Salvatore Vitiello - Testimonianze dai lager
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Salvatore Vitiello - Testimonianze dai lager
Salvatore Vitiello Sono Salvatore Vitiello, nacqui a Bosco Reale in provincia di Napoli il 22 agosto 1915. Venni arrestato a Pola il 5 agosto 1944 dalla SS, sottoposto a interrogatori anche con qualche tortura, ma riuscii diciamo a non tradire i miei compagni. Dopo l’8 settembre ero a Venezia in servizio nella Marina Militare, ero di carriera. Bisognava presentarsi ai Tedeschi sotto minaccia di pena di morte. Io non mi presentai, rimasi latitante per un bel po’. Il mio papà era un ufficiale di marina, era stato preso prigioniero e internato nei campi militari. La mia mamma, che era sola a Pola, dove ci eravamo trasferiti pur non essendo polesi, riuscì ad avvicinare un maresciallo dell’Aviazione, nostro compaesano, ci mettemmo d’accordo con lui e una volta che venne a Venezia mi portò a Pola. Qui presi contatto con le formazioni partigiane, coordinate da Nino Vangoni. A me affidarono l’incarico di volantinare manifestini nei locali pubblici e prendere contatti con le famiglie di partigiani per far arrivare notizie ai partigiani combattenti in Jugoslavia. Mi hanno arrestato le SS e portato nelle carceri di Pola, dove dopo gli interrogatori sono forse restato una ventina di giorni. Di lì fummo trasferiti a Trieste nel carcere del Coroneo. Eravamo in sei o sette per cella. C’era il colonnello Imparato, direttore dell’Arsenale di Padova, e un certo De Tommaso, un insegnante molto giovane di Pola. Nessuno dei due è più tornato. Lì riuscii a procurarmi tramite i secondini dei panini e quattro pacchi di trinciato di tabacco, che in seguito mi servì moltissimo. Anche a Dachau ne avevo ancora. Dopo altri quattro o cinque giorni ci trasportarono su dei carri merci, via Tarvisio, fino ad una località che non ricordo bene. Nel tragitto riuscii a buttare per terra una busta con una lettera per i miei genitori che avevo scritto in carcere. La ricevettero a Bassano del grappa, dove nel frattempo erano sfollati. Dicevo loro di stare tranquilli, ché sarei tornato di certo. In questa località fummo selezionati. Una piccola parte ci condussero a Dachau, l’altra non so dove, probabilmente decisero di collaborare con i Tedeschi e li portarono come liberi lavoratori. Le accuse io naturalmente le ho sempre negate. La denuncia fu fatta da una ragazza con la quale avevo avuto rapporti in precedenza. Chiesi di essere messo a confronto con questa ragazza e lei venne e confermò tutto. Io imbastii una storia cercando di convincere che questa agiva per vendetta. In effetti si era data ai Tedeschi ed era diventata un loro agente. Si chiamava Vittorina Torollo, di Rovigo. Quando poi ritornai in Italia, fui chiamato dalla Corte d’Appello di Venezia che mi chiese se volevo procedere contro di lei. Qualcuno l’aveva denunciata. Dissi di no. Ormai ero tornato, se la sarebbe vista lei con la sua coscienza. Il viaggio per Dachau fu abbastanza rapido, forse un giorno e mezzo, non di più. Con noi non c’erano donne, solo uomini, tra cui degli ebrei, di cui uno molto anziano. Subito dopo l’ingresso a Dachau, di cui ricordo un gran portone con la solita scritta in tedesco “il lavoro nobilita l’uomo”, ci portarono in una sala, ci tolsero tutto e mi lasciarono soltanto la pipa e il tabacco. Tutto il denaro che avevamo, tutto il bagaglio, tutti i vestiti ce li portarono via. Ci rasarono a zero e a noi Italiani, non ho mai capito perché, ci fecero un solco in mezzo alla testa. Dicevano che era un segno di spregio che ci facevano perché eravamo ritenuti traditori. Poi ci diedero le divise zebrate. L’immatricolazione è stata successiva, quando eravamo già nel blocco 8, un blocco di transito. Qui rimanemmo