina che il poeta e la sua interlocutrice abbaino vissuto insieme un momento di vita vera (dunque, di autenticità) nella casa dei doganieri, passato il quale i rispettivi destini si sono separati: il poeta vive ancora, mentre la donna è morta. Il primo è rimasto tenacemente legato al ricordo di quel momento e del luogo dell’incontro, abbandonato invece, evidentemente, dalla donna. Ma non per questo è possibile sapere chi dei due sia davvero vivo e dunque fedele all’autenticità di quell’incontro lontano: l’apparente resistenza del poeta e l’apprente lontananza della donna potrebbero essere infatti ingannevoli. PRIMO LEVI SE QUESTO È UN UOMO Se questo è un uomo nasce, come informa l’autore stesso nella prefazione, dal «bisogno di raccontare» di quegli anni, da un «impulso immediato e violento» a fornire testimonianza dell’accaduto. Comincia da qui la lunga riflessione sul lager (il campo di sterminio nazista) che accompagna tutta la vita di Levi, sino al suo ultimo libro, scritto poco prima della morte, I sommersi e i salvati (1986). Se questo è un uomo narra infatti la terribile esperienza in uno dei più famosi campi di concentramento, Auschwitz, dove Levi visse per un anno, a partire dal febbraio 1944: si salvò perché era un chimico e dunque svolgeva un tipo di lavoro di cui i nazisti avevano bisogno e soprattutto perché capitò ad Auschwitz tardi, nel 1944, quando il governo tedesco, come spiega l’autore, «data la crescente scarsità di manodopera, aveva stabilito di allungare la vita media dei prigionieri da eliminarsi». Il libro è sorretto da una formidabile volontà di capire, di spiegare con l’arma della ragione l’assurdità e l’irrazionalità delle barbarie, che nel lager si presenta tuttavia eretta a sistema organizzato. La dignità dell’ebreo deportato sta in questa strenua volontà di salvare l’essenza dell’umano (uno spazio di cordialità e razionalità), anche nell’inferno del lager, là dove la logica della violenza regna incontrastata fra gli stessi prigionieri, che finiscono fatalmente per adeguarvisi e farla propria. Le vittime sono vittime due volte: perché brutalmente represse e perché si trasformano esse stesse in aguzzini dei loro compagni. Nello stile semplice, preciso, classicamente fermo e rigoroso di Levi si esprime dunque una estrema esigenza di controllo e dignità.