Scarica il libro - Pro-Loco Pentone cultura e tradizione dal 1981

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Scarica il libro - Pro-Loco Pentone cultura e tradizione dal 1981
Antonio Talerico
Pentone
Città della castagna
Quaderni Pentonesi
a cura dell’Associazione Turistica
Pro Loco Pentone
Prefazione
Finalmente un libro sul castagno, il re della
montagna ed opera d’arte della natura, scritto da un
pentonese che riesce sapientemente a coniugarne i
diversi aspetti estetici, culturali ed economici.
Certamente lo scritto dell’Avv. Antonio Talerico
può definirsi una produzione letteraria in forma di
memoria, che ha potuto trasformare tante amare cose
in dolci cose.
Viene ricordato una Pentone d’altri tempi, laboriosa
e devota, che adesso non c'è più, in cui brillava, tra
tante miserie umane, la carità.
Mi ha colpito soprattutto la cerca delle castagne e
quell’aprirsi del cuore alla tradizione di “a rante a
rante”.
La Pro Loco di Pentone vuole qualcosa di più che un
semplice ricordo e sottolineare come il castagno, in
passato, rappresentava una fonte di sostentamento ed
un aiuto economico di grande valore. Ho chiesto ai
tanti come mai non venissero più eseguite quelle
antiche operazioni di manutenzione dei castagneti, di
raccolta e di coltura; la risposta è stata che “quelle
operazioni non sarebbero più economiche per il basso
prezzo del frutto.”
Dopo decenni di abbandono della Montagna è in atto
un’inversione di rotta. Importante, in tal senso, il ruolo
molto positivo assunto dalla Comunità Montana della
Pre Sila Catanzarese che ha cercato di sostenere
economicamente la potatura dei castagni, ha promosso
convegni, sagre e pubblicazioni ed ha sostenuto la
creazione del Museo della Castagna di Cerva.
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Bisogna reagire ed avere un progetto di
valorizzazione delle risorse locali, alla luce di una
prospettiva globale che coinvolga i paesi produttori di
Castagne con l’aiuto degli Enti locali e dello Stato.
Mi auguro che la nostra gente capisca e voglia
impegnarsi a sviluppare i progetti di valorizzazione
dei castagneti e delle risorse economiche ad essi
connesse.
Pentone, Ottobre 2003
Il Presidente della Pro Loco Pentone
Vitaliano Marino
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Giace Pentone, la città delle castagne, su un crinolo
che è l’appendice del colle Cafarda o colle della
nostalgia, che degrada verso il fiume Alli con a destra
e a sinistra due profondissime valli, quella di Callea e
l’altra di Fossato Serralta.
La circonda una corona di monti formati da: colle
Nocella, monte Furro, timpone Panaro e dai monti
della non lontana Sila, mentre le si apre davanti un
susseguirsi di colline che fuggono, degradando verso
il mare che occhieggia laggiù, irresistibilmente
azzurro.
Così Pentone si trova in una culla verde formata
soprattutto da castagni che costituiscono la preziosità e
la ricchezza: un paesaggio che incanta e che innamora.
Il silenzio è dominante e dà eco e spaziosità al
cuculo che i fanciulli amavano un tempo interrogare
sulle sorti della loro vita.
Come tutti i Pentonesi, anch’io amo il castagno,
albero maestoso e sublime. Bello come un gigante,
nutre con noi tutto un particolare rapporto. Forse ora
nel momento in cui scrivo, dovrei dire nutriva un
particolare rapporto, date le sue conosciute condizioni
di decadenza.
Tuttavia il castagno, nella sua poderosa struttura,
non ha cessato di abbellire la nostra terra
dimostrandosi sempre utile nella sua magnificenza.Ho
un ricordo dolcissimo della mia infanzia e della mia
giovinezza, legato al rapporto con l’albero di
castagno; ho ora una tristezza profonda nel cuore per
l’incuria e la trascuratezza che si ha ora di
quell’albero, mentre mi sorride la speranza del
ripristino delle sue sorti.
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Il castagno presenta motivi di elevata poesia per
l’aspetto maestoso del suo tronco, per il verde cupo
del fogliame, per l’ombra benefica della sua larga
chioma, ma offre anche argomento di grande umanità
che si riflette al culto del montanaro che ha per il Re
della montagna, il quale, oltre a fornirgli un sano
nutrimento per buona parte dell’anno, trattiene con le
sue robuste radici quella terra che l’impeto delle acque
trascinerebbe in basso.
Tutti gli alberi, osservava Goethe, sono buoni,
mentre gli faceva eco Giovanni Pascoli, con la sua
poesia” il castagno ” sostenendo che questo maestoso
albero aveva qualcosa in più degli altri per noi uomini;
ed era un rapporto quasi familiare di comprensione,
d’amore, ma soprattutto di pietà. Così scriveva nelle
sue Myricae il Poeta:
E tu, pio castagno, solo tu dai l’assai
Al villano che non ha che il sole
Tu solo il chicco buono di più, dai
Alla sua prole
Ha da te la sua bruna baccherella
Tiepido il letto e non desia la stoppia
Ha da te l’avo tremulo la bella
Fiamma che scoppia.