forse venti giorni, forse qualcuno in più. Non ci facevano lavorare, stavamo lì e ogni tanto ci chiamavano e ci facevano dei lunghi interrogatori. Chiedevano notizie sul nostro conto, sulla nostra infanzia, sulle malattie che avevamo avuto, sui nostri genitori, che età avevano, se erano ancora vivi oppure morti, a che età erano morti, se fumavamo, quanto fumavamo, da quanto tempo fumavamo, insomma un mucchio di domande di questo genere. Nel frattempo passammo l’immatricolazione e ci dettero il triangolo rosso con la “I” sotto il vertice del triangolo. L’unico episodio di un certo rilievo in quei giorni. Una mattina entrò un soldato della SS, mentre noi stavamo tutti ammucchiati l’uno contro l’altro per ripararci dal freddo. Tutti quanti si tolsero il cappello, io non lo levai. Questo mi guardava e probabilmente diceva di togliermi il cappello. Io rispondevo nicht verstanden, non capisco. I compagni che mi erano vicini mi dicevano “togliti il berretto”. Io non lo levai, me lo levò lui con dei ceffoni e con delle botte. Da quel giorno non portai più il berretto, dovunque andavo lo buttavo via. A Dachau ci dettero una specie di panciotto di carta crespata, era un panciotto con una fettuccina che girava attorno. C’erano delle scarpe e come calze davano degli stracci da avvolgere attorno al piede. In complesso di Dachau io non posso dire un gran male, perché noi non lavoravamo. Stavamo in un cortile chiuso con due ali e al centro una gran vasca rotonda con tanti rubinetti, così ci si poteva lavare abbastanza agevolmente. Nelle capanne dove si dormiva c’erano dei castelli grezzi con pagliericci, imbottiti di paglia o qualcosa del genere, e in definitiva era sopportabile. Al mattino ci davano una bevanda calda, credo che fosse tiglio o qualche cosa del genere, a mezzogiorno ci davano un pezzo di pane e un pezzo di margarina, una minestra completamente liquida con niente dentro, e altrettanto la sera. Comunque, dato che non lavoravamo, era sufficiente a mantenerci in vita. Nel blocco eravamo circa centocinquanta. Il colonnello De Tommaso era riuscito a portarsi con sé una Divina Commedia che ci leggeva e ci commentava. Questo ci era di gran conforto, così come anche la mia pipa col tabacco, che distribuivo perché tutti facessero una boccata. Eravamo diventati tutti amici. A Dachau ricordo di aver visto dei religiosi, che non erano partiti con noi ma erano già lì. Una volta ci portarono in piazza ad assistere all’impiccagione di alcuni Russi che avevano tentato il furto di patate dalla cucina. Passammo la visita medica con un medico francese che dopo la visita mi disse, testualmente “sei un ragazzo robusto, sano, fai attenzione a non farti ammazzare, perché se riesci a non farti ammazzare con molta probabilità potrai ritornare”. Dopo questa visita ci portarono a fare una doccia, ci dettero degli abiti civili però sempre col triangolo e ci portarono in una stazione, non so quale. E lì iniziò un viaggio. Dopo un paio di giorni ci fermammo a Buchenwald e di questo campo non posso dir niente perché ci tennero per due o tre giorni in un blocco, dopodiché ripartimmo diretti a Neuengamme. Qui cominciò la vera storia, la vera deportazione, con tutti i sacrifici e le bruttezze che dovemmo sopportare. In prevalenza ci portavano ad Amburgo a scavare macerie oppure in qualche fabbrica. Con i pochi civili che incontravamo per strada, i contatti erano nulli, anche perché nella maggioranza quando ci vedevano giravano lo sguardo. Una volta ci portarono in una fabbrica di birra e lì avvenne un episodio che voglio raccontare a vantaggio dei Tedeschi. Un giovane SS, un ragazzo alto a cui mancava un braccio perché forse era stato ferito in guerra, mi disse di seguirlo e mi portò in uno sgabuzzino dove mi mostrò un