76147 La mia storia

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76147 La mia storia
Copyright© 2004 by
Antonella Giurastante
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Intervista di:
Flavia Florindi
Autore:
Antonella Giurastante
Immagine di copertina:
Antonella Giurastante
Davide Biondi
Prima stampa Gennaio 2004
Contributo offerto da:
Ente Provincia di Pescara
Ristampa Gennaio 2007 contributo offerto dal
Comune di Francavilla al Mare (CH)
Stampa MODULAR
Francavilla al Mare (CH)
ELISA MISSAGLIA
Pescara, 31 gennaio 2004
Presentazione delle prima stampa di questo volume
e secondo anniversario della morte di Elisa Missaglia.
Racconto - Testimonianza
delle barbarie naziste vissute nei campi di sterminio.
Intervista di: Flavia Florindi
Autore: Antonella Giurastante
Elisa Missaglia è nata a Lecco il 14 Ottobre del 1919. Seconda dei tre
figli di Giuseppina Rusconi, casalinga, e Enrico Missaglia, caporeparto
di una fabbrica di Lecco per la trafilatura fili in acciaio e tessitura di reti
metalliche per gabbionate. Elisa lavorava come operaia nella stessa fabbrica del padre e fu proprio durante uno sciopero indetto dalla C.N.L. che
il 7 Marzo del 1944 venne catturata dai fascisti e deportata nei campi di
sterminio nazisti.
Scampata alle barbarie ed ai maltrattamenti, ridotta ad una larva
umana, riuscì a tornare a casa il mese di Ottobre del 1945.
Dopo la fine della guerra conobbe Gabriele Giurastante, abruzzese,
anche lui uscito da una forte esperienza di guerra, combattente in Albania,
lì ferito gravemente in trincea dall'esplosione di un proiettile di artiglieria. Creduto in un primo momento morto, il suo corpo fu miracolosamente recuperato dal mucchio dei cadaveri. Prestate le prime cure, fu ricoverato nell'ospedale di Pietra Ligure e poi in convalescenza a Lecco dove
incontrò Elisa.
Elisa e Gabriele si sposarono il 28 dicembre del 1946, la loro è stata
una esemplare vita di coppia, sostegno reciproco nelle tribolazioni, condivisione piena delle gioie. Dalla loro unione sono nati tre figli: Rita,
Biagio e Antonella.
Nel 1955 Elisa e Gabriele, con i primi due figli, si trasferirono da
Lecco a Pescara.
A Pescara, Elisa visse dedicandosi al lavoro, alla sua famiglia ed agli
altri: il suo, il “nostro” prossimo. Dedicò, infatti, molta parte della sua
esistenza alla cura ed all’assistenza dei malati e degli inabili, nonostante
la sua non perfetta salute.
Ha affrontato ogni problema che la vita le ha posto innanzi, con incredibile impegno e coraggio, grazie anche al grande sostegno di Gabriele.
Ha accettato, senza mai cedere allo scoraggiamento, le frequenti cure
mediche alle quali, soprattutto negli ultimi anni della sua vita, si è dovuta forzatamente sottoporre. Spesso diceva: “Bisogna tirare avanti”.
Purtroppo il cancro è stato più forte di lei. Quando lo ha scoperto, e
non siamo riusciti a nasconderglielo perché lei già sapeva tutto prima di
noi, era ormai in uno stadio molto avanzato, troppo tardi per poter trovare un rimedio.
Anche allora, nel 1999, è stata esempio di grande coraggio. Non ha
mai smesso di combattere… Sorridendo, mostrando con l'ironia la sua
intenzione di non arrendersi, diceva ai medici che la curavano quando spiegavano a noi ed a lei i notevoli rischi della terapia e delle tante impegnative operazioni chirurgiche alle quali è stata poi sottoposta: “Non sono
riusciti i tedeschi ad ammazzarmi…, non ci riuscirete nemmeno voi!…”
Ma purtroppo, dopo due anni di ulteriori sofferenze, il cancro ha vinto
su questa donna grande, forte e coraggiosa. Ha avuto la meglio e lei ha
chiuso per l'ultima volta gli occhi e da essi scendevano lacrime, forse per
la tristezza di dover lasciare i suoi cari, ma poi il suo viso si è disteso in
un lieve sorriso di pace… la sua “croce”, era stata posta ai piedi di quel
Cristo al quale non ha mai smesso di rivolgere le sue preghiere.
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Flavia Floridi, all’epoca dell’intervista era
una studentessa universitaria: l’intervista qui di
seguito, curata successivamente dalla figlia
Antonella Giurastante, era la parte memorialistica, viva e pulsante, della sua tesi di laurea.
Attualmente è insegnante di scuola media.
La Memoria è il nutrimento dell’uomo:
chi dimentica avvizzisce.
Dedicato ai Piccoli affinché sappiano
e ai Grandi affinché ricordino.
Flavia Florindi
Antonella Giurastante, figlia di Elisa Missaglia e Gabriele Giurastante, ha voluto onorare
la madre dando voce alla sua Memoria, affinché
la sua esperienza non venisse dimenticata ma
oltresì contemplata. Sulla base di una intervista,
ha realizzato questo libro inserendoci ricerche,
note personali ed illustrazioni, dando così maggiormente modo di comprenderne la storia.
Di seguito è riportata un’altra intervista, più
breve, una sorta di riassunto di quella che è stata
l’esperienza di sua madre nei campi di concentramento.
Ha voluto che il messaggio fosse forte e
diretto, come un grido di dolore per le atrocità
che sono state e che, purtroppo, in altre occasioni, continuano ad esserci. E’ per lei una Storia da meditare, anche per il modo semplice con
il quale è stata raccontata da una Donna forte e
coraggiosa.
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DEDICATO A MAMMA
E’ difficile da capire, ma soprattutto rimane difficile credere che sia veramente potuto accadere tutto
questo… la verità è che ti sei trovata in situazioni di incredulità, che forse hanno smorzato in te il desiderio di creare uno spazio alla Memoria.
Nonostante ciò, hai sempre voluto donare, come un vero regalo, la tua testimonianza, lasciando sopiti i tuoi sentimenti di rancore, annullando l’odio e raccontando con tanta dolcezza “La tua Storia”, avendo a volte quasi timore di poter impressionare chi, in quel momento, la ascoltava.
Nei tuoi occhi, nel tuo sguardo, nei tuoi comportamenti, c’è sempre stato qualcosa, qualcosa che
solo chi sapeva poteva capire. Sei stata come un fiore che ha voluto resistere al dolore ed alla sofferenza, per amore della vita, un fiore che è riuscito a crescere in tutta la sua bellezza, nonostante abbiano
cercato di spezzarlo… perché tu amavi la vita… anche se questa vita, forse, non ti ha dato quanto meritavi.
La tua forza ti ha salvata, la tua fede è stata per te compagna di vita, sempre… non ti sei mai lasciata andare alle carezze, non ti sei mai immersa in un abbraccio, hai sempre risolto i tuoi problemi con
coraggio e dignità… sì, le tue carezze mi sono mancate, ma la tua presenza costante, imponente e certa,
ha compensato questa lacuna, ed ho sempre cercato di capirti…
Ho deciso che questo libro doveva essere pubblicato il giorno che tu, stanca di tutte le sofferenze che
sino alla fine ti hanno tormentata, ci hai lasciati, andando in un posto bellissimo dove sicuramente e
finalmente hai trovato la pace… ti si leggeva in viso… abbiamo visto finalmente il tuo volto distendersi.
Vorrei che la tua “Memoria” diventi un monito per quelle atrocità che sono state e per quelle che purtroppo ancora oggi continuano ad esserci. Vorrei che la tua “Memoria” sia un elogio a te, grande Donna
coraggiosa, che è stata capace, con quel suo esile corpo, a sopportare tante sofferenze, che è stata capace, con coraggio e fede, a non perdere mai la speranza di rivedere i suoi cari.
Non ho mai potuto tenere la tua mano nella mia, nemmeno quando eri molto malata… tu non volevi… ho potuto farlo solo quando te ne sei andata… non avrei più voluto lasciarla!
Forse per questo sei venuta a trovarmi e mi hai fatto sentire la tua mano calda nella mia… ti ho sentita, ho avuto paura prima di capire, ma poi, la certezza che eri tu, mi ha riempita di gioia e di conforto… mi hai voluto dire, prendendomi per mano, che saresti stata sempre con me… come ho potuto meritare un regalo così bello?
Tu hai dato tanto, sempre, anche quando non potevi!
E’ banale forse dire ti voglio bene?
Te lo dico tutti i giorni… è semplicemente così: Ti voglio bene. Mamma!
Antonella
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DA MICHELE
Quando penso a mia nonna mi viene difficile ricordare il suo viso contratto arrendersi
all’imprevedibilità di un sorriso;… tuttavia, la sua apparente severità era l’inevitabile corollario delle sofferenze della sua vita.
Questa testimonianza è un dono per noi tutti, perché il tempo, purtroppo, ha il potere di
annebbiare le nostre coscienze anche da grandi catastrofi… non deve succedere!!! Non possiamo pensare al sacrosanto diritto alla vita ed al rispetto reciproco solo dopo qualche umano
disastro… Non deve succedere!!!
Mi rimane pertanto complicato parlare delle gustosissime ciambelle di riso che la “Lisetta” preparava nelle riunioni domenicali della nostra famiglia, senza pensare a quel numero
tatuato sull’avambraccio sinistro in cui vedevi la dignità inchinarsi alla follia, marchio indissolubile che aveva il suo macabro contrappasso nella cieca eliminazione di migliaia di vite
umane.
Grazie Nonna, perché tutti i tuoi cari hanno nel cuore un esempio, e se anche nei nostri
occhi rimane solo una tomba, essa comunque conserva nel suo silenzio le urla del tuo immenso carisma che Dio ha saputo accogliere e saprà custodire gelosamente per l’Eternità… Un
abbraccio forte dal tuo nipote che forse ti ha dato più pensieri … e che te li dà ancora…
Il buio comparve
e poi una luce
che non tardò ad arrivare…
capimmo dal tuo viso
finalmente disteso
che in realtà morì sofferenza.
O Divina Fede,
apri ora le bianche stanze
a Colei che in vita ti ha sempre adorato
e avvolgi le sue pene
dalla pace a lungo cercata!
O Divino Spirito,
accogli la sua grazia
e custodisci le nostre lacrime
affinché il nostro dolore
trovi ristoro nella sua Memoria.
Vola Anima semplice,
vola leggera,
guarda le meraviglie dell’Eternità
e i tuoi sorrisi spesso nascosti
liberarsi ora privi di alcun turbamento.
Tu,
che ora vivi nel grembo più puro
laddove l’umano pensier non può arrivare
accogli la nostra gratitudine
e da lì
guida il cammino di quell’uomo così dolce
che in vita fedele ti accompagnò con sì grande umiltà.
Addio!
Michele
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UN PENSIERO A MAMMA
Un foglio bianco dinanzi e tanti pensieri nella mia testa. Una valanga di ricordi a rumoreggiare nella mia mente in maniera vorticosa e confusa come neve che, libera, precipita per il
pendio di una montagna. Il desiderio di arrestare questa inconcludente massa di pensieri, di mettere ordine dove ordine non c’è.
Scontata l’emozione di ripercorrere con la mia mente tutte le cose che avrei voluto dirti,
mamma, e che per un motivo o per l’altro, ma spesso per quella sorta di “pudore” che tanta
parte era di te e che mi hai trasmesso, non sono stato capace di dirti.
Non ora, non è più necessario. Io ormai sono per te trasparente, i miei pensieri, le mie
emozioni, le mie meschinità, il mio coraggio, la mia viltà, la mia cattiveria, la mia sofferenza, la mia bontà, le vivo cosciente che le vivi anche tu con me, ma so bene che dove ora
sei hai una visuale di questo mondo terreno molto diversa, non hai più tempo né luogo che
ti assillano.
Vedi ormai l’infinito ed il tempo che ci rimane da vivere nel nostro corpo è per te più rapido di un battito di ciglia. Ti sei finalmente avvicinata alla verità, forse l’ hai già scorta, forse
già la vivi e quindi non è la mia singola azione di uomo che può in qualche maniera farti sorridere o piangere, ma la tua attenzione è rivolta a quello che ho nel cuore e che, unico bagaglio,
mi porterò nell’attraversare quella stessa porta che tu hai attraversato il 31 gennaio 2002.
Ho scritto quella sorta di “pudore” nell’aprire il tuo cuore, che tanto ha caratterizzato il tuo
comportamento, fino a farti sembrare fredda e distaccata, incapace alle volte di provare sentimenti ed emozioni.
Tardi ho scoperto che non era così, quando ti ho fatto partecipe di una mia decisione che
ti ha sconvolto e, scoppiata in lacrime, hai gridato al mondo quello che, sbagliando, ritenevi
un tuo fallimento.
Mi sono mancate le tue carezze, mamma, ma come posso fartene una colpa? La necessità
di reagire alle durissime prove che la vita ti ha posto avanti non ha potuto che cucirti addosso una protezione apparentemente impenetrabile ai sentimenti. In compenso sei stata
l’esempio per me di come occorre sempre guardare avanti, come reagire con fermezza, coraggio ed onestà alle avversità.
La tua incrollabile fede in Dio giusto e misericordioso, da sempre e dopo il ritorno dalla
prigionia in Germania, l’avere al tuo fianco un compagno di vita sul quale contare, papà, sono
certo ti hanno aiutata a superare le difficoltà più ardue e solo negli ultimi mesi della tua tribolata vita, nel tentativo improbo ed estenuante di lottare contro una malattia impossibile, hai
a tratti mostrato il tuo viso rigato dalle lacrime e ti sei dichiarata “stufa di vivere”.
Ma sono stati attimi. Docile a chi aveva tracciato il disegno della tua vita, hai continuato
a curarti e fino alla fine ho letto nei tuoi occhi la speranza.
Quale sopravvissuta allo sterminio tedesco, nel racconto terrificante dei lunghissimi mesi
di prigionia trascorsi in maniera disumana, descritti in questo libro – intervista e, negli ultimi anni, con la tua presenza attiva alle manifestazioni di commemorazione, ti sei fatta carico
di partecipare alla “memoria” per non dimenticare, perché l’urlo di sofferenza di tutti quelli che
hanno subito l’ignominia dei campi di concentramento nazisti, si elevi alto e possente, anche
per tuo mezzo, ad imperituro monito per tutta l’umanità.
Monito che però, sono certo mamma che sarai d’accordo con me, non deve limitarsi a che
un simile genocidio non si ripeta per gli Ebrei o per i prigionieri politici quale sei stata tu,
ma che deve farci guardare alle atrocità commesse anche recentemente, anche in questo esatto
attimo. Deve farci guardare nelle fosse comuni scoperte che contengono i “cadaveri scomodi”
di regimi dittatoriali che convivono con la nostra epoca e che non sono ancora un “imbarazzante ricordo”, ma una tristissima presente realtà.
Sei con me oggi, come sempre nella mia vita. Grazie!
Biagio
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Una sola parola,
Mamma:
GRAZIE!
Rita
A col ei che è st at a com pagna ed esem pi o di v i t a.
Se il nostro matrimonio ha superato i cinquantacinque anni, non è stato per i singoli meriti, ma perché ho sposato una Donna stupenda. Non solo bellezza, ma un cuore da amare e che
sapeva amare. Lei ha portato avanti i suoi doveri di mamma, moglie, lavoratrice, con grande
capacità… sembrava fosse nata per questo… lei c’era per tutti, anche per i malati, per gli
inabili bisognosi di aiuto sia materiale che spirituale. Per tale scopo nel 1970 si iscrisse al
Centro Volontario della Sofferenza, per assisterli e curarli con tutto l’amore possibile, con
tutte le sue forze; è stata con loro finchè ha potuto, finchè la sua malattia non l’ha impossibilitata a compiere quello che per lei era diventato ormai un sereno dovere.
Io l’accompagnavo, ero con lei sempre… ed oggi, ancora oggi e sempre sentirò la sua
mancanza.
Gabriele
Il 7 luglio del 2006 Gabriele Giurastante ha chiuso gli occhi per sempre davanti a noi e li ha riaperti pe l’eternità, ritrovando, dopo tanto attendere, la sua amata “Lisetta” che aveva, come lui stesso
diceva, “un cuore da amare e che sapeva amare”.
Voglio ricordarti come esempio di saggezza, bontà e dignitosità; hai tracciato la tua vita con una
profonda linea di amore, sulla quale noi, tuoi figli, abbiamo trovato l’esempio che non dimenticheremo
mai.
Antonella
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Non posso nascondere la mia emozione nello scrivere questa breve nota introduttiva a “76147 La mia storia”, volume che la Provincia di Pescara decise di promuoverne
la pubblicazione dopo la richiesta della figlia di Elisa Missaglia all’indomani della Sua
morte.
Ricordo ancora la testimonianza semplice e struggente della sua prigionia nel
campo di sterminio di Auschwitz, raccontata nella sala dei Marmi della Provincia, testimonianza perentoria e drammatica su un luogo dell’orrore per eccellenza.
L’occasione fu allora la consegna dell’attestato che l’amministrazione provinciale
volle dedicare, a lei come ad altri sopravvissuti dei campi di sterminio nazisti, in ricordo della pagina più buia della storia d’Italia e d’Europa, che scrissero a quattro mani la
ferocia nazista e la complice assistenza che il regime fascista assicurò con le sue leggi
razziali. Ci sembrò allora, e ora che Elisa Missaglia se ne è andata la convinzione si è
fatta più forte e matura, che solo la conoscenza da parte delle giovani generazioni della
vicenda umana di chi visse davvero questi anni terribili, possa essere l’unico baluardo
contro il ripetersi di quella barbarie. L’unico vaccino
contro il cancro dell’intolleranza razziale che oggi, come
ieri, ancora avvelena la civile convivenza tra i popoli.
L’unico antidoto a una irresponsabile pubblicistica che
ancora nega l’evidenza, alimentata da un revisionismo
storico che attenua le colpe di chi decise lo sterminio di
un popolo intero.
Aiutare la pubblicazione del volume ci è parsa anche
una buona occasione, se mai risarcimento morale potrà
esserci per questa pagina della storia umana, per tener
viva e desta l’attenzione sull’Olocausto.
Elisa Missaglia ci ha consegnato in questa intervista
una significativa testimonianza di quel che fu lo sterminio degli ebrei. L’intervista consegna a noi la realtà di
una Donna partecipe della vita del suo tempo, strappata
alla vita quotidiana dall’orrore di Auschwitz, e a quella
vita riconsegnata con il marchio indelebile di quella tragedia.
Arch. Giuseppe De Dominicis
Presidente della Provincia di Pescara
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Una ragazza come tante
Quando è nata e dove?
Sono nata a Lecco il 14 ottobre del 1919 e ho vissuto lì fino a quando non sono
venuta a Pescara con mio marito. Mio marito è dell’entroterra abruzzese, l’ho conosciuto a Lecco quando sono tornata dalla Germania; aveva fatto la guerra, era ferito.
Il mio fidanzato si era perso, o meglio, se n’era andato… (?!)...
Lui invece, aveva bisogno di sistemarsi, e per me la vita ormai, non valeva quasi
più nulla... ed allora mi sono detta: “Proviamo… se va, va; se non va... pazienza”.
E invece, per fortuna, mi è andata bene. L’ ho sposato e per un po’ ho vissuto a
Lecco. Poi lui è voluto tornare qui, per stare vicino ai suoi genitori così, nel 1955, ci
siamo trasferiti a Pescara.
Quante persone componevano la sua famiglia?
Eravamo in cinque: mamma, papà e tre figli. Io ero la seconda.
Mio padre era caporeparto in una fabbrica; io e mia sorella lavoravamo nella stessa industria di papà, nel reparto tessuti. Mio fratello aveva studiato e lavorava come
impiegato altrove. In seguito ha aperto una sua azienda, e aveva trentacinque operai.
Qualche anno fa è rimasto coinvolto in dei fallimenti, e per far fronte ai debiti ha
preferito chiudere.
Mia madre faceva, per sua libera scelta, la casalinga.
Che scuole ha frequentato?
Solo le scuole elementari. Non mi piaceva studiare, ero tremenda!
Studiavo solo tre mesi all’anno per essere promossa, altrimenti erano botte.
Poi ho lasciato la scuola perché allora c’era una
mentalità un po’ particolare: i maschi dovevano studiare, mentre le femmine dovevano andare dalle
suore per imparare a cucire e ricamare. Ho imparato bene e ho avuto modo di mettere in pratica gli
insegnamenti avuti.
I suoi genitori erano severi?
Erano severi, ma allora in tutte le case era così.
Mamma però era molto dolce, papà, invece, era
davvero rigido, voleva che noi figli studiassimo e ci
comportassimo in un certo modo. Per esempio, a
noi donne non ci permetteva che andassimo in giro
per casa con la camicia da notte, specie se c’erano
lui o mio fratello.
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Elisa Missaglia nel giardino della sua casa di
Lecco prima della deportazione nei campi di sterminio.
Allora c’era molta serietà e poca possibilità di fare tutto quello che si fa oggi…
magari la domenica si diceva che si andava all’oratorio, poi invece si andava a fare
una corsa... ma la libertà che c’è adesso! Al punto che noi della nostra generazione
non riusciamo sempre a capirla. Succedevano anche allora certe cose: forse non si
sapevano come adesso, però... no, c’era molta più serietà.
Che cosa le era permesso fare e che cosa no? (leggere, fumare, ballare, frequentare amicizie al di fuori della cerchia di conoscenze..).
Niente. Oddio, qualche scappata si faceva. A me, per esempio, piaceva ballare, e
se potevo...
Quando sono tornata dai campi di concentramento, una sera, mentre stavo rincasando (io sono tornata ad agosto, quindi l’inverno è arrivato subito) ho incontrato un
ragazzo, adocchiato da tutte le ragazze perché era il più bello del paese. Quella sera
andava a ballare in un paesetto sulla collina, e siccome, appena tornata, ero coccolata un po’ da tutti, mi vede e mi fa: “Ciao. Ci verresti a ballare con me, stasera?”
“Certo, certo che vengo!” Rispondo io tutta tranquilla.
“Ti aspetto alla fermata del tram”.
Allora si usava il tram che correva sulle rotaie, e la fermata passava proprio sotto
casa mia, quindi passando per il giardino lo prendevo di corsa.
Vado a casa, erano le sei e mezza, e lo dico alla mamma: “Sai, ho incontrato Paolino, mi ha invitata... stasera vado a ballare”
E lei: “Che cosa hai detto?”.
“Si, perché?”
“Perché no”
“Ma perché no?”
Allora mamma mi fa: “Vai a chiedere il permesso a papà”
Lì vicino c’era una specie di cantina, una grossa osteria, dove papà andava a trascorrere un pò di tempo finita la cena. A quel punto risposi: “Inutile, perché so già
che mi direbbe di no. Ma quante storie! In fin dei conti, di che cosa vi devo rendere
conto? Dopo tutto quello che ho passato! Sono stata fuori di casa diciotto mesi quando avevo venticinque anni. Adesso ne ho ventisette…” Pensavo che avrei potuto fare
tutto quello che volevo, invece...
Mia madre mi disse: “Allora noi non avevamo nessuna responsabilità su di te,
perché non potevamo. Adesso è no!”
In quel momento ho sentito il tram che arrivava... Ricordo che sono scappata in
camera, mi sono spogliata e, senza mangiare, mi sono infilata a letto scoppiando a
piangere.
Ricordo anche che ho inveito contro mia madre. Lei mi ha lasciata sfogare, poi è
venuta, si è seduta sul letto e mi ha detto: “Guarda, mi dispiace, dopo tutto quello che
hai passato, farti ancora piangere. Ma la mia decisione è no!”.
Era il modo di vivere di allora....
Io penso che i genitori capivano che si diceva di andare in un posto, mentre poi
si andava in un altro. Ma facevano finta di non capirlo per essere presi sul serio.
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Che persona era? (mite, espansiva, taciturna, riflessiva, ecc.).
Ah, ero un maschiaccio! I giochi da femmina li ho
usati solo quando ero piccola.
Poi, le biglie, le bocce, la bicicletta, il pallone...
Avevamo un bel giardino grande, e allora ci si riuniva tutti là. Poi papà era proprietario assieme a dei
soci di una baita in montagna, per cui la domenica si
partiva e si andava su. Una volta l’ ho fatta grossa:
sono andata a rocciare senza dire nulla e mi sono sbucciata. Mi ricordo che sono tornata con la gonna tra le
gambe e le maniche tirate giù per non far vedere i lividi. Qualche volta ci permettevano di fare una passeggiatina in bicicletta. Mi piaceva andare al cinema,
quello dell’oratorio, e ascoltavo sempre la radio, perché la televisione non c’era ancora; al mattino, chi
prima si alzava l’accendeva. Ricordo anche che, quando è cominciato il festival di Sanremo, ci si trovava in
circolo con gli amici dell’oratorio, e una parola uno,
una parola l’altro, riscrivevamo le canzoni. Potrà sem- Elisa Missaglia all’età di venticinque anni.
brare sciocco, ma solo il fatto di stare insieme per noi era una gioia. Una piccola cosa
ci faceva piacere, ad esempio, un semplice paio di calze per noi era un regalone.
Invece oggi non si dà più importanza a niente. Si può regalare ad una persona una
pelliccia e quella non l’apprezza nemmeno, figurarsi delle calze! Io penso, però, che
la colpa di tutto questo l’abbiamo noi genitori. Abbiamo sofferto parecchio, sia prima
che durante che dopo la guerra, e questo ci ha autorizzati a dire: “Quel che ho sofferto io, non lo devono soffrire i miei figli...” Oppure: “Io non ho avuto questo, allora è giusto che mio figlio l’abbia...”. D’accordo, però forse adesso ci siamo allargati
un pó troppo.
Lei è diventata mamma, ha ed ha avuto delle
responsabilità verso i suoi figli. Alla luce di ciò, come
stima gli insegnamenti dei suoi genitori?
Buoni, ancora molto buoni. Tanto che talvolta giudico male i miei figli.
Volantino antifascista - Dicembre 1943
Archivio di Stato di Como
Nella sua famiglia si discuteva di politica, si leggevano libri o riviste apposite, si partecipava a comizi
o raduni?
Mio padre era contro il fascismo. All’epoca c’erano
le Piccole Italiane1: ebbene, io e mia sorella non abbiamo mai potuto aderire a nessuna loro attività.
Papà non voleva nemmeno che mettessimo la divisa
fascista, avevamo il permesso di mettere solo quella per
fare ginnastica perché era obbligatoria.
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1 Le Piccole Italiane, organizzazione giovanile fascista, venne creata da Mussolini nel 1925: composta da fanciulle in età scolare, aveva il fine di educarle secondo i valori razziali e misogini
cari alla pedagogia fascista.
Aveva la sua idea, e non si poteva discutere. Per lui il fascismo non esisteva, non
aveva sostanza. Eppure, anche se la pensava così, non ha mai avuto problemi, perché
lui si faceva i fatti suoi, non partecipava ad alcuna attività che potesse esporre lui o
la sua famiglia. La pensava così anche un mio zio, un pezzo grosso che dirigeva una
fabbrica di velluti. Quando mi hanno arrestata avrebbe potuto aiutarmi, ma nascondeva in casa due clandestini inglesi. E allora non ha potuto fare nulla. Quando la
mamma andò a chiedergli di parlare con i fascisti, lui le rispose di no. “Se quelli vengono a perquisire la casa, di sicuro li troveranno, e anche loro hanno una mamma, un
papà e dei diritti”. Con tutto che ero la sua nipote preferita! Ma così si pensava: sacrificare una figlia per salvare delle persone che non si conoscevano.
Anche papà, se poteva, aiutava chi si trovava in difficoltà.
Ne ha aiutati parecchi: li nascondeva in montagna e portava loro da mangiare.
Quando sono tornata dalla Germania e mi sono sposata, uno di questi era diventato
sindaco di Lecco. Io avevo bisogno di un piacere, e così sono andata da lui.
Premetto che sono una a cui non piace chiedere favori. Ma si era bandito un concorso per dei posti di ferroviere aperto solo a chi già lo fosse, e siccome mio marito
aveva bisogno di impiegarsi da qualche parte, mio padre mi disse: “Vai a chiedergli
un favore, con tutto quello che ho fatto per lui, è obbligato ad aiutarti”.
Invece....
In casa si parlava di politica, anche se non eravamo aggiornati.
E poi si ascoltava la radio, anche in tempo di guerra. Allora, però, si ascoltava
soprattutto Radio Londra, che era proibita; per farlo, ci si chiudeva in casa e, mettendoci un panno sopra la testa la si sentiva a volume bassissimo.
Era molto pericoloso farlo, perché
si poteva essere denunciati e finire in
prigione. Ci sono stati diversi episodi
di persone denunciate dai vicini e
arrestate perché sospette.
A proposito di quello che stava
succedendo in Europa e dei campi
tedeschi non sapevamo niente.
Quello che realmente stava succedendo era una cosa che nessuno si
sarebbe mai sognato. Si sapeva che
c’erano degli uomini prigionieri, ma
si credeva che fossero i soldati presi al
fronte.
Mai si sarebbe pensato che i prigionieri fossero trattati peggio degli
schiavi e che tra loro ci fossero tanti
civili.
Si è cominciato a sapere qualcosa
quando hanno cominciato a tornare
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alcuni prigionieri liberati dalla Croce Rossa. Gli italiani hanno conosciuto la verità
da quelli che sono stati rispediti per primi a casa. Per esempio, mia madre ha saputo
dei campi dalla mia amica Gina, che è tornata prima di me. Io poi ho raccontato qualcosa, ma già si sapeva tutto.
Mia madre non ha mai superato quel dispiacere lì. Chissà quanto avrà sofferto!
Quante volte, dopo che sono tornata, la vedevo che mi guardava e poi scoppiava
a piangere. “Ma perché piangi?” le chiedevo. E lei mi rispondeva: “Stavo pensando
a quello che hai passato lì”… Mamma non si dava pace… sono tornata che aveva
cinquantacinque anni, è morta che ne aveva sessanta. Papà è stato più forte, ma mi
hanno detto che anche per lui è stato bruttissimo. Siccome in casa non voleva farsi
vedere triste, andava su in montagna, si chiudeva dentro la baita e non c’era verso di
farsi aprire. Un giorno un suo amico mi ha detto che, passando vicino la baita, aveva
visto il fumo che usciva dal camino e sentito il cane abbaiare. Pensando che fosse
dentro, ha bussato una, due, tre volte. Niente da fare. “Lasciatemi in pace”, diceva.
Chissà che cosa aveva dentro! Era un tipo molto riservato, che non diceva mai
quello che provava veramente.
Avevo imparato a fumare una volta libera.
C’erano sigarette a volontà, sia russe che americane. Noi lavoravamo, come sarti
o braccianti, e le guadagnavamo. Oh sì, posso dire che durante il viaggio di ritorno
abbiamo vissuto solo di tabacco! Facevamo le sigarette con i fogli dei libri, così,
dicevamo, impariamo il tedesco! Venivano fuori dei grossi rotoli e, fumandoli, ingannavamo il tempo e la fame. Abbiamo fatto più di dieci giorni di tradotta: ora era lento
il treno, ora bisognava aspettare la coincidenza, poi si era rotto il cambio...
Ricordo che io indossavo dei pantaloni che mi ero fatta confezionare dal sarto
presso il quale lavoravo; essi furono la mia fortuna, perché erano molto comodi per
salire e scendere dalle tradotte.
Dicevamo un mucchio di sciocchezze, tipo: “Ah, quando arriviamo al Brennero
scendiamo e baciamo la terra”.
Invece, al confine abbiamo incrociato una tradotta che riportava i prigionieri tedeschi in Germania e su quei vagoni qualcuno aveva scritto bello grande: “Vogliamo
donne, anche usate, che in Germania non sian state”. Pensavano che noi donne
fossimo andate in Germania a fare la vita. Allora, ho levato i pantaloni, anche se
avevo ancora le gambe fasciate e piene di piaghe2, mi sono confezionata un vestitino
bianco e verde, con un abito che avevo rubato in Germania e che avevo stretto perché mi andava largo. Quel vestito aveva anche un taschino, dove mettevo le sigarette. Papà me le vide e mi chiese: “Ma che fumi te?
“Si, perché?”.
Non ha risposto. Povero papà, chissà che schiaffo morale ha preso!
Alle sue dipendenze aveva diversi operai che andavano a Chiasso a prendere le
sigarette per venderle di contrabbando. Lui le comprava e poi le metteva nel suo cassettino. Ma io sapevo dove le teneva, così andavo là e me le prendevo.
Questo per dire la sua serietà. Io ho ricevuto il primo bacio da papà in prigione.
Forse da piccola mi avrà baciata, ma non me lo ricordo… la prima volta che ram21
2 La signora Missaglia soffriva di avitaminosi, come tutti i superstiti dei KZ, dovuta alla cattiva alimentazione.
mento è stato in prigione.
Non si era per niente sdolcinati una volta, ma questo non voleva dire che non ci
si voleva bene. Questa cosa qui mi è rimasta impressa.
Sono chiusa, restia a dare baci. Quando ci troviamo con gli amici, con i membri
dell’associazione, i baci e gli abbracci non li voglio…
Pensa che l’esperienza vissuta possa averla indurita?
Non lo so… forse mi ha resa più aperta alle necessità degli altri, anche se non
sono mai stata insensibile ai bisogni altrui.
Però non sopporto la folla, la ristrettezza. Anche la mia amica di La Spezia3 dice
che lei non può viaggiare sull’autobus perché tutta quella folla attorno la fa diventare matta. Preferisce fare chilometri e chilometri a piedi.
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3 Bianca Paganini, autrice di una delle testimonianze contenute nel libro di Lidia Beccaria Rolfi Le donne di Ravensbrück.
25 anni, una giovinezza spezzata, tanti sogni svaniti
Quando è stata arrestata e per quale motivo?
Sono stata arrestata il 7 marzo del 1944 mentre lavoravo in fabbrica.
La CNL (Comitato Nazionale di Liberazione) aveva ordinato di scioperare per
protestare contro i tedeschi che razziavano tutte le cose belle e utili dell’Italia.
Alle dieci abbiamo fermato le macchine. A mezzogiorno siamo tornati a casa.
Alle due siamo rientrati in fabbrica; alle due e dieci, due e un quarto c’erano già
i questurini fascisti, venuti ad arrestarci. Perché, mentre nelle altre fabbriche quelli
che avevano organizzato lo sciopero non erano andati via dopo aver finito il turno, a
noi ci hanno lasciati soli, così sono venuti i fascisti.
C’era anche il questore, e mi ricordo che gli sono andata davanti e gli ho detto
tutto quello che pensavo. Ad un certo punto i questurini ci hanno puntato il mitra alla
schiena e ci hanno fatto segno di seguirli. Con me e papà c’era anche mia sorella, lei
era incinta ed allora l’ hanno lasciata perdere. Mentre facevano segno a papà di andare via con loro è intervenuto il direttore della fabbrica che ha detto: “Questo è il caporeparto di quattro reparti di lavorazione bellica, se lo portate via, si ferma tutto”.
E così lo hanno lasciato andare. Io, invece, sono stata presa. E quando sono corse
a Lecco le voci dell’arresto, mia madre ha detto subito: “La Lisetta è dentro”.
E difatti ero dentro.
Ci hanno portati subito a Como, dove siamo rimasti una settimana. La prigione
era strapiena, così ci hanno messo dentro la palestra di una scuola. Ricordo che faceva molto freddo! C’erano spifferi d’aria dappertutto perché i vetri erano rotti, abbiamo chiesto di accendere il riscaldamento ma i questurini non hanno voluto.
Poi ci hanno mandato a Bergamo, passando da Lecco. Allora ci hanno permesso
di scrivere a casa per informare i nostri familiari che andavamo in Germania e per
dire di portarci vestiti pesanti e roba da mangiare. Quella è stata la giornata più terribile, vedere la mamma e il papà in quelle condizioni... e poi tutte quelle urla... è
stato bruttissimo. Mi ricordo che a un certo punto ho detto alla mamma: “Ma perché
urli?”. E lei mi ha risposto: “No! Sei te che urli!”.
I fascisti vi hanno interrogate?
Non ci hanno mai chiesto niente,
per loro noi eravamo rivoluzionari,
alta
politica!
Non
serviva
l’interrogatorio per sapere che eravamo colpevoli. Arrivati a Bergamo ci
hanno dato in mano ai tedeschi. La
cosa ci parve un po’ strana, ma si
pensava che si andasse a scontare la
pena in Germania lavorando nelle
fabbriche.
La prima fermata è stata
Mauthausen (Austria superiore): l’ingresso al lager.
23
Mauthausen.
Lì abbiamo avuto la possibilità di parlare con un comandante, che ci ha detto che,
se non avevamo fatto niente di male non c’era da preoccuparsi. “Vi rimanderanno di
sicuro a casa”, diceva. Invece quello lo sapeva che cosa ci aspettava. Noi donne
siamo state sistemate in una cella a parte. E vedevamo passare quei disgraziati, quei
poveri corpi che rassomigliavano a scheletri...
Qualche giorno dopo siamo partiti per Vienna, dove siamo finiti in una vera prigione fatta di mattoni. Poi da lì,
un mattino, ci hanno portato
alla stazione e ci hanno spediti
ad Auschwitz.
Auschwitz era situata a 250
Km. a sud di Varsavia e lì, in
un’area di 1.280.000 mq.
erano distribuiti i più vasti ed
affollati lager di sterminio
organizzati dal Reich.
Auschwitz era un luogo
destinato a corsi di perfezionamento per i Kapos che sarebbero stati poi destinati ai campi Sul cancello di ingresso del campo principale di Auschwitz si leggeva la
di sterminio sparsi nel Reich e scritta: ARBEIT MACHT FREI (“il lavoro rende liberi”... macabra ironia)
nelle nazioni dell’Europa occupate dai tedeschi; era il luogo della scienza e del massacro, era il luogo della
morte… tutto comandato da carnefici come Hoess, Kramer, Baer, Mengele.
Quante persone partirono con lei?
Partirono più di settecento persone. Della mia fabbrica eravamo in ventisette, ventidue uomini e cinque donne: io, la Gina, l’Agnese, la Emma e Antonietta.
Poi a noi si aggiunsero tre donne di Como; ma una, furba, si è fatta venire la febbre infilandosi la paglia sotto le ascelle e dentro le scarpe, così i tedeschi l’ hanno
rimandata a casa.
Un’altra, invece, non ha mai lavorato. Appena siamo arrivate si è ammalata (?!?)
ed è finita al revier; da lì non è più uscita. Non so come abbia fatto, forse è stata fortunata… forse si è fatta amica di qualcuno... E’ vissuta abbastanza bene ed è tornata
a casa prima di noi perché quando i tedeschi hanno evacuato il campo lei si è nascosta sotto le cataste dei morti.
Così, quando i russi sono arrivati ad Auschwitz, lei era lì. E mentre noi altre eravamo ancora prigioniere, lei alla fine di aprile è tornata a casa. Però ha dovuto fare
un giro tortuoso, perché per tornare a Como è passata per la Sicilia occupata dagli
alleati e poi ha dovuto aspettare che sfondassero il fronte settentrionale; dopo il venticinque aprile lei era a casa.
24
Intanto che i russi si avvicinavano, i tedeschi evacuavano i campi vicini al fronte;
è stato così anche per Auschwitz. I primi convogli sono partiti a giugno, ma la vera
e propria evacuazione c’è stata nel gennaio del 1945, a piedi, senza mangiare e senza
potersi riparare dal freddo,
conciati in un modo... l’ hanno
chiamata “la marcia della
morte”.
Per fortuna io sono partita
prima, il 27 ottobre e, invece
che a piedi come quei poveretti, abbiamo viaggiato sulle tradotte; siamo partiti al tramonto
e, dopo aver viaggiato tutta la
notte, siamo arrivati a Ravensbrück la sera successiva.
Di tutti quelli che quel giorno partirono da Bergamo sono
tornati solo quattro uomini e Questi prigionieri sono stati tenuti in vita solo dalla loro grande forza di volontà, ed è
la stessa forza che dà loro la possibilità di sopravvivere fino al momento della liberasei donne con l’altra ragazza di zione
Como.
Emma è scomparsa, non è
tornata,
però
quando
l’avevamo
lasciata
ad
Auschwitz era ancora viva.
Il 18 e 19 gennaio del 1945 le
SS iniziarono l’evacuazione del
campo. Era pieno inverno e
l’inverno in Polonia vuol dire
molti gradi sotto lo zero, i detenuti erano senza vestiti e senza
viveri, e quando non riuscivano, stremati, a tenere il passo
dei loro compagni, venivano
fucilati ed i loro cadaveri erano
gettati dentro fosse comuni
lungo il percorso
Erano usuali casi di favoritismi come quello della sua compagna di Como?
Cioè casi di donne che diventavano l’amante di questo o quel pezzo grosso?
Sì. Comunque, non si parlava molto di queste cose, né si poteva, per partito preso,
dire: “Divento amica di quello, così mi sistemo”, perché erano i tedeschi che decidevano. Quanto a lei, per un po’ la vedemmo, poi , siccome la portarono in un altro
campo, la persi di vista. La sua amica, invece, ha sempre lavorato. Si chiamava Elisa
ed è stata evacuata con i primi trasporti.
Una bella ragazza, alta, ben disposta, così anche la carne ci ha messo un po’ a
calare. Ora non ricordo se sia tornata il mese di novembre o di dicembre, però ram25
mento che tutti dicevano che fosse morta... ricordo che non mi ha più guardata in faccia, non mi ha più voluto parlare… e dire che le ho salvato la vita!
Subito dopo la liberazione la C.R.I. ci inviò dei pacchi di roba da mangiare… fu
una strage. La gente cominciò a sentirsi male, scolandosi di diarrea come niente.
Quando ha visto quel ben di Dio, Elisa ha avuto come un sussulto, gli si è avventata sopra e avrebbe voluto divorarsi tutto il contenuto di quei pacchi; ma io gliel’ ho
impedito, anch’io mangiavo un pezzetto di cioccolata alla volta oppure un pò di margarina o di marmellata… così siamo sopravvissute.
Ma lei, dopo, è cambiata, non mi ha più voluta
vedere, né voleva sentire parlare di Auschwitz, ed
anche il marito della mia amica Antonietta, che è tornata prima di me nel mese di giugno, non ha mai voluto parlarne; era un reduce di Mauthausen, e guai se io
o l’Antonietta ci permettevamo di parlare davanti a lui
di quello che ci era accaduto!
Dipende da come uno la prende questa cosa; a me
non mi ha mai fatto male parlarne. Sono riuscita a perdonare, e questo ha significato tanto. Devo ringraziare
padre Guglielmo, che esercita alla chiesa della Madonna dei Sette Dolori, ai Colli di Pescara. Andavo da lui
e mi sfogavo, tiravo fuori tutta la ribellione che avevo
dentro; lui mi ascoltava, mi dava l’assoluzione ma non
mi diceva mai niente.
… Poi, quel generale là, Kappler, è scappato…
Io quel giorno ebbi come un presentimento. Ricordo che con i miei familiari eravamo andati fuori e che Un sopravvissuto.
ho fatto passare i guai a tutti quanti. Siamo tornati presto, perché avevo voluto per forza
rientrare: ero intrattabile, avevo il
diavolo dentro. Tanto che mio
marito mi disse: “Ma che cosa ti è
preso?”.
“Niente, però lasciatemi in
pace”.
Mi sono seduta fuori, con un
libro in mano, mentre dentro sono
rimasti mio marito, mia figlia e il
suo ragazzo. Ad un certo punto
hanno acceso il televisore e ho
sentito che dicevano: “Non diciamolo alla mamma”.
Deportati che aiutano i compagni più provati a tentare di ritornare alla
”Che cos’è che non si deve
vita. Però tanti di loro spesso soccomberanno nei giorni seguenti la libedire
alla mamma?” ho chiesto,
razione, putroppo per loro la libertà è giunta troppo tardi
26
con la mia solita boria arrogante.
Allora mio marito mi rispose: “Beh, se hai sentito... hanno fatto scappare Kappler”.
Io, in quel momento lì, ho sentito come se mi cadesse giù qualcosa, mi sono sentita libera, leggera. Mi sono sentita bene. Mi ricordo che dissi: “In Italia non poteva
che succedere questo”. E mi è tornato il sorriso sulle labbra, è passato tutto.
Il mattino dopo sono andata da padre Guglielmo e gli ho detto: “Padre, io ho perdonato”.
“E come fai ad esserne sicura?”.
“Perché io non odio più”.
Allora lui ha allargato le braccia e ha sospirato: “ Finalmente!”.
Io non ho più portato rancore ed ho compreso il suo silenzio.
Foto scattata dalle SS che riprende i deportati della Compagnia di disciplina inquadrati per cinque mentre salgono la scala della morte trasportando sulle spalle blocchi di pietra.
27
L’umiliazione
Facciamo un passo indietro. Ricorda di dove erano originari quelli che viaggiarono assieme a lei?
Quando sono arrivata alla stazione di Bergamo, quelle settecento persone c’erano
già. A parte le mie amiche e i compagni di fabbrica, non conoscevo nessun altro. Non
capivo nulla, ero come stordita. Ci hanno fatto salire sulle tradotte, ammassati come
bestie: le chiamavamo carri armati! Noi sette abbiamo viaggiato meglio, perché ci
hanno messo in un vagone a
parte.
Fino al confine ci hanno
accompagnato gli austriaci.
L’austriaco non è cattivo, i soldati ci hanno trattato abbastanza bene, ci hanno dato il cibo
della loro razione, ci facevano
scendere quando il treno fermava alle stazioni. E poi, c’erano i
nostri ferrovieri, che nei punti
più favorevoli rallentavano
l’andatura. Così, se si voleva, si
poteva scappare. Però, mentre
il nostro vagone non era piombato, quello degli uomini invece lo era. Quando i ferrovieri
passavano, ci chiedevano: Un trasporto di deportati diretto ai campi di sterminio.
“Volete scappare, volete scappare?”. I soldati che erano di guardia capivano, ma non dicevano nulla. Noi donne
non abbiamo avuto il coraggio di scappare, perché avevamo paura di fare del male a
chi era a casa, visto che i tedeschi ci avevano minacciate dicendo che se avessimo
tentato di fuggire, avrebbero preso i nostri familiari e li avrebbero uccisi oppure che
li avrebbero portati in Germania… io a Lecco avevo papà, mamma, mio fratello e
mia sorella… non volevo, non potevo rischiare.
Si poteva scappare ma solo prima della frontiera. Alcuni lo hanno fatto, rompendo le tavole di legno del pavimento e calandosi giù. Non so che fine abbiano fatto,
né che cosa sia successo agli altri perché alla frontiera ci contarono. Non passammo
per il Brennero perché avevano bombardato; ci dirottarono per il passo del Tarvisio.
Là il comando austriaco ci ha lasciato in mano ai tedeschi. Le SS hanno piombato
anche il nostro vagone. Morivamo dal freddo. C’era la neve, il ghiaccio. Ricordo
cose confuse, non capivo nulla, ero come stupidita.
29
Che cosa ricorda di
Mauthausen?
Gli uomini furono
fatti scendere e andarono avanti a piedi, mentre noi donne fummo
prelevate da un cellulare.
Quando le porte
della fortezza si sono
aperte, i nostri uomini
erano vicini al muro,
coperti di neve e ghiaccio. Quel giorno neviMauthausen era una fortezza costruita dagli stessi prigionieri con spesse mura perimecava a cielo aperto. trali dalle quali le SS vigilavano attentamente perché nessuno potesse fuggire. In alto a
Senza poter scambiare sinistra i due camini del forno crematorio.
nemmeno una parola, ci
hanno portate nella sala doccia e ci hanno ordinato di spogliarci: rimanemmo nude,
mentre le SS di guardia ci guardavano... Dio, che umiliazione! Erano tutti uomini,
perché a Mauthausen che comandavano erano solo uomini. Quando quella doccia
che non finiva mai è terminata, ci diedero la divisa, pantaloni e giacca. Poi ci sistemarono in due celle: quattro in una e tre in un’altra.
Il cibo ce lo passavano da
una finestrella, per i bisogni
avevamo un secchio.
Per fortuna avevamo ancora un po’ di quella roba che ci
avevano dato i nostri familiari
alla stazione: un cacciatorino,
qualche scatoletta... Il mangiare, comunque, non era cattivo,
credo che fosse il rancio dei
soldati. Ricordo che il luogo
dove ci alloggiarono era fatto
di mattoni: vicino c’erano le
stanze di tortura, ed ogni tanto
si sentivano certe urla!
Appena arrivavano a Mauthausen i prigionieri erano costretti a rimanere nudi,
Dopo tre o quattro giorni ci
anche per giorni interi, sotto il sole o la pioggia o la neve, prima di essere destinati alle baracche.
hanno ridato i nostri vestiti e ci
hanno fatte partire per Vienna.
Faceva freddo, i vestiti non ci riparavano perché erano leggeri.
Noi non avevamo idea di dove ci mandassero e che tempo facesse laggiù.
30
Il fumo… erano gli ebrei che bruciavano!
Com’era la prigione di Vienna?
Era una vera prigione. Ci misero dentro delle celle assieme a donne di altre nazioni. Lì abbiamo trovato anche otto donne di Milano. Ma quelle non ripartirono con
noi. Qualche giorno dopo ci hanno fatte risalire sul treno, destinazione
Auschwitz...ma non lo sapevamo...noi stavamo attente a non sciupare i vestiti e le
scarpe perché avevamo intuito che
sarebbe passato molto tempo
prima che ne avessimo potuto
avere di nuovi.
Mi ricordo che in tempo di
guerra le scarpe erano molto
costose, tanto che si acquistavano
con la tessera.
Ero così terrorizzata di rovinarle che non le mettevo mai;
quando
sono
arrivata
ad
Auschwitz i miei sandali a forma
di zoccolo erano nuovi. Siamo
arrivate al campo dopo aver viaggiato su scomparti, siamo arrivati
in stazione ad Auschwitz intorno a
mezzanotte, e siccome il campo Binari che portavano ad Auschwitz.
era lontano, anche se c’era la neve e faceva freddo, lo abbiamo raggiunto a piedi.
Le SS ci vennero a prendere alla stazione, e per tutto il tragitto non ci maltrattarono. Mi ricordo che si vedevano in lontananza i crematori che fumavano. Allora la
mia amica ha detto: “Guarda, che
bello! Domani avremo il pane fresco!”.
…Erano gli ebrei che bruciavano.
Forni crematori del campo, funzionarono per anni, giorno e notte
ininterrottamente.
31
Lei o le sue compagne sapevate
che posto fosse Auschwitz?
No. Abbiamo cominciato a capire
qualcosa dalle russe durante il viaggio:
erano spaventatissime! Ripetevano
con terrore: “Speriamo non Auschwitz,
speriamo non Auschwitz!”.
Le russe erano informate più di
noi perché loro erano internate da
anni e le voci correvano.
Ripetevano come impazzite quella frase là,
parlavano di un campo vicino, mi pare che si chiamasse Terezin, e si auguravano di finire lì perché
si diceva che non si stesse poi tanto male.
È la dimostrazione della
sequenza usata per mettere
i cadaveri nei forni crematori. Coloro che erano
addetti a questo lavoro
erano prigionieri costretti
a volte a dover bruciare i
loro stessi parenti; erano
meglio nutriti rispetto agli
altri, ma periodicamente
venivano uccisi dalle SS e
sostituiti da altri perché
pericolosi testimoni.
L’ingresso ad Auschwitz e il filo spinato
percorso dall’alta tensione.
32
La selezione, il numero tatuato sull’avambraccio sinistro
Che impressione le ha fatto Auschwitz la prima volta che l’ ha vista?
Il primo impatto c’era già stato a Mauthausen. Però, nessuna aveva pensato che
saremmo finite in un posto simile. Il campo era tutto illuminato e circondato dal filo
spinato dove correva l’alta tensione.
Dopo averci fatte entrare e attraversare tutto il campo, ci hanno condotte ad un baraccone dove abbiamo
passato la prima notte. Ci comandavano dei prigionieri che, appena
hanno potuto, ci hanno chiesto se
avevamo ancora qualcosa da mangiare e se glielo volevamo dare,
facendoci capire che poi però non
avremmo avuto più nulla.
Quando è cominciato a farsi giorno, dalle finestre senza vetri abbiamo visto passare delle povere donne All’arrivo chi veniva selezionato era destinato subito alle camere a
senza età. Perché sembravano vec- gas. Questo gruppo di donne invece è scampato ad una selezione; a
loro, prima davano da indossare la casacca del lager, poi sarebbero
chiette di ottant’anni, così corruccia- state rasate e depilate, andando incontro a pericolose infezioni per i
te da fare impressione… magari tagli causati dalle macchinette tosa-cani che le SS usavano.
avranno avuto la nostra età…
Fuori c’era una tormenta di neve
ed il vento ammassava loro il ghiaccio addosso. Noi ci chiedevamo che
cosa avessero fatto mai di male quelle poverette, che sembravano così
vecchie, per essere trattate così.
Mai avremmo potuto immaginare
la verità. Eravamo tranquille, poiché
eravamo sicure che non avevamo
fatto nulla di male, e nello stesso
tempo avevamo pena di quelle, forse
anche più giovani di noi.
Il giorno dopo, la prima cosa che ci hanno fatto è stato il numero sul braccio,
tatuandocelo direttamente nella baracca.
Mi tatuarono sul braccio sinistro il numero di matricola le cui cifre mi vennero
impresse nella pelle con timbri a spillo immersi precedentemente in un inchiostro…
da quel momento non avevo più un nome, ero solo un numero… 76147.
I primi tempi incidevano i numeri sull’avambraccio sinistro; negli ultimi tempi,
lo facevano sulla spalla, mentre gli ebrei venivano numerati a parte. Ai bambini lo
incidevano sulla coscia.
33
Verso mezzogiorno ci hanno fatto fare la doccia: un vero tormento, con l’acqua
che da bollente diventava di colpo fredda al di sotto dello zero, e sempre con le S.S.
in giro. Finita la doccia, ci hanno condotte in un’altra stanza e ci hanno tagliato i
capelli… io, che li avevo brutti, appena una sforbiciata, invece alla mia amica, che li
aveva belli, li hanno massacrati. Con le russe e con le ebree erano implacabili, le
rapavano completamente a zero. Poi, con le stesse macchinette che usavano per tosare i cani, ci hanno rasato i peli sotto le ascelle e in mezzo alle gambe, eravamo piene
di ferite e di tagli infetti. Naturalmente tutto avveniva alla presenza delle SS, che
erano tutti uomini come quelli che ci rasavano.
Non vi selezionarono?
I detenuti politici, cioè noi, non
venivano selezionati, gli ebrei sì.
Si era selezionati per andare a
lavorare nelle fabbriche o per andare in un altro campo, o per far posto
se c’era troppa gente… in quel caso,
se eravamo diventati troppi, chi
veniva selezionato, andava direttamente alle camere a gas.
Quando finirono di tosarci come
Stazione di Auschwitz - Birkenau. I deportati vengono suddivisi: gli
cani, ci rifilarono quattro stracci di
uomini da una parte, le donne e i bambini dall’altra.
corredo, cioè mutande che dicevano
che erano disinfettate, invece erano
sporche di tutto, le prendevano a
quelli venuti prima e le davano a
casaccio, un camicione a righe di
cotone, un cencio da mettere in testa
ed un paio di calze rotte, ci vestirono come pagliacci. Ricordo che
quando la mia amica, di famiglia
povera e quindi abituata alle ristrettezze le ha viste, è scoppiata a piangere dicendo: “Malgrado tutto, le
calze rotte non si portavano in casa
mia!”. Io ero così rincretinita che
L’inizio della selezione delle donne.
non ho provato nulla.
Dopo di che ci hanno portate nella baracca. Lì c’era un’italiana, Margherita, che
parlava cinque lingue ed era trattata abbastanza bene. La blocova non era cattiva, la
prima cosa che ci ha detto attraverso la signorina che traduceva per noi e che anche
noi trattavamo con riguardo, è stata: “Qui non si piange, non si mangia, non ci si
ammala...”. Ci ha riferito i dieci comandamenti del campo. Invece le due che comandavano con lei... una, insomma, ma l’altra era una vipera; erano polacche.
34
Anche le kapò erano quasi
tutte polacche perché, quando fu
creato il campo, le prime che vi
sono state rinchiuse erano polacche. In seguito vi hanno rinchiuso donne di altre nazioni, ma i
posti di comando, ormai, erano
stati tutti occupati da loro. Erano
peggio delle belve, peggio degli
stessi tedeschi. Del resto, per
mantenere il posto che avevano
loro assegnato, dovevano diven- Colonna di prigioniere avviate al lavoro.
tare belve.
La mattina dopo ci hanno subito mandato a lavorare nei campi, eravamo in quarantena e quindi dovevamo sgobbare.
Chi è che vi comandava?
I tedeschi impartivano gli ordini, ma erano alcuni dei prigionieri a farli eseguire.
Le SS erano costituite da volontari reclutati anche dalle prigioni. Poi c’erano le ausiliarie, che erano cattive come la peste. Non contavano nulla, nel senso che gli ordini
li davano gli uomini, ma erano più feroci delle SS.
Rudolf Höss, il comandante di
Auschwitz.
Gerhard Palitzsch, vice comandante di Auschwitz.
Maria Mandel, comandante del
Lager femminile di Birkenau.
A fare da tramite tra le SS e le prigioniere erano delle detenute, soprattutto polacche, contrassegnate con il triangolo verde.
Ad Auschwitz ognuna aveva cucito sul vestito un triangolo il cui colore indicava
la provenienza della persona. Quello verde era dei criminali comuni: difatti le nostre
blocove erano quasi tutte galeotte. Il viola era il colore degli omosessuali, mentre il
nero delle donne di strada. Il rosso per i politici, le donne con il triangolo rosso erano
pochissime.
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Tredici ore al giorno di estenuante lavoro, compensato
solo da pochissima zuppa ed un piccolo pezzo di pane
spesso secco o ammuffito. Così i deportati erano ridotti
in breve tempo allo stremo delle forze.
Mi ricordo che c’erano tante che portavano
il triangolo giallo di ebrea assieme a quello
rosso di politica. Il motivo era che se una donna
aveva sposato un ebreo, veniva accusata di aver
rovinato la razza e considerata di razza mista…
perché quel pazzo di un Führer voleva creare la
razza pura. Però poi, nella sua folle mentalità,
era capace di togliere il sangue agli ebrei e di
tenerlo da parte per i tedeschi, infatti frequentemente, quando tra i nuovi arrivati c’erano
persone in buone condizioni di salute, anche se
ebrei, e quindi per loro di qualità inferiore,
venivano effettuati dei prelievi di sangue utilizzato poi nelle trasfusioni ai feriti tedeschi.
Erano folli anche gli esperimenti
che facevano. Cosa serviva sterilizzare la gente, mettere un pezzo d’osso ad
una persona dopo averlo tolto ad
un’altra, immergere la gente nell’acqua fredda e tutte quelle altre cose che
facevano? Certo è che ai tedeschi
faceva comodo perseguitare gli ebrei,
perché è con il loro oro che hanno
potuto fare la guerra. E questa è una
Il castello di Hartheim dove furono trasferiti migliaia di deportati
cosa che dicono tutti.
usati come cavie per inumani esperimenti con pretese scientifiche.
Vicino al triangolo c’erano Nessun deportato riuscì ad uscirne vivo
l’iniziale del paese di provenienza e il
numero che bisognava tenere sempre in vista. I numeri erano progressivi: quelli che
comandavano l’avevano basso. Quando i presenti sono diventati tanti, hanno cominciato a numerare gli ebrei a parte.
Le persone che erano entrate tra le prime ed erano sopravvissute occupavano un
posto di comando. Stavano bene, almeno rispetto a noi altre, e godevano un trattamento preferenziale: per esempio, quando si tagliava il pane la razione più grande era
per loro, quando distribuivano la zuppa a loro toccava il fondo perché era più sostanzioso. Poi avevano amicizie in cucina e vestivano sempre bene, portavano lo stesso
la divisa a strisce ma con una bella maglia di lana sotto, sempre impeccabili...
Le stubove e le blocove avevano stanze proprie.
Dormivano un paio per stanza in due camerette poste all’ingresso della baracca;
quando si passava lì vicino e la porta era un pò aperta, si vedevano le imbottite e tante
buone cose.
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Gli esperimenti
Eravate al corrente degli esperimenti del blocco 10?
Sapevamo qualcosa, ma non parlando bene la lingua era difficile chiedere e capire, e questa era un’altra tortura. Certo, le parolacce le ho imparate in tutte le lingue.
Mi ricordo che le russe ci dicevano: “Tu, puttana; io, svigna”. Cioè, la stessa cosa.
Si capisce però che non si poteva contare solo su quelle due parole, e che parole
poi, che avevamo imparato. Era la torre di Babele, c’era chi parlava in polacco, chi
in tedesco, chi in russo, sloveno, francese.... e poi, gli ordini venivano dati in tedesco, nei blocchi comandavano le polacche, mentre la maggior parte delle prigioniere
erano di origine russa.
Quindi è molto facile immaginare la confusione che ci poteva essere.
Le italiane erano maltrattate da tutte...non conoscendo la lingua, eravamo sempre
lente a fare le cose… dopo, però, con quattro legnate capivamo tutto.
L’italiano era calpestato, disprezzato e calunniato. Ci gridavano continuamente:
“Italianko sciaiser, ni servai: danzia, esser e liben”, cioè: “Italiano pece, non lavorare: ballare, mangiare e fare l’amore”. Invece, non era vero niente. Perché, per dirla
tutta, le donne polacche erano molto più sporche, nel senso della morale.
Nel Blocco 10 avevano luogo le cosiddette
“esperienze scientifiche” su “cavie umane”
tenute, oltre che dal dott. Mengele, anche dai
professori Schumann e Clauberg.
Provavano sull’organismo umano l’effetto di
nuovi preparati prodotti dalle industrie farmaceutiche tedesche.
Un esperimento, forse quello compiuto con
più frequenza, era la sterilizzazione. Consisteva
nel sottoporre il detenuto maschio a radiazioni
di intensità crescente, fino a che il medico ne
accertava la definitiva distruzione delle facoltà
generative; il passaggio successivo era quello di
condurre il prigioniero sottoposto a tale esperimento alla camera a gas.
Sulle detenute donne invece l’esperimento di
sterilizzazione consisteva nel sottoporle all’azione dei raggi Roentgen, i quali venivano diretti sulle ovaie, le quali venivano rapidamente
distrutte, e sul ventre si formavano ulcere e piaghe dolorose.
A volte venivano asportate anche le ghiandole sessuali, con la conseguente morte atroce
della cavia.
37
Un esperimento di decompressione su una cavia
umana.
Organi femminili venivano asportati per essere sostituiti con organi
artificiali, oppure si effettuavano
fecondazioni artificiali per poi procurare l’aborto o, come in alcuni casi, si
faceva andare avanti la gravidanza
per poter effettuare continui esperimenti che procuravano l’inevitabile
morte del feto ed anche della mamma. Bambini il cui destino è stato quello di essere usati per atroci espeSi inoculavano ai detenuti scelti rimenti “scientifici” comandati dal dott. Mengele, il quale a tale
per l’esperimento malattie come il tifo scopo ha barbaramente martoriato il loro corpo.
o il cancro, per poi verificare l’efficacia o l’inutilità dei nuovi metodi di cura.
C’erano poi anche prove di resistenza; ad esempio: quanto tempo una cavia
potesse vivere dal momento in cui le venisse somministrata esclusivamente acqua
salata, oppure quale potesse essere la resistenza dell’organismo umano immerso in
acqua gelata o la rapidità con cui un essere umano morisse sotto l’azione di diversi
tipi di ustioni.
Si verificò la resistenza umana al digiuno o all’alimentazione forzata, portando
le cavie a nutrirsi ingozzandole fino a farle scoppiare.
Il dott. Mengele salvava regolarmente al loro arrivo le coppie di gemelli assieme
alle loro madri. Essi venivano poi sottoposti a speciali studi sulla procreazione con
l’intento di trovare un sistema per rendere
prolifica la razza germanica, “razza eletta”, visto che era stata decimata dalla
guerra. I continui prelievi di sangue ai
quali venivano sottoposti, così come le
iniezioni e gli esami clinici, avevano spesso per loro esito letale.
Ma quale poteva essere lo scopo di
questi esperimenti… ed altri… così atroci,
se non quello dello sterminio?
cfr: Corrado Saralvo “Più morti più spazio”
Baldini & Castoldi - Milano 1969.
E quale la ragione di tutto ciò su povera gente completamente ed assolutamente
innocente?… Ed anche se fosse stata mai
colpevole di qualcosa… avrebbe potuto
meritare tutto questo? O ciò non sarebbe
mai dovuto e potuto essere inferto nemmeno al peggior criminale di questa
terra?
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Coppie di gemelli selezionati dal dott. Mengele.
Le parole non possono descrivere…
Che cosa ricorda dei primi giorni di permanenza ad Auschwitz?
E’ difficile trovare le parole... è difficile da spiegare… non riesco ancora a capire come abbiamo
fatto ad accettare quella situazione; il nostro “io” era
completamente annientato, umiliato… non ci rendevamo conto di quello che ci stava accadendo e perché...
I primi giorni... forse…, dopo non eravamo più
persone, non eravamo più niente.
Mi ricordo che ci chiedevamo: “Cosa abbiamo
fatto? Che cosa ci aspetta?”. Ma non trovavamo
risposta alle nostre domande… no! Non riesco proprio a spiegarmi come abbiamo potuto accettare
quella situazione.
In seguito, siete riuscite a farlo? Nessuna ha
provato a ribellarsi, a resistere alla regressione a
cui eravate sottoposte?
Eravamo diventate.... è difficile trovare la parola
adatta... non eravamo più gente, non avevamo più la
nostra personalità, non avevamo la forza e la voglia
necessarie per batterci, e poi, come avremmo potuto
farlo?
Eravamo bestie,
ragionavamo come
asini: “Questo ci
tocca e questo dob- Quando le SS non facevano in tempo a brucianei forni crematori i prigionieri morti nelle
biamo fare”. E guai se re
camere a gas, i loro cadaveri venivano ammucsi aveva vicino una chiati all’esterno... così i vivi camminavano in
che non faticava, la si mezzo a montagne di morti...
odiava. Perché sapevamo che avremmo dovuto fare anche la sua parte,
altrimenti ci avrebbero massacrato di botte.
Cavalletto usato per le bastonature inferte per
ogni futile mancanza da parte dei prigionieri. Il
numero ufficiale di colpi per la punizione era
25 ma spesso ne venivano inferte anche 75 causando la morte del punito.
Dopo la quarantena, che lavoro ha svolto?
Ho continuato a lavorare nei campi. Ma era faticosissimo. Per esempio, quando si trebbiava dovevamo
fare le cose in una certa maniera, lavorare con macchine apposite… e chi le aveva viste mai? Chi
l’aveva fatto mai?
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Dovevamo trebbiare, poi zappare e infine appianare il campo in un certo modo,
e guai se la superficie non era liscia, una briciola fuori posto e facevano finire il
mondo!
Ma a che cosa serviva, poi, appianare la terra come un foglio?! Non era una tortura quella?
Poi, quando le piantine seminate cominciavano a crescere, bisognava stare lì per
tirare via le erbacce, ma Santo Dio, anche nel Vangelo c’è scritto che bisogna far crescere assieme la zizzania e il grano! Invece no, noi dovevamo separare le piantine
dalla zizzania, e non eravamo neppure capaci!
Ci avevano fatto vedere come dovevamo fare, ma quando si strappava si portava
via tutto. Dovevamo farlo stando chine sulle gambe, guai ad accovacciarsi! Ma dopo
ore e ore in quella posizione...
Una volta, ero più avanti rispetto alla mia amica e, siccome ero stanca, ho provato ad accovacciarmi… quante botte ho preso!
Ho fatto appena in tempo a vedere la kapò venire verso di me che già menava
sberle con il bastone. Mi ha colpita proprio sotto la faccia e in un modo...
Insomma, mi ha fatto capire che così non dovevo lavorare.
Dietro di me c’era la mia amica Gina. Con la mia amica si divideva tutto, anche
le botte. Se lavoravamo assieme, bene, ma se eravamo a lavorare in kommandi diversi, la sera ci chiedevamo: “Le hai buscate te?”.
“E te?”.
Allora il giorno dopo quella che non le aveva prese doveva prenderle perché si
doveva pareggiare il conto.
Quando ha visto la kapò picchiarmi, la mia amica mi ha detto: “Non piangere, eh,
non piangere”.
Visto che le brutte parole là si dicevano, ho risposto: “Per una puttana così, non
piango”. Pensavamo che la Kapò non avesse capito, ma lì le parolacce si imparavano in tutte le lingue, così me ne diede un’altra razione, ed anche la mia amica fu riempita di botte, così eravamo pari!
Dividevamo tutto, anche le cose più insensate. Quando si trebbiava, se si lavorava accanto agli uomini si era fortunate, ma se si lavorava dietro le macchine, che tortura! Perché le macchine erano veloci e noi, che dovevamo raccogliere subito il grano
e poi legarlo, non ce la facevamo. Poi guai a lasciar fuori un filo: finiva il mondo! I
covoni dovevano essere belli precisi, allineati diritti uno dietro l’altro. Quando potevamo, però, qualche spiga ce la mettevamo in tasca, oppure l’ingoiavamo direttamente così.
In Auschwitz appena potevamo rubavamo qualcosa da mangiare. Ad esempio, le
rape o le patate che conservavamo dentro i canali che scavavamo noi; quando i sorveglianti erano voltati, afferravamo qualche rapa e, dopo averla pulita un po’, la mangiavamo così, cruda e ancora sporca di terra. Meno male che non ci siamo buscate
nulla!
Si vede che avevamo dei buoni anticorpi, altrimenti...
Una cosa devo ammetterla: qui da noi non sanno come conservare le patate, inve40
ce in Germania sì. Scavavamo un fosso, poi mettevamo uno strato di patate, uno di
paglia, poi ancora di patate, concludendo con la terra. A primavera, quando le tiravamo fuori, le patate erano ancora buone.
Scusi la banalità della domanda, ma che cosa la spingeva a rubare?
La fame e la necessità. Non si poteva vivere con quella miseria che ci davano,
dovevamo per forza organizzarci, dovevamo rubare.
Chi non era capace vendeva una porzione di zuppa, di margarina o di salame e si
procurava un cucchiaio, una fetta di pane, carta, spago...
Quando lavoravo in campagna, dove ho scavato fossi per interrare le patate e
canali di scolo per dragare Auschwitz di tutto il fango che la sommergeva, poichè
Auschwitz era una vera palude, mi ingegnavo per rubare le patate, le rape bianche,
le fave secche, perfino la cicoria selvatica.
Qualche volta nascondevamo il bottino tra le pieghe del grembiule, ma per paura
di essere scoperte o derubate mangiavamo subito quello che avevamo preso. Nel
lager, invece, si rubava la zuppa. Solo che bisognava stare attenti. I barili di zuppa
erano portati dal kommando addetto, scortato quasi sempre dalle SS.
Capitava però a volte che passavano sette o otto barili con una sola SS di guardia
così, se lei andava avanti, si poteva organizzare qualcosa. Bisognava però stare attenti agli addetti al trasporto; se il bidone era portato da quattro persone, era difficilissimo rubare, ma se lo portavano in due, e uno lasciava la presa, allora...
Quelle del kommando della zuppa erano quasi tutte raccomandate, non facevano
lavori pesanti e godevano di trattamenti di favore. Erano quasi tutte polacche, magari dello stesso trasporto o dello stesso paese; si intendevano a meraviglia, e così facevano il comodo loro.
Io avevo “organizzato” una latta, e mi appostavo nel punto giusto, magari in un
fosso; se fossi stata scoperta, e quelle del kommando avessero strillato per fare accorrere le SS, non avrei avuto scampo, per me ci sarebbe stato il bunker, dove lasciavano morire i prigionieri di fame, di sete, di stenti.
Un giorno siamo rientrate presto; mentre parlavo con la mia amica, che non era
capace di rubare nemmeno un filo d’erba, ho visto passare la zuppa delle SS.
Ho riconosciuto subito il bidone, perché quelli delle SS erano piccoli e di solito
venivano portati da due persone soltanto. La mia amica ha visto i miei occhi che
seguivano le addette e la SS, così mi ha detto preoccupata: “Non ti permettere, guai
a te. Se ti ammazzano io non piango mica, sai?”
Forse era il Signore che mi rendeva invisibile quando facevo quelle cose, chissà...
fatto sta che quando sono passata vicina al barile, la tentazione è stata troppo forte,
così ho cacciato la mano dentro.
Le SS si sono messe a strillare: “Svigna! Curva!”, tutte le parolacce possibili ed
immaginabili.
Ma io ero già dentro il fosso, uno di quelli che anch’io avevo scavato.
La SS, quando si è voltata, non mi ha vista.
Così quel giorno abbiamo mangiato una bella zuppa bianca, perché le SS man41
giavano bene, era zuppa di orzo bianco, una vera specialità.
La mia amica strillava, però, poi l’ha mangiata con me, perché sapeva che altrimenti non l’avrei mangiata nemmeno io.
Mi è sempre andata bene: si vede che il mio Angelo Custode mi proteggeva, o che
forse, semplicemente, doveva andare così.
Ma non rubavamo solo il mangiare... eravamo sprovviste di tutto, non avevamo
niente. Per esempio, la zuppa la mangiavamo come fanno le bestie. Per avere il cucchiaio bisognava sacrificare una mezza razione di pane; si andava da chi lo rubava o
lo fabbricava e lo si comprava; poi, raschiando il manico sui sassi, lo rendevamo affilato e lo usavamo come coltello.
Anche la gamella era “organizzata”, e se serviva un bottone per aggiustare la divisa lo rubavamo, oppure vendevamo una razione di zuppa o di margarina. La stessa
cosa accadeva per il mangiare; se si voleva un altro po’ di zuppa, bisognava rivolgersi alle blocove e sacrificare qualche altra cosa.
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Auschwitz, gli estenuanti appelli, la paura,
la distruzione morale…
Mi può descrivere il campo?
Io e le mie amiche siamo state a Birkenau, era Auschwitz 2,un campo più piccolo all’interno del territorio di Auschwitz, in cui c’erano molte donne.
Anche le SS che ci comandavano erano quasi tutte donne, mentre quelle che sorvegliavano il campo e che ci scortavano al lavoro erano uomini.
Il campo di Auschwitz era immenso, una cosa pazzesca; quando si doveva andare dal lager A al lager B, c’era da fare una bella scarpinata. C’erano i lager A, B e
C, il revier, la ferrovia, il campo degli zingari...
Quando sono tornata ad Auschwitz con l’associazione di Milano, le baracche del
lager A c’erano tutte; invece, quelle del lager B e C erano state bruciate.
Ogni lager era recintato dal filo spinato; se una voleva andare da un campo all’altro doveva attraversare i reticolati. Però, siccome i fili erano attraversati dall’alta tensione giorno e notte, non era possibile scavalcarli, bisognava per forza passare dai
cancelli. Ma quelli erano sorvegliati dalle SS e dai cani.
I selezionati sulla rampa della stazione di Birkenau stanno per salire sugli autocarri che li porteranno alle camere a gas.
Nel momento in cui il numero dei
deportati aveva raggiunto cifre elevate, dovettero suddividere il territorio di Auschwitz in 3 grandi unità:
Auschwitz 1, che era il Campo
Base.
Auschwitz 2, chiamato Birkenau,
che si può dire fosse un campo di
smistamento e di sterminio dove i
prigionieri non svolgevano alcun
lavoro utile alla guerra, ma in esso i
Questa foto illustra la tragedia che si svolgeva all’arrivo di
ogni convoglio di deportati alla stazione di Auschwitz-Birkenau.
I crematori IV e V di Birkenau durante la loro costruzione.
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detenuti servivano solo a mantenere in funzione il campo che era
una vera e propria fucina di
morte.
Auschwitz 3, che comprendeva altri sotto-campi di lavori forzati dove c’erano fabbriche di
prodotti industriali ed armamenti;
qui almeno i prigionieri erano al
riparo dalle intemperie, anche se
erano costretti a lavorare dodici
ore al giorno.
Come si svolgeva la vita ad
Filo spinato percorso dall’alta tensione.
Auschwitz?
La sveglia era verso le tre, le
tre e mezza. Dopo che la blocova ci aveva sbattute giù dal pagliericcio a maleparole, dovevamo riordinare quel giaciglio che avevamo per letto, e che non avrei dato
per dormire nemmeno al mio cane, facendo bene attenzione agli angoli che dovevano essere squadrati al millimetro. Poi, si faceva la fila al gabinetto; certe mattine era
così freddo che si rinunciava volentieri a lavarsi.
Infine dovevamo metterci in fila per l’appello.
L’appello era una vera tortura, perché non finiva mai; ore e ore immobili, fisse,
con il sole, la neve o la pioggia, senza la possibilità di muoversi o di scambiare una
parola con le altre.
Giustamente, dopo un po’ i muscoli delle gambe si indolenzivano. Ma non ci si
poteva mica abbassare per massaggiarsi, erano guai! Erano botte! Poi, ci davano un
mestolino di caffè, almeno ci scaldavamo.
Prima di uscire, però, ci contavano un’altra volta. Poi, a passo di marcia ci avviavamo verso il cancello, gonfiando i muscoli e cercando di assumere un’aria marziale, era una cosa pietosa, viste le nostre condizioni.
A mezzogiorno circa ci fermavamo per mangiare, avevamo solo un quarto d’ora
di tempo, ma per quello che ci davano era più che sufficiente.
La zuppa era immangiabile, magari l’avevano portata quelle del kommando alle
sette del mattino, perciò alle dodici era fredda e indigesta.
Rientravamo prima che tramontasse il sole, quindi d’estate lavoravamo più dell’inverno.
Appena rientrate, dovevamo andare all’appell serale; certe volte stavamo lì per
ore, stanche, intirizzite dal freddo, senza neanche poter mangiare. Poi, la sola cosa
che volevamo fare era dormire, così ci buttavamo esauste sul pagliericcio.
Anche la disinfestazione era una tortura, per farla ci facevano saltare la “cena”.
Una volta alla settimana ci facevano fare il bagno e ci sterilizzavano i vestiti per
paura che scoppiassero delle epidemie, ma dovevamo aspettare ore prima che ce li
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restituissero, e non sempre erano quelli che avevamo dato loro; quando li indossavamo erano ancora caldi e puzzavano di disinfettante, una cosa stomachevole.
Se i conti non tornavano, era scappato qualcuno; allora bisognava restare in piedi
finché le cose non fossero andate a posto; una volta, mi pare che fosse il mese di gennaio, i conti appunto non tornavano. Allora ci hanno fatto restare fuori, senza vestiti
e senza mangiare, finché non hanno trovato quelli che mancavano.
Ho letto su alcuni libri che certi appelli duravano anche giorni interi!
Quando si voleva punire qualcuno, di solito si costringeva tutta la baracca a stare
fuori all’aperto; era un supplizio, una cosa tremenda. Erano dei barbari!
Ad Auschwitz faceva freddo e pioveva continuamente. Spesso capitava che diluviava e, mentre eravamo dentro al coperto, suonava il fischietto: “Appell!”. Così
dovevamo uscire ed aspettare sotto l’acqua che facessero l’appello…
Oppure facevamo appena in
tempo a tornare dal lavoro e a fare
l’appello che l’acqua cominciava a
scendere giù a catinelle, e quando
pensavamo di essercela scampata,
suonava di nuovo il fischietto, così
dovevamo tornare tutti fuori, e
rimanerci anche due o tre ore.
Spesso dovevamo lavorare sotto
la pioggia, bagnati fin dentro le
ossa... poi, appena si rientrava, si
strizzava il cencio che avevamo
addosso e ci si sdraiava sopra di
esso per farlo asciugare... guai se lo
avessero visto le SS, sarebbero
state botte a non finire!
Adesso soffro terribilmente di La drammatica cerimonia dell’appello.
dolori; ne soffrivo anche là, un
giorno mi sono svegliata e non mi potevo muovere, ma ho pensato che per fortuna
era domenica e non si doveva andare a lavorare… non ho fatto in tempo a pensarlo
che proprio quella domenica ci chiamarono e ci incolonnarono per andare a lavorare
fuori.
Fino al cancello mi hanno aiutata le mie compagne, perché da sola non ce l’ avrei
fatta, ma davanti alle SS dovevamo sfilare a passo di marcia, diritte e marziali. Quando siamo uscite, ci hanno fatto fare qualche giro e poi ci hanno fatte rientrare; allora
sono andata dalla blocova, le ho cercato di spiegare che non stavo bene e lei mi ha
messa in lista per le visite del giorno dopo, costringendomi, anche se stavo malissimo, ad andare a lavorare ugualmente! Sono andata al revier, dove mi hanno fatta spogliare e mi hanno dato un termometro che avrei dovuto mettere nell’ano… ma io non
avevo capito e l’ ho tenuto in mano, poi gliel’ho restituito; la blocova mi ha dato un
biglietto dicendomi che la sera dopo sarei dovuta tornare. Quando sono tornata, mi
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hanno fatto segno che avrei dovuto stendermi dentro una cassa da morto piena di
lampadine. Io ero spaventata, e non ci sono più voluta andare.
Dati raccolti dal libro “Più morti più spazio” di Corrado Saralvo.
La parte più amara e più tragica della terribile esperienza dei campi
d’internamento era senza dubbio quella toccata alle donne ed ai bambini.
Il campo femminile di Auschwitz-Birkenau, sorto per volere di Himmler nell’anno 1942, doveva accogliere tutte le donne ebree deportate, comprese quelle che già
si trovavano nel Lager di Ravensbrück, poi vi vennero internate anche donne non
ebree.
Anche per esse la Selezione si svolgeva all’arrivo, nel consueto modo brutale. In
presenza di numerose SS che continuamente dicevano frasi sarcastiche e volgari,
dovevano spogliarsi interamente e subire un minuzioso controllo genitale e rettale
per accertare che non vi avessero nascosto oggetti preziosi. Poi le scampate alla
Selezione venivano tatuate e rapate ma in modo così irregolare da rendere il loro
aspetto grottesco e pietoso. Ricevevano poi dei vestiti laceri e sudici, in uno stato tale
da farle sembrare spaventapasseri. Così entravano nel Lager.
Se tutte le donne del mondo civile meditassero su quale dovesse essere lo stato
d’animo di quelle povere sventurate, strappate alla loro vita familiare e sottoposte
ad un trattamento così umiliante che feriva i loro intimi sentimenti di pudore e le
riduceva a fantasmi cenciosi!
Venivano stipate in tetre baracche puzzolenti, conducendo una vita d’inferno.
Nelle cuccette dei “castelli” giacevano strette una all’altra in un sudiciume indescrivibile e le “installazioni igieniche” loro riservate erano ancora più scarse e forse
peggiori di quelle esistenti nel campo maschile.
Il loro ciclo mensile spariva per effetto di misteriose medicine mescolate al cibo,
e come conseguenza di ciò, il loro corpo si ricopriva di pustole, foruncoli ed ascessi. Avevano l’interno della bocca pieno di
vesciche.
Per quanto riguarda il loro impiego nel
lavoro, le detenute che non venivano scelte
per essere trasferite nelle industrie e nei servizi dell’organizzazione del campo erano sottoposte a compiti gravosi che comportavano
fatiche e sforzi cui, per la maggior parte,
erano assolutamente inadatte… ed a volte,
recandosi al lavoro o tornando da esso,
erano costrette a cantare altrimenti erano
riempite di botte.
Le Kapos destinate alla disciplina erano
quasi sempre giovani e robuste, ben vestite e
con un frustino tra le mani. Venivano inviate
e bambini ebrei incolonnati mentre attendono di
espressamente a Birkenau da altri campi, ed Donne
essere condotti al loro triste destino.
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erano generalmente “triangoli verdi”, cioè rifiuti di galera, capaci di superare i loro
colleghi uomini in fatto di crudeltà e depravazione.
I tormenti e le sevizie fisiche e morali cui sottoponevano le prigioniere abbandonate al loro arbitrio erano quanto di più atroce potrebbe escogitare la mente di un
pazzo sanguinario.
Schiaffi, pugni, calci, frustate, venivano distribuiti abitualmente per ogni futile
motivo ed anche senza motivo. Le Kapos si scatenavano per niente, si scagliavano
come furie sulle prigioniere e strappavano loro le vesti, le graffiavano, le mordevano… a volte le facevano correre all’aperto, nude, seguite da una Kapo che con un
frustino le colpiva nelle parti intime.
Molte prigioniere, troppo prostrate dall’avvilimento e dalla disperazione, si
lasciavano morire per finirla con quell’inferno.
In un punto appartato del campo era stato installato un luogo ad uso delle SS del
Lager e dei militari di passaggio. Sceglievano le donne più giovani e belle fra le
internate e queste povere ragazze, dopo aver ricevuto un corredo nuovo di biancheria che potevano cambiare frequentemente, avevano l’obbligo di intrattenere le SS
del campo ed i soldati tedeschi diretti al fronte… il “cliente” che rimaneva insoddisfatto delle prestazioni di una ragazza poteva fare rapporto al Comando, così che la
donna veniva mandata alle camere a gas.
Le donne in stato interessante venivano destinate all’arrivo alle camere a gas.
A causa della denutrizione e delle pessime condizioni igieniche del campo qualsiasi malattia era pericolosa.
Quando il medico di servizio alla Selezione non riusciva a riconoscere lo stato di
gravidanza delle deportate, esse venivano giudicate valide al lavoro ed entravano
nel campo.
Esse facevano l’impossibile per mascherare le loro condizioni e spesso riuscivano a non farsi scoprire fino al sopraggiungere delle doglie… ma, al verificarsi del
parto, sia la mamma che il neonato finivano al crematorio.
Cosa le davano da mangiare?
Ah, per carità! Al mattino ci avrebbero dovuto dare mezzo litro, ma non era nemmeno un quarto, di un liquido sporco che chiamavano caffè; se non altro, smorzava
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la sete, perché non avevamo la possibilità di bere niente.
A mezzogiorno ci davano della zuppa, una specie di brodaglia con dentro di tutto:
bucce di patata oppure torsoli di rapa, magari raccolti dalla spazzatura. Qualche volta
c’era un filo di pasta, ma uno di numero, oppure un pezzettino di carne che, a ripensarci adesso, chissà che carne fosse...non riuscivo a mangiarla perché si diceva che
fosse la carne degli ebrei.
La sera, dopo che eravamo rientrate dall’appello, ci davano un pane tipo panecarré. Noi lo dividevamo in quattro, e poi ci spalmavamo sopra un cucchiaino di marmellata o un pezzettino di margarina. Oppure ci davano una fettina di salame sottile
come l’ostia… alcune dicevano che fosse fatto con la carne degli ebrei.
Una volta mi ricordo che ci hanno dato un semolino grigio e puzzolente; era così
strano che qualcuna ha detto che era fatto con la cenere dei morti.
Quelle che lavoravano nelle baracche, le raccomandate, prendevano per sé o per
le loro clienti la parte migliore della zuppa, la parte finale, che era sempre più densa
perché non si rimescolava mai il bidone. Quelle brutte bestie avevano le loro clienti
che, per un mestolino di zuppa in più, cedevano la fettina di salame o la margarina;
quello era il modo di vivere lì. Ognuna si organizzava come poteva.
C’erano alcune prigioniere, come le russe o le polacche, che ricevevano dei pacchi da casa. Una russa una volta mi venne vicina e mi fece vedere che aveva dell’aglio, una cosa preziosissima perché lo si poteva strusciare sul pane facendogli cambiare quel brutto sapore che aveva. Premetto che io ho sempre odiato l’aglio, quindi
quando lei me lo offrì ed io faci segno di no con il capo, pensò che non lo volessi perché non avevo nulla da darle in cambio, allora quella povera creatura mi fece intendere che me lo avrebbe dato senza volere niente.
Mi disse: “Nema, nema gleba”. Cioè: “Niente pane”. Alla fine capi perchè lo rifiu
tavo; ma quando lo hanno saputo le mie compagne, avrebbero voluto mangiarmi.
“Quanto sei stata stupida!” mi dissero. Perché per loro giustamente quella era una
cosa rara, per averlo bisognava barattare due porzioni di pane.
Per chi non riceveva pacchi o non aveva amicizie influenti era più difficile, allora si strappavano le cicorie che crescevano spontanee in campagna e alla sera si mettevano dentro la zuppa, ancora sporche di terra.
Quando capitava di lavorare vicino alla stalla ci si ingegnava per afferrare qualche manciata di fave. Ma era un rischio tremendo, peggiore delle malattie che potevamo buscarci mangiando quelle erbe strane.
All’inizio, durante la settimana distribuivano anche una doppia razione di pane, e
comunque si riusciva sempre a rubare qualche cosa. Dopo, a mano a mano che il
numero dei prigionieri aumentava, le cose peggiorarono; mi ricordo che prima dividevamo il pane in quattro, poi cominciammo a tagliarlo per sei, per otto, per dieci.
Poco prima di partire lo dividevamo per ventiquattro, proprio una fettina minuscola
a testa. E certe volte non ce lo davano nemmeno. Allora è cominciata la fame nera.
A Ravensbrück era lo stesso.
Per fortuna che ci hanno mandato a lavorare in fabbrica, dove la vita era migliore, ma quando il fronte è arrivato anche lì, è cominciata la fame. Non c’era più nulla
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da mangiare, la brodaglia di un litro, che invece era sempre di tre quarti, arrivò ad
essere di mezzo litro, poi, alla fine, un quarto; era appena un mestolino, senza sale,
senza bucce o torsoli.
Il cibo era, quindi, una specie di moneta...
Sì. Ogni cosa aveva un valore di mercato: per l’aglio occorrevano due porzioni di
pane, mentre per una fetta di pane ci voleva un mestolo di zuppa.
Un bottone poteva valere una mezza fetta di pane o un cucchiaino di marmellata...
Dipendeva molto da quello che si trovava e da ciò che si aveva.
Chi riceveva pacchi da casa, come le polacche e le russe, aveva chiaramente più
possibilità di chi non aveva niente.
In questo le italiane sono state molto penalizzate.
E’ vero che dentro la bocca si formavano dei foruncoli?
A me personalmente non è successo. Però, dicono che si formassero delle piaghe
ulcerose e che fosse difficile mangiare e bere. Ma i foruncoli spuntavano anche sulla
pancia, del resto, con tutta la sporcizia che ci davano!
In alcuni libri c’è scritto che, per bloccare le mestruazioni, i tedeschi somministravano alle detenute degli strani intrugli mischiati al mangiare...
Nessuna aveva più le mestruazioni, tranne le polacche che ricevevano i pacchi da
casa e che non mangiavano le nostre schifezze; loro erano delle privilegiate.
Tenevano per sé una piccola parte e vendevano o regalavano il resto alle proprie
amicizie per mantenersele buone.
Spesso però quei pacchi subivano una serie di razzie da parte delle kapò o delle
blocove o di quelle molto influenti… sì, sicuramente dovevano mettere qualcosa nel
mangiare, altrimenti non si spiega come più nessuna abbia avuto il proprio ciclo.
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Il dottor Mengele
Ha mai incontrato il dottor Mengele?
Sì. Lui presiedeva sempre alle selezioni, sia per mandare noi o gli ebrei ai forni,
sia per scegliere quelli da vendere alle fabbriche.
Da lui dipendevano milioni di vite umane.
Ricordo che era un bel giovane, aveva un aspetto distinto e a prima vista non sembrava un criminale.
Egli non visitava i prigionieri, li guardava soltanto, e decideva così, con fare indifferente, chi poteva ancora vivere e chi, invece, doveva morire.
Noi lo conoscevamo come il dottore del campo, poi abbiamo saputo chi realmente fosse. Non era lui che ci curava!! Noi eravamo “aiutate” da dottori che erano
anch’essi prigionieri perché, quando arrivavano i trasporti, i tedeschi chiedevano
sempre se ci fossero tra i deportati dei medici. Quei poveri disgraziati si prestavano
come potevano, con coscienza ma senza niente, nemmeno il disinfettante.
Dati raccolti dal libro “Più morti più spazio” di Corrado Saralvo.
Joseph Mengele apparteneva alle formazioni SS. Era il medico-campo a Birkenau nel periodo delle più vaste e feroci operazioni di sterminio e vi rimase fino allo
sgombero del campo all’avvicinarsi delle armate sovietiche.
Era lo specialista della Selezione sia all’arrivo dei convogli sia dentro i blocchi
di lavoro o dell’infermeria.
Alle Selezioni procedeva in modo sempre estremamente sbrigativo. Ordinava ai
detenuti di denudarsi e se li faceva sfilare davanti, passandoli in rivista. Nessuna
considerazione di carattere clinico sembrava presiedere a certe sue scelte che spesso erano arbitrarie. Mengele era alto e robusto ed aveva un viso dai lineamenti regolari, ma con un’espressione estremamente dura e con un’impronta di crudeltà che
quasi l’alterava. Ma in fondo non doveva essere altro che un debole ed un vile, perché gli internati polacchi affermavano che quando arrivavano ordini di ridurre drasticamente i quadri delle SS del campo per sopperire alle crescenti esigenze belliche,
egli ricorreva a tutte le astuzie possibili per evitare di essere spedito al fronte. Quando i gruppi di SS partivano da Auschwitz per andare a combattere, Mengele aveva
sempre qualche “missione speciale” da svolgere, per cui si rendeva indispensabile
la sua permanenza a Birkenau… preferiva il compito di “provveditore delle camere
a gas” a quello di combattente in prima linea.
Mengele avrebbe dovuto essere processato quale responsabile della morte di
milioni di prigionieri, ma dopo essere stato arrestato dagli alleati nel campo di Belsen, si ammalò di tifo e, durante la convalescenza, riuscì a fuggire.
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La fame
Nel campo c’era del personale medico per le prigioniere? C’erano medicine?
Sì, c’era un ospedale, ma per modo di dire...
Ci potevamo andare solo se era proprio necessario, cioè se avevamo la dissenteria o almeno quaranta gradi di febbre.
Per passare la visita bisognava chiedere il permesso alla blocova almeno la sera
prima. Al mattino lei prendeva il numero delle persone che non sarebbero andate a
lavorare, poi chiamava qualcuno per farle accompagnare in ospedale. Prima di entrare dentro la baracca dell’infermeria bisognava spogliarsi e aspettare nudi il proprio
turno.
Dopo la visita, se lo ritenevano necessario, ricoveravano. Ma il revier era
l’anticamera della morte perché le selezioni avevano inizio sempre da lì.
Vi si potevano curare solo le piaghe e la dissenteria, che a causa del mangiare che
ci davano scorreva a fiumi.
I malati venivano sistemati nei castelli4, sulle brandine dovevano starvi dalle due
alle tre persone, e siccome tutte soffrivano di diarrea, è facile immaginarsi che cosa
succedesse.
Le medicine erano inesistenti, e i medici spesso erano costretti a dividere una
compressa di aspirina tra più persone, ossia tra quelle che avevano possibilità di
vivere, le altre erano abbandonate a sè stesse.
Qualche volta riuscivano ad organizzare qualcosa grazie a quelli che lavoravano
nei magazzini; frugando nelle valigie dei prigionieri, specie in quelle degli ebrei, era
facile trovare aspirine, sonniferi, pomate contro i geloni e altri tipi di medicinali.
Anche se era pericoloso, le addette al kommando “Canada”, cioè le persone che
lavoravano nei magazzini dove depositavano ciò che veniva portato via ai prigionieri, se le mettevano in tasca e poi le facevano avere ai medici.
Ma curare migliaia e migliaia di persone con così poco medicinale...
In uno dei miei libri c’è la testimonianza di una dottoressa di origine russa internata ad Auschwitz: lavorava in un sanatorio a Sondrio e, dato che era ebrea,
l’avevano deportata. Appena arrivò al campo, le SS chiesero se ci fossero dei medici, e lei si fece avanti.
Quella povera creatura racconta di essersi trovata tante volte con una sola fiala in
mano e nella condizione di dover decidere se far vivere questa o quell’ammalata, perché altrimenti la medicina non sarebbe bastata a nessuna; deve essere stata una cosa
terribile.
Io, grazie a Dio, non sono mai entrata nel revier. E pensare che dentro Mauthausen una SS mi fece capire che ero tanto magra e malconcia da non avere alcuna possibilità di sopravvivere. Invece non mi sono ammalata e ce l’ ho fatta.
Quando cominciavo ad avere un po’ di dissenteria, per qualche tempo smettevo di
mangiare, avevo la forza di farlo, tanto, con quello che ci davano...
Io ho conosciuto quella dottoressa, nel suo libro lei parla di me e della mia amica.
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4 Le detenute dormivano su tavolati disposti verticalmente, chiamati “castelli”.
Non cita i nostri nomi, ma quando abbiamo letto l’episodio che ci riguardava abbiamo detto: “Queste siamo noi!”.
Quel giorno eravamo fuori la baracca dell’ospedale… ci voleva del coraggio per
chiamarlo così; ad un certo punto abbiamo visto i barili della zuppa fuori il revier.
Allora ci siamo avvicinate per vedere se c’era rimasto qualcosa sul fondo… la zuppa
era spessa e nessuno la rubava; c’era qualcosa che galleggiava. Immediatamente ci
siamo messe a mangiare.
Evidentemente la dottoressa ci deve aver viste, perché è uscita come una furia e,
strillando, si è messa le mani nei capelli e ci ha detto: “No, ragazze, non mangiate: è
lo sputo dei tubercolosi!”.
“Ma noi abbiamo fame!”. Quando lei si è voltata, noi abbiamo continuato a mangiare.
Non c’era niente da fare: avevamo fame!
Bastava... che so, una buccia di patata per terra, e subito un milione di occhi gli
erano sopra. E mentre nessuna voleva far capire di averla vista, piano, piano ci si
avvicinava. Finché qualcuna la mangiava.
Se trovavamo un pezzetto di pane nella spazzatura5, anche se aveva un dito di
muffa, lo pulivamo bene e lo mangiavamo.
Se si trovava in due qualcosa da mangiare, si litigava come bestie… si viveva
odiandosi a vicenda, quasi non ci si poteva soffrire. Ci hanno fatto diventare peggio
delle bestie.
C’era anche il blocco degli infetti, che era circondato da un muro altissimo; la mia
amica aveva qualche foruncoletto sulla pancia e l’hanno portata lì… io non potevo
permettere che ci separassero, così ho cominciato a grattarmi, facendo in modo che
mettessero anche me dentro il blocco. Ricordo che uscivo saltando il muro, rubavo
quello che potevo e poi rientravo dalla porta, perché entrare si poteva, uscire no! Ero
diventata una brava ladra, sapevo organizzare bene le cose. Anche le foglie mettevo
in bocca, e dicevo che, quando saremmo tornate a casa, ci avremmo fatto una bella
insalata.
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5 Generalmente era quella dei prominenter; i detenuti normali non avevano nulla di cui disfarsi.
Le lacrime
Le persone di maggiore istruzione, come la dottoressa di cui mi ha parlato o
Primo Levi, ricevevano un trattamento di favore?
Mah, era tutta questione di fortuna. Primo Levi era stato scelto per lavorare in un
certo modo perché era un chimico, ma poi gli hanno fatto fare un altro lavoro.
Erano pochissimi quelli che potevano esercitare il proprio mestiere.
I dottori, gli ingegneri e gli interpreti erano molto richiesti, anche se ebrei perché
erano la razza più istruita; quando arrivava un trasporto, i tedeschi chiedevano subito se ce ne fossero.
Sul treno che dall’Italia ci ha portato a Mauthausen c’era un signore che conosceva cinque lingue. Quando è arrivato al campo, i tedeschi gli hanno subito assegnato un posto importante. Mi hanno detto che poi è diventato un assassino come
altri pezzi grossi, perché chi occupava una certa posizione poteva mantenerla solo
ammazzando gli altri.
Noi italiane eravamo quasi tutte povera gente, quei posti là toccavano sempre alle
tedesche oppure alle polacche, perché originariamente il campo di Auschwitz era
stato costruito per loro, quindi, finirono con l’occupare tutti i posti di capo-blocco, di
kapò e di stubova.
Le polacche erano cattive, anzi si può dire che erano più cattive delle tedesche:
uno schiaffo dato da una SS si poteva anche tollerare, ma uno dato da una prigioniera no, assolutamente!
Anche quelli che lavoravano negli uffici come impiegati di concetto avevano un
trattamento a parte, lavorando gomito a gomito con i tedeschi, potevano lavarsi,
indossare abiti puliti, portavano lo stesso la divisa, ma almeno era pulita; e poi si
potevano permettere maglioni, mutande, calzettoni, tutto insomma, e potevano mangiare cose migliori delle nostre “prelibatezze”.
Poi c’erano le kapò, cioè quelle che comandavano sul lavoro; erano tremende,
organizzate e traffichine.
Se per esempio arrivava un bidone con cento razioni, loro ne distribuivano solo
settanta oppure ottanta; il resto lo mettevano da parte per commerciare.
Invece la blocova o blockalsten comandava nei block, assieme a tre o quattro che
erano le sue aiutanti, le stubove.
Infine c’erano le raccomandate, amiche della blocova o di una stubova; dicevano
di fare le “pulizie”, invece stavano tutto il giorno in baracca a far niente.
Ogni tanto capitava di vedere in giro dei giovanetti di quindici o sedici anni ben
vestiti e pasciuti, cattivi come la peste, ecco, quelli erano l’amante di un kapò. Fintanto che gli andava bene, venivano trattati con ogni riguardo e potevano permettersi ogni capriccio. Ma se il loro amico cambiava idea per loro sarebbe stata la camera a gas. Anche tra quelli che comandavano c’erano degli italiani; una volta eravamo
in campagna a lavorare in un campo enorme; in mezzo c’era un grosso sasso, dove
di solito si sedeva una SS con a fianco un cane. Un giorno ha chiamato noi italiane e
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ci ha detto che voleva che gli cantassimo la canzone “Mamma” in italiano.
“Allora te sei italiano?”. Gli abbiamo domandato con rabbia.
“Sì, perché?”.
Non l’avesse mai detto, ci siamo scatenate! Le parolacce che gli abbiamo potuto
dire...
Di sicuro era uno che si era venduto per sopravvivere. Allora lui ci ha minacciate: “Lo sapete che cosa vi posso fare?”.
Purtroppo lo sapevamo bene; se qualcuno faceva una cosa che non doveva fare,
le SS lo accusavano di sabotaggio e gli prendevano il numero. E se all’appello serale lo chiamavano, era il bunker...
...e da lì, difficilmente si usciva. Ma noi non abbiamo avuto paura, eravamo così
abituate a guardare in faccia la morte che non ci siamo minimamente preoccupate.
Anzi, certe volte quasi la si pregava, perché almeno, quella vita che non era più
vita, sarebbe finita.
Ricordo che ci siamo alzate la manica e gli abbiamo mostrato il braccio. “Ecco,
prendi il numero se hai coraggio!”.
Eravamo esasperate, non ci vedevamo più per la rabbia. Quando siamo rientrate,
però, avevamo tutte paura.
Invece non ci hanno chiamate.
Un’altra raccomandata era la signorina Margherita. Era un triestina e conosceva
ben cinque lingue. Siccome noi non capivamo quello che la blocova diceva, lei faceva da tramite. Per esempio, quando siamo arrivate in Auschwitz, la blocova ci ha
fatto un discorsetto sulle regole del campo… e chi ci aveva capito qualcosa? Allora
la signorina Margherita ci ha spiegato il significato di quelle parole: non si doveva
bere, non si doveva pregare, non si doveva parlare durante l’appello… altrimenti si
finiva al crematorio, non si doveva piangere...
Invece si piangeva, e tanto! Ma le lacrime si ghiacciavano sul viso,e faceva
più male... il respiro diventava una specie di barba di ghiaccio.
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Il “Kommando Canada”
Indossava la divisa o abiti riciclati dai bagagli dei prigionieri?
Fortunatamente, quando sono arrivata io c’erano ancora disponibili le divise;
dopo, invece, hanno cominciato a distribuire gli avanzi dei vestiti rubati dalle nostre
valigie o da quelle degli ebrei; le cose buone le spedivano in Germania.
La divisa era costituita da una specie di camicione di cotone a righe, un paio di
calze rotte e un paio di scarpe… siccome per loro non faceva differenza, poteva capitare di vedersele assegnate spaiate: due destre o due sinistre, una scarpa piccola e una
grande, una da uomo e una da donna, uno stivale e un sandalo.
Ogni tanto, in coincidenza con la disinfestazione, cambiavano la biancheria, nel
senso che quello che levavo io lo davano ad un’altra e il suo lo davano a me… non
la cambiavano certo per ridarcela pulita…
Bene o male, si cercava di accontentarsi e di tenere quella roba un po’ da conto.
Qualche volta si era costretti a sacrificare una fetta di pane per avere ago e filo con
cui rammendarla, un laccio, un bottone... Se non si aveva niente da vendere, si rubava. Ricordo che poi l’ago con il filo attorcigliato attorno lo tenevamo infilato all’interno della divisa, solo che, siccome non era in dotazione, se non lo si nascondeva
bene, alla prima ispezione ce lo avrebbero portato via.
Noi non avevamo niente, ma nel campo c’era ogni ben di Dio, bastava pagare e
rivolgersi alle persone giuste, cioè alle kapò e alle blocove.
Quando arrivavano i nuovi prigionieri, prendevano le loro cose e le ammucchiavano in grossi magazzini, poi le controllavano con calma per vedere se nei tacchi
delle scarpe o nelle cuciture dei vestiti ci fosse nascosto dell’oro, delle banconote o
dei gioielli; gli ebrei avevano l’abitudine di nasconderli là per non farseli rubare.
In quei magazzini lavorava un kommando che si chiamava “Canada”. Non so perché si chiamasse così. Solo le persone raccomandate potevano entrarci. Certe volte
gli addetti a quel kommando allungavano le mani e rubavano qualcosa; era pericoloso, ma con quello che rubavano facevano mercato con gli altri detenuti oppure con i
civili. Se per esempio si voleva un fazzoletto, bastava chiederlo a loro, sacrificando
mezza razione di pane, lo davano.
I tedeschi ci controllavano frequentemente, evidentemente sapevano di quei traffici; quando ci andava bene facevano finta di nulla. Altrimenti erano legnate.
Ogni tanto frugavano dappertutto oppure fermavano la colonna quando rientrava
dal lavoro e, mentre le SS stavano a guardare, i prigionieri che lavoravano per loro
la controllavano ovunque. Se per caso si era organizzato un cencio e lo scoprivano,
con quattro schiaffoni lo requisivano perché per loro significava sabotaggio.
Io avevo organizzato due fazzoletti. Non ricordo dove li avevo presi… erano preziosissimi, una vera ricchezza! Ero sempre riuscita a nasconderli appallottolandoli tra
i cenci, ma quando sono partita per Ravensbrück me li hanno trovati e presi.
Quelli che lavoravano nelle fabbriche con i civili avevano maggiori possibilità di
“organizzare” qualcosa… anche se a me non è mai capitato, forse perché non erano
italiani ed io non riuscivo a farmi capire.
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“Canada” era un deposito di vestiario, scarpe,
biancheria ed altri oggetti appartenenti ai deportati del
Lager che venivano classificati dai detenuti, sotto la
sorveglianza delle SS e dei Kapos. Tutto quello che era
contenuto nel deposito era destinato alla popolazione
tedesca più bisognosa, la quale dichiarò di ignorare la
provenienza di questi aiuti. I prigionieri addetti al
“Canada” erano privilegiati rispetto agli altri perché,
oltre ad avere la possibilità di lavorare al riparo, il
lavoro non era faticoso ed avevano anche modo di
“organizzare”, cioè di sottrarre gli oggetti o gli indumenti di cui avevano bisogno, utilizzandoli per se, passandoli agli amici, oppure rivendendoli alla borsa
nera.
cfr: Corrado Saralvo “Più morti più spazio”
Oggetti appartenuti ai detenuti e immagazzinati dalle SS: catini, pettini,
scarpe, occhiali...
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Le baracche dei lager
Che dimensioni avevano le baracche e quante persone potevano contenere?
I block erano misti, un vero inferno di lingue.
Di solito, ogni blocco era adibito ad un lavoro per semplificare l’attività; se si
cambiava lavoro, si cambiava anche di blocco. Se si aveva la fortuna di capitare in
uno dove c’era un po’ di spazio, bene, altrimenti, bisognava fare a botte. D’altra
parte, su un tavolaccio già si stava in due o in tre, se arrivava un’altra persona, non
ci si entrava più.
I “letti” avevano un lato murato ed erano
disposti lungo tutto il perimetro del blocco,
formando una specie di letto a castello.
C’erano castelli anche al centro della baracca,
così che si formavano corridoi strettissimi.
Nel lager A i castelli erano disposti su due
piani, invece nel lager B su tre.
Di solito si dormiva due per panca, ma
alla fine si arrivò ad essere molte di più. In
quarantena e durante gli ultimi mesi, quando
i tedeschi sfollavano i detenuti dai campi
vicino al fronte per non farli cadere in mano
ai russi, si dormiva anche per terra. Le tavole
erano lunghe circa mt.1,50; certo erano piccole, ma per noi l’importante era poterci
sdraiare.
Però, se una voleva girarsi o doveva andare in bagno, e capitava che chi avesse la diarrea doveva alzarsi anche più volte per notte,
finiva con lo svegliare le compagne della
Interno di una baracca. I prigionieri sono ammucchiati
branda ed anche tutta la baracca.
nei castelli in quattro, in uno spazio che non era più largo
Ogni baracca avrebbe dovuto ospitare di 80 cm.
200, 300 persone, invece ce n’erano sempre
di più; alla fine della guerra siamo arrivate a 1000, 1500.
Nel lager A avevamo la stufa, che non funzionava mai. Invece nel lager B si diceva che ci fosse il riscaldamento, sulle pareti correva una specie di muricciolo, dove
secondo alcune dovevano esserci i tubi del gas, ma non era vero niente. Avevamo in
dotazione due coperte con cui coprirci, mentre per cuscini usavamo le nostre scarpe,
così non ce le rubavano.
Dormivamo su un pagliericcio che ormai era fatto più di polvere che di paglia
quando al mattino ci alzavamo, lo dovevamo sprimacciare e livellare, altrimenti
erano legnate. Per essere sicure che lo facessimo bene, ogni mattina la blocova e le
sue aiutanti facevano il giro di ispezione.
Nel lager A la blocova non era cattiva. Anche una delle due stubove, Savina, non
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era malvagia; doveva essere una studentessa, perché voleva imparare l’italiano e si
era fatta amica quella che conosceva molte lingue, così lei non andava a lavorare.
Invece l’altra stubova era terribile. Non ricordo come si chiamasse, noi la chiamavamo Cinque, perché non faceva altro che strillare che dovevamo essere in fila per
cinque. Lo strillava in tutte le lingue, e quando la sentivamo ci passavamo parola per
paura che quelle dietro non l’avessero udita. Era piccola di statura, giovane, sempre
con il bastone in mano: una vera belva.
La blocova del lager B era tedesca e portava il triangolo verde, quindi era un
avanzo di galera. Quella era un’altra belva.
Un giorno non ci hanno portato la zuppa dove lavoravamo. Alla sera ci hanno dato
mezza fetta di pane e quando è arrivato il bidone della zuppa, ci hanno dato solo un
mestolino da un quarto invece che uno grande. Ricordo che ho rifatto la fila, ma la
“blocova avanzo di galera” mi ha riconosciuta (a noi italiane ci riconoscevano sempre, chissà perché?!) e mi ha dato due legnate: una mi ha presa il collo lasciandomi
il segno, l’altra l’ho parata con la mano, ma così mi ha spaccato il polso… e non ho
avuto la zuppa.
I gabinetti erano sistemati in un’altra baracca lunga, attraversata da un muricciolo con dei basamenti di cemento corrispondenti e un pozzo in comune, quindi, quando qualcuna aveva la diarrea... al mattino i gabinetti traboccavano. Ma si doveva
stare attenti a non sporcare, perché altrimenti erano guai! Dovevamo pensarci noi
detenute a pulirli.
Come faceva ad andare al bagno?
Non eravamo libere di andarci quando volevamo e poi mancava l’acqua. Nel
lager A non c’era assolutamente, ma quello era il campo della quarantena e degli
ebrei, e siccome ci doveva trasformare in bestie, non poteva esserci l’acqua.
Il lager A era una cosa tremenda, significava morte certa. Invece il lager B...
Oddio, al posto dei tavolacci di legno del lager A c’erano i castelli, ci si stava in
due o tre, però... anche la coperta era un pò più... no, anche se mi sforzo non riesco
a trovare una parola bella...
Però nel lager B c’era un filo d’acqua. Allora al mattino, dopo aver fatto la fila,
ci lavavamo la faccia, anche se magari non ne avevamo la forza, ma in fondo avevamo ancora un po’ di personalità che ci spingeva a dire: “Poterci lavare la faccia!”.
Però non avevamo niente con cui asciugarci. Quando ci spogliavamo, mettevamo
quei quattro cenci che avevamo in mezzo alle gambe, altrimenti ce li rubavano. Ma
così era impossibile lavarsi.
Quando andavamo a fare la doccia, invece, bene o male ci davamo una pulita.
Anche per i bisogni non avevamo nulla con cui pulirci ed asciugarci; usavamo gli
stracci che avevamo addosso.
Quando lavoravamo in mezzo alla campagna usavamo quelle specie di baracche
che si possono spostare da una parte all’altra, ma prima dovevamo chiedere il permesso, e se dicevano di no era no. La stessa cosa succedeva in fabbrica, bisognava
chiedere il permesso, altrimenti ci potevano anche sparare.
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Da qui non si esce vive!
Lei è stata trasferita da Auschwitz a Ravensbrück il 27 ottobre del 1944.
Che atmosfera regnava nel campo all’epoca della partenza?
Quelli sono stati i giorni più brutti. I tedeschi smisero di portarci a lavorare; il
fronte era vicinissimo e noi eravamo sicure che da lì non saremmo uscite vive.
Eravamo sballottate di qua e di là, poi un giorno ci hanno portate in un sotterraneo pieno di roba, un fatto davvero eccezionale, perché a noi prigionieri era proibito
entrare in certi locali; ci hanno anche permesso di approfittare.
Allora abbiamo pensato che fosse veramente finita; ricordo che non facevamo
altro che ripetere: “Da qui non si esce più vive”.
Poi è arrivato l’ordine di partire. Prima però, ci hanno fatte spogliare e ci hanno
portate di peso a fare la doccia… eravamo terrorizzate, avevamo paura che ci volessero ammazzare gasandoci.
Quando abbiamo visto uscire dai tubi acqua e non gas abbiamo tirato un sospiro
di sollievo. Dopo ci hanno distribuito abiti di tela grigia a mezze maniche... eravamo
in ottobre… ci diedero una specie di pastrano per coprirci.
Sulla banchina in attesa del treno c’erano quattrocento donne: duecento ariane e
duecento zingare, e dato che i tedeschi trattavano gli zingari come gli ebrei, è possibile immaginare che cosa abbiamo pensato in quei momenti. Inoltre, per arrivare alla
ferrovia ci hanno fatto passare nel settore dove c’erano gli alloggi delle SS, una cosa
impensabile, mai accaduta prima. Abbiamo persino potuto sbirciare dentro le finestre!
Eravamo certe che per noi fosse arrivata la fine. Dopo un po’ sono arrivati i carri
bestiame e ci hanno fatte salire.
Il treno si mosse in direzione dell’uscita ma, trascorsi dieci minuti, si bloccò di
colpo e tornò indietro.
I pianti e gli strilli...!! Abbiamo cominciato a gridare come matte, perché eravamo sicure che ci portassero al crematorio. Eravamo là da sette mesi e avevamo visto
altre volte il treno tornare indietro e sparire dietro i cancelli dei forni.
Invece.. il treno si fermò in stazione, e qualche ora dopo partì veramente.
Chissà se c’era stato un contrordine... se fosse successo prima, saremmo finite di
sicuro al crematorio.
Quando ho sentito che il treno ricominciava a camminare e ho visto il cancello
della stazione, ho cominciato a pregare: “Gesù mio, perdono tutti basta che di qua
esco!”… senza sapere che ci aspettava ancora il peggio.
Appena siamo arrivate a Ravensbrück ci hanno messe con le zingare sotto una
tenda immensa6. Io e la mia amica ci siamo strette per scaldarci, abbiamo buttato un
pastrano per terra e un altro ce lo siamo messe addosso.
Ad un certo punto una zingara è passata vicino a noi, e come se nulla fosse, quella brutta bestia ci ha fatto la pipì addosso. Io non ci ho visto più… sono saltata su,
l’ho presa e le ho dato tante di quelle botte che solo Dio lo sa.
Il mattino dopo ci hanno perquisite. Io avevo ancora con me una catenina
6 Deve essere la stessa di cui parla Lidia Beccaria Rolfi nel suo libro.
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d’argento che ad Auschwitz ero sempre riuscita a nascondere perché, quando facevano i controlli, la mettevo sotto la lingua; là, invece, me l’ hanno portata via.
A Ravensbrück ci hanno fatto anche la visita alla vagina, malgrado fossimo
ragazze! I medici erano donne e ci chiesero se eravamo fraulen o frau, cioè signorine o signore. Non è stata proprio una visita approfondita... però ci hanno fatto anche
questo. Infine ci hanno mandate dentro i blocchi, in baracche già strapiene e di nuovo
in mezzo alle zingare. Dio, che cosa è stata la convivenza con gli zingari!
Dovevamo stare attente, perché rubavano tutto, anche quella miseria che ci davano da mangiare. Dopo non so che fine abbiano fatto, perché noi siamo state mandate a lavorare in una fabbrica lontana.
In alcuni libri Ravensbrück è descritta in termini qualitativamente migliori
rispetto ad Auschwitz: si parla di lenzuola, di tovaglie, di tendine alle finestre...
Che cosa c’è di vero in quelle testimonianze? Ravensbrück era davvero così
diversa da Auschwitz?
Sì, ma solo i primi tempi. Poi, è diventata uguale agli altri campi.
Ricordo che la prima cosa che ci colpì entrando furono le baracche di quelle che
comandavano: avevano le tendine alle finestre e le coperte a quadretti sui castelli.
In ogni block c’era ancora il tavolo con gli sgabelli intorno7. C’era pure il gabinetto, ma non vi si poteva entrare perché gli escrementi uscivano fuori, però... i primi
tempi deve essere stato sicuramente possibile. Quando abbiamo visto tutte quelle
“comodità” abbiamo pensato un gran bene. Dopo le cose sono peggiorate anche lì.
Come si svolgeva la vita nel lager di Ravensbrück?
Sono arrivata a Ravensbrück il 29 ottobre e dopo quindici giorni sono stata selezionata per andare a lavorare in fabbrica, ma siccome distava circa 100 km, ci hanno
fatte alloggiare in un piccolo campo lì vicino.
Quando comandavano la selezione bisognava spogliarsi e passare nudi davanti al
capo-campo, al dottore delle SS ed ai capoccioni delle fabbriche… il nudismo era di
moda, nessuno sembrava farci più caso. Allora ci gonfiavamo tutte, ci sfregavamo
forte la faccia per far vedere che stavamo bene.
Ho partecipato a quattro o cinque selezioni: due volte a Ravensbrück, dove una
volta ricordo che eravamo tornate dalla fabbrica e le nostre condizioni erano davvero pietose, due volte ad Auschwitz. Avrei dovuto esserci abituata, invece… Comunque, mi hanno scelta e sono partita.
Ma ero sola, perché la mia amica Gina era stata evacuata ad agosto. Quella di
Como, che era una bella ragazza, era partita a luglio. Agnese, invece... Agnese era
un’operaia di mio padre, sottile come un filo.
Era così emotiva che bastava che papà alzasse un po’ la voce che subito doveva
correre in bagno! Ricordo che una volta le SS ci avevano messe in fila per andare a
lavorare, lei si è spostata un po’ e subito ha avuto il cane addosso… l’ ha mezza divorata. E’ stata ricoverata in revier un paio di giorni, poi è partita con un kommando.
Noi avevamo un comandante che non era cattivo, ma la capo-campo, che era un
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7 Ad Auschwitz la situazione aveva raggiunto livelli insostenibili: la gente mangiava seduta sopra o sotto i tavoli in un caos indescrivibile.
avanzo di galera arruolata tra le SS, era la persona più abbietta che potesse esistere…
da lei solo botte, appelli… Tra l’altro era l’amante del comandante, quindi...
Però, quel giorno che siamo partite da Finufmark (??), mi pare che il campo si
chiamasse così, lui le ha dato una lezione che avrà ricordato tutta la vita.
Lei era sul tetto di una baracca e inveiva verso di noi, e mentre uscivamo abbiamo visto il comandante darle due schiaffoni… si vede che non ce la faceva più nemmeno lui.
In fabbrica la vita non era disperata come nei campi grandi.
Innanzi tutto lavoravamo al coperto, e per noi era una vera benedizione. Quasi
tutte avevamo una cuccetta, anche se poi ci stavamo in due o in tre per scaldarci.
Avevamo anche il riscaldamento… per modo di dire, naturalmente, perché nella
nostra baracca passavano i tubi che dalla caldaia andavano in cucina e lasciavano un
po’ di calore.
Le baracche erano di legno, mentre ad Auschwitz erano di mattoni; un tempo erano
state occupate da quelli che avevano lavorato per la Germania, poi le diedero a noi.
Il mangiare era scarso: una fettina di pane ed un mestolino da un quarto senza sale
e senza niente. Eppure, ci ritenevamo fortunate perché avevamo la possibilità di lavorare al coperto.
Forse è difficile capire tanto entusiasmo, ma in Polonia il freddo è lungo e duro.
Quando arrivai ad Auschwitz mancava qualche giorno alla fine del mese di marzo, la
temperatura era intorno ai diciotto gradi sotto zero! Quindi è facile immaginare che
sarebbe stato impossibile sopravvivere se non avessimo avuto la possibilità di ripararci. Invece noi l’inverno lo abbiamo trascorso al coperto; dovevamo fare un po’ di
strada a piedi perché dal campo alla fabbrica c’era circa mezz’ora di cammino, con
la pioggia o con il gelo, però... poi, almeno avevamo un tetto sopra la testa.
Mi ricordo che attraversavamo sempre una bella pineta.
Una volta capitammo in mezzo a un’incursione aerea. Gli aerei cozzavano gli uni
con gli altri. In Auschwitz è capitato parecchie volte, perché vicino al campo c’era la
contraerea. In più di un’occasione ci ha sorprese mentre eravamo in mezzo ai campi;
ricordo che quando si preparava un bombardamento, i cavalli impazzivano e i cani
scappavano. Anche le SS correvano a nascondersi.
Noi smettevamo di lavorare, ma non potevamo andare a nasconderci perché avevano paura che scappassimo. Allora ci mettevamo in testa la gamella e ci accucciavamo a terra. Mi ricordo che dicevamo: “Mettiamoci la gamella in testa, perché se
viene giù qualche scheggia almeno ci protegge”.
E qualcuno rispondeva: “No, no, perché se ci bucano la gamella non possiamo più
prendere la zuppa”.
Ma non ci è mai successo nulla, malgrado le schegge volassero da tutte le parti.
La mano di Dio ci preservava, perché certe volte, proprio quando sentivamo in
lontananza il ronzìo degli aerei, sopra Auschwitz calava una nebbia così fitta che non
si vedeva più niente. Gli aerei giustamente non ci vedevano, e così non abbiamo
rischiato di essere bombardati e uccisi.
Quando lavoravamo in fabbrica, non appena suonava l’allarme ci facevano scen63
dere con i civili in una specie di rifugio… per noi era una gran gioia, perché per un
po’ non si lavorava; se trovavamo un posto ci mettevamo a dormire, poiché laggiù
c’erano delle grosse panchine.
Mangiare e dormire per noi era tutto quello che contava, tanto che, quando cadevano quelle grosse bombe e la terra sussultava, noi esclamavamo: “Accidenti, mi
hanno fatta svegliare!”.
Le finestre delle baracche erano grandi e quando arrivava la sera, le sorveglianti
le chiudevano con i lucchetti per paura che qualcuna scappasse. C’era persino il
bagno, dove era possibile provare a lavarsi, con delle finestrelle piccole e piuttosto
alte; quando arrivavano gli aerei, ci cacciavamo tutte lì per vedere. Che spettacolo!
Arrivavano a coda di rondine, ed andavano diritti verso Berlino, che era distante una
sessantina di Km; ricordo che, quando scendevano giù, quelle bombe sembravano
tanti confetti! Era la nostra felicità, perché significava che presto o tardi saremmo
state libere.
Quei civili che lavoravano con voi in fabbrica non hanno mai provato a chiedervi chi foste?
Non potevamo assolutamente parlare, nonostante noi avessimo la fortuna di avere
come capo un ingegnere molto umano. Anche il comandante della mia amica era
buono, però non potevamo scambiare una parola perché se ci avessero scoperti sarebbero finiti nei guai loro, i capi sarebbero finiti al nostro posto… era molto, molto
pericoloso. Si lavorava a ciclo continuo secondo due turni: uno dalle sei del mattino
alle sei di sera, l’altro dalle sei di sera alle sei del mattino. Quando avevamo il turno
del mattino, ci dovevamo alzare alle quattro per fare prima l’appello.
Si lavorava solo dodici ore, mentre ad Auschwitz si lavorava finché c’era il sole,
quindi in estate si stava in piedi dalle tre del mattino alle nove di sera.
C’erano ugualmente i tedeschi, ma almeno lavoravamo all’asciutto, riparate dal
freddo o dal caldo e con la possibilità di guadagnare qualche pezzetto di pane in più,
qualche briciola.
In mezzo a tutto, io ero stata fortunata. Mi ricordo che fabbricavo i bossoli da
mitraglia, ogni bossolo, che poteva essere di varie grandezze, doveva venire immerso in un bagno d’acido; secondo il calibro che aveva, si doveva infilare su di una specie di alberello ed immergerlo in varie vasche, fino ad arrivare alla macchina dov’ero io; li dovevo prendere e mettere su una ruota ad asciugare: la macchina aveva tanti
buchi, e da quelli usciva aria calda. Quell’inverno non ho avuto freddo perché lavoravo al coperto e vicino a quella macchina.
Quando ci davano un quarto d’ora di tempo per mangiare, a mezzogiorno o a
mezzanotte, noi ne approfittavamo per dare una lavata ai nostri stracci sporchi. Poi,
li mettevamo ad asciugare sopra la macchina dalla quale usciva aria calda.
La nostra era una vita disperata e si regrediva sempre di più, come mangiare,
come vestire, come tutto. Eravamo dei miserabili, ma in quel periodo avevamo almeno un tetto sulla testa; però, non potevamo allontanarci per andare in bagno, avevamo l’orario, e comunque bisognava chiedere il permesso. Ricordo che una notte
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stavo morendo per il mal di pancia, allora sono andata dalla auseherin e piangendo
le ho detto: “Io ritorno, io ritorno”… mi ha lasciata andare.
Appena si rientrava in campo c’era l’appell, poi ci distribuivano quel poco di cibo
e dopo si poteva andare finalmente a dormire. Ma quella vipera... magari ci si era
appena sdraiati sul letto che suonava di nuovo il fischietto, era il segnale che dovevamo tornare fuori all’appello!
Dovevamo stare due o tre ore in piedi a fare nulla, mentre quella disgraziata passava e faceva finta di contarci. Poi fischiava e si poteva tornare dentro. Ma non si
faceva in tempo a sdraiarsi su quel pezzo di legno che ancora fischiava: “appell”.
Ricordo che per quella ragione là il direttore della fabbrica dove lavoravo aveva
protestato, e giustamente. Ma come si poteva pretendere che uno lavorasse bene se
non aveva potuto dormire? Vinti dal sonno e dalla stanchezza, rischiavamo anche di
farci male o, per loro cosa sicuramente più importante, di compromettere la produ zione. Diceva: “Per me sono operai migliori dei civili, perché i civili dobbiamo
rispettarli, mentre questi non li rispettiamo e li facciamo lavorare fino a ridurli allo
stremo delle forze…! Almeno fateli vivere!”.
Il direttore era un ingegnere, uno che aveva studiato e sapeva il fatto suo.
Era abbastanza umano con noi… certo, rispetto agli altri… veramente una brava
persona. Se per esempio si trovava a passare per l’ispezione mentre noi caricavamo
sui carrelli le scatole dei bossoli da mitraglia, e ogni scatola ne poteva contenere
anche tremila, si fermava e ci dava una mano.
Più di una volta si è scontrato con i capi del campo per noi. Una volta ci disse:
“Se va avanti così, io rischio di mettere la vostra divisa!”.
Un’altra volta litigò per via del mangiare, che era scarsissimo, lui andò al campo
e bisticciò con il comandante, facendoci ottenere qualcosa in più e un piccolo supplemento: un pezzetto di pane due volte la settimana. Poi, invece, quelle canaglie non
ce lo hanno dato più.
Era umano. Tra i civili ce n’era uno piuttosto anziano di nome Erik, si chiamava
come mio padre, Enrico; se poteva, mi allungava un pezzetto di pane.
Chi conosceva la lingua stava meglio, perché poteva provare a farsi dare qualcosa da mangiare e poteva anche sabotare le cose che facevano. Le russe, per esempio,
sabotavano le maschere antigas bucandole con le unghie, perchè loro capivano che
cosa dicevano e facevano esattamente l’opposto; noi italiane invece non conoscevamo la lingua e non capivamo nemmeno quello che dovevamo fare. Non riuscivamo
a scambiare due parole, figuriamoci se potevamo sabotare! Ricordo che ci insegnavano cosa fare a gesti e che ci si parlava facendo dei segni.
Quando è tornata a Ravensbrück?
Nella primavera del 1945.
Il fronte era vicino e noi eravamo ormai troppe rispetto alla domanda; così hanno
chiuso la fabbrica ed evacuato il campo dove stavamo, rispedendoci a Ravensbrück.
Però non ce lo dissero subito e così, quando ci hanno fatte salire sui carri, siccome si
diceva che bruciassero tutti i trasporti, specialmente quelli conciati come noi, ci
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siamo spaventate ed abbiamo pensato che ci portassero dritte al crematorio.
Malgrado non ce la facessimo più, volevamo ancora vivere… poi, quando siamo
arrivate, non abbiamo visto il fumo. E fuori il cancello c’erano dei camions della
Croce Rossa. Noi, però, non ci siamo fidate, avevamo paura che fosse un trucco,
come quello che adoperavano per bruciare gli ebrei.
Mentre ci stavamo avviando al campo, ci è venuta incontro una slovena che aveva
lavorato con noi in fabbrica e che era partita prima di noi. Le abbiamo chiesto se bruciavano ancora. Lei ha risposto: “No, non bruciano più”. Infatti non ci hanno bruciate.
Poi abbiamo capito cosa stava succedendo.
Come siamo entrate, abbiamo visto nei blocchi che comandavano delle prigioniere che stavano tranquillamente sedute a chiacchierare, in carne e con la divisa a righe
nuova. Erano prigioniere francesi destinate ad essere rimpatriate, ed a noi ci è sembrata una cosa strana, ma la Francia aveva fatto davvero un accordo con la Germania.
La Francia era stata la sola ad accettare di scambiare i prigionieri, il baratto era:
dieci SS per ogni francese.
Parecchie francesi sono state liberate così; naturalmente prima davano loro da
mangiare per un po’ di giorni e le ripulivano da capo a piedi, poi avveniva lo scambio.
Dopo i primi scambi, i tedeschi hanno smesso di fucilare e di bruciare la gente,
perché davanti ai campi arrivavano i camions della Croce Rossa, i cui componenti
evidentemente raccontavano quello che vedevano… ma allora perché non è intervenuto nessuno?
Non mi ricordo dove l’ ho letto, ma persino il Vaticano sapeva.
Del resto, se partivano tutte quelle persone, possibile che nessuno si domandava
che fine facessero?
Forse a chi comandava non importava nulla.
Ricorda gli ultimi giorni di Ravensbrück?
Gli ultimi giorni non si faceva più niente. Ricordo che andavamo in giro, quando
invece di solito era proibito stare senza far niente; io e quella ragazza con cui ero
rimasta chiedevamo se c’erano italiane. Da una delle tante baracche, da cui uscivano
fuori tantissime teste, ne sono spuntate due, ed una disse: “Sì, siamo italiane”…
… Erano Bianca e la sorella Bice Paganini.
Poi le ho perse di nuovo di vista.
Ci siamo ritrovate dentro una baracca che confinava con un campo di raccolta di
militari mentre sfollavano il campo; siamo rimaste sedute tutta la notte, perché non
c’era più spazio e non potevamo sdraiarci.
Dopo esserci perse ancora, ci siamo ritrovate dopo libere e siamo rimaste assieme
per tutti i mesi che precedettero il ritorno a casa; io e Bianca stavamo sempre insieme ed eravamo le più spericolate.
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Dove la propria salvezza avrebbe potuto pregiudicare
quella di qualcun’altra
Bianca Paganini è autrice di una delle storie di deportazione femminile contenuta nel volume Le donne di Ravensbrück. Elisa la conobbe dopo l’evacuazione del
campo presso la fabbrica di materiale bellico in cui lavorò durante l’inverno del
1944.
Bianca e Bice Paganini, sorelle di La Spezia, erano state arrestate nella primavera del 1943 con l’accusa di spalleggiare i partigiani. L’opinione di Elisa a proposito dei partigiani è un pochino critica, o forse sarebbe meglio dire “disincantata”.
Secondo lei, rispetto alla moltitudine che dopo la fine della guerra si proclamò
esponente del movimento di liberazione, solo una minima parte sarebbe stata davvero degna di fregiarsi di quel titolo, se così lo si può definire.
Tante persone avrebbero sposato la causa partigiana solamente per scappare o
per approfittare della confusione regnante all’indomani della liberazione. Una di
quelle persone che veramente si prodigò fu, a suo giudizio, una partigiana triestina
di cui conosceva e conosce solo il nome di battaglia: Itta.
La conobbe ad Auschwitz insieme ad un’altra partigiana di nome Paola. Non ha
mai chiesto o saputo quale fosse il suo vero nome; la prigionia toglieva la forza o
la voglia di chiedere forse perché ricordare faceva troppo male.
Le raccontarono però la loro storia.
Itta e Paola collaboravano entrambe con i partigiani. Catturata, Paola era stata
torturata brutalmente affinché rivelasse il nome del suo comandante, che altri non
era che Itta. Alla fine Paola parlò e Itta venne arrestata. Ma non le portava rancore, ben sapendo che nella prigione di Trieste la poverina era stata sottoposta a torture mostruose, come le percosse inferte a viva forza nella natura con bastoni chiodati.
Le tre donne si rincontrarono durante l’evacuazione di Ravensbrück.
All’epoca Elisa era uno scricciolo di ventinove chili, mentre la sua amica Itta ne
pesava venticinque.
La partigiana triestina fu colei che incoraggiò il gruppo durante tutta la marcia
di sfollamento.
Da allora non l’ha più rivista, né ha idea della fine che fece; avrebbe voluto cercarla, sapere se fosse ancora viva e quindi tornata, ma conoscendo solo il nome di
battaglia,” Itta di Trieste”, la cosa le parve impossibile.
L’idea di conoscersi meglio non sembrava sfiorare le detenute; i racconti e le
parole velate di tristezza di Elisa non sembrano ammettere repliche.
In un ambiente saturo di egoismo e violenza ognuna viveva per se stessa, senza
soffermarsi a pensare che la propria salvezza avrebbe potuto pregiudicare quella di
qualcun’altra, che il pezzo di pane rubato sarebbe poi mancato ad un’altra persona.
In Auschwitz ebbe spesso l’occasione di lavorare con una donna di Monza che,
piccola ma gran lavoratrice, si sforzava di “riportare a casa le ossa faticando come
un mulo”.
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Quando vedeva che al suo gruppo erano assegnate Elisa e una certa Maria
Colombo, dava letteralmente in escandescenza, perché le considerava fiacche, molli
e inaffidabili. Lei ora se la ride, ma sembra anche essere cosciente del perché quella tizia reagisse a quel modo: era l’istintiva percezione del pericolo a cui avrebbero
potuto sottoporre tutto il gruppo a farla scattare.
Un altro episodio rende perfettamente l’idea del clima che aleggiava nel lager.
Quando giungeva il periodo della trebbia, le detenute erano tenute a legare la
paglia formando dei covoni. Il ritmo era frenetico e non sempre lei e quella Maria
Colombo riuscivano a sostenerlo. Così, approfittando della confusione che regnava
attorno ai camions, si nascondevano in fondo, suscitando le ire della donna di
Monza.
A mente fredda e a distanza di tanti anni, Elisa conviene che tutte, nessuna esclusa, erano disperatamente egoiste; chi lavorava metteva a repentaglio la vita di chi
non lavorava, e chi non si prestava o non ce la faceva a tenere il ritmo aggravava la
fatica di chi non si risparmiava. Trebbiare non era solo fatica, ma anche polvere e
sporcizia che durante la quarantena non potevano lavare via.
La pelle cominciava a prudere, e grattarsi non sembrava alleviare assolutamente il senso di fastidio provocato dallo strato di sporcizia che la ricopriva.
Se in quarantena era proibito lavarsi, successivamente il rito della doccia diventava una sottile forma di tortura. Ciclicamente i tedeschi effettuavano delle disinfestazioni: costringevano i detenuti a lavarsi, ma senza acqua calda e sapone, e sterilizzavano i vestiti. Nonostante l’accortezza di farli legare in un certo modo così da
far spiccare il numero cucito sulla manica, spesso venivano restituiti alla rinfusa.
I prigionieri venivano condotti alle docce di ritorno dal lavoro, fatti svestire e
costretti ad aspettare all’agghiaccio, nudi, il proprio turno. Dopo di che, dovevano
attendere la restituzione degli indumenti. I tempi dell’operazione di sterilizzazione
erano esasperatamente lunghi, tanto che i vestiti venivano riconsegnati solo al sorgere del sole e olezzanti di gas. Nel frattempo i detenuti non potevano ritirarsi nelle
baracche, dovevano restare all’aperto in piedi, nudi e completamente digiuni. Né
serviva poi veramente a qualcosa, dal momento che i ledini dei pidocchi invece che
morire si giovavano del calore.
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L’evacuazione di Ravensbrück
Dopo che evacuarono Ravensbrück, che cosa
accadde?
Marciammo per giorni e giorni, riposando ogni
tanto. Ricordo che quando ci sdraiavamo sentivamo la terra tremare per i bombardamenti. Le russe
erano felici, perché sapevano che quei colpi erano
sparati dai loro soldati e che quindi erano vicini.
I tedeschi avevano intenzione di imbarcarci per
poi affondarci in mezzo al mare. Per fortuna che
non ci sono riusciti!
Circa 3000 deportati morirono dopo la liberazione, erano esausti ed incapaci di riprendersi nonostante le cure.
Una notte le SS ci svegliarono
e ci dissero che dovevamo stare
pronte a partire. Ma dopo un po’
scomparvero.
Non sapevamo che fare, qualcuna suggeriva di scappare, ma
Piroscafo carico di deportati fatto bombardare nella rada di Lubecca: avevamo paura che fosse un
ebbero la stessa sorte il Cap Arcona, l’Athena, la nave Thielbeck e la Deutmodo per ucciderci. Poi le SS
schland.
sono tornate e, a forza di urla,
strilli e bastonate ci hanno riunite e fatte camminare, ma poco dopo scomparvero di
nuovo.
A quel punto abbiamo visto le russe entrare dentro una specie di masseria. Anche
noi volevamo andare dentro con loro, ma non ce lo hanno permesso. Vicino alla casa
c’era uno sgabuzzino, una specie di ripostiglio per gli attrezzi; lì ci hanno fatte entrare a riposare.
Eravamo venti persone, ammassate le une sulle altre; tra queste, solo io e la mia
amica eravamo italiane, e poi c’era qualche slovena.
Le russe non avevano pace, guardavano sempre fuori la finestra. E noi, povere
stupide, non capivamo che cosa avessero. Poi le abbiamo viste abbracciarsi e baciarsi, allora ci siamo affacciate anche noi.
Abbiamo visto i camions tedeschi rivolti verso nord, mentre prima sfilavano
davanti alla masseria dirigendosi verso il fronte cioè a sud. Inoltre molti si fermavano perché in fiamme.
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Ci siamo girate verso la casa dei contadini e abbiamo visto che c’era la bandiera
bianca… allora abbiamo capito che era davvero finita. I contadini ci hanno fatte uscire dallo sgabuzzino e ci hanno fatte sistemare dentro il fienile dandoci una scodella
di latte per ognuna di noi. Bontà loro, a noi ci sembrava di sognare!
Quando la mattina dopo ci siamo svegliate, non c’era più nessuno. Lì, la guerra
era finita. Era il 5 maggio, non avevamo mai perso la nozione del tempo, e sapevamo sempre che giorno fosse.
Ci siamo incamminati assieme ad altri prigionieri. “Andiamo in su, così raggiungeremo
l’Italia”, ci dissero; ma eravamo dalle parti di
Stettino, e camminando verso nord non saremmo
mai tornate a casa.
Cammin facendo siamo arrivate in un paese e
ci siamo fermate in una grande piazza… eravamo delle povere creature strascicanti un mucchietto d’ossa, quattro stracci e tanti pidocchi.
In quel piazzale c’erano dei carri armati russi.
Non era la prima volta che li vedevamo, ma mai
così grandi! Li chiamavano “la voce di Stalin”.
C’erano anche delle soldatesse; poi abbiamo
visto una colonna di soldati tedeschi che passavano e gettavano le armi davanti ai carri russi,
però non erano trattati male. Devo dire che la
cosa ci ha fatto veramente piacere. Non so dove
Aprile 1945, evacuazione del campo di Dachau.
li abbiano messi, forse, in qualche campo.
Dopo un pò, cominciarono a sfilare colonne
di soldati. Noi chiedevamo se c’erano italiani e, finalmente, qualcuno ha risposto;
così ci siamo uniti a loro, eravamo quattordici o quindici.
Lungo la strada abbiamo anche ritrovato le due sorelle di La Spezia.
La prima cosa che abbiamo
fatto è stato di organizzare il
mangiare. Finora ci eravamo
arrangiati spolpando le carogne
dei ronzini morti che avevamo
incontrato lungo la strada, perché le radici e le patate non ci
bastavano più. Ricordo che ci
avventavamo sopra la carcassa
e la scuoiavamo a furia di
morsi, tanta era la fame, ma
mangiare così era bestiale.
I ragazzi sembravano un pò
più
esperti di noi, ed hanno
Detenute di Auschwitz liberate dai Russi.
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rubato una specie di cavallo ed allestito un carretto, caricandolo con la roba dei
magazzini delle case abbandonate dai tedeschi: marmellata, zucchero, farina.... Dio
solo sa quanta roba hanno preso! Alla fine il carretto era così pieno che dovevamo
spingerlo, sedendoci sopra a turno.
Ad un certo punto “il Duce”, (è così che avevamo chiamato il ronzino), muore e
ci pianta in mezzo alla strada; allora ci siamo riparati in una casa.
I russi non ci dissero nulla, potevamo andare dove volevamo e, se avevamo bisogno di qualcosa, entravamo nelle case dei tedeschi ed avevamo il permesso di prenderci tutto quello che ci serviva. “Arrangiatevi, vestitevi e fate quello che volete”, era
questo quello che in sintesi ci dicevano.
Così noi siamo andati dentro una casa dove c’era ancora una signora. Però, siamo
stati bravi perché ci siamo sistemati nelle camere al piano di sopra e non ci siamo
comportati come i russi, che erano già stati lì e avevano fatto tutto quello che volevano. I russi non rubavano niente! Quando entravano dentro e vedevano piatti e
argenteria, buttavano tutto giù dalla finestra, a sfregio. I tedeschi lo avevano fatto in
Russia, loro lo facevano in Germania.
Anche con le donne facevano la stessa cosa. A noi nessuno ha mai torto un capello, né i russi, né gli americani, né gli inglesi. Invece alle donne tedesche hanno fatto
passare i guai: i tedeschi lo avevano fatto in Russia, loro lo facevano adesso in Germania.
Sicuramente i proprietari erano stati dei gran signori, perché in un angolo a terra
abbiamo trovato un mucchio di posate d’argento.
Dentro quella casa non abbiamo trovato solo l’argenteria, c’erano anche grossi
armadi a muro pieni di biancheria e lenzuola. Allora ci siamo organizzati, abbiamo
aperto e rovesciato fuori tutto. C’erano anche dei vestiti, che però erano enormi.
Ricordo che ho preso dall’armadio una giacca di lana verde, quando me la sono
messa addosso, la signora ha esclamato: “La giacca di mio marito!”… l’ ho lasciata.
Ci siamo fermati in quella casa per qualche giorno, avevamo da mangiare e potevamo dormire quanto volevamo. Poi è arrivato l’ordine di andare via. Allora abbiamo ripreso il nostro carretto e siamo partiti.
Riprendemmo il cammino. Quando la colonna si fermava, le russe erano sempre
le prime ad accendere un fuoco e a raschiare un po’ di radici per mangiare. Se noi italiane ci avvicinavamo, ci picchiavano di santa ragione.
Spesso ci si affiancavano colonne di prigionieri militari, tra quei disgraziati
c’erano anche degli italiani, quelli con i quali tentammo di scappare quando eravamo ancora in mano ai tedeschi che ci stavano evacuando da Ravensbrück per portarci verso il Baltico; il tentativo fallì e purtroppo ci ripresero, ma non ci fecero nulla
grazie all’intervento di una SS...
In mezzo a tante bestie, quella fu la sola che si dimostrò un po’ umana verso di
noi. L’avevamo conosciuta ad Auschwitz, e la ritrovammo mentre da Ravensbrück ci
evacuavano verso il Baltico. Fu lei a salvarci, perché i soldati tedeschi che ci ripresero volevano fucilarci.
Quando ci rimettemmo in cammino ci trovarono gli inglesi e ci portarono via tutte
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le cibarie lasciandoci solo i vestiti; poi ci hanno portato dentro un ex campo di concentramento dove erano entrati gli americani. Eravamo solo quindici ragazze, mentre per il resto erano tutti soldati fatti prigionieri. Per prima cosa ci hanno fatte lavare. Ricordo che vicino alle docce c’erano dei barattoli pieni di una polvere bianca; lì
per lì abbiamo pensato che fosse borotalco; ci facevano segno di mettercelo dappertutto e noi dicevamo: “Guarda che gentilezza, anche il talco ci hanno dato!”. Invece
era DDT per i pidocchi.
Ho un brutto ricordo di quelle bestie; quando ne parlo, mi viene di grattarmi dappertutto!
Il comandante provvide a darci una baracca a parte, dove noi abbiamo steso a terra
i pagliericci. Quella notte lì è stata fantastica, eravamo libere e pulite, finalmente dormivamo con la camicia da notte che avevamo rubato, ed in mezzo alle lenzuola, rubate anche quelle.
Non avevamo un vero letto, ma eravamo felici, per me era come dormire in un
letto di piume. Non ricordo dove fosse quel campo e come si chiamasse, perché i
nomi erano scritti in un modo quasi illeggibile... Lì siamo rimaste parecchio; il mangiare non mancava, perché un po’ ce lo davano gli americani, un po’ si rubava, un po’
ci si arrangiava. Il comando americano era fuori, e noi eravamo abbastanza libere.
Con noi c’era una signorina che aveva circa quarant’anni, si chiamava Maria ed
aveva lavorato in una di quelle case di tolleranza che c’erano all’epoca.
Era così buona... perché poi quelle donne lì sono veramente buone. Era diventata
5 maggio 1945: le truppe americane entrano nel lager di Mauthausen. I deportati sopravvissuti si affollano intorno
ai liberatori.
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l’amante di un pezzo grosso americano, quindi non stava mai nel campo, ma ogni
tanto veniva a trovarci e, se avevamo bisogno di qualcosa, ce lo portava.
La sera bisognava stare attenti perché c’erano i soldati americani che entravano
ubriachi a cercare chissà che cosa da noi... Una sera abbiamo dovuto lottare con tutta
la nostra forza per sbatterne fuori uno.
Nel complesso non stavamo male: avevamo organizzato la nostra sala da ballo,
avevamo le nostre simpatie, abbiamo anche cominciato a bere. Avevamo ripreso a
lavorare, poi, dopo qualche mese, sono arrivati i camions; ci hanno fatto prendere le
nostre cose e ci hanno portate in un altro paese, dove ci hanno permesso di stare nelle
case dei civili. Anche là non ci mancava nulla. Eravamo io, Bianca, Bice, Maria e
un’altra che era slovena. Abbiamo occupato il primo piano di una casetta molto graziosa; sotto, c’erano dei siciliani che erano venuti in Germania a lavorare e che poi
erano rimasti prigionieri.
Loro erano molto più anziani rispetto a noi altre, che eravamo ragazze intorno ai
venticinque anni. Adesso, se ripenso a quante gliene abbiamo fatte passare!… Perché
eravamo spericolate, specialmente io e Bianca, ne abbiamo combinate di tutti i colori. Io all’epoca non avevo capito perché quegli uomini reagissero così, perché fossero così infastiditi dalla nostra vivacità, ma ora che sono anziana, riesco a comprenderli; chissà che cosa avranno pensato di noi quei siciliani!
Quante volte i nostri compagni andavano per carne e ci riportavano di tutto, ci
accendevano il fuoco, e quando avevamo finito di cucinare ce ne andavamo lasciando tutto in disordine! Eravamo coccolate da tutti quanti, bastava esprimere un desiderio che subito provavano ad esaudirlo. Appena cominciava a fare giorno ci affacciavamo dalle finestre e ci chiedevano che cosa volessimo mangiare. Loro andavano
e riportavano di tutto: conigli, polli, galline, perfino mucche intere! Quando sono
rimasta libera pesavo ventinove chili vestita, sono tornata che ne pesavo più di sessanta, non ci mancava niente.
La prima volta che ha mangiato un bel piatto di pasta o una bella fetta di carne,
che impressione le ha fatto?
E’ stato faticoso, perché a causa della dissenteria bisognava riabituarsi poco alla
volta a mangiare, altrimenti poteva essere molto pericoloso. Non ci mancava nulla:
pane, pasta, frutta, mi ricordo che gli alberi erano tutti spogli! Si diceva: “Ah, se si
potesse far sapere a casa quanto stiamo bene… potremmo rimanere ancora un pò!”
Non lavoravamo ed avevamo tutto quello che volevamo... però, appena ci hanno
chiesto se volevamo partire, nessuno ha detto di no. Mi ricordo che stavamo preparando gli gnocchi: avevamo appena ammassato un sacco di farina sulla tavola, quando sono arrivati i camions e, con gli altoparlanti, hanno avvertito che c’erano i treni
pronti e chi voleva, poteva partire. Abbiamo lasciato tutto così com’era e ce ne siamo
andati. Uno solo ha preso il piatto e ha detto: “Ah no, prima mangio e poi parto!”.
Lo stesso succedeva mentre tornavamo a casa, ogni tanto il treno faceva delle brevissime fermate di un quarto d’ora l’una, durante le quali noi scendevamo di corsa
per accendere il fuoco e cucinare qualcosa. Ci arrangiavamo, anche se ci avevano
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Scene della liberazione: la prima zuppa offerta dagli Inglesi.
distribuito qualche galletta e qualche scatoletta, non venivano utilizzate, perché ci
pensavano i nostri uomini a procurarci il cibo. Solo che certe volte quando stava per
bollire l’acqua, il treno fischiava e dovevamo risalire di corsa per non perderlo.
E’ stata un’avventura.
A Bolzano volevano farmi proseguire con il treno della Croce Rossa perché ero
ancora piena di piaghe; ma io non ho voluto.
Le mie piaghe sono guarite quando sono tornata a casa... Ho ancora le cicatrici,
ma non fa niente.
Quanta gente eravamo, là!
Un momento molto bello è stato quando un sacerdote francese ha detto Messa; ci
ha dato l’assoluzione generale così, chi voleva, poteva fare la Comunione, d’accordo
però che alla prima occasione avremmo dovuto confessarci, ma non abbiamo mantenuto la promessa perché pensavamo fosse inutile, visto che eravamo sfrenate e stavamo fuori tutta la notte… e per quei tempi non era proprio una cosa da brave ragazze.
Si ballava ventiquattr’ore su ventiquattro, organizzavamo gare di ballo a non finire. Chissà dove avevano preso gli strumenti... Io, Bianca e Bice avevamo adibito la
nostra cameretta a salottino; la sera si metteva giù il pagliericcio, poi la mattina si
toglieva. In un angolo avevamo messo anche un tavolino. A cucinare si andava nella
camera delle altre, così da noi non sporcavamo nulla. Eravamo tremende!
Proprio lì di fronte c’era una casa con un bel giardino ed un laghetto, e sulla riva
c’era una barca che faceva acqua da tutte le parti sulla quale salivamo in sette o in otto,
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ragazzi e ragazze e, mentre ridevamo, due di noi tiravano fuori l’acqua che entrava,
mentre altri due remavano... era davvero bello quel laghetto, c’erano le ninfee, quelle
con il gambo lungo… non so che cosa eravamo diventati, era come se la vita per noi
non avesse più senso, come se non avessimo più nessuna responsabilità...
Non facevamo nulla di male, ma quando sono tornata ho detto alla mamma:
“Adesso vado a confessarmi, che figurati quante ne ho da raccontare!”.
Però, invece di andare dal parroco, sono andata da don Giosué e ricordo di avergli detto: “Guardi, don Giosué, io ho pregato, sì, ma ho anche imprecato, ho bestemmiato... ho fatto tutto quello che non avrei dovuto fare”.
Allora lui mi ha risposto: “Se non ha comprensione il Padre Eterno in certi
momenti, come faremmo a vivere?”.
Io allora mi sono precipitata a casa e ho gridato: “Mamma, mamma, non mi ha
strillata!”. Ero felice come una Pasqua, perché don Giosué era severo.
Gli inglesi erano tremendi, ci hanno imposto il copri – fuoco, così alle otto di sera
si doveva essere dentro. Stavano fuori sulle strade, che erano senza illuminazione,
per controllare ogni movimento. Però, siccome lungo le strade tedesche ci sono dei
grandi fossi, quando vedevamo delle luci ci buttavamo lì dentro e non ci facevamo
vedere. Per rientrare non avevamo problemi, perché dormivamo in case civili e quindi non potevano dirci niente. Quante volte siamo finite dentro quei fossi per nasconderci!
Eravamo piene di foruncoli e di piaghe, dappertutto, un disastro!
Ricordo che mi era uscito un foruncolo proprio nella natura, e non volevo andare
a farmelo medicare visto che gli infermieri erano tutti uomini… e poi ci prendevano
già abbastanza in giro, ci chiamavano le “camere d’aria rotte”, perché eravamo piene
di cerotti... quindi, non ci sono andata. Ma qualche giorno dopo mi è venuta la febbre molto alta così sono stata costretta a rimanere sdraiata sul pagliericcio per diversi giorni.
Quando mi sono sposata ed ho cominciato a fare delle visite ginecologiche per via
dei figli, il dottore mi disse che avevo una cicatrice grossa come un fosso… altro che
foruncolo! Chissà che diavolo avevo. E’ guarito da solo, ma quante me ne ha fatte
passare! Il gabinetto era al piano di sotto, quindi per tutto quel tempo mi ero arrangiata come potevo. Dopo qualche giorno mi sono potuta finalmente alzare e scendere giù con gli altri.
Ricordo che gli uomini avevano organizzato una specie di alambicco per distillare la grappa dalla frutta, e me ne diedero un bicchiere; io non mangiavo da tre o quattro giorni ed ero ancora debole per la febbre, quindi, appena ho bevuto il distillato,
mi sono sentita male ed ho fatto le scale a quattro a quattro, sono arrivata al mio
pagliericcio e mi sono lasciata andare giù. Quando le mie amiche sono rientrate provarono a chiamarmi ma io non risposi… poi ho sentito una delle due sorelle di La
Spezia che diceva: “Oddio, ma che è morta?! Senti che è morta!”.
Ed io, dal profondo della mia ubriachezza, ho risposto: “Non sono morta, sono
ubriaca!”.
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“...la faccia di Eisenhower si trasformò in una maschera di marmo. Patton si diresse in un angolo e rigettò. Io ero
troppo sconvolto per poter parlare...”
Dati raccolti dal libro “Nei lager c’ero anch’io” di Vincenzo Pappalettera - Mursia 1973
Omar N. Bradley, generale americano.
I Lager visti dai liberatori.
La Terza Armata aveva superato Ohrdruf ( situato in Turingia, era una dipendenza del campo di Bukenwald), primo dei campi della morte nazisti, non più tardi
di due giorni prima e Patton insistette perché lo visitassero.
“Non immaginereste mai quanto mascalzoni possano essere questi mangiacrauti” disse “ finchè non avrete visto anche voi quella spaventevole chiavica.”
Il fetore di morte ci sopraffece fin dall’istante in cui penetrammo nella palizzata.
Più di 3.200 cadaveri nudi, scheletriti, erano stati gettati in fosse poco profonde.
Altri giacevano là dove erano caduti. Gli insetti brulicavano sulla pelle giallastra dei
cadaveri aguzzi, ossuti. Una guardia ci mostrò come il sangue si fosse congelato in
nere croste dove i prigionieri affamati avevano strappato le viscere ai morti, in cerca
di cibo.
La faccia di Eisenhower si trasformò in una maschera di marmo. Patton si diresse in un angolo e rigettò. Io ero troppo sconvolto per poter parlare, perché qui la
morte era stata così insozzata dalla degradazione da stordirci e obnubilarci.
Entro una settimana dovevamo passare per altri di quei campi e in breve gli orrori di Bukenwald, Erlat, Belsen, e Dachau avrebbero fatto fremere il mondo che credeva di essersi abituato agli orrori della guerra.
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Come è stata la sua accoglienza?
Quando siamo tornate era opinione comune che eravamo andate a fare le donne
di strada, e questa è stata la cosa che ci ha ferito di più. Quando andavo in giro con
la mia amica e ci fermavano per farci delle domande, lei mi diceva di stare zitta che
avrebbe parlato al posto mio, forse perché aveva paura di una mia reazione impulsiva.
La prima cosa che ci chiedevano era: “Cosa vi hanno fatto i tedeschi?”.
In paese c’era un dottore molto giovane e bravo che aveva detto alle nostre famiglie: “Se le ragazze tornano, se avete piacere le prendo in cura io”. Infatti come siamo
tornate ci ha prese in cura, ci ha fatto parecchie visite dandoci le medicine e non
volendo mai una lira. Se non avessimo avuto il suo aiuto non avremmo potuto realmente sapere se avevamo qualche malattia.
Sono andata da lui assieme alla mamma ed alla mia amica Gina. Lei era tornata
prima di me ed era pratica di tutto, però, visto che a diciotto anni aveva avuto un
bambino, non le credevano se diceva la verità sul fatto che i tedeschi le avessero fatto
o no delle violenze… è stata sfortunata, il papà era stato picchiato dai fascisti ed era
finito in manicomio, perché lo avevano picchiato sulla testa, la mamma si era trovata con quattro o cinque bambini da crescere, uno è andato in Russia e non è più tornato. Gina, quando aveva diciassette anni, è stata messa incinta da uno di Lecco, una
persona molto facoltosa, che però non ne ha voluto sapere né di lei né del bambino.
La voleva pagare, perché allora si usava così: o ci si sposava o si pagava, ma la
mamma non ha voluto, è stata una donna molto forte; ha detto: “Se la vuoi sposare,
la devi sposare, altrimenti di pagarla non se ne parla. Ha sbagliato, ma il bambino
crescerà”.
Quando ci hanno portate nei campi di concentramento, il bambino aveva sei anni.
E’ morto tre o quattro mesi fa (estate 1995). Ha pranzato con la sua mamma, poi è
andato a mettere a posto la villetta che si stava costruendo. E’ andato via alle due;
alle due e un quarto è salito su il nipote che le ha detto: “Nonna, papà è morto”…
così, secco; poveretta, la sua vita è stata un calvario peggio della mia.
Quindi, con lei non potevano verificare quale fosse la verità… poi ce n’era
un’altra che era vedova… poi c’era quella che non era tornata… insomma, la verità
la potevano verificare solo su di me.
Il mio fidanzato era andato dalla mamma a chiedere mie notizie: “E’ sicura, signora Missaglia, che sua figlia torna ancora una brava ragazza?”.
Mia madre è rimasta molto male per questa domanda, e gli ha risposto che a lei,
in quanto mamma, non interessava affatto questa sua preoccupazione da povero
disgraziato, perché, anche se fossi tornata con due bambini ed un altro nella pancia,
le sue braccia sarebbero state tanto grandi da abbracciarci tutti. Naturalmente, poi, lo
mise alla porta.
Così il dottore mi fece una visita molto approfondita, e quando ebbe finito, prese
le mutandine, le buttò a mia madre e le disse: “Signora Missaglia, a sua figlia non è
stata fatta violenza”.
La mia mamma ha risposto: “E a me che me ne importa di questa sua diagnosi?
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L’importante per me è che sia tornata a casa”.
Ma il medico la fece riflettere dicendo: “Sì, è tornata, e questo è fondamentale,
però capirà che caratterialmente è molto cambiata, avrà bisogno di tanto tempo e,
chissà, forse non basterà nemmeno! Questa sua terribile esperienza l’ha segnata, purtroppo, e dovrete avere con lei molta pazienza”.
Infatti era proprio vero, tutto quello che gli altri facevano, era come se mi stessero facendo un dispetto! Per fortuna che ho trovato mio marito, che è un sant’uomo,
perché un altro in certi momenti mi avrebbe buttata giù dalla finestra. Adesso mi sono
calmata un po’, ma è roba recente. Il dottore mi diede dei calmanti e mi disse: “Mi
prometti che non li prenderai se non è necessario?”. Infatti ne ho preso qualcuno e
basta.
Ho un carattere forte, quando ero in quell’inferno mi ripetevo continuamente: “Io
devo tornare”.
Qualche volta faccio ancora dei brutti sogni. L’altra notte, per esempio, ho sognato di essere in un campo di concentramento. Forse è perché sono diversi giorni che
sto rileggendo i miei libri. Al mattino quando mi sono svegliata ho detto: “Non è vero
niente”.
Mio marito mi ha detto che tante volte la notte strillavo. Quando mi sono sposata ed ho avuto la Rita8, i miei incubi si sono spostati su di lei. Una notte ho sognato
che ero in un fosso con la bambina stretta al collo, e poi la SS passava e me la portava via. Ed io strillavo, strillavo... allora mio marito mi ha svegliata chiedendomi
spaventato: “Che cosa c’è? Cosa è successo?”.
Ed io: “Mi hanno portato via la Rita!”.
Ma lui sempre con la sua solita calma: “Ma no, non vedi che la Rita è là?”.
Poi avevo l’incubo dei pidocchi! Dormivo in una camera che prima era quella
della mamma, la sera mi spogliavo completamente, infilavo la camicia da notte e mi
sedevo sul letto a cercare i pidocchi. Poi magari passava la mamma e mi chiedeva
che cosa stessi facendo, ed io le rispondevo che stavo cercando i pidocchi, perché
nelle cuciture dei vestiti potevano passare. La mamma allora mi consolava e, dopo
avermi guardata attentamente, mi diceva che non era vero niente.
Mi terrorizzava l’idea di dover andare dal parrucchiere, anche se sapevo che era
diventata una cosa necessaria visto che ero tornata dai campi di concentramento con
una testa spaventosa. Anche il mio papà, che era una persona discreta, mi aveva chiesto quando mi sarei decisa ad andare a tagliarmi i capelli. Ormai li pettinavo a destra
e a sinistra, ma proprio non andavano. Allora la mamma un giorno si è seduta vicino
a me e mi ha chiesto: “Si può sapere perché non vuoi andare a tagliarti i capelli?”.
“Perché io ho i pidocchi!”. Risposi
Ha sorriso: ha preso un cencio bianco, l’ ha messo sulle sue ginocchia e con un
pettine ha passato i capelli ad uno ad uno. Alla fine sono andata dal fidanzato della
mia amica, si chiamava Mario e faceva il parrucchiere. Quando sono entrata ha esclamato: “Finalmente ti sei decisa!”.
Ma io, preoccupata, gli ho chiesto: “Sì, però mi fai un piacere? Mi metti lontano
dalle persone presenti?”.
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8 La signora Missaglia ha avuto due figlie femmine, Rita e Antonella, e un maschio, Biagio.
E lui mi ha chiesto: “Perché?”.
“Perché così, se ho i pidocchi, nessuno lo vede!”.
Passati i primi momenti, i suoi famigliari le hanno mai fatto delle domande?
Sapevano già tutto, perché la mia amica Gina era tornata prima di me e aveva
detto quello che c’era da dire. Qualche volta se ne parlava così, vagamente. Tra
l’altro, la mamma non si è più ripresa, il cuore non le funzionava bene, e cinque anni
dopo che sono tornata è morta. La mamma mi raccontava che un giorno, mentre cucinava, c’era una vespa che le girava sempre attorno, così mio cognato, il marito di mia
sorella, ha preso uno straccio e ha fatto per ammazzarla.
Ma lei ha gridato: “Non l’ammazzare! Questa è la Lisetta!”… Per dire a che punto
era arrivata.
Però... ricordo una volta che...
Era il quindici d’agosto: quel giorno, lo rammento bene, di nascosto dalle SS
abbiamo dato da bere agli ungheresi. Povera gente, dopo un viaggio massacrante li
avevano lasciati sotto il sole, senza mangiare e senza un goccio d’acqua e se per caso
vedevano qualcuno avvicinarsi a loro per aiutarli, gli sparavano.
Noi quel giorno avevamo l’incarico schifoso di buttare acqua sul letame per farlo
marcire, senza poterci lavare, vicino a quella montagna di sterco!
Ad un certo punto la mia amica dice: “Oggi è il quindici agosto, il giorno dell’Assunta: dobbiamo fare una benedizione speciale”. Così abbiamo cantato tutte le
preghiere, davvero con il cuore. Poi la Gina ha alzato la forca e ha impartito la benedizione: “Che il Signore ci benedica tutte”. A quel punto ci siamo dette: “Forza, chiamiamo tutte insieme la mamma”.
E’ stato un solo grido: “Mamma!”. Poi ci siamo messe tutte a piangere…
… La mia mamma mi ha detto che le capitava di sentire la mia voce chiamare,
così si girava ma non vedeva nessuno… allora scoppiava a piangere.
Poteva pregare?
Sarebbe stato proibito, ma siccome io sono stata cresciuta dalle suore, allora ho
fatto pregare tutti. D’altra parte, le nostre preghiere sono andate bene, perché siamo
tornate. Quando avevamo un lavoro che non ci piaceva, dicevamo: “Iniziamo la
novena a Sant’Antonio, che magari poi il lavoro cambia”. E infatti quel giorno lì il
lavoro finiva bene. Così ripetevamo alle scettiche: “Hai visto che il lavoro ci è andato bene? Sant’Antonio ci ha fatto la grazia”.
Facevamo la novena a tutti i santi. Le suore dell’ordine dove andavo io, un ordine fondato da una nobildonna molto vicina alla clausura, mi avevano detto che, quando si ha bisogno di una grazia molto grossa, si devono dire mille Ave Maria al giorno; così noi, quando lavoravamo, dicevamo queste mille Ave Maria alla Madonna e
le chiedevamo la grazia.
Si dicevano un po’ ciascuno, così quando ci incontravamo ci dicevamo: “Io ne ho
dette cento”… “Io ne ho dette trecento”… Alla sera ne avevamo dette mille.
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Ancora adesso, quando la mia amica Gina mi chiama mi dice: “Non ti ho telefonato prima perché te vai a Messa”. Lei ce l’ha sempre con la storia della Messa. Una
volta mi ha scritto che non crede più, perché Dio non avrebbe dovuto permettere tutte
quelle sofferenze! Allora io le ho risposto che ognuna è libera di fare quello che vuole
però… le mille Ave Maria ci hanno fatte tornare.
Povera Gina! Ma lei ci andrà lo stesso in Paradiso, perché è stata sempre buona
con tutti e poi ne ha passate tante! Del resto, non è solo chi dice: “Signore, Signore”
che entra nel Regno dei Cieli.
No, non potevamo pregare, ma lo facevamo lo stesso, anche se non avevamo né
crocifissi né rosari.
“Oh cieli! Ditemi perché.
Qual è la ragione di tutto ciò,
di una tale offesa in questo mondo.
La Terra come sorda e muta chiude gli occhi…
ma voi avete visto.
Voi dall’alto avete visto…
e restate indifferenti”.
(Isaac Katzenelson)
C’erano dei religiosi tra gli internati?
Sì, tanto uomini che donne. I tedeschi erano particolarmente duri con quelle persone a causa delle loro convinzioni. Era estremamente pericoloso manifestare la propria fede religiosa, perché nel lager era proibito pregare, comunicarsi e dire Messa.
Il campo maschile aveva la fortuna di ospitare dei religiosi che, attraverso l’aiuto
degli internati e dei civili, riuscivano a comunicare, dire Messa e persino a impartire
i sacramenti!
Nei miei libri si dice che i religiosi conservavano le ostie dentro i barattolini della
carne in scatola o del lucido da scarpe, trovati chissà come, e che le ostie erano ricavate dal pane oppure procurate dai detenuti che lavoravano con i civili.
Ho anche letto che in un campo era stato internato un giovane prossimo a prendere i voti che, attraverso una speciale autorizzazione del vescovo locale, ebbe il permesso di dire Messa e impartire i sacramenti. Purtroppo noi donne non avevamo questo conforto, perché le suore non potevano arrogarsi quel diritto.
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Le urla degli ebrei
E’ tornata a visitare Auschwitz e Ravensbrück?
Ad Auschwitz sì, mentre a Ravensbrück no. Ad
Auschwitz sono tornata una decina di anni fa, con
quelli dell’associazione di Milano. Ero serena, e
quando siamo andati a visitare la cella delle torture ho ringraziato Dio che non mi fosse capitato
nulla.
C’erano altre persone invece che bestemmiavano e imprecavano… ma a che cosa serviva, ormai?
Perché farsi sangue amaro e stare male? Fare così
non avrebbe certo cambiato le cose. Il bunker
aveva sede nel campo di Auschwitz 1, mentre io
ero ad Auschwitz 2, Birkenau, dove i tedeschi torturavano ed uccidevano le persone.
Mi ricordo che c’erano dei tubi dove ci dissero
che infilavano le persone per farle morire; e poi
c’erano delle sale dove si veniva pigiati in molti,
senza cibo né acqua… e poi l’impiccagione a testa
in giù... quanti orrori!
Nel blocco 11 finivano tutti quelli che avevano
fatto qualche mancanza, come ad esempio chi
scappava. Quando all’appello si accorgevano che
qualcuno mancava, si scatenava il finimondo: le
sirene urlavano come pazze, le SS correvano da
tutte le parti, i cani venivano lanciati addosso a
chiunque. Allora si doveva aspettare sull’attenti
finché il fuggitivo non venisse ritrovato; dovevamo stare dritti, senza poterci riparare, sotto la
Dachau: dopo la guerra, colonne di visitatori si
affollano verso la cappella.
Ohrdruf-Buchenwald: il Generale Eisenhower
osserva la forca delle esecuzioni.
Nelle cantine del Blocco 11 erano state costruite delle celle per i
prigionieri da punire, altre volte venivano gettati in alcune segrete; in ambedue i casi venivano lasciati morire di fame.
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neve, l’acqua o il sole, dovevamo stare
ore ed ore ad aspettare. Se lo trovavano,
lo riportavano al campo più morto che
vivo e poi lo impiccavano, altrimenti
prendevano a caso dieci della sua
baracca e li mandavano nel blocco 11,
nel bunker della morte.
Padre Massimiliano Kolbe è morto così, per salvare un padre di famiglia che avevano preso con altri dieci. Per finire nel bunker non faceva differenza se si era ariani
o ebrei, bastava rubare anche solo un pezzetto di pane ed essere scoperti per finire là…
dicevano che erano solo dieci giorni di punizione, ma non si usciva vivi da lì. Tra il
blocco 10, a sinistra, e il blocco 11, a destra, c’era un cortile immenso con un muro
nero, il muro dove giustiziavano i deportati; lo chiamavano il “muro della morte”.
Sui miei libri c’è scritto che lì fucilavano i prigionieri… ma è logico che fucilare
tante persone per volta non era cosa facile… si dice che fossero delle scene impossibili da vedere e che i soldati esecutori della condanna, anche se imbottiti di droga ed
alcool, impazzivano. Dopo invece cominciarono a scavare grossi fossi in cui li gettavano cosparsi di nafta, poi accendevano un fiammifero e li bruciavano vivi.
Quando i crematori non erano più in grado di far fronte all’incredibile numero di decessi, i cadaveri venivano
ammucchiati (foto a sinistra) e bruciati in gigantesche fosse all’aperto (foto a destra).
Dopo che ci hanno spostato dal campo A al campo B, ci hanno messo dentro delle
baracche che avevano dei finestrini molto piccoli. Il campo B era molto vicino ai
forni crematori ed alle camere a gas, e quando la notte si sentiva gridare, da quelle
fessure cercavamo di vedere che cosa stesse succedendo, così vedevamo quella pove-
Porta d’ngresso al campo di Birkenau (Porta della
morte) vista dalla banchina dove arrivavano i treni con
i prigionieri.
I forni di uno dei crematori.
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ra gente che si arrampicava, cercando disperatamente ed inutilmente una via di
fuga… è una cosa difficile da spiegare...
Quando sono tornata ad Auschwitz per la cerimonia, hanno ceduto ad ogni nazione una baracca per fare un memorial… così l’ hanno chiamato.
La baracca italiana è stata allestita dall’architetto Belgioioso di Milano; vi ha
costruito dentro un tunnel a forma di spirale tutto colorato di scuro, mettendo come
sottofondo le grida degli ebrei. Era fatto tanto bene che io avevo chiesto alla presidentessa della sezione di Milano la cassetta, ma lei mi disse stupita: “Cosa te ne fai
te, che ne hai già sentite abbastanza di grida degli ebrei!”…non me l’ ha voluta dare!?
E’ vero, sono cose che non si dimenticano, quelle urla le sento ancora.
Ebrei trasportati sui carri destinati ai campi di sterminio.
Possiamo perdonare. Ma dimenticare no! Di fronte al blocco 11 c’era il blocco 10,
quello degli esperimenti, lì non fanno ancora entrare.
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Irma Grese
Cielo di ghiaccio
Sopra anime perdute...
Fantasmi maleodoranti
E il tuo vile profumo...
Norimberga ti punì,
angelo biondo...
non bastò la tua putrida bellezza
ad ingannar la corda...
Scivolò via in un attimo,
la tua folle vanità...
ah, quale errore fu assegnar ad un’anima brutale
un apparir così poco degno...
Solo i vermi ti rimpiangono,
angelo biondo...
e le urla delle tue vittime
ti accompagnino ora e per l’eternità
Michele Del Rossi
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Irma Grese, “l’angelo biondo”
Ha sempre avuto la cognizione del tempo?
Sempre, noi ci rendevamo sempre conto di che giorno fosse, eravamo sempre in
grado di dire con esattezza la data. Sapevamo quando era Natale o Pasqua… però, in
quanto a festeggiare...
La prima Pasqua... il giorno preciso non me lo ricordo, ma è stato al principio di
aprile, eravamo appena arrivate, e ricordo che due ragazze vennero prese a calci dai
soldati. Non so per quale motivo, ma tanto non c’era bisogno che ci fosse un motivo, bastava che si passasse vicino ad uno per essere prese a calci. Se le rimpallavano come fossero dei palloni… dopo le hanno prese per i piedi e le hanno trascinate
nel bunker; poverette, saranno sicuramente morte.
C’era una aufseherin, un avanzo di galera... ma era così bella, così bella che la
chiamavano “l’angelo biondo”… il suo nome era Irma Grese.
Non molto alta di statura, ma era
snella, portava la divisa in un modo!
Aveva i capelli biondi legati con uno
chignon e la bustina in testa, andava
sempre in giro con un cane e il frustino. Un giorno l’abbiamo vista
dalla finestra andare con la bicicletta… faceva freddo, per terra c’era il
ghiaccio… ma come si fa a pretendere di andare in bicicletta con un
tempo così? Giustamente ha scartaGli aguzzini: Herta Ehlert (8), Irma Grese (9), Ilse Lothe (10) - foto to; in quel momento passava una
sopra; Josef Kramer (1), Fritz Klein (2), Peter Weingartener (3), Ladeslaw Gura (17), Otto Galesson (19) e Karl Egersdorf (21) - foto sotto. prigioniera, così quella belva è scesa
dalla bicicletta e l’ ha ammazzata di
botte, lasciandola per terra mezza
morta… non so se l’ ha ammazzata
davvero.
Questo per dire... che bastava la
più piccola cosa, anche la più insignificante per scatenare l’ira più
furibonda e senza senso!
“L’angelo biondo” è stato impiccato… è stata presa e processata a
Norimberga.
Il vederla suscitava terrore, e lei di questo ne era orgogliosa. Era cattiva, ma di
una cattiveria sottile… il profumo che emanava e la sua bellezza servivano solo ad
avvilire maggiormente le povere detenute vestite di stracci e maleodoranti.
Aveva un viso d’angelo, ma angelo certo non era.
cfr: Corrado Saralvo “Più morti più spazio”
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L’amore per la vita che ci impediva di suicidarci…
Se non sbaglio, lei ha trascorso in prigionia due feste di Pasqua e un Natale:
che cosa ricorda di quei giorni?
Quando è stata la prima Pasqua eravamo ancora frastornate, non credevamo che
fosse possibile una cosa simile, anche perché ci avevano fatto credere tutt’altro;
infatti, appena partite siamo state scortate dai soldati austriaci fino alla frontiera, e ce
n’era uno che, quando ci vedeva piangere, diceva: “Non piangete”. Ci faceva capire
che, passati quaranta giorni, saremmo tornate a casa, quindi eravamo ancora sotto
l’influenza di quella speranza. Invece...
La prima Pasqua l’ ho passata ad Auschwitz, mentre il Natale a Ravensbrück, nel
campo vicino la fabbrica; ricordo che continuavo a pregare di essere a casa per Natale… dicevo: “Gesù mio, ti prometto che, se torno a casa per Natale, possono cucinare tutto quello che vogliono, ma io non assaggerò nulla”. Speranza vana!
Avevo anche fatto il voto di fare tutti gli scalini del santuario di San Gerolamo
Emiliani in ginocchio. San Gerolamo era in prigione, ma la Madonna lo liberò. Allora lui si diede ai poveri, assistendo quelli che erano in prigione ed in difficoltà. Questo santuario è a Somasca, vicino Lecco, sulla strada che porta al castello dell’Innominato di Manzoni, ci sono ancora tutti i ruderi. Un tempo era una mulattiera, adesso ci hanno fatto una strada vera. Lungo questa strada c’è la scala santa, cento gradini che San Gerolamo faceva in ginocchio tutti i giorni. Da ragazza qualche volta li
ho fatti anch’io. Quando sono tornata a casa, sono andata al santuario per sciogliere
il voto.
Tempo fa, parlando con mia figlia più grande di quando era piccola, mi ha detto
riguardo al santuario: “Quanti spaventi mi hai fatto prendere, mamma, quando mi
portavi a San Gerolamo con tutta quella gente!”. Quando aveva sei anni la portavo
con me in pellegrinaggio al santuario di San Gerolamo.
Io le rispondevo: “Ma era un santo!”.
E lei: “Lo so, ma a me non andava di venire”.
Il giorno di Natale non ci hanno fatto lavorare, mentre correva la voce che ci
avrebbero dato chissà che... invece ci hanno dato la solita zuppa scarsa. Ma almeno
non ci hanno fatto lavorare. La sera le russe hanno organizzato per ballare, alle russe
piaceva, ed evidentemente avevano ancora la forza per farlo. Le loro baracche erano
state un tempo gli alloggi dei soldati, quindi avevano una grande camera che riadattarono per l’occasione, poi, siccome si intendevano bene con le polacche e le slovene, hanno fatto passare parola; alla fine vennero anche delle SS, che per una volta ci
lasciarono in pace.
Avevano fatto in mezzo al cortile un albero di Natale… Dio, che nostalgia!
La prima Pasqua l’ ho passata dentro Auschwitz, la seconda... ero a Ravensbrück,
perché prima di essere trasferita nel campo vicino alla fabbrica sono rimasta una ventina di giorni (dal venti di marzo alla metà di aprile) nel campo di Ravensbrück. Forse
non ce ne siamo rese conto dell’arrivo della Pasqua perché gli ultimi giorni di prigionia sono stati tremendi, non si lavorava, non c’era cibo e si viveva in mezzo agli
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escrementi. Non eravamo che povere ombre, camminavamo in mezzo alla sporcizia
mentre dappertutto c’erano cataste di morti; ricordo ancora carri con montagne di
morti alte al cielo… ma non riuscivano a caricarli tutti, la maggior parte era abbandonata per tutto il campo. Ormai pensavo che quella sarebbe stata anche la mia sorte
quindi, inutile dire o fare qualsiasi cosa. Ma, nonostante tutto, la vita era la vita e si
implorava la compagna vicina di aiutarti. Io devo ringraziare la mia grande forza di
volontà, perché non mi reggevo più, ridotta pelle ed ossa.
Sono sempre stata
magra, ricordo che
quando mi pesavo, tornavo a casa e dicevo a
mia
madre:
“Sono
diventata un colosso!”.
E lei: “Perché, quanto pesi?”.
“Cinquanta chili!”.
Ero alta e sottile, eppure
mangiavo tanto! Ero
una cosa incredibile.
Quando facevo il turno
dalle sei alle due, mio
padre era già tornato in
fabbrica e mio fratello
Questo fu quello che videro coloro che, dopo la liberazione entrarono nei campi: mucchi
era in ufficio. Allora mia di cadaveri e spettri umani.
madre preparava la
tavola solo per me. Quando avevo finito, trascorrevo un pò di tempo a leggere, anche
se di solito si lavorava a maglia; allora vedevo mia madre che mi guardava con quel
suo sorriso proprio... di santa, e mi chiedeva : “Sai quanti panini ti sei mangiata?”.
“Non lo so!”.
“Dodici, quattordici...” e alla sera, quando andavo a letto, mi portavo sempre due
o tre panini in camera, senza niente perché non avevamo niente.
C’era mia sorella, che ha sei anni più di me e che d’inverno veniva nel mio letto
perché aveva freddo (non c’era il riscaldamento, avevamo solo una stufa in cucina,
ma grazie a Dio le coperte non mancavano), che si lamentava perché nel letto c’erano
le briciole del pane. Però ero magra, ero tutta nervi.
Così, nei campi di concentramento, dimagrendo tantissimo, è difficile immaginare come fossi diventata!… Ma almeno, non essendo stata mai grassa, non perdevo la
pelle come le altre.
Infatti le persone che erano state grasse erano cadenti: i seni, le braccia, le gambe,
Oddio che impressione! Ricordo che quando andavamo a fare la doccia e ci guardavamo dicevo: “Può essere che quella sia ancora una persona?”. Ed io, ho dovuto
accettare quello stato di cose… perché era forte in me la volontà di sopravvivere, mi
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ripetevo sempre: “Io devo tornare a casa”.
Se mi fossi lasciata andare… sarebbe stata la fine.
Guai se sentivo qualcuno dire: “Io devo morire”.
A
d
Auschwitz avevamo ancora la forza che ci aiutava a
vivere, invece a Ravensbrück avevamo perso tutto.
Vi è mai passata per la mente l’idea di farla finita?
Sì, spesso. Qualche volta si diceva: “Mi ammazzo”.
Ma poi l’istinto di conservazione, la speranza che
tutto potesse finire aveva la meglio. Se avessimo
voluto, del resto, sarebbe bastato passare accanto al
filo spinato dove correva la corrente ad alta tensione e
toccarlo per farla finita.
“Domani mattina tocco il filo”. Si diceva, si diceva...
E’ vero, ci sono stati dei casi di suicidio.
Il suicidio apparve a molti deportati come
l’unico modo per porre termine alle insopportabili sofferenze.
Le ausiliarie e le kapò come si comportavano nei
vostri confronti?
Erano più cattive degli uomini. Ma forse perché la
donna è provvista di una cattiveria più raffinata, mentre l’uomo è un po’ più superficiale... non so… Però,
uomini o donne, erano cattivi gli uni e gli altri. Solo
che da una donna, forse, non me lo aspettavo.
Le prigioniere erano comandate soprattutto dalle
ausiliarie; c’erano anche dei soldati, ma quelli si limitavano a seguirci sul campo quando andavamo a lavorare oppure facevano la guardia sulle torrette. Per il
resto, erano tutte donne.
Ad Auschwitz c’era una donna che non era cattiva… se potessi vederla, oggi, l’abbraccerei. Era piccola di statura e piuttosto grassoccia; indossava giacca e gonna a pantaloni, degli stivali enormi, una pistola lunga che le scendeva fino al ginocchio, aveva sempre vicino un cane che era alto come lei... i cani delle
SS erano feroci, bastava poco per essere azzannate.
Ad Auschwitz c’era la banda e noi, con gli zoccoli senza zeppa, vestite di stracci, stanche, dovevamo
marciare a tempo, guai se sbagliavamo! Quando uscivamo dal campo per andare a lavorare nella campagna, dovevamo camminare in fila l’una a fianco
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all’altra e a passo di marcia, se vedevamo quella donna tiravamo un sospiro di sollievo. Dicevamo: “Meno male, oggi si lavora di meno!”. Si sedeva con il suo cane e
ci strillava parolacce per tutto il giorno a voce molto alta, ma poi faceva segno di fare
adagio. Urlava per farsi sentire dagli altri che comandava, però ci agevolava quando
vedeva che non ce la
facevamo più.
Quando evacuarono il campo di
Ravensbrück, e noi
eravamo destinate ad
essere caricate su di
una nave che avrebbero dovuto affondare in mezzo al mare,
ci fecero camminare
per molti giorni e
molte notti. Ogni
tanto ci affiancavano
dei gruppi di militari Orchestre di deportati accompagnavano i loro compagni condannati a morte sul luogo delle
italiani prigionieri, esecuzioni: estremo oltraggio delle SS alle loro vittime.
che chiedevano se ci fossero italiani e se volevamo scappare. E’ vero che le SS che
ci scortavano erano male equipaggiate e che tra di loro uno era piuttosto anziano, ma
noi avevamo paura ugualmente. Ad un certo punto, proprio quello più anziano si è
avvicinato e si è fatto riconoscere: era un italiano, e disse di essere obbligato a fare
quello che stava facendo9. Ci disse che, se volevamo, potevamo scappare, che lui e il
suo compagno non erano armati, che l’unico tedesco armato era quello davanti alla
colonna.
Se fossimo rimasti indietro, con il sopraggiungere della notte avremmo potuto
allontanarci, perché loro due non ci avrebbero sparato. Difatti così è stato. Eravamo
sei donne: io, la Bice, Antonietta, la Bianca di La Spezia e una slava.
Con i soldati italiani siamo scappati in mezzo alla boscaglia e la prima cosa che
abbiamo fatto appena abbiamo trovato una cascina è stato di metterci a dormire. Al
mattino i ragazzi sono usciti fuori a vedere se passavano altre colonne e ci hanno
detto che avevano visto delle prigioniere vestite come noi, con il camicione a strisce
e con una croce dipinta in mezzo alla schiena: erano detenute ebree, esse avevano
tutte una croce, mentre le ariane avevano una riga. Stupidamente siamo uscite e,
invece di camminare nella direzione opposta, siamo andate avanti. Così siamo state
riprese… ci hanno puntato il mitra alla schiena e, volendo, avrebbero potuto fucilarci seduta stante. Ma avevano bisogno del permesso del più alto di grado. La sorpresa è stata grande quando abbiamo scoperto che una delle SS era proprio la donna piccola di statura e un po’ grassoccia che però non era cattiva! Non so come abbia fatto
a riconoscerci… Siamo arrivate ad Auschwitz alla fine di aprile, e siamo rimaste là
90
9 Probabilmente era un repubblichino o un altoatesino, oppure un soldato fatto prigioniero che aveva accettato di militare tra i nazifascisti in cambio della
libertà.
fino ad ottobre. Poi ci avevano mandate a lavorare in una fabbrica vicino Ravensbrück… ad Auschwitz sembravamo scheletri, a Ravensbrück spettri… eravamo irriconoscibili!
Eppure, quando lei ci ha viste, ci ha guardate ed ha esclamato: “Auschwitz?!?”.
Abbiamo fatto un cenno affermativo con la testa, mentre intorno quelle belve
urlavano e si sbracciavano, facendoci capire che volevano fucilarci!
Lei, invece, ha fatto cenno di no e ci ha ordinato di seguirla. Non ci ha fatto niente, non ci ha dato neanche uno schiaffo… no, non erano tutte cattive, le auseherin.
Ricordo che poco prima di Natale una delle SS disse: “E’ Natale ed io a casa ho
quattro bambini”. Perché anche loro non erano tutte volontarie, molte le rastrellavano.
Sempre ad Auschwitz, tra i soldati che ci accompagnavano fuori a lavorare ce
n’era uno... Era un postel10 alto, magro, odioso! Era una vera belva. Ha fatto amicizia con una prigioniera russa; era bella quella russa… ma le russe sono tutte belle…
quando arrivavamo al lavoro, lei si sedeva vicino a lui. Chissà cosa avrà trovato in
quella ragazza! Era cambiato, non era più il barbaro di un tempo.
Non ci ha più picchiate ed uscire con lui ci faceva meno paura. Dovevamo sempre lavorare, ma almeno senza botte.
I primi giorni che eravamo ad Auschwitz dovevamo trainare dei carri molto
pesanti, erano quei carri con il timone ai quali si attaccavano i buoi, ma lì i buoi eravamo noi.
La mia amica aveva sempre paura di prendere botte lei e di farle prendere a noi,
così si metteva sempre davanti. Ad un certo punto il carro si è fermato per il ghiaccio che c’era a terra, e lei stupidamente ha messo la mano davanti, di modo che le è
rimasta schiacciata tra il timone ed il carro. Chi ci accompagnava quel giorno era una
SS giovane, alta, una bellezza bruna, ed è rimasta dispiaciuta quando ha visto che si
era fatta male, così, quando siamo tornate, ha chiamato la blocova e le ha detto che
la mia amica il giorno dopo non sarebbe dovuta andare a lavorare.
Sì, ogni tanto c’era qualcuno che aveva un po’ di umanità.
Le persone che avevano dei
piccoli difetti, per esempio
quelle che portavano gli
occhiali, venivano selezionate?
Se non erano ebrei, non
venivano selezionati. La selezione tra gli ariani avveniva
solo se si era ricoverati o se le
fabbriche avevano bisogno di
manodopera. Se non si rendeva
più e si era ricoverati, allora si
poteva essere selezionati. Ad
Auschwitz le selezioni avveni10 Postel significa “soldato” in tedesco.
L’arrivo e la selezione.
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vano alla stazione (ma solo per gli ebrei) ed al revier ed erano dirette dal dottor Mengele.
Le selezioni per andare a lavorare in fabbrica erano un’altra cosa: suonavano il
fischietto e si usciva tutti all’aperto sull’attenti. Dovevamo passare davanti alle SS
senza vestiti e sfilare nudi per mostrare i nostri “muscoli”… era una cosa pietosa…
cercavamo di gonfiarci, e quando ci toccavano volevamo sembrare duri come rocce.
92
Stellina… era uno dei 750 bambini ebrei
bruciati per festeggiare il Führer
C’erano bambini?
I tedeschi uccidevano subito tutti i bambini ebrei. Ve n’erano alcuni che erano figli di
donne entrate nel campo già incinte e che quindi partorivano nei campi di concentramento… se
però i tedeschi se ne accorgevano prima, le mandavano direttamente al crematorio; invece, se la
gravidanza non era molto avanzata, e quindi riuscivano a nasconderla, le donne potevano o perdere il figlio per tutte le fatiche a cui venivano
sottoposte o partorirlo… ma poi, senza nemmeno tagliargli il cordone ombelicale lo affogavano Cadavere di un feto con ancora attaccato il cordone
ombelicale.
in un secchio d’acqua. Però, ci sono stati anche
casi in cui sono stati salvati. Sui miei libri c’è scritto che qualcuno, dopo aver preso
contatto con i civili attraverso i prigionieri che lavoravano fuori il lager, mise in
salvo qualche bambino avvolgendolo negli stracci e gettandolo oltre il filo spinato.
Era difficile che vi fossero bambini non ebrei perché di solito venivano al seguito dei
genitori, e solo gli ebrei venivano rastrellati in quel modo, con tutta la famiglia.
Ricordo che poco prima che sfollassero il campo di Ravensbrück, la direzione era
allo sfascio, non andavamo a lavorare e potevamo girare dappertutto senza grosse
preoccupazioni. Quella libertà ci faceva paura: tememmo che fosse la nostra fine.
Proprio durante un’esplorazione in una baracca abbiamo trovato dei bambini. Sapevamo della loro esistenza perché li vedevamo all’appell, ma pensavamo che fossero
morti. Invece erano ancora vivi. Era così pietoso vederli stare ritti durante le adunate, magri da far spavento! Li contava sempre una donna delle SS; una
sera ha fatto una carezza ad un bambino, un pidocchio le è rimasto sulla
mano, così ha massacrato di botte
quella povera creatura! Brutte
bestie!
Ricordo che con noi, quando
appena catturate eravamo in prigione a Como, c’era una famiglia ebrea
composta da padre, madre, un
maschietto di quattro o cinque anni
e una femminuccia di dodici anni,
Stellina. Gina è sempre stata molto
Questi ebrei sono stati selezionati ed il loro destino è la camera a gas. dolce ed affettuosa con quella bam93
“In questo ambiente insolito i bambini piccoli si mettevano solitamente a piangere. Ma dopo essere stati consolati...si avviavano verso le camere a gas giocando e scherzando, con un giocattolo tra le mani” (Memorie di Rudolf Hoess).
Schedatura di un ragazzo ad Auschwiz.
Attraverso queste aperture collocate sul tetto venivano gettate nelle camere
sottostanti le scatole contenenti il gas che si spandeva immediatamente.
Contenitori di acido cianidrico (ZYKLON-B)
destinato alla gassificazione.
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bina, forse perché a casa lei aveva
lasciato un bimbo piccolo.
Successivamente,
eravamo
arrivate ad Auschwitz già da un
pezzo quando abbiamo rivisto
Stellina che, appena ha riconosciuto Gina, le è corsa incontro, e
lei, quando eravamo chiuse nel
blocco, la coccolava continuamente. Gina le chiese che fine
avessero fatto i suoi genitori, e lei
rispose candidamente: “Mamma
è andata in un altro campo, e
dopo ci andrò anch’io”.
Invece noi sapevamo dov’erano finiti la sua mamma ed il suo
papà… per “altro campo” i tedeschi intendevano il crematorio.
Un giorno vedemmo Stellina che
stava piangendo come una fontana, così la Gina le chiese che cosa
avesse; lei rispose che si era fatta
sotto a causa della diarrea, che
l’avevano costretta a raccogliere
tutto con le mani e che le proibivano di lavarsi!
Poi… ricordo che nel mese di
luglio c’è stata una festa in onore
del Führer, noi stavamo rientrando, e sulla strada incontrammo
una colonna di bambini che invece usciva… tra loro c’era anche
Stellina. Gridò felice, candida ed
inconsapevole: “Gina, Gina,
ciao! Vado dalla mamma!”.
Quella notte hanno bruciato
settecentocinquanta bambini
ebrei per festeggiare il Führer!
Che differenze c’erano, qualitativamente, tra i kommandi?
Ricordo che un mattino chiamarono la mia amica Emma e
l’assegnarono ad un altro kommando, chissà per quale miracolo. In seguito cambiò
anche blocco.
Qualche tempo dopo la rivedemmo e ci disse che andava a coltivare i fiori dei
giardini!11. Non solo il lavoro era leggero, ma aveva anche la possibilità di stare a
contatto con i civili, rimediando qualche cosa in più da mangiare. L’ultima volta che
io, Gina e le altre l’abbiamo vista stava male, aveva la diarrea, il male più terribile
che potesse esserci là dentro. Non era andata a lavorare e ogni due minuti correva al
gabinetto, ma ricordo che aveva un cencio pieno di pane, e che non ce ne voleva dare
neanche un pò. Era una cattiveria, perché praticamente lei stava male, e quindi non
poteva mangiare, mentre noi morivamo di fame?!? Ci siamo così arrabbiate, io e la
mia amica, che le abbiamo mandato un sacco di accidenti. Dopo di allora non l’ ho
più vista; non è tornata, né sappiamo se è morta o se non è voluta tornare a casa. Era
sposata ma aveva una vita molto infelice. Forse non se l’è sentita di farsi viva con il
marito, forse si è nascosta. Nessuno sa che cosa le sia successo.
I tedeschi facevano differenze tra il lavoro maschile e quello femminile?
Il lavoro era lo stesso, non c’erano differenze. Quando ad Auschwitz scavavamo
i fossi con noi c’erano gli uomini.
E quando era periodo di zappare,
noi lavoravamo la terra e loro buttavano la cenere degli ebrei sulle
zolle come concime.
In fabbrica c’era qualche
uomo, ma nel mio reparto no.
C’erano degli elettricisti italiani,
prigionieri di guerra, tra cui un
bel ragazzo alto e prestante; stava
piuttosto bene, perché quelli che
facevano quel tipo di lavoro venivano trattati meglio.
Così una delle SS più feroci ha
cominciato a fargli la corte. Un Non c’era differenza tra il lavoro maschile e quello femminile, anche le donne
giorno lei si avvicinò a noi e ci venivano “usate” per i lavori forzati.
chiese come si dice “mio amore”
in italiano.
“Tu, italianka, spreken mai liben?”.
“Mio amore”.
Glielo abbiamo dovuto dire, altrimenti… ci avrebbe riempite di bastonate…
Capitava di riuscire a parlare con loro?
Quando i kommandi si incrociavano chiedevamo sempre: “Ci sono italiani, ci
sono italiani?”.
Di prigionieri ce n’erano pochi: la maggior parte erano militari.
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11 Per mimetizzare l’attività dei KZ, i tedeschi ricorsero a tutta una serie di abili stratagemmi: costruirono serre, voliere, tipici villini del nord,ecc.
C’era qualche ebreo, come quello che ripeteva sempre: “Qua moriamo tutti, qua
moriamo tutti”. Tanto che alla fine nessuno gli rispondeva più. E poi ce n’era un altro
che diceva: “Io ero un ingegnere”. E ripeteva continuamente: “io ero, io ero, io
ero...”. Tanto che una volta gli dissi: “Ma adesso siamo qui, e quel che eravamo non
lo siamo più, non contiamo più niente!”.
Anche tra le donne c’era chi rifiutava di svolgere i lavori più pesanti ed umili perché prima di essere catturate erano delle persone importanti. La mia amica era troppo buona, piuttosto che vederle ammazzare di botte faceva anche il loro lavoro! Io
invece no.
96
La sete
Qual è la cosa che ricorda con maggior fastidio?
Il non capirsi, quella era per me la cosa peggiore. Capitava che una russa mi rivolgesse la parola e che io interpretassi quello che diceva in un altro modo.
Le russe erano affiatate e molto più forti di noi italiane, per questo sul lavoro
erano trattate con un occhio di riguardo; ricordo che quando dovevamo caricare i
camions di ghiaia e grossi sassi, mentre la mia forca arrivava in alto vuota, la loro era
sempre piena. “Sciaiser, sciaiser”, non facevano altro che ripeterci questa parolaccia.
Il problema era che non capivamo niente! Quando non si capisce la lingua, diventa faticoso vivere! Sì, qualche parola l’ ho imparata, ma il problema era che magari
il comandante parlava tedesco, la lager – führer, cioè la comandante del campo, il
polacco; poi, magari una parlava sloveno, un’altra il russo... era la torre di Babele,
tutte le lingue e tutti i dialetti assieme. Poi eravamo anche miste nei blocchi, e visto
che noi italiane eravamo poche, ed eravamo anche disperse, una in un blocco, una in
un altro, ci trattavano come pezzenti.
… Poi… forse non è difficile da capire… la sete era un’altra cosa terribile! Un
vero tormento!
Ricordo che una volta, era il mese di luglio e faceva un caldo tremendo… forse
la Polonia è una terra maledetta, quando fa freddo si gela, quando fa caldo si brucia…
quella mattina siamo andati a lavorare come sempre; lì vicino c’era una specie di
ruscelletto ma l’acqua era ferma.
I primi ad entrarvi sono stati i cani, e ci hanno sguazzato in tutti i modi possibili.
Nell’intervallo ci siamo avvicinate a quella pozza e vi abbiamo sciacquato le
mutande e quei quattro miseri cenci che avevamo; poi, nel pomeriggio, non ce
l’abbiamo fatta più e abbiamo bevuto quell’acqua fetida.
La fame è una brutta bestia, ma anche la sete non scherza! Avevamo sete da morire e faceva un caldo pazzesco.
L’acqua era sporca, lurida di tutto, con dentro lunghi vermi e peli di cani.
Allora abbiamo preso l’orlo del nostro cencio, abbiamo filtrato l’acqua e
l’abbiamo bevuta. Quella è stata la cosa che ci ha fatto più ribrezzo in assoluto.
Quando a luglio o agosto, passando vicino a qualche casetta delle SS o dei civili,
vedevamo i pozzi, era una tortura indicibile non poterci avvicinare.
Tutte quante sognavamo di poterci lavare con il sapone e di toglierci di dosso
quella crosta sudicia che non veniva via neanche strofinandoci a sangue.
Ricordo che, dopo che i russi ci hanno liberate, siamo andati dentro le case dei
civili e abbiamo rubato i vestiti e le lenzuola. Quando noi e i nostri compagni siamo
arrivati nel campo americano e abbiamo potuto fare un vero bagno, mi sono sentita
rinascere.
Quella sera, poi, abbiamo finalmente potuto dormire con una camicia da notte tra
le lenzuola. E’ stata la sera più bella della nostra vita, anche se abbiamo dormito per
terra.
La disinfestazione...!! Quella era un’altra tortura, e poi non serviva a niente…
97
Prima di entrare nella baracca della doccia, bisognava spogliarsi fuori ed attendere il proprio turno… se ci fosse il sole, la pioggia o la neve, per loro non faceva alcuna differenza.
Mentre aspettavamo dovevamo tenere i nostri quattro stracci arrotolati in un certo
modo, così da far vedere il numero, e una volta dentro ci facevano aspettare ore e ore,
nudi, in un posto che era senza vetri e senza niente… poi, finalmente, sotto l’acqua
che un momento usciva bollente e subito dopo gelata. Dopo, usando lo stesso pennello intinto nel medesimo mastello, ci davano una pennellata dicevano che serviva
per non farci venire la scabbia… ma bastava uno che ce l’avesse avuta.. in quel modo
avrebbe contagiato tutti gli altri.
Poi dovevamo aspettare fino a quando non ci avrebbero ridato i vestiti, ma intanto era trascorsa tutta la notte ed era mattina, e quando suonava il gong, senza cena,
senza dormire, senza colazione, dovevamo andare a lavorare.
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Sofferenza fisica, psicologica, morale…
ma il volo di una rondine e il ricordo della mamma…
Che effetto faceva vedere attorno a sé tanti morti?
Non ci facevano più impressione perché non eravamo più delle persone!
Quando al mattino si faceva l’appell per andare a lavorare, quelli addetti a raccogliere i morti erano già in movimento, vedevamo barelle, carretti pieni di morti...
Nessuna impressione però.
Anche se c’erano delle persone
che conoscevamo e che non si
riconoscevano più. Giustamente, come dicono anche i libri,
se stavamo senza vederci
anche solo una settimana, era
difficile riconoscerci.
Quando ci si rivedeva, ci
interessava sapere dall’altro un
parere sul nostro aspetto fisico… la prima cosa che si chiedeva era: “Come mi trovi?
Come mi trovi?”.
Sempre si mentiva a noi Bergen-Belsen: le ex guardiane del campo obbligate alla rimozione e allo sgombestesse, dicendoci tra di noi che ro dei cadaveri.
non eravamo dimagrite… Era una menzogna! Vivere era davvero difficile, si rischiava costantemente d’impazzire.
Quando si arrivava a quello
stadio, era la fine, non c’era più
nulla da fare, non si aveva più
interesse per nessuna cosa, non
interessava più lavorare per
non essere ammazzate di botte,
non interessava mantenere quel
minimo di pulizia che si poteva
tenere... interessava solo mangiare, anche se certi smettevano anche di cercare tra i rifiuti.
Quando siamo andate a
lavorare in fabbrica, del mio
trasporto c’era solo Antonietta,
che era più giovane di me.
Poverina, era proprio arrivata a
quel punto lì, io dovevo dirle di
mangiare, di lavarsi, quasi I vivi convivevano con i morti con una rassegnata indifferenza generale.
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l’obbligavo! Quando lavoravamo in fabbrica c’era la possibilità di poterci bagnare le
mani e lavarci il viso, anche se non potevamo asciugarci, ma era sempre qualcosa, e
sentivamo il bisogno di farlo.
“Devo vivere, devo tenermi ancora come una persona!”… Mi ripetevo continuamente.
Quando al mattino ci davano la sveglia, avere la possibilità di pettinarci, anche se
erano più pidocchi che capelli, ci sembrava una cosa grande. Invece Antonietta non
faceva più niente. Allora la obbligavo a vestirsi, a pulirsi, a levarsi un poco i pidocchi... era arrivata ad uno stadio che, se non ci fossi stata io, sarebbe morta, perché se
le davano un comando lei non obbediva, e dai oggi, dai domani, le avrebbero dato
talmente tante bastonate che sarebbe finita male. Non aveva più volontà e lì, quando
cadeva quella, era la fine!
Che cosa vi spingeva a farvi quelle domande sul vostro aspetto fisico: lo spirito
di sopravvivenza, la volontà di affermare la propria femminilità o che?
Non eravamo più donne, non eravamo più niente. Quando ci si chiedeva: “Come
mi trovi?”, e ci si sentiva rispondere: ”Bene, bene”, era per pensare: “Allora non
vado al crematorio, posso sperare di uscire viva da qui”. Perché la speranza era sempre quella, malgrado certe volte si pregasse la morte, tanto è vero che, quando incrociavamo il kommando dove c’era quell’ebreo che diceva sempre: “Qua non si esce
più, qua non si esce più”, noi rispondevamo: “Se vuoi crepare, crepa!”.
D’altra parte, chi ci avrebbe proibito di toccare i fili? Se solo lo avessimo
voluto… sarebbe stato facile!
Quante volte, se si doveva
svolgere un lavoro superiore alle
proprie forze, si diceva: “Se io
domani devo fare ancora questo
lavoro, tocco i fili e non se ne
parla più”. Ma non era così.
Quando ci facevano trasportare le
rotaie per far passare quei carrelli
pieni di materiale, e dovevamo
fissarle in mezzo al ghiaccio o al
fango... era veramente impossibile! E quando dovevamo spostare i
carrelli, guai a rovesciarne uno!
Il suicidio, l’unico modo per porre fine alle inumane sofferenze, bastava gettar- Era la fine del mondo! Spesso ci
si sui reticolati nei quali circolava la corrente ad alta tensione.
toccava di spostare dei grossi
sassi da una parte all’altra del campo, ce li facevano mettere sopra una draga, una
specie di barellatta, e poi in due dovevamo portarli via. Se capitavano sassi pesanti
sessanta, ottanta chili , tanto che quando li sollevavamo si sentiva la schiena che si
rompeva, allora si diceva che non avremmo più sopportato tutto ciò, ci tornava il
desiderio di morire!… Anche per l’inutilità dei lavori che ci facevano svolgere… per
100
che cosa, poi? Se un giorno ci facevano portare i sassi da una parte, il giorno dopo
ce li facevano portare da un’altra. Del resto, quando non c’era più lavoro, la manodopera bisognava tenerla occupata, e allora ci facevano fare cose faticose e senza
senso, che servivano solo a finire di distruggerci fisicamente.
Quando sono andata alla scuola di mio nipote Davide a dare la mia testimonianza, e mi hanno chiesto che cosa mi ha aiutata ad uscire dal campo, ho risposto:
“Prima di tutto la fede e il desiderio di rivedere la mia mamma, poi, quello che ci ha
dato la forza e la speranza è stata una rondine”… ma come si può pensare possa vivere con 18 gradi sotto zero?
Quando lavoravamo con i carri, noi dovevamo caricarli mentre gli uomini li dovevano scaricare e noi, nell’attesa, ci mettevamo dentro una baracca, forse era stata una
casa, ma il tetto non c’era più. In un angolo c’era una stufa e là si mettevano le SS e
le kapò che ci comandavano. Noi eravamo rattrappite le une sulle altre, ad aspettare
di morire di freddo. Fin dai primi giorni, però, avevamo visto una rondine fare il nido
su un ramo di un albero lì vicino. Quella è stata la nostra forza, perché dicevamo: “Se
le rondini vanno via quando comincia a far freddo per cercare posti più caldi, può
darsi che qui viva una rondine?!?”.
Eppure l’abbiamo vista. Era primavera, io sono arrivata in Auschwitz il 28 marzo,
ma lì il caldo arriva molto più tardi, infatti eravamo ancora a 18 gradi sotto zero… e
pensare che, quando siamo arrivate, ci hanno detto che eravamo state fortunate, perché erano arrivati anche a 25 gradi sotto zero.
Con i carri abbiamo lavorato per tutto il primo mese, fino alla fine di aprile: dovevamo trasportare tutto il marciume e la spazzatura che c’era nel campo, impregnato
di tutte le sporcizie possibili, e lo dovevamo fare con le mani! Quando succedeva di
tirare i carri dei pozzi neri ed i carri traboccavano, capitare davanti voleva dire essere fortunati, ma se invece capitava di stare dietro... non è difficile immaginare in che
stato ci potevamo ridurre… Bisognava tirare fuori dai pozzi delle enormi cisterne che
dovevamo caricare sui carri, poi trascinarli per due o tre chilometri. Per fortuna che
a svuotarle ci pensavano gli uomini . Se ci si sporcava non ci si poteva né lavare né
cambiare, si aspettava che piovesse e, intanto, si era maltrattati ancora di più perché
si puzzava. La prima volta che sono riuscita a lavarmi erano passati quaranta giorni
e le mie mani... non lo so che cosa erano diventate.
No, non eravamo né donne né bestie, perché anche le bestie erano più pulite di
noi.
Di che cosa parlavate tra voi donne?
La famiglia era l’argomento del quale si parlava di più, e per la mamma c’erano
sempre le parole più belle.
Nel nostro gruppo una sola era sposata, ed era quella che poi non è tornata.
La bimba le era morta prima che l’arrestassero ed il marito era un tipo molto egoista!
La Gina aveva il suo bambino e ne parlava continuamente, tanto che ormai lo
conoscevamo tutti. Quando è partita lui aveva sei anni. Pensava sempre a lui, al suo
Umberto.
101
Certe volte, però, eravamo così rincretinite che non riuscivamo a pensare più a
niente, nella nostra mente esisteva solo il pensiero del mangiare che non c’era. Ecco,
quello che ci interessava era come trovare qualcosa da mangiare per sopravvivere.
Anche una semplice radice per noi andava bene, la sete poi, era una cosa pazzesca. Così, il pensiero della casa c’era, ma eravamo diventate quasi insensibili.
Eravamo bestie, se non peggio. Non riuscivamo a capirci... però al mattino, prima
di iniziare l’appell, intanto che ci mettevamo in fila ci raccontavamo i sogni della
notte. Sognavamo pane in quantità e le scarpe (dicono che sognare le scarpe voglia
dire viaggiare). Così, al mattino, ci si diceva: “Mi sono sognata questo...mi sono
sognata quello....”. Ricordo che una volta ho sognato una scala alta, ed io che, dopo
essere salita su, cadevo giù. Poi, però, ero riuscita a salire e poi a scendere senza
cadere.
Ognuna dava ai sogni una propria spiegazione.
“Ecco, sì, dobbiamo ancora soffrire, ma alla fine ce la faremo...”. Erano cose che
si dicevano così, per tenerci su il morale... ma la situazione era tutt’altro.
Naturalmente si parlava di mangiare. Con noi c’era una signora molto per bene di
Gruppo di donne con bambini avviato alle camere a gas.
Milano, abituata a fare grandi pranzi.
Allora ogni tanto le chiedevamo:
“Signora Angela ci prepari un pranzo!”.
Cominciava dall’antipasto per finire al
dolce, e poi descriveva la tovaglia, le
posate, tutto. Dicevano che avesse un
amante molto ricco. Quando siamo state
divise, con il trasporto della signora
Angela viaggiava la mia amica; faceva
freddo, c’era la neve, ed i vagoni erano
scoperti. Durante il viaggio si sono fermati ad una stazione, dove qualche
anima buona dava qualcosa da mangia-
Selezione effettuata dal medico delle SS dott. Thilo. Sullo sfondo un
gruppo di persone che si dirige verso le camere a gas. Fotografia originale del Hauptscharführer delle SS Walter.
Parte dei deportati vennero rimpatriati su camions americani. In questa foto li vediamo mentre vengono riforniti di viveri dagli accompagnatori.
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re. Un signore l’ ha vista e l’ ha chiamata, e lei ha detto alla mia amica che era lui il
suo amante. Come l’abbia riconosciuta non lo so.
Ogni tanto ci permettevano di scrivere a casa. Ma per farlo dovevamo sacrificare
una mezza razione di pane per acquistare la lettera, e un’altra mezza porzione per
scriverla, perché lo si doveva fare in tedesco… ma non erano vere lettere, perché
dovevamo mettere delle crocette in un modulo prestampato, tipo: io sto bene, crocetta. Il lavoro va bene, crocetta.
A casa mia le lettere non sono mai arrivate.
Da casa potevano scrivere, ma la posta arrivava raramente. E molte volte è capitato che ci hanno dato la busta vuota, questo per noi era un colpo tremendo. Durante tutto il tempo che sono stata ad Auschwitz ho ricevuto una sola lettera, ma la
mamma invece mi disse che mi scriveva tutte le settimane, aveva conosciuto una
signorina che le traduceva la lettera in tedesco gratis.
Mi ricordo che c’era scritto: “E’ nato il bambino di Paola e si chiama Mario. Bianchina sta bene, Sniff ti aspetta...”. Era una lettera completamente scema perché, come
mi hanno spiegato poi, a parte la notizia della nascita del figlio di mia sorella non
sapevano che cosa mettere, così, mi hanno parlato della mia gattina e del mio cane.
Sapevano che eravamo andati in Germania a lavorare, ma non il posto dove eravamo
esattamente e né che cosa ci stesse succedendo veramente. Non so se le lettere le
davano al consolato. La sola cosa che hanno ricevuto è stata quel modulo di cui parlavo, ma nessuno credeva a quello che c’era scritto.
Circolavano tante voci... mi hanno detto che una sera papà è rientrato ed ha trovato la mamma a piangere: “La Lisetta è morta”.
“Chi te l’ha detto?”. Mio padre domandò.
“Si dice che è arrivato il telegramma ai carabinieri dove c’e scritto che è morta!”.
“Ma te l’hanno portato?”.
“No”. Rispose mamma.
Allora c’era il coprifuoco, ma quando mio fratello quella sera è rientrato dall’ufficio è ugualmente andato in giro fino alle undici per cercare di avere mie notizie,
rischiando di essere preso e fucilato; c’era chi gli diceva una cosa, chi invece ne diceva un’altra… poi è tornato e ha detto: “Non crediamo alle voci perché nessuno sa la
verità, ai carabinieri non è arrivato niente”.
Ogni tanto arrivava una voce che eravamo tutti morti. Quando è arrivato il modulo con le crocette, i carabinieri dicevano che non dovevano credere a quello che c’era
scritto.
Fino al rientro dei primi sopravvissuti, i miei genitori non avevano la certezza che
fossi ancora viva.
Non vedevo mio fratello da prima del mio arresto. Come ci spostarono da Lecco
a Bergamo, ci permisero di rivedere i genitori. Mi ricordo che sistemarono su un
binario morto un vagone e ci misero lì dentro, ma non potemmo avvicinarci ai nostri
familiari perché i fascisti avevano fatto un cordone attorno al vagone. Mio fratello
era andato per lavoro a Milano, e la mamma mi disse di avergli comunicato l’orario
e che era sicura che sarebbe tornato per salutarmi, ma purtroppo non fece in tempo.
103
Lui andava sempre al sanatorio a fare volontariato, era un componente dell’Azione Cattolica e si prestava a fare assistenza ai bisognosi. Allora una dottoressa l’ ha
preso in simpatia e gli ha fatto una dichiarazione in cui si diceva che era malato e così
riuscì a non fare il militare; veramente mio fratello era molto delicato, era praticamente l’ombra di se stesso.
Una volta partiti, i ferrovieri ci fecero capire che, appena saremmo stati vicino al
confine, volendo, avremmo potuto scappare, ma il mio pensiero correva a lui, a mio
fratello, perché, quando ci minacciavano, dicevano che se qualcuno di noi fosse scappato, sarebbero andati ad arrestare i nostri familiari… ed io sapevo che, se lo avessero arrestato, lui non sarebbe più tornato.
Anche dal lager qualcuno è scappato, allora suonava la sirena e ci impedivano di
affacciarci, oppure ci sbattevano fuori all’appell, e ci facevano restare lì fino a che
non ritrovavano il fuggitivo… la maggior parte delle volte lo fucilavano o
l’impiccavano.
Sono stata fortunata, perché non ho mai dovuto assistere ad un’impiccagione.
So che poi li lasciavano esposti per giorni e giorni, in bocca ai topi e ai corvi.
Qualcuno non è stato ripreso,
forse anche perché conosceva la
lingua ed aveva trovato dei posti
dove nascondersi.
Per noi donne, noi italiane
soprattutto, era più difficile scappare… dove potevamo andare?
Non conoscevamo né il posto, né
la lingua, e se ci avessero viste i
civili, ci avrebbero uccise per la
paura. Sì, ogni tanto qualcuno
scappava, ma abbiamo sempre
saputo che erano uomini.
Detenuti che, dopo essere stati bastonati a sangue, venivano appesi a dei pali.
104
Il lager, un colore morto
Vi è mai stato proposto di “intrattenere” i soldati?
In alcuni campi c’erano dei bordelli a cui erano addetti kommandi specifici.
Una delle prime sere in cui eravamo ad Auschwitz durante l’appello la blocova ci
disse qualcosa che, ovviamente, noi non capimmo. Allora ci siamo rivolte alla prigioniera che parlava cinque lingue, la signorina Margherita.
Ci tradusse: “Io ve lo dico, ma tanto so che nessuna aderirà: la blocova ha chiesto se ci sono ragazze che vogliono andare a Rampuc”.
Si chiamava così la casa dove si “intrattenevano” i soldati.
Mentre a noi lo chiedevano, le ebree, quelle più belle ci venivano mandate direttamente. Quando capitava di andare a lavorare passando davanti a quel campo, ritornando si vedevano delle baracche abbastanza belle con delle ragazze sedute e la biancheria stesa al sole ad asciugare. I primi tempi ci chiedevamo chi fossero, dopo
abbiamo saputo che quelle erano le case del piacere.
Povere ragazze, sottomesse alla volgarità di quella gentaglia; e poi bastava che,
dopo aver fatto tutte le porcate possibili, uscivano e dicevano che non erano stati soddisfatti, allora la ragazza sarebbe stata fucilata o mandata alle camere a gas… ma non
sarà andata all’inferno quella gente là?… Ma il Signore è misericordioso, non bisogna giudicare, perché forse si sono pentiti. Se Dio ha salvato il ladrone sulla croce,
salverà anche loro!
C’erano piante o fiori e animali nel lager?
No, niente di niente. Le sole piante che ho visto erano in campagna e, a parte i
cani delle SS, non c’erano altri animali. Io personalmente non li ho visti, ma sui libri
ho letto che alcuni campi di concentramento erano invasi dai topi… ho letto che scorrazzavano sulle persone che dormivano. Ringrazio Dio che io non li ho visti, ho tanta
paura dei topi! Gli unici animali con i quali ho avuto a che fare sono stati le cimici
ed i pidocchi. Che schifo, non appena ci stendevamo su quel tavolaccio e ci toccavamo, la mano si riempiva di quelle brutte bestie... erano anche pericolose, perché ci
succhiavano quel poco sangue che ci era rimasto.
La paura delle cimici e dei pidocchi me la sono portata dietro per anni… quando
mettevo in ordine il letto le andavo a cercare. L’incubo dei pidocchi ce l’ ho ancora,
mi basta parlarne che ho il prurito addosso.
Lei ha avuto un negozio?
Sì, ho aperto un negozio di generi alimentari in via Ugo Foscolo, dove adesso c’è
la riscossione dei tributi. L’ ho aperto quando sono venuta a Pescara, nel 1955, e l’
ho chiuso nel 1979, quando è nato mio nipote Michele. Era una lotta continua con
mio marito, perché a lui il negozio non piaceva. Ma era stato lui a voler venire a
Pescara per stare vicino ai suoi, perché io stavo benissimo anche a Lecco, ma siccome la moglie deve seguire il marito...
105
Ricorda qualche suono particolare, qualcosa che le è rimasto scolpito nella
mente e che ancora l’accompagna?
Il fischietto. Era una vera tortura, una penitenza, non appena si rientrava nelle
baracche, la SS fischiava e noi dovevamo uscire fuori per l’appello.
Fischiavano per l’appello, sul lavoro... il suono del fischietto non significava mai
niente di buono! Poi c’era il gong del mattino.
… Ma il ricordo più raccapricciante sono le urla degli ebrei!
Deportati in attesa della selezione che avveniva sempre all’arrivo dei convogli su una rampa della stazione di AuschwitzBirkenau.
C’è un colore che per lei possa simboleggiare il lager?
Non so che dire... un colore morto, forse. Non avevamo colori, la baracca era grigia, il campo era grigio, tutto era grigio, era tutto molto brutto e triste. C’era sempre
Il campo di concentramento di Auschwitz visto dall’esterno con una Carro pieno di morti che verranno bruciati nei forni crematori.
torretta per le sentinelle e la cinta in filo spinato nel quale circolava
corrente ad alta tensione.
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“Secondo la dimensione dei cadaveri, in un forno potevano esserne introdotti fino a tre... I crematori I e II potevano incenerire in 24 ore fino a duemila corpi” (Memorie di Rudolf Hoess).
quella sensazione di morte...
Il forno crematorio, quello era rosso. La
fiamma era di diversi colori, secondo la
combustione.
Quando le persone da bruciare erano
poche, si vedeva solo il fumo. Altrimenti si
scorgevano le fiamme che uscivano fuori…
era la carne degli ebrei che bruciava!
Ha mai avuto la sensazione di incontrare qualcuno che lì la comandò?
Sì, un paio di volte. Uno era il proprietario del forno dove andavo a prendere il
pane. La prima volta che l’ho visto ho detto: “Questo è quella SS, ne sono sicura!”.
Chiedendo informazioni, ho saputo che infatti era stato con i tedeschi; mi raccontarono che quando è tornato in Italia, in divisa da tedesco, ha rubato tutto quello che
ha potuto, e poi ha aperto un forno e si è comprato il palazzo.
Io sono sicura che fosse una SS, perché fin dalla prima volta che l’ ho visto mi ha
colpita. Ne ho avuto praticamente conferma quando un giorno sono andata a prendere il pane e l’ ho sentito che parlava con un signore decantando i tedeschi e i fascisti.
In quel momento ho sentito dentro di me una rabbia tale che non ho capito più
nulla…: ho tirato su la manica e gli ho gridato: “Non vi vergognate a dire queste
cose! Nemmeno sopra questo numero vi vergognate?”.
Sa che cosa mi ha risposto?: “Se te l’ hanno fatto, vuol dire che te lo meritavi”.
Non so dire che cosa ho provato. Non ho avuto il coraggio di continuare, altrimenti lo avrei preso a schiaffi. Ho pensato che per parlare così doveva essere un
delinquente, ed io avevo dei figli, che magari mi uscivano la sera e non mi sarebbero più rientrati… magari per colpa sua. Questo pensiero mi ha frenata. Però, quanto
mi ha fatto male! Era lui, sicuro.
Poi ce n’è stato un altro. Erano i primi giorni che stavamo in Auschwitz, e dovevamo raccogliere le fave. Io nemmeno sapevo che cosa fossero, perché a Lecco non
si coltivano, mentre a Milano sì.
I resti abbandonati dopo la cremazione.
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Quando abbiamo visto il campo, le milanesi si volevano avvicinare. Chi comandava era una SS giovane ma senza un braccio; appena ha capito cosa volevano fare
le due di Rescaldina, una località vicina a Milano, ha puntato loro la pistola.
Mi ricordo che portava la mostrina della Russia, forse era stato ferito lì.
Quando il mio nipotino si è ammalato di leucemia, io presi l’abitudine di andare
a messa tutte le mattine da Padre Guglielmo alle cinque e mezza; pregavo la Madonna di farlo guarire, ma lei l’ ha voluto con sé… lei sa il perché.
Alla Messa c’era un signore senza un braccio e con il portamento marziale; quando tornava giù dalla Comunione, a me sembrava di vedergli il berretto delle SS in
testa.
Mi faceva impressione e mi dicevo: “Questo è lui”.
Così ho chiesto informazioni, e mi dissero che era stato ferito in guerra, ma non
in Italia. Dopo un po’, non l’ ho più visto e mi hanno detto che era morto…
Non ho mai avuto il coraggio di approfondire, di vedere se effettivamente si trattasse della stessa persona, avevo paura che in me si scatenasse dell’odio.
Adesso dovrò pregare per la sua anima!
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76147
Qualcuno ha mai fatto osservazioni sul suo numero?
Quest’estate (estate 1995), andando dal mercato allo stadio, mentre aspettavo
l’autobus ho visto una signora che mi guardava e che scriveva qualcosa su un foglietto. Io portavo una camicetta a maniche corte, quindi il numero si vedeva.
Lì per lì non avevo intuito cosa stesse facendo, ma quando ho capito che mi stava
prendendo il numero, mi è venuta voglia di prenderla a botte...!! Ma non poteva chiedermelo?
Tante persone l’ hanno giocato al lotto, poi, se hanno vinto o no, non lo so.
Sono stata in pellegrinaggio a Lourdes con i sacerdoti malati; un giorno uno del
gruppo Fatebenefratelli che mi conosceva mi chiese: “Adesso mi fai copiare quel
numero lì? Lo voglio giocare a lotto!”. Io gli ho risposto di sì ma ad un patto, che se
fossero usciti quei numeri, avrei voluto la mia parte. Si scherzava, naturalmente.
Comunque, quella signora che se lo è scritto senza chiedermi niente ha sbagliato
sicuramente a copiarlo perché tutti leggono gli ultimi due numeri “77”, invece di “47”.
Quando negli anni passati qualcuno vedeva quei numeri, e magari era anche
più giovane di lei e della guerra sapeva poco e niente, cosa diceva?
Lo guardavano un po’... così.
Quando hanno mandato in onda “Olocausto”, che tra l’altro a mio parere non era
fatto bene e mi ha fatta un po’ arrabbiare per la misera verità dei suoi racconti, visto
che era estate, la gente sull’autobus non faceva altro che guardare il mio braccio. Si
tiravano le gomitate e indicavano verso di me. Mi sentivo molto umiliata…!!!
Che cosa pensa
dei documentari e
dei film che trattano questo argomento?
Spesso passano
in televisione un
documentario
su
Bergen Belsen e
raccomandano di
non farlo vedere ai
bambini e alle persone che possono
impressionarsi.
A me, devo dire
la verità, non ha
mai fatto impressione. Comunque, è
Bergen Belsen: il campo nella landa di Luneburg: Il Revier.
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un documentario ben fatto, anche se la realtà che abbiamo vissuto noi era diversa.
Però ricordo che l’ultima volta che l’abbiamo visto mi ha fatto stare molto male,
sono andata a letto tremando come una che ha le convulsioni, e per tutta la notte sono
stata con quel tremore, senza chiudere occhio. Ricordo che cercavo di calmarmi
dicendomi che erano cose passate, ma non ci riuscivo!
In fondo, io quella vita l’ ho vissuta, e non era la prima volta che vedevo quel
documentario. Chissà perché mi ha preso quell’ansia, quel terrore. Non so se avrei il
coraggio di rivederlo.
Quanti carri pieni di morti… quanti ne ho visti!
Sono immagini raccapriccianti, sono immagini che documentano una impressionante sequenza di morte, sono i deceduti di
Birkenau nel gennaio 1945. Uomini e donne strappati con violenza e senza motivo alcuno alle loro case, ai loro affetti, deportati, umiliati, maltrattati e uccisi...con la sola colpa forse di essere nati...!!
Lei ha avuto dei figli e dei nipoti, ha mai raccontato loro questa sua esperienza?
Con i miei figli non c’è stato mai molto dialogo su questo argomento. Con i miei
nipoti, invece... Sergio mi ha pregata più di una volta di scrivere, ma io gli ho detto
di no perché ho fatto solo la quinta elementare… scrivo male, senza grammatica,
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insomma, non ho voluto.
Mi ha anche detto che me l’avrebbe corretto lui, ma io non l’ ho voluto fare lo
stesso. Me lo aveva chiesto anche una mia cliente.
Una volta mi sono confessata a San Giovanni Rotondo. Ero piena di ribellione
perché il mio nipotino era morto, e dicevo che non era giusto, perché il mio debito
l’avevo già pagato.
Una frase stupida, perché i debiti a Dio non si finiscono mai di pagare.
Allora quel sacerdote mi ha detto: “Signora scriva, scriva, perché se Padre Pio non
avesse scritto le sue memorie, nessuno avrebbe saputo chi era”.
Non me la sono mai sentita. Però, mi piace raccontare, non mi dà fastidio, ne parlo
senza rancore, perché adesso non sento più niente.
Questa esperienza ha pesato sui suoi rapporti con gli altri?
No, ma io i primi tempi non potevo sentire i tedeschi. Quando sono venuta a trovare i familiari di mio marito (ci siamo sposati a dicembre e sono venuta a conoscere i miei suoceri in agosto) eravamo in stazione io e il mio papà. C’erano delle persone, e ho riconosciuto dalla lingua e dall’aspetto che erano dei tedeschi; ad un certo
punto ho detto a mio padre: “O ce ne andiamo via oppure vado là a dirgliene quattro”.
In me, non c’era odio, ma rancore sì. Al punto che se succedeva qualcosa in Germania ero contenta.
A me, chi mi ha aiutata è stato Padre Guglielmo, con il suo silenzio.
E’ una sopravvissuta, cosa significa questo per lei?
Significa che la mia croce non è mai finita.
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Riporto solo questi dati di pochi mesi raccolti dal libro di Corrado
Saralvo “Più morti più spazio”, per far capire la mostruosità di quanto è accaduto nel lungo periodo in cui si è adempiuto questo massacro.
Cifre impressionanti relative alla sorte dei deportati dall’Italia, italiani o stranieri giunti ad Auschwitz fra i mesi di maggio e settembre del 1944:
Numero di deportati arrivati:
29.790
Numero di deportati entrati nel lager:
6.650
Numero di deportati eliminati all’arrivo:
23.140
Il colonnello delle SS, Franz Ziereis,
comandante del lager di Mauthausen,
posa sul luogo dei suoi efferati crimini
al tempo in cui aveva pieno potere di
vita o di morte sui suoi prigionieri.
Da maggio a luglio, n° cadaveri arsi nei crematori: 1.314.000
In un solo trimestre i nazisti di Auschwitz avevano soppresso
più di un milione e trecentomila prigionieri.
I dati riguardanti il numero degli ebrei italiani è:
Numero degli ebrei italiani deportati:
7.495
Numero degli ebrei italiani reduci dalla deportazione:
610
Ziereis (al centro) non ha difficoltà a dimostrare a Himmler (a sinistra) e a Kaltenbrunner, durante una loro visita
al campo, che Mauthausen funziona perfettamente come
fabbrica di morti.
Un altro documento fotografico dell’ispezione del campo
effettuata da Himmler, l’ideatore e realizzatore dei numerosi campi di sterminio installati dai nazisti.
Mentre la soppressione dei deportati provenienti
dalle altre nazioni d’Europa era avvenuta gradualmente, quella delle molte centinaia di
migliaia di ebrei ungheresi fu condotta in massa
con un ritmo senza precedenti nel campo di Birkenau.
Infatti, mentre fin dai primi mesi del 1944 il
Governo Ungherese si era opposto alla deportazione degli ebrei dal Paese, quando entrò in
carica il nuovo Governo imposto dai nazisti,
venne operato un colossale sterminio con il consenso delle autorità.
Ziereis fotografato mentre procede alla premiazione di militi SS particolarmente distintisi nel sopprimere i deportati.
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RACCONTO E TESTIMONIANZA DELLA SIGNORA ELISA
MISSAGLIA SOPRAVVISSUTA AL LAGER DI AUSCHWITZ
Intervista di mercoledì, 24 marzo 1999
presso l’Istituto Statale d’Arte di Pescara
Quando mi hanno arrestata avevo 24 anni, ero una ragazza normale e, come tutte,
anch’io piena di sogni e di speranze. Ero cresciuta in una famiglia di ceto medio, con
sani principi morali e religiosi; nessuno della mia famiglia aveva aderito al partito
fascista ed il 7 marzo del 1944, quando per motivi abbastanza seri abbiamo avuto
l’opportunità di dimostrare le nostre idee contro il regime fascista, ci è sembrata una
cosa meravigliosa.
In quel periodo si viveva solo con la tessera; i tedeschi stavano portando via dall’Italia macchinari ed opere d’arte e arrestavano tutti gli ebrei per deportarli nei
campi di concentramento.
Quel giorno fu proclamato uno sciopero e dopo due ore arrivarono i questurini
fascisti che fecero una retata arrestando i più sfortunati: 5 donne e 22 uomini. (Di
questi siamo tornati in 7, 4 donne e 3 uomini)
Da quel momento ogni sogno svanì. Speravamo in un semplice interrogatorio,
invece ci hanno portato in prigione a Como. Dopo 7 giorni ci hanno trasferiti a Bergamo dove ci hanno consegnati ai tedeschi. Dopo 3 giorni siamo partiti per la Germania. Ormai eravamo diventati tanti, perché nella prigione di Bergamo si erano
uniti a noi anche molti prigionieri provenienti da altre parti d’Italia. A noi ragazze si
sono unite due di Como; alla fine eravamo 7 ragazze e 700 uomini: destinazione
Mauthausen.
Vi lascio immaginare cosa è stato l’impatto con il campo di concentramento!
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Appena arrivate siamo state portate alle famigerate docce, spogliate nude davanti al Kommando tedesco delle SS, rivestite come pagliacci e portate in cella. Lì siamo
rimaste 3 giorni, poi siamo partite di nuovo, destinazione: la prigione di Vienna… era
una vera prigione. A contatto con tante altre, non avevamo la possibilità neanche di
comunicare e parlare, perché eravamo di tutte nazioni diverse. Eravamo circa una
trentina.
Alla sera portavano in quel camerone dei luridi sacconi di paglia, pieni di bestie,
che ci servivano per letto. Per i nostri bisogni personali c’era in un angolo un secchio, in vista a tutti, che poi le più sfortunate dovevano vuotare.
Ma in confronto a quello che ci aspettava, questo si poteva chiamare un posto di
villeggiatura.
Dopo una settimana, di nuovo partenza e questa volta doveva essere definitiva,
perché da quel campo dove eravamo dirette sapevamo che non saremmo uscite vive:
destinazione Auschwitz, uno dei campi di sterminio più famosi.
Lì è cominciato veramente il cammino della morte!
Siamo arrivate di notte. Il primo impatto è stato con le alte fiamme dei forni crematori… la puzza di carne bruciata era impossibile da descrivere!!
Abbiamo passato in un’immensa camera il resto della notte e la mattina del giorno dopo; si vedeva fuori un inferno di tormenta… eravamo a 20° sotto zero.
Ci hanno portate nude alle docce, perquisite, rapate, spogliate di tutte le cose a noi
care! Ci hanno tatuato sul braccio sinistro il numero che da quel momento è diventato il nostro nome… era ed è tuttora, perché ancora lo porto: 76147. Abbiamo dovuto impararlo in tutte le lingue, perché se non si rispondeva subito erano fior di legnate!
Poi ci hanno fatte entrare nella baracca che da quel momento sarebbe stata la
nostra casa. Abbiamo ricevuto la prima razione di pane… uno schifo che non abbiamo potuto mangiare, ma che poi, in seguito, è diventata una grande squisitezza… ci
serviva per non morire di fame.
Al mattino seguente sveglia alle tre circa. Dopo aver ricevuto un quarto di uno
schifoso liquido nero chiamato caffè, fuori all’appello, che c’era mattino e sera e, a
secondo della SS che ci doveva contare, durava anche parecchie ore: con ghiaccio,
pioggia, neve e tutto quello che la furia della natura ci voleva regalare. Se poi durante la giornata qualcuno era scappato, allora gli appelli duravano anche 24 ore, durante le quali non avevamo la possibilità di muoverci: se si cadeva ci si doveva rialzare
subito, altrimenti le botte erano tante. Finito l’appello, al lavoro: per i primi tempi lo
chiamavano “leggero”. Consisteva nel caricare immensi carri che poi venivano trascinati per chilometri e poi vuotarli. Erano carichi di ogni porcheria possibile da
immaginare.
Si lavorava in mezzo a montagne di cadaveri. Al mattino ed alla sera c’era il
ghiaccio; se invece c’era fango, arrivava fino al ginocchio e non avevamo neanche la
possibilità di lavarci.
I cenci che ci avevano dato in dotazione erano sempre quelli, non si cambiavano
mai, anche se bagnati.
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Era inutile piangere… le lacrime si ghiacciavano sul viso e si soffriva di più.
Il lavoro, passato questo periodo, che era quello della quarantena, è continuato in
campagna; zappare, seminare, raccogliere, tutto doveva essere fatto con la massima
precisione perché, per la più piccola cosa, ma anche per niente, erano fior di schiaffi e di legnate.
Di queste ho vari ricordi… i più dolorosi sono stati degli schiaffi che ho ricevuto
da una SS che portava i guanti… sono stati forti che quasi svenivo… e non avevo
fatto niente!
Un’altra volta ho preso due legnate per aver tentato di avere altra zuppa… avevamo fame: la prima mi ha fatto sanguinare la schiena, la seconda mi ha lacerato il
polso.
Quando il lavoro era poco, e noi eravamo diventati troppi, allora si divertivano a
farci spostare sassi grandi e pesanti molto più di noi. Oggi ce li facevano portare qua,
domani li si riportavano là… ci dovevano far occupare il tempo e dovevano continuare a sfinirci, fino a che qualcuno crollava…
Era proibito ammalarsi, perché anche un piccolo male portava al crematorio.
Nel campo arrivavano in continuazione trasporti di ebrei che provenivano da tutte
le nazioni; questi, come arrivavano, erano diretti subito alle camere a gas e poi bruciati. I tedeschi portavano subito via tutti i beni che gli ebrei avevano con loro, oro,
oro a quintali, e questo permetteva alla Germania di continuare la guerra. Solo
pochissimi di quei poveri disgraziati venivano salvati, erano giovani sani o belle
ragazze che servivano per il piacere dei soldati. Molte di queste ragazze venivano
adoperate anche per gli esperimenti: dopo che erano state torturate nelle maniere più
terribili, venivano uccise.
Quando il fronte cominciò ad avanzare, iniziò l’evacuazione del campo. Io sono
partita da Auschwitz il 28 ottobre in treno, ma quando non ci sono stati più mezzi di
trasporto, nel mese di gennaio, iniziò la famosa marcia della morte. Molte migliaia
di persone sono partite, poche sono arrivate negli altri campi. Io da Auschwitz sono
stata portata a Ravensbrück per essere poi mandata a lavorare in fabbrica. Si lavorava nelle fabbriche belliche: 12 ore di giorno e 12 ore di notte. In fabbrica almeno
eravamo riparate dalle intemperie, ma in campo la vita peggiorava sempre di più.
La rabbia dei tedeschi per la sconfitta che avanzava veniva sfogata tutta su di noi.
Ormai non c’era quasi più niente da mangiare. Gli appelli si facevano sempre più lunghi e le botte aumentavano. Non si riposava più né di giorno né di notte, fino a che
poi ci hanno riportate a Ravensbrück.
Là eravamo tutte destinate alla camera a gas. Invece, in quel periodo, era intervenuta la Croce Rossa Internazionale e non ci hanno più potute ammazzare.
La C.R.I. distribuiva dei pacchi - viveri pieni di buone cose che ormai si sognavano soltanto. Questi alimenti hanno però aggravato la situazione perché, in organismi
debilitati come i nostri causavano una dissenteria molto forte che portava inesorabilmente alla morte. Si viveva ormai insieme ai cadaveri ed in mezzo agli escrementi.
Il 25 aprile hanno evacuato anche questo campo. Abbiamo viaggiato nelle condizioni più disperate per dieci giorni e dieci notti. Mangiavamo quello che trovavamo:
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erba, radici e qualche rapa o patata; quando qualche cavallo dei civili cadeva morto,
si assaliva quella carcassa per poter avere un pezzo di carne cruda… che schifo ripensarci… al punto che oggi anche solo l’odore della carne di cavallo mi fa sentire male.
Finalmente, dopo avere patito tanto, è arrivata la fine.
Il 5 maggio, dopo qualche ora di riposo, abbiamo notato che la SS di scorta era
sparita… finalmente la guerra era finita e, miracolosamente, ero ancora viva!
Vestita, con tutta la spazzatura che avevo addosso, pesavo 29 chili.
Non ho raccontato tutto, mancano tanti e tanti episodi dolorosi; per dire tutto
dovrei scrivere un libro.
Dopo 4 mesi, finalmente, sono tornata a casa.
In quel terribile periodo mi hanno aiutata tanto la preghiera e la fede. La preghiera è sempre stato il mio sostegno, la mia forza, con la certezza che Dio non mi avrebbe abbandonata.
Ragazzi, amate la vita, la vita sana, la vita vera, non bruciate la vostra gioventù
con falsi ideali, perché poi lungo il vostro cammino i guai non mancheranno mai!
Durante quel lungo periodo, ha stabilito contatti con qualcuno?
Fuori dal campo e con la famiglia assolutamente no perché era proibito: pena di
morte avere contatti e parlare con chiunque, poi c’era il problema della lingua. Dalla
famiglia niente, malgrado tutte le lettere che i nostri cari scrivevano con tanto disagio, perché dovevano scrivere in tedesco, non abbiamo mai ricevuto notizie, i polacchi ed i tedeschi, però, sì.
Ha mai scritto un diario?
No. I motivi sono tanti. Prima cosa l’indifferenza che ho trovato nel mondo politico ed in chi comandava. Non poteva essere diversamente… era cambiato il partito,
ma non l’uomo. Spesse volte non parlavo nemmeno delle sofferenze passate, perché
quasi non ero creduta. Mi hanno persino risposto che ormai erano cose vecchie…
erano le persone che, a differenza di me, avevano vissuto bene, e quindi non ne volevano sentire parlare.
Il diario mi è rimasto nel cuore!
Sono sopravvissute altre persone oltre a lei e se sì, ha ancora dei contatti con
loro?
Delle persone partite con il mio trasporto non so quante ne siano sopravvissute
esattamente; noi di Lecco, come ho già detto, siamo tornati in 7: 4 donne e 3 uomini.
Tuttora viventi siamo 2 donne ed 1 uomo. Malgrado la lontananza, sono ancora molto
unita alla mia cara amica dalla quale ricevo notizie delle compagne di sventura.
Può fornirci dei particolari sulla retata?
Le retate non avevano motivo né senso: bastavano poche ore di sciopero in fabbrica in Lombardia, in Piemonte e Liguria, o essere contrarie al regime, o ascoltare
radio straniere, essere partigiani, trovarsi fuori dopo il coprifuoco e via dicendo. Gli
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ebrei poi erano deportati in massa ed assieme a loro anche chi li aiutava. Fra questi
c’erano molte suore e frati, per cui i campi di sterminio erano sempre pieni.
Nei momenti liberi che cosa faceva, e che cosa pensava quando era sola?
Questi momenti erano talmente pochi che non si aveva neanche la possibilità di
approfittarne, e se c’era qualche momento ci si riposava. Cosa pensavo quando ero
sola? Difficilmente si poteva essere soli, infatti la convivenza giorno e notte era uno
dei tanti tormenti; ma il mio pensiero era di sopravvivere ad ogni costo… il mio pensiero era continuamente rivolto alla mia adorata mamma che chissà con quanta ansia
e quanto dolore mi attendeva!
Ha mai assistito all’esecuzione nelle camere a gas? Secondo quale criterio sceglievano le vittime?
Nessuno, se non quelli che lavoravano nelle camere a gas, poteva vederle. Erano
prigionieri quelli che vi lavoravano, restavano per poco tempo e poi venivano gasati
loro stessi. Erano poi sostituiti con i nuovi poiché c’erano sempre trasporti che arrivavano e la manodopera non mancava mai. Erano tutti ebrei e per paura che parlassero avevano la vita molto corta … spesse volte hanno dovuto gasare e bruciare i propri familiari. Quello che si è saputo e che è stato scritto nei libri sono tutte testimonianze salvate perché parecchie persone erano riuscite a tenere nascosti dei diari, per
poi portarli alla luce dopo che il campo è stato evacuato. L’unica cosa che posso dire
è di aver sentito spesse volte le urla di quella povera gente quando si rendeva conto
di quello che l’aspettava.
Il criterio che usavano per portare le persone alle camere a gas era semplice. Ad
Auschwitz il treno entrava nel campo, lì facevano scendere i prigionieri, selezionavano i giovani per il lavoro ed incolonnavano tutti gli altri, facendo loro credere di
essere portati alle docce e poi smistati nei vari campi, a seconda dell’età e delle possibilità di lavoro. Invece, spogliati di tutto, ammassando i loro beni sulla ferrovia,
venivano inviati alle camere a gas, dove c’erano sì delle docce, però da esse non usciva acqua ma gas. In poco tempo morivano e poi venivano bruciati. Il peggio era
quando, essendo troppi, non facevano in tempo a gasarli prima… Questo è successo
nel mese di agosto del 1944 quando arrivò un fiume di ebrei, allora li lasciarono vivere per giorni e giorni, ammassati nel campo senza mangiare, senza bere, mentre
aspettavano il loro turno per essere gasati e poi bruciati. Per loro, poveri miserabili,
era terribile, perché ormai conoscevano la realtà, e l’attesa era disumana! Anche noi
che non eravamo ebrei vivevamo sempre nel terrore, perché bastava il più piccolo
male, che non ci permetteva di lavorare, per essere gasati.
Ha mai pensato di togliersi la vita?
A togliersi la vita ci si pensava spesso, però non è mai arrivato il momento per
farlo… e pochi lo hanno fatto, anche se lo spettro della morte era il nostro compagno
notte e giorno… anche se la morte sarebbe stata in fondo una liberazione… però la
forza e la volontà di vivere erano più forti, nonostante la disperazione più assurda
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nella quale vivevamo continuamente! Spesse volte si diceva “Basta toccare i fili ad
alta tensione che ci circondano per un attimo, e tutto è finito”. Ma quando si passava vicino ai fili si cercava di starsene il più lontano possibile… sì, la voglia di vivere era per noi più forte del desiderio di farla finita.
Oggi cosa pensa dei tedeschi e dei naziskin?
Oggi dei tedeschi non sento più niente, anche se contro di loro per tanti anni ho
provato un grande rancore, non odio, perché sono cattolica e so che l’odio non deve
esistere; però prima bastava sentissi parlare in tedesco che lo stomaco mi si rivoltava… avevo una gran voglia di prenderli a schiaffi. Ma quando sono riuscita a perdonare, in me è calata pace e serenità; ora li potrei incontrare serenamente, potrei parlare con loro… sono come noi. Con l’odio non si può vivere. Come ho detto, sono
cattolica, ed allora sono sicura che chi è sopra di me giudicherà saggiamente il bene
ed il male. Del Nazismo e dei giovani che condividono questi ideali penso solo che
sono fanatici, che non sanno quello che fanno… forse perché non sono a conoscenza di cosa è realmente accaduto… si dovrebbero ripristinare per un po’ di tempo i
campi di Mauthausen e di Auschwitz e metterli dentro per un po’, farli soffrire come
abbiamo sofferto noi… forse potrebbero così rinsavire.
In quale modo ha ristabilito i contatti con la sua famiglia?
Ristabilire i contatti con la mia famiglia è stato meraviglioso. A casa ho ritrovato
i miei cari, per loro ero diventata come un idolo. Mi hanno aiutata con il loro amore
a cancellare il passato… cancellare… non dimenticare, no, non potrò mai dimenticare quello che ho vissuto in quel periodo! La vita ha ripreso come prima anche se,
spesse volte, la notte avevo degli incubi. Quante volte mi hanno svegliata perché
urlavo… ma il risveglio era sempre meraviglioso, ero libera ed a casa mia.Tra parentesi, devo dire che ho dovuto trovarmi anche un altro fidanzato, perché quello che
avevo mi lasciò al mio ritorno.
Può darci chiarimenti sul momento della liberazione?
Lasciate libere dai tedeschi, siamo finite con gli americani, poi con i russi ed infine con gli inglesi che, tra l’altro, non sapevano cosa fare di quella fiumana di miserabili, poveri derelitti, veri cadaveri che di umano non avevano più niente, pieni di
pidocchi, sporchi da far paura e morti di fame. Ci hanno fatti rivestire ed alloggiare
nelle case che requisivano. Per mangiare si utilizzava quello che si trovava… ormai
eravamo in tanti, perché c’erano anche i militari. Tutto ci sembrava bello, eravamo
liberi, eravamo vivi. Dopo 4 mesi di vita nomade, su un scassata tradotta, che si fermava in continuazione, siamo partiti e, questa volta, anche se molto lontana, la destinazione era l’Italia.
Quanto tempo ha trascorso nei campi di concentramento?
Dopo l’arresto in Italia ho passato 3 giorni a Mauthausen, 7 giorni a Vienna, 7
mesi ad Auschwitz, 1 mese a Ravensbrück, 4 mesi in fabbrica. Gli altri 2 mesi, tra
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l’evacuazione del campo ed i giorni di cammino senza sapere la destinazione che ci
aspettava, ma purtroppo, nel nostro cuore, lo sapevamo tutti: era la morte certa…
però non hanno fatto in tempo.
E’ più tornata ad Auschwitz?
Qualche anno fa sono ritornata ad Auschwitz, ed ora ho un grande desiderio: ritornarci ancora prima di morire… là ho lasciato parte della mia vita, ho lasciato mesi
della mia gioventù.
Poesia
Lasciateci vivere in un mondo dove non ci siano esclusi.
Voglio vivere in un mondo dove gli uomini
avranno diritti solo perché sono uomini,
senza altro titolo che questo,
senza essere ossessionati dalle regole, dalle parole, dalle bandiere.
Voglio che si possa entrare in tutte le chiese, in tutti i municipi,
voglio che più nessuno tema di essere arrestato
non voglio più che qualcuno sfidi il governo del suo paese,
che sia inseguito, perseguitato.
Voglio che l’immensa maggioranza,
la sola maggioranza, tutti,
possano leggere, ascoltare, realizzarsi.
Pablo Neruda
121
Come una pioggia di stelle, questi articoli sono stati per noi,
tuoi cari, un vero regalo.
Sei stata, come del resto lo siamo tutti, di passaggio su questa terra, ma
sei e sarai un ricordo vivo e forte in tutti i cuori oggi, domani, sempre.
Antonella
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Quando il 24 aprile del 2001 ti hanno consegnato la medaglia d’oro tu,
nonostante fossi gravemente malata ed avevi già dovuto subire
3 interventi nel disperato tentativo di fermare un male che era ormai
inesorabilmente andato avanti, hai dato con coraggio, semplicità e
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chiarezza la tua testimonianza, e dopo aver raccontato la tua storia, hai
terminato dicendo che l’essere sopravvissuta ai campi di sterminio
significava che per te la tua “croce” non era ancora finita.
Antonella
125
Nel giorno del nostro grande dolore, quando ormai le lacrime non
facevano altro che acuire la nostra sofferenza per averti
irrimediabilmente perduta, siamo stati colti di sorpresa da questi
IL CENTRO
PESCARA
VENERDI’ 1 febbraio 2002
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articoli, usciti in sordina, a nostra insaputa, nessuno di noi se li
aspettava… e le nostre lacrime rimasero sul nostro viso, così come le tue
parole rimangono nei nostri pensieri quotidiani… così come la tua
Memoria rimarrà nei nostri cuori, sempre.
Antonella
IL CENTRO
PESCARA
SABATO 2 febbraio 2002
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128
Il 31 gennaio del 2003 sarebbe
stato il primo Anniversario della
tua morte. Il 27 gennaio del
2003 uscì questo bellissimo articolo su di te, dove si descrivono,
in maniera sintetica e chiara, le
tue sofferenze e gli orrori ai
quali hai dovuto assistere
durante la tua prigionia nei
campi di concentramento
nazisti.
E’ stata per me emozione,
perché quando è uscito questo
articolo, era già un anno che
stavo lavorando su questo libro,
ed il leggerlo ha reso ancora più
salda la convinzione che dovevo
andare avanti.
Così è stato, Mamma.
Antonella
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Testi dai quali sono state prese le illustrazioni riportate nel libro:
NEI LAGER C’ERO ANCH’IO
PIU’ MORTI PIU’ S PAZIO
Vincenzo Pappalettera
Mursia 1973
Corrado Saralvo
Baldini & Castaldi 1969
TU PAS S ERAI PER IL CAMINO Vincenzo Pappalettera
Mursia 1966
58881
UOMINI AD AUS CHWITZ
Angelo De Battista – Giuseppe Galbani
Edizioni PRO.T.E.O Lombardia 1999
Hermann Langbein
Mursia
130
INDICE
Dediche
pag.
– 25 anni, una giovinezza spezzata, tanti sogni svaniti
pag.
Intervista dicembre 1995:
– Una ragazza come tante
– L’umiliazione
– Il fumo… erano gli ebrei che bruciavano!
– La selezione, il numero tatuato sull’avambraccio sinistro
– Gli esperimenti
– Le parole non possono descrivere…
– Auschwitz, gli estenuanti appelli, la paura, la distruzione morale…
– Il dottor. Mengele
pag.
pag.
pag.
pag.
pag.
pag.
pag.
pag.
7
17
23
29
31
33
37
39
43
51
– La fame
pag.
53
– Le baracche dei lager
pag.
59
pag.
67
– Le lacrime
pag.
– Il “Kommando Canada”
pag.
– Da qui non si esce vive!
– Dove la propria salvezza avrebbe potuto pregiudicare quella di
qualcun’altra
– L’evacuazione di Ravensbrück
– Le urla degli ebrei
– Irma Grese, “l’angelo biondo”
pag.
pag.
pag.
pag.
55
57
61
69
81
85
– L’amore per la vita che ci impediva di suicidarci…
pag.
87
– La sete
pag.
97
– Stellina… era uno dei 750 bambini ebrei bruciati per festeggiare
il Führer
– Sofferenza fisica, psicologica, morale… ma il volo di una rondine
e il ricordo della mamma…
pag.
pag.
93
99
– Il lager, un colore morto
pag.
105
Articoli pubblicati
pag.
123
– 76147
pag.
Intervista marzo 1999
pag.
131
109
115