Pascoli amava il castagno ed il bosco pieno di questi
alberi portentosi che lo affascinavano. Così insieme
alla sorella, la dolce Maria, come amava chiamarla,
decisero di trasferirsi dalla natia Romagna in
Gardesana, provincia di Lucca, e precisamente a
Castelvecchio che, poi, aggiunse al suo il nome di
Pascoli e fu Castelvecchio Pascoli.Lì comprarono casa
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e podere e li morirono e furono sepolti. Castelvecchio
Pascoli è divenuto col tempo meta di chi ha amato in
giovinezza il Poeta.
Anch’io, insieme al prof. Antonio de Laurenzi e
relative consorti, in una dolce estate abbiamo
raggiunto quei luoghi tanto amati da Pascoli e ne
siamo rimasti entusiasmati.
La Gardesana si stende su tutta la dorsale
appenninica ed il castagno rappresenta, anche oggi,
una delle sue più sontuose attrattive, e si avvia a
divenire la sua maggiore ricchezza.Trovo una grande
affinità tra la Gardesana ed i nostri monti.
La pubblicazione “Guida alle città del Castagno”
dell’omonima associazione edita con il patrocinio del
Ministero delle politiche agricole e forestali, dà una
chiara risposta, che io considero positiva, ai bisogni
ambientali, ai bisogni della natura che appare non
contaminata, alla valorizzazione dei prodotti tipici a
base di castagne, e qui a Pentone stentiamo a capirne
la grande importanza.
Questo mio scritto è presente per dar forza alla
iniziativa della Pro Loco pentonese e perché essa non
rimanga sterile ed inefficace, non rimanga anche un
mero ricordo della vita che fu.
In definitiva il mio scritto ha questo scopo di
appoggiare le nuove iniziative per coordinare le
singole manifestazioni promozionali; far conoscere le
zone italiane (e sono tante) che hanno produzione di
castagne; favorire l’individuazione ed i rimedi per
porre fine al male che attacca l’albero, favorire e
coordinare l’attività di ricerca e di sperimentazione
sulla problematica della coltivazione e trasformazione
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delle castagne; favorire, infine, la commerciabilità di
esse in collaborazione con altri centri di produzione e
di ricerca.
Si conoscono, nel solo emisfero nord, ben 17 specie
di castagno.La specie che vive da noi è il castagno
comune o castanea sativa che è albero maestoso, di
grande fusto con corteccia grigio screpolata, che può
raggiungere i 30 metri di altezza e parecchi secoli di
vita.
Le sue foglie sono lanceolate e seghettate e per loro
natura caduche.Hanno però il privilegio di purificare
l’aria, nella loro tenerezza, perché assorbono tanta
anidride carbonica ed emettono ossigeno, sicché
vivendo al contatto di questi alberi si hanno condizioni
di salubrità eccellenti.
D’inverno l’albero rimane spoglio, ma ciò
nonostante si lascia ammirare nella sua bella nudità e
per la sua visibile possanza.
Nell’ incipiente primavera comincia a rivivere; a
Maggio è già in fiore. I suoi fiori sono staminiferi,
pistilliferi in gruppi entro un involucro di brattee nel
quale, poi si formerà il riccio.
Da una mia antica conoscenza i castagni nati da
seme danno castagni selvatici, mentre i castagni
innestati danno buon frutto.Si individuano i cosiddetti
marroni e le cosiddette castagne domestiche.
Per la verità questa distinzione che ho riportato non
ha mai interessato il mio paese, né che io sappia i
paesi vicini.
Non abbiamo mai conosciuto, come produzione i
marroni, grossi e tondi, questi bolliti e asciugati, dopo
essere stati infornati costituiscono le cosiddette
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biscotte e se cotte si chiamano ballotte. L’altra
versione di grandissimo commercio dei marroni sono i
marron glacè che tutti in vero conosciamo, ma che
non sono nostra produzione.
Le specie che vivono nei nostri boschi sono 5 e
precisamente: palermitane, nserte, nicotere, curce e le
castagne”da mamma”.
Prima di addentrarmi nelle attività della produzione
delle castagne, mi piace ancora riferirmi alla
caratteristica unica del castagno che lo
contraddistingue e di cui ho già detto: la pietà.
Narra la legenda che il castagno conserva nel riccio
tre castagne che, con somma saggezza, ma anche con
quella pietà di cui ho parlato, sono così destinate: la
prima al proprietario del fondo, la seconda al
coltivatore del fondo e la terza al povero.
Noi sappiamo ancora l’utilità del castagno, che non
riguarda solo il frutto; ne abbiamo un accenno nella
poesia “Il vecchio castagno”, ancora del Pascoli.
E’ poesia che racchiude in se, nel vecchio castagno,
il ricordo e la speranza.