sacco di orzo. “Essen, essen!” mi disse, allora capii. Mi riempii i vestiti più che potei con questo orzo, che poi mi aiutò moltissimo a integrare i pasti che ricevevamo al campo. Il lavoro era particolarmente pesante, non per il lavoro in se stesso, ma perché partivamo al mattino verso le quattro o le cinque, a volte in camion a volte in treno, anche se Neuengamme non era molto lontano da Amburgo, ma poi da Amburgo raggiungevamo il posto di lavoro a piedi. Poi al rientro non c’era mai un mezzo ed era compito dell’accompagnatore della SS di trovarlo . A volte riusciva a trovarlo anche alle dieci di sera, una volta addirittura arrivavamo in campo alle tre del mattino. Ricordo una nota particolare: quando si arrivava in campo, ad accoglierci c’era sempre una banda musicale che suonava Beethoven, oppure Mozart e altro. Entrati in campo ci distribuivano l’unica minestra della giornata e si andava subito a letto. Capitava spesso però che il conteggio non tornasse, allora ci facevano alzare di nuovo in piazza, finché la conta riusciva a quadrare. Una volta, evidentemente per capriccio di qualcuno, ci fecero spogliare nudi, al freddo di notte, direi senza nessun senso, e ci fecero tenere la cintura attorno alla vita. Neuengamme era un campo abbastanza grande, non saprei dire se più o meno di Dachau. In baracca eravamo in quaranta o cinquanta. C’è un fatto di cui non si è mai parlato. Io non sono stato sempre a Neuengamme, ad un certo momento mi portarono quasi ai confini con l’Olanda, in un sottocampo, Meppen. Per selezionarci ci guardarono e ci tastarono i muscoli. Di questo campo non si è mai parlato e io penso che le cose peggiori succedevano proprio in questi campi. Perché mentre nei campi principali c’erano dei servizi, ci si poteva lavare, poi ogni tanto i barbieri ci facevano la barba, quando i capelli erano un po’ cresciuti continuavano a tagliarli, a Meppen tutto questo non c’era. Era una campo piccolo, con sette o otto baracche. Al di là del recinto vedevo altre baracche, con uomini vestiti normalmente, che stavano bene. Forse erano lavoratori. A Meppen l’avvicendamento avveniva circa ogni due mesi, ma di quelli che arrivano un ottanta per cento non tornava più. Provo a descrivere quello che era Meppen, anche se è difficile. I blocchi erano senza castelli, per terra c’era soltanto la paglia. Si dormiva tutti sulla paglia. Non c’erano coperte, non c’era niente. Ci avevano tolto le scarpe e dato degli zoccoli olandesi senza calze, sotto non avevamo assolutamente biancheria. In breve tempo iniziò un’epidemia di dissenteria, la paglia diventò un letamaio, non c’erano servizi igienici, c’era una latrina in cui si affondava nello sterco, perché la gente non faceva in tempo ad arrivare che si scaricava. Ad un certo momento i vestiti che avevamo addosso erano diventati quasi duri, pieni di melma e di porcheria. La mia pipa ero riuscito a conservarla fino a Meppen. Lì mi fu portata via. Poi successe un episodio spiacevole con i Francesi. Del pane che ci distribuivano la sera, io ne conservavo metà per la mattina dopo, tenendolo sotto la testa tutta la notte. Una mattina al risveglio, il mio pane era sparito e vidi un francese, che aveva regolarmente finito la sua razione la sera prima, che mangiava. Cercai di toglierglielo, ma quello si mise a gridare che l’italiano gli rubava il pane. Mi presi venti scudisciate sulla schiena, delle quali ho portato i segni per tre o quattro anni. Un’altra volta, mentre mangiavo il mio pane la mattina, un francese mi guarda voglioso. Stacco una briciola di pane e gliela porgo. “L’Italien est fu”, è pazzo, dice rivolto ai suoi compagni. “No, je ne suis pas fu” gli ho risposto. Ho visto delle cose bruttissime, addirittura degli atti di cannibalismo da parte di Russi, che quando moriva qualcuno gli guardavano anche in bocca per vedere se aveva delle protesi. Forse avevano organizzato un commercio di queste cose. Comunque erano sempre ben nutriti. Quando ci portavano al lavoro non c’era nessuna regola, i gruppi si formavano spontaneamente, bastava formare un gruppo di cinquanta e si partiva. C’erano i Vorarbeiter, in prevalenza slavi, polacchi, mai un italiano. Non ho mai incontrato un Vorarbeiter italiano e questo è un nostro onore. Quando tornavamo dal lavoro, di cinquanta persone sette o otto erano morte e bisognava riportarli indietro, trascinarli. Ci portavano nei boschi e ci facevano costruire con le zolle delle specie di trincee, non so a cosa servissero. Io per non fare un lavoro utile prendevo queste zolle, le portavo e le riportavo indietro, facevo su e giù. Un francese che mi era vicino e mi aveva visto mi denunciò, forse per avere in cambio un mozzicone di sigaretta o qualche cosa del genere. Allora quello della SS oltre a picchiarmi mi tirò un colpo di pistola e mi colpì. Uno zingaro che era con noi riuscii a levarmi questa pallottola, poi prese delle erbe, degli intrugli, me le applicò lì sopra e riuscì a guarirmi. Dopo una ventina di giorni fui colpito anch’io dalla dissenteria, naturalmente con sangue nelle feci. Mi decisi allora ad andare in una specie di infermeria. Non c’era luce in questo campo, c’erano dei lumi e basta. Arrivai in questa infermeria e c’era un medico francese, prigioniero anch’egli. Resosi conto che era dissenteria, mi scrisse una D sulla fronte e mi mandò in un blocco dove erano ricoverati tutti i colpiti dalla dissenteria. All’ingresso trovai due Francesi a cui chiesi dove dovevo dormire. Mi indicarono un posto e mi ci buttai al buio, senza sapere cosa facevo. Al mattino quando venne la luce mi accorsi che avevo dormito addosso a un cadavere. Mi alzai, camminai un poco e vidi che almeno una ventina di quelli che erano lì erano già morti. A mezzogiorno vennero a portarci un cucchiaio di purè di patate, un cucchiaio, anzi la punta di un cucchiaio. Pensai subito che di lì non sarei più uscito, perciò andai dal medico francese e gli chiesi di andarmene. Mi disse che se me ne andavo sarei dovuto tornare subito a lavorare. Mi propose un’esenzione di cinque giorni, per cui dovevo andare lo stesso sul posto di lavoro, ma non potevo lavorare. Accettai. Rientrai nel blocco. La sera, vicino allo sgabuzzino del capo blocco, il quale non era un prigioniero politico ma un criminale, c’era una stufa. Quando tutti dormivano, compreso il capo blocco, mi alzavo, andavo vicino alla stufa e mi ci mettevo col ventre quasi attaccato. Poi mangiavo dei pezzi di carbone e forse la combinazione delle due cose mi fece guarire. Trascorsi due mesi ritornai a Neuengamme, dove trovai le cose molto cambiate. Può darsi che fosse il mese di gennaio o febbraio. Mi misero in un blocco insieme a tutti gli altri ammalati, anche se non ci curavano . Forse non avevano neanche la possibilità di farlo. Però ci davano un vitto non buono, ma almeno sopportabile. Un giorno ci riunirono - era una bella giornata - e ci imbarcarono su un treno merci. Prima di imbarcarci delle crocerossine ci distribuirono dei panini in gran quantità. Non sapevamo il perché del trasferimento, che si rivelò essere la cosa più brutta di tutta la deportazione. Il treno era formato da una ventina di vagoni. In ogni vagone stiparono una ottantina di persone. I primi riuscirono a sedersi, io e un italiano di Fiume salimmo per ultimi, non trovammo posto e dovemmo rimanere in piedi. I primi due giorni non successe niente, sentivamo soltanto la mancanza dell’acqua perché non ci davano da bere. Poi la gente iniziò a morire. Io riuscii a trovare un sistema per dissetarmi: al mattino presto svegliandomi vedevo sui tubi del carro merci delle goccioline d’acqua, allora le assorbivo così, e forse quello mi salvò. Nel mio vagone erano quasi tutti Francesi, di Italiani c’eravamo soltanto io e un ragazzo di Fiume. Questo ragazzo fiumano non ce la faceva più, perciò chiesi ai Francesi se potevano fare un po’ di posto per farlo sedere. La risposta che ricevetti fu “merde” al che io reagii con un manrovescio tirato con tutta la forza che avevo. “L’Italien est très fort” dissero, e fecero posto per farmi sedere. Non avevano capito che era per il mio compagno che chiedevo il posto. Il viaggio sarà durato dai dieci ai quindici giorni e siccome dopo i primi giorni la gente cominciò a morire, man mano che i morti venivano scaricati trovammo posto a sedere. Arrivammo a Sandbostel, e qui scendendo dal vagone ci distribuirono un pane intero con abbondante margarina. Naturalmente rimanemmo tutti stupiti, non c’era più la scorta e ci indicarono la strada che dovevamo fare. Arrivammo così ad un campo militare evacuato. All’ingresso c’erano dei Russi che appena arrivammo ci aggredirono per portarci via quel pane. A me lo portarono via. Non ricordo con piacere quello che successe dopo, ma devo dirlo. A Neuengamme ero riuscito ad affilare la lama del manico del cucchiaio. Preso dalla rabbia, non tanto per il pane, ma per la violenza che mi veniva usata, impugnai quel cucchiaio e colpii il primo di questi Russi che mi capitò sotto tiro. Per fortuna lui era imbottito di paglia – lo eravamo tutti per proteggerci dal freddo – e la lama era di alluminio. Insomma non gli fece niente e la cosa finì lì. Intanto si sentivano già da lontano le cannonate degli Americani o Inglesi che avanzavano. E qui fui preso dal tifo petecchiale. Poi non ricordo più niente. Mi svegliai dopo la liberazione nell’infermeria del campo. C’era una crocerossina olandese che quando mi vide aprire gli occhi tutta contenta si mise a gridare ‘L’Italien, l’Italien est vif!’. Di quel periodo non ricordo niente, però mi è rimasto impresso un bel prato pieno di fiori che vedevo sempre. Margherite, uccelli e torrenti, questo ricordo. Rimasi in quell’infermeria una decina di giorni, poi mi trasferirono in un ospedale americano. Qui mi curarono, poi mi trasferirono ancora in un altro ospedale e per ultimo in un’infermeria italiana. C’era un sottotenente medico che mi visitò e mi trovò delle infiltrazioni polmonari. Mi mandò in un altro ospedale, sempre italiano, dove mi curarono un poco con calcio. Siccome perdevo anche molto sangue per le emorroidi mi operarono senza anestesia, comunque riuscii a superare anche quello. Verso la fine di agosto ci misero su un treno ospedale, e arrivammo a Merano, dove fanno la corsa ippica. Qui venne una ragazza che ci chiese se sapevamo dove stavano i nostri genitori. Li contattò e dopo qualche giorno vidi arrivare mia sorella, che con un mezzo di fortuna, un camioncino tutto sgangherato, venne a prendermi da Bassano e mi riportò a casa. Era penso la metà di settembre. In questi cinquantacinque anni, una volta sono stato contattato da un’associazione di Torino, che mi pregò di fare una relazione come superstiti del campo di Neuengamme. Feci una breve relazione e sette o otto mesi dopo, per caso, sul terzo canale vidi un servizio in cui alla fine, tra le persone che venivano ringraziate, compariva anche il mio nome. Sui campi di concentramento io non sono più tornato. Ci è andato mio figlio, ma io non ho voluto accompagnarlo. Quando sento parlare tedesco, scappo. Non che li odi, ma non li sopporto neppure. Oggi ho una piccola industria e spesso sono stato contattato da Tedeschi, ma ho sempre rifiutato di avere rapporti con loro. Per me il lager è stato un’esperienza che mi ha fatto perdere fiducia nell’umanità.