Dice il castagno a Violetta che si interessa della
raccolta delle castagne:
O fiamma allegra, che scriccioli a schiocchi
Scaldando i mesti vecchi, i bimbi savi
Da noi li avesti cioccatelle e ciocche
O casa buona, messa su dagli avi,
che pari il freddo, e brilli nella notte
da noi li avesti travicelli e travi
O mamma, che il lavaggio ora o lecotte
Metti all’uncino o sopra i capitoni
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Da noi li avesti necci e ballotte
O babbo, che nel mezzo del desco poni
Il vinetto che sente un po di rame
Da noi li avesti pali e forconi
E tu che mugli, mugli tu per fame
O per freddo, vecchina dello stento?
Da noi abbi vincigli e lo strame……
Io ne godeva, Io amo chi mi coglie
Ora, capanna casa fuoco vigna,
Non do più frutto né legna, né fogli
Mentre noi qui rabbrividiamo al vento.
E’ un castagno che dopo aver dato tutto, muore.Ha il
tronco marcio, ma pur tuttavia dice vedrai che lo zio
“ralleverà qualche novello che viva e cresca, riscoppi
e frutti”.
Quest’albero che muore ha, come noi uomini
abbiamo, la speranza che qualcosa di esso viva e
cresca. E’ poesia che innamora e che assegna al
castagno, all’unico albero della foresta, sentimenti che
sono dell’umanità.
Ero dunque bambino, quando ebbi il mio primo
rapporto con il castagno.Mia nonna mi raccontava,
forse con nostalgia, certamente con profonda tristezza,
quando ancor giovane e bella rimase vedova.Anche se
poco più che ventenne e tuttavia volle conservare fede
a suo marito.
Si accollò l’onere della crescita e del sostentamento
dei suoi due figlioletti; lo potè fare perché ebbe l’aiuto
del fratello Nicola, celibe con il quale viveva.
L’ottobre, il tempo della raccolta delle castagne,
come d’altronde quasi tutti i pentonesi, lo
trascorrevano insieme al casolare del loro castagneto
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di Caramma. Come ho detto, era ottobre anche il
tempo di funghi che nel loro castagneto crescevano in
abbondanza che costituivano la gioia dei piccoli ed
erano quasi sempre presenti nel rustico desco
familiare.
I grandi erano dediti alla raccolta delle castagne;
raccolte le quali e scelte, almeno in parte e le migliori,
venivano stese nel cosiddetto “ntostature” che era la
parte superiore del casolare.
In buona sostanza il casolare era diviso
verticalmente in due parti: la prima abitativa, l’altra
adibita al lavoro.Questa parte aveva per pavimento tra
il pianterreno ed il primo piano un graticcio formato
da assi di legno intrecciati.La costruzione favoriva il
passaggio del fumo tra il pianterreno ed il tetto.
Al piano terra veniva tenuto il fuoco per un mese e
più, alimentato da legna di castagno cui, se servivano,
aggiungevano le scorze delle castagne rimaste dalla
lavorazione dei pastilli dell’anno precedente.
Le castagne così affumicate, alla fine venivano
gradualmente e gradatamente messe in un sacco di
juta che, preso per i quattro terminali, veniva sbattuto
in maniere che le castagne rimanessero quasi monde,
indi venivano gettate in apposito largo crivello, appeso
in alto, che dava la possibilità di eliminare le cortecce
e di avere quindi i pastilli.
Successivamente al mio racconto, ma molto
successivamente, venne introdotto a Pentone la
“macchina dei pastilli”. Con questa macchina, anziché
col crivello, le castagne, oramai abbrustolite, venivano
rese pastilli, con grande risparmio di fatica e forse
anche di denari.Il pastillo macinato dava la farina che
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era il primo e più sicuro alimento di quella vita
contadina.
Pentone all’epoca viveva di solo pane di castagna
perché non produsse mai grano. Anzi un dimenticato
detto diceva, per designare le estreme, irreversibili
condizioni di chi moriva”E’ arrivatu allu pane e
graninu”, perché solo al morente, solo a colui che,
lasciando questo mondo, partiva per l’altra vita,si
voleva fare quest’ultimo dono.
Capitava poi, che nella massa dei pastilli qualche
castagna trattata come sopra è stato detto, non
raggiungesse la durezza necessaria del pastillo,ma
rimanesse molle.Questa castagne che rimanevano
tenere, erano i cosiddetti turduni, ed il Poeta, che è
Francesco Capilupi, raccontando naturalmente dei
pastilli, dice nella poesia “Castagne e pastiddhi”
Supra e canizze venanu ntostate
E castagne ccu focu alla casella
Allu tineddhu venanu pistate
E poi cernute supra la crivella
Chidda ca’ e pista è pista a zacculate
Comu se abballassi à tarantella,
E canta……. si fannu chjicchijarate
Ca, mmce e acqua, u vinu è d’intra a lancella
ntra i pastiddhi se scartunu i turduni
A purpa si conserva ppe na atru annu
Sunnu orvicati puri li tizzuni
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Questi infilati a collana, anche loro, raggiungevano
una gradevole prelibatezza. Confesso che non ho mai
partecipato o assistito alla formazione dei pastilli che
già da tempo non vengono più fatti a Pentone.
La Raccolta delle Castagne
Altra attività contadina definitivamente scomparsa è
la raccolta delle castagne. L’inizio dell’autunno a
Pentone, ma forse in tanti altri nostri paesi della
presila, portava con se un fascino particolare.
Era il mese della raccolta delle castagne, ma era
anche il mese dedicato alla Madonna del Rosario. A
Pentone, infatti nel 1619, a meno di 50 anni dopo la
memorabile vittoriosa battaglia sui Turchi, avvenuta
nelle acque di Azio, venne fondata la Confraternita
della Madonna del Rosario, e la Madonna sotto quel
titolo venne eletta protettrice del paese.
Ai tempi della mia giovinezza era costume che si
celebrasse al mattino, prima dell’alba, “a missa
prestu”, per lasciare tutto il tempo possibile alle opere
del contado.
Dopo la S. Messa si apriva il mondo delle castagne e
ciascuno raggiungeva il suo podere per la raccolta. Ma
come ho detto quella raccolta è ormai finita.
Sicuramente molti di noi che ancora siamo su questa
terra, vi hanno partecipato.Era un periodo di grande
fervore lavorativo e, se posso usare questa parola, di
grandi ricchezze per l’economia pentonese di cui
successivamente dirò. Era il periodo dell’incipiente
inverno, delle piogge e del freddo e di quelle
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intemperie mi è rimasto un doloroso ricordo. Trovo
nelle poesie di Francesco Capilupi una descrizione
amara di tante raccolte di castagne che voglio, con le
parole del poeta,ricordare. La poesia, che in parte ho
ricordato è
“Castagne e pastiddhi”
All’abbuccune supra la muntagna
A mmanu tena à mazza e llu panaru
A fimmina te cogghjia la castagna
Che se prova allu mparu e allu sparu
A cudiddha le dola e nun se lagna,
Nnè si se mpunna dintra u lavinaru.
Si chiova u carpitelli li si vagna
E scurra d’acqua comu nu guttaru.
A mmenzujiornu torna alla caseddha,
Ccu’ nu saccu è castagne caricata;
S’asciuca la suttana e lla gunneddha
Ed allu focu arrusta na patata;
L’acqua frisca la tena alla lanceddha,
E se fa de gaddhoffi ‘na manciata.
Assettata allu cantu d’u focune
Ccu e manu chjine e terra e chjine e spine,
Se sta nculata a nu cantune,
Ca e scarpe pur d’acqua tena chine
Sono d’accordo col poeta circa la dolorosa ed
immane fatica della donna, ma non posso dimenticare
quella dell’uomo.Era effettivamente un dono ricco
quello del castagno ma che richiedeva tanto lavoro.Ho
altresì un vivo ricordo di quel santo lavoratore che
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dopo una giornata di lavoro, ritornava a casa esausto,
ma pienamente soddisfatto. Lo ricordo quando nei
giorni piovosi cercava di ripararsi dalle intemperie
avendo piegato il sacco di iuta a mo di cappuccio per
metterlo a testa. Quanta fatica ! (era compito
dell’uomo provvedere alla pulizia del terreno ed alla
potatura degli alberi).
Però il mese di ottobre portava, nelle povere case dei
pentonesi, tanta ricchezza.Era il mese dell’abbondanza
e delle grazie per una popolazione, quella pentonese,
che viveva di povertà.
Ricorda Silvano Vignola, il nostro affascinate
scrittore, nel suo meraviglioso libro ”Il nonno
racconta” che: “ La stagione delle castagne era una
benedizione per il paese; quando la raccolta andava
bene per qualità e quantità, la gente ringraziava il
Signore, perché l’abbondanza di quel prezioso frutto
della terra per molti voleva dire assicurarsi il pane
durante i lunghi e freddi mesi invernali”.
E dice ancora in quei giorni (a Pentone) tutti
mangiavano castagne. “Uscendo di casa gli uomini se
ne riempivano le tasche, si appoggiavano con la
schiena alle porte del palazzo che sorge sulla piazza e,
discorrendo piacevolmente, masticavano castagne,
come macine infaticabili.”
In vero la castagna piace a tutti o che sia verde, o
bollita, o caldarrosta. Piace anche quando si fa dolce o
quando si fa farina.Piace e non solamente ai comuni
mortali ma anche ai letterati. Famoso Giuseppe
Giocosa il quale soleva dire, quando mangiava:
“ Mi lascio sempre un posticino nello stomaco e un
pò d’appetito, per poter gustare a fine pranzo le
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castagne”.Le soleva mangiare in tutti i modi.Si
tramanda che anche Guido Gozzano ne fosse
ghiotto…. Giuseppe Giocosa quando invitava i suoi
amici, quali Boito,Verga, la Duse, a fine pranzo
serviva sempre un bel canestro di castagne.Questa
usanza credo ormai si sia persa, ma ciò non toglie che
la castagna mantenga la sua prelibatezza.
Il Commercio
La fonte di guadagno, adesso scomparsa, era
costituita dalla vendita delle castagne, ma anche dal
baratto di esse.
In quell’epoca, molti dei commercianti pentonesi
aprivano i loro magazzini per l’acquisto delle castagne
che poi rivendevano al grossista che per i
commercianti pentonesi era il medesimo. In realtà non
vi era concorrenza, siccome va essa intesa, ma vi
erano, sebbene pochi, i vantaggi che si offrivano al
venditore.
A Pentone, che io ricordi veniva da Catanzaro, quale
grossista Ernesto Gigliotti, che tutti i pentonesi
avevano imparato a rispettare.
Ernesto Gigliotti si presentava piuttosto obeso tanto
che quando aveva bisogno di stare seduto, aveva
necessità di due sedie affiancate.Ma a mia memoria mi
sembrava un bonaccione, rispettato e ben voluto da
tutti. Non ci fu mai lite fra Gigliotti e i commercianti
pentonesi. Mi risulta che era una persona onesta.
Gigliotti era zio di un mio compagno di squadra
nella lotta greco-romana Catanzarese che in verità si
fregiò di tanti allori.
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Adesso si impone di ricordare il baratto. Che cos’é il
baratto: uno scambio di merce che è una forma assai
primitiva di commercio. A Pentone si praticava
diffusamente nel periodo della raccolta delle castagne
ma, meglio dire, che le piazze di scambio erano
costituite dall’imbocco di Via Giardino e da Piazza
“Madonna delle Grazie” (piazza di sotto).
Il maggior volume di scambio era con i peperoni; lo
scambio avveniva con una misura detta u munnellu.
E per due munnelli di castagne, si riceveva un
munnellu di peperoni. I peperoni, poi, venivano infilati
a collana, essiccati al sole e poi pestati per ottenere il
pepe rosso che serviva per le provviste del maiale.Vi
era ancora uno scambio delle castagne con i
“dormituri” o lumache che apparivano più preziosi dei
peperoni di che per ogni munnellu di dormituri ci
volevano in cambio tre munnelli di castagne.
Ricordo ancor bene che lo scambio si effettuava
anche con i cosiddetti rugagni e cioè con i produttori
di oggetti di creta.Il baratto avveniva così: il
proprietario dell’oggetto di creta dava questo dopo
averlo riempito di castagne, quindi trattenendo le
castagne. Ma devo dire che anche queste forme di
commercio sono definitivamente scomparse.
La Cerca delle castagne
La cerca delle castagne ricorda assai da vicino la
raccolta delle noci di manzoniana memoria se non
altro per le finalità e per i suoi tempi.Con questa
differenza: che la cerca delle castagne era affidata a
tanti giovincelli che frequentavano assiduamente la
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Chiesa ed era a favore della Parrocchia e dei suoi
bisogni, mentre la raccolta delle noci spettava ai frati
ed era a favore del Convento.Il periodo della cerca era
naturalmente l’ottobre. A sera, anzi, all’imbrunire,
allorché la gente era rientrata dalla campagna.
Il sagrestano accompagnato da due chierichetti,
ciascuno con una bisaccia, più un ragazzetto che
portava un campanello, si mettevano in giro, per le vie
del paese, per la cerca delle castagne.Era usanza di
pietà che ben si addiceva ad un popolo laborioso come
il pentonese e timorato di Dio.
Il tintinnio del campanello al passaggio del
gruppetto, affidato, come detto al più piccolo dei
questuanti, ne annunciava il passaggio.La gente allora
usciva sulla porta o con un canestro o con un paniere
di castagne fresche e scelte le versava nella bisaccia di
uno dei due chierichetti, che riempita veniva versata in
un cumulo della stanza dietro la sagrestia della Chiesa.
Di quella raccolta di castagne finita la “campagna”,
l’arciprete-parroco ne disponeva per i bisogni della
Chiesa e della Carità.
Con la fine d’ottobre finiva la raccolta delle
castagne, ma finiva anche la cerca delle castagne e
aggiungo delle castagne verdi e fresche. Il mondo,
allora il nostro mondo cristiano, si apriva alla carità di
cui dirò.Intanto con novembre il pensiero era
consacrato, come lo è tuttora, al ricordo dei defunti,
dei tanti che pur morti non sono venuti meno
all’affetto dei loro cari.Iniziava allora una nuova e
diversa cerca di castagne, ma questa volta di castagne
infornate.La cerca, che durava otto giorni, era affidata
ancora a quel gruppetto di persone di cui
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superiormente ho detto.Sicuramente quella cerca si
presenta come qualcosa piena di spiritualità in
consonanza con la comunione dei santi.
Quella datio era davvero dedicata al suffragio di
quanti, anche nelle fatiche, nel lavoro dei campi, nel
sudore di esso ci avevano preceduto. Trovo in quella
offerta di povere castagne infornate tanta spiritualità
cristiana.Ora anche quella cerca è venuta meno, ma
penso che non sia venuto meno l’affetto e la
venerazione dei nostri defunti.
Novembre e le castagne
Finita la raccolta delle castagne con la fine del mese
di ottobre, i campi e i castagneti si aprivano
completamente alla carità, alla condivisione, mi piace
dire così, completa della terra santa e benedetta che da
a tutti le sue ricchezze. E il detto che consacrava
questo periodo era “quannu tutti i santi a ranti a
ranti”. I campi e i castagneti erano aperti a tutti ed
anche al povero, il nullatenente poteva andare
liberamente ovunque a raccogliere castagne.Bello e
tanto cristiano quel principio di solidarietà.
I giochi
Con la raccolta delle castagne erano, possiamo dire
di moda, i giochi che i più piccoli, i ragazzi,
praticavano nel mese di ottobre, quasi esclusivamente.
Se ne praticavano due: il gioco cosiddetto del
“castello” e l’altro quello della “a staccia”.
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Il castello così detto tra i giocatori, il più delle
volte, mettevano pari posta costituita da otto castagne
ciascuna.Queste venivano sistemate a mò di castello
che su una solida base di quattro castagne o più si
andava sempre più sviluppandosi in altezza, tanto da
dare l’impressione di un castello; da questo punto,
dove erano sistemate le castagne, i giocatori
lanciavano la loro staccia e quella che andava più
lontano dava diritto di tirare per primo. Se avesse fatto
cadere il castello, tutta la posta sarebbe stata sua;
diversamente toccava all’altro giocatore tirare e cosi di
seguito.
Ricordo che se il giocatore impegnato faceva cadere
un minor numero di castagne aveva diritto di prendere
le castagne cadute, mentre l’altro giocatore poteva fare
il suo gioco ed aspirare alla rimanente posta.
Il gioco della staccia a me sembrava un gioco più
gioco, a cui io stesso volentieri partecipavo. I giocatori
dovevano, innanzitutto, versare la loro quota di
castagne che venivano messe in fila nell’interrato.
Allora le strade, le vie, le piazze non erano asfaltate
né vi erano automobili in circolazione.Messe in fila le
castagne, da quel punto si lanciava la staccia, una
piastra piatta e liscia che tutti noi c’eravamo
procurata.Quello che la lanciava più distante aveva il
diritto di iniziare il gioco, in fondo molto semplice che
dava diritto alle castagne colpite.
Vi era anche la possibilità di agire per ultimo
lasciando cadere la staccia vicino alla file delle
castagne dicendo”erba” ma evidentemente era uno
solo che poteva farlo.
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In fondo lo consideravo un bel gioco pieno di tante
attrattive e molta abilità. Ora quei giochi sono
completamente scomparsi e nessuno sognerebbe di
ripristinarli. A me è rimasto, però, un amaro ricordo:
si giocava alla “staccia”; ma dietro la file delle
castagne vi era accoccolato Venanzio, uno dei tanti
spettatori.Ma quando fu il mio turno, come fu e come
non fu, alzai la mano più del necessario e
clamorosamente sbagliando colpii in fronte il povero
Venanzio, che si godeva il gioco.Non vi furono per me
conseguenze, ma mi è rimasto ancora il ricordo,
ahimè, del mio errato tiro, un dispiacere “che ancora
non m’abbandona”.
Il Castagno, piante ed animali
Il castagno non mostrava questa sua disponibilità
meravigliosa ed affettuosa solamente verso gli uomini,
ma mostrava di avere un rapporto, in vero di ospitalità
e di amicizia, anche verso piante ed animali.
Non intendo qui parlare della nutrizione che offriva
abbondantemente con le sue “frasche” alle greggi e
con il suo vischio, che verde e frondoso vive ancora in
simbiosi con il castagno, ma non vorrei che si
dimenticasse che quell’albero producesse per noi
uomini tra indimenticabili varietà di funghi, che
costituivano, ma ancora costituiscono agognata
leccornia, e sono: la così detta “nasca” che cresce sul
tronco dell’albero dal sapore squisito ed
indimenticabile.
Questo fungo va colto nella sua tenerezza, perché,
ahimè, col passare del tempo diventa legnoso. L’altro
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è il cosiddetto “cugno” che si fa ai piedi dell’albero e
la terza, indimenticabile golosità “a mantra
pecurella” bianca diffusa sulle radici dell’albero e
che, in vero, tende a crescere sempre di più.
Ricordo che mi trovavo in villeggiatura a Carlopoli e
su quei campi in gita con i ragazzi del Seminario
Vescovile di Squillace, quando si vide un ragazzo che
stava prendendo a calci, meglio cominciava a prendere
a calci qualcosa di bianco, venne fermato in tempo e
così potemmo raccogliere quella che era una “mantra
pecurella” addirittura di 35 kg.
Mi piace poi dire dell’ospitalità che il castagno
offriva sia allo scoiattolo che alla donnola, animale
insidioso che non suscitava alcuna simpatia.
Ma ospite permanente del castagno era il ghiro,
quel roditore meraviglioso dalla carne molto
pregevole. Ricordo che tante volte poiché il ghiro, si
nutriva soprattutto di castagne, ne lasciava cadere
qualcuna, monda e pulita, cui sembrava che l’animale
avesse nel mondarla dato un sapore particolare.
Il ghiro era oggetto di caccia e tanti esperti
riuscivano a catturarli pacificamente, soprattutto nei
mesi di letargo dell’animale.
A vederlo aveva molta rassomiglianza con il topo,
ma se ne distingueva unicamente però dalla
voluminosa e morbidissima coda.
Ora di ghiri nemmeno l’ombra nelle nostre contrade.
Senza essere un abitatore costante dell’albero,
viveva nella valle all’ombra dei castagni, il cuculo, un
uccello delizioso e assai furbo. Un uccello che io
ricordo tanto bene.
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Tra di noi ragazzi del tempo ed il cuculo si era
stabilito una specie di colloquio che la parte profetica
e dunque la parte più interessante era affidata al
cuculo.
Noi ragazzi interessati volevamo sapere dall’uccello
quanto poteva durare la nostra vita.
E, affacciati al parapetto di Agrilli, in faccia alla
verde valle di Callea, che offriva alla nostra voce
un’eco ampliata e tanto sonora, interrogavamo il
cuculo così: “Cuccu meu d’oru quantu ce vo nu moru?
Ed il cuculo, sembrando che capisse e con un
singhiozzo monocorde rispondeva con un numero
intervallato di singhiozzi, che ciascuno di noi contava.
Le risposte come numero non erano sempre le
stesse….e l’interrogante, si faceva a turno, rimaneva
felice allorché le risposte a lui dirette erano di maggior
numero. Particolare di quest’uccello è che non aveva
nido, ma al momento della cova si rivolgeva ad un suo
amico, subdolamente. Così buttati fuori le uova
dell’amico, vi depositava il suo e l’amico lo covava.
Altro ospite che prediligeva il castagno era il
picchio, nomato in dialetto tanto significativamente “u
pizzi ferru”. Quest’uccello, dal becco duro amava
scavarsi il nido all’interno del tronco del castagno in
una posizione di non disturbo e di imprendibilità.
L’uccellatore per aver ragione del suo nido doveva
tagliare il tronco dove si trovava, per raggiungerlo.
Fatica enorme, che sconsigliava il più delle volte
l’impresa.
Ma anche il pizziferro è un ricordo.
Se più riservato e difficile da raggiungere il picchio,
più buona e materna la perriccia.
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Piccolina, ma dava alla luce fino a 12 piccolini che
poi pazientemente allevava.
Gli altri uccelli dei quali sto per dire, non erano
abitatori fissi del castagno, ma con vocabolo rubato al
mondo del lavoro, possiamo definirli precari. Innanzi
tutto il colombo selvatico che aveva l’abilità di
costruirsi il nido sistemando su un impianto di legno
posto tra ramo e ramo. Precari erano anche la gazza
ladra e il merlo; tutti invero godevano della frescura
del bosco di castagni durante l’estate.
Di stanza permanente era però il gufo: uccello
esclusivamente notturno che viveva costantemente sul
castagno e che a Pentone aveva nome “Scropio”.
Concludendo questo capitolo devo ancora dire che
di quel tempo non rimane, anche se insufficiente
questa memoria.
E castagnelle
Erano designate, con questo diminutivo, il solo che
la lingua pentonese conosca, le castagne non
completamente mature, ma pur tuttavia, tenere da
mangiare. Erano ancora conservate nel riccio che
bisognava aprire con tanta esperienza sapendone il
punto debole d’apertura.
Era in definitiva il dono che il coltivatore diretto,
che il conduttore del fondo o il proprietario volevano
fare ai loro cari.
Le castagnelle che la parola riusciva a definire
graziosamente non avevano ancora raggiunto il colore
bruno della maturità, ma che avevano tenerezza e
delicatezza di sapore. Anzi assumevano maggior
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valore come primizia tanto attesa e desiderata. Alcuni
commercianti le facevano cogliere apposta perché le
castagnelle avevano maggiore valore.
A proposito delle quali, qui mi sovviene, forse anche
con nostalgia, come gruppi di persone durante la
processione settembrina della Madonna di Termine,
per le “colle, colle” per tutto il bel colle Nocella, e
quando ci si fermava per le orazioni all’apice del colle
o alla “Cona di Speranza” gruppi di persone, dicevo,
precedendo la stessa processione si davano a tagliare,
meglio dire a spezzare i rami bassi di castagno,
soprattutto in zona Falluca, e ad aprire i ricci e
prendere le castagnelle “su cui” si diceva era caduta
“la Grazia” ed a mangiarle “per devozione”.
Bello per me questo ricordo della festa per questo
verso legato al castagno, soprattutto ora che data l’età
mi è impedito di seguire la processione montana.
Perdutesi, ora tutte queste attività legate al castagno,
alla sua produzione e commercializzazione, non si è
perduto ancora il gusto di assaporare le specialità
manducatorie, che ogni anno, puntualmente ci fa
saggiare, per noi anziani, nel ricordo di un tempo, la
Pro-loco pentonese diretta dall’egregio Vitaliano
Marino e delle quali sto per dire. Premetto che non
intendo parlare delle specialità che si preparano, come
ho già detto con i marroni, ma delle nostre specialità
per le quali ci serviamo di tutte le specialità delle
castagne, ma soprattutto delle “palermitane”.
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Le castagne bollite “e vujiutelle”
Semplice la loro preparazione. Le castagne che
vengono scelte, sono messe in casseruola e coperte di
acqua corrente. A bollitura avvenuta sono buone per la
manducazione. Come avviene questa: semplice, si
schiaccia tra i denti la castagna che per igiene è stata
prima lavata e poi bollita, dunque asettica, la corteccia
si apre e da li fuoriesce, meglio dire fluisce, in tepore
la polpa bianca della castagna deliziosamente.
Le caldarroste “i galloffi”
Sicuramente sono le regine delle castagne e le più
belle.
Ritengo che, per sapore, ma anche esteticamente, le
più perfette siano le caldarroste romane. Si presentano
come un dono in cui l’Altissimo ha chiamato a
partecipare alla sua preparazione l’uomo.
Alquanto marrò con un taglio in pancia da cui
fuoriesce una parte di castagna leggermente dorata è
una delizia degli occhi. A tanta delizia si aggiunge un
profumo che riempie la vita e poi, anche il sapore.
Da questa somma di piaceri l’anima stessa si esalta.
La caldarrosta soddisfa tutti i sensi dell’uomo e non ne
conosco uno che non la apprezzi e la gusti.
Senza forse raggiungere la bellezza di quelle
romane, a Pentone la festa delle castagne occupa
senz’altro il primo posto.
Benedico voi signori che vi preparate a celebrare la
festa delle castagne anche nel ricordo di chi vi ha
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preceduto ed amato, di chi ha speso la vita nella
coltivazione di questo prezioso frutto.
Le altre preparazioni
Accanto al pane cui ho accennato e che ripeto era
quello che brillava un tempo in tutte le messe dei
pentonesi e in tutte le colazioni dei nostri lavoratori,
primeggiavano anche i dolci, che la Pro-loco
pentonese ci offre nella circostanza celebrativa.
Oltre ai ricordati turduni, essi sono il castagnaccio,
le pittefritte, la marmellata, i zirpuli e le cullurelle che
un tempo non erano una rarità.
Questi ricordi sono i dolci di cui , i pentonesi veraci,
hanno alle spalle una antica e fortissima tradizione.
Vero è che accanto a quelli antichi, sorgono dei
nuovi preparati anche con nomi roboanti che vogliono
entrare nella dieta della città delle castagne. Le ricette
di preparazione sono state pubblicate dalla Pro-loco
pentonese nel calendario del 2002 e che speriamo
abbiano accoglienza.
Esse sono: Tartufi di castagna, Torta arrotolata di
castagne, cornetti di castagne, crostata di castagne e
pere, palline di castagne, castagnole, fogliette di
castagne, tronco di Natale e anche pasta asciutta di
castagne.
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Il castagno ed i suoi prodotti
Mi è piuttosto piaciuto dilungarmi nel parlare del
castagno con particolare riferimento al suo frutto oltre
che alla sua bellezza estetica.
Mi pare però opportuno, a questo punto, dire e
ricordare l’utilità del suo essere che va oltre quella del
sostentamento o del rifugio.
Nei vecchi castagni, attaccati dalla carie o lupo, si
forma un terriccio assai utile per la coltivazione delle
piante che noi chiamiamo “terra e cupa”.
Infatti, consapevoli di questa utilità vediamo tanta
gente lungo la strada Termine-Pentone venuta
soprattutto dalla vicina città di Catanzaro, intenta, con
sapienza e gioia, di questa terra magica la cui
asportazione, in definitiva, non produce danno e in
fondo ci fa tanto piacere.
Devo anche ricordare che il pentonese, in tempi
andati, scendeva in città, col suo carico di “terra e
cupa” e la vendeva, cercando così, anche per questa
via, di alleviare la sua povertà.
Inoltre sappiamo che quella gran mole di foglie e di
ricci che produce la pianta, sono ottimo concime che
fortunatamente a Pentone non viene tolto dai
castagneti.
Il castagno fornisce inoltre tanto utile tannino dal
legname, che in seguito a laboriosi procedimenti
nelle tante fabbriche che lo lavorano in Italia.
Ricordo ancora che noi usiamo molta legna da
ardere per tutti i nostri quotidiani bisogni e se questa
legna non è delle migliori per quella funzione, ci è
assai utile.
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Voglio ricordare, inoltre, che il carbone di castagno
tornava tanto utile ai fabbri-ferrai ed il perché è
questo: non tiene abbastanza la fiamma, talché, nel
momento in cui il fabbro non ne ha bisogno
diminuisce di calore e di efficienza, mentre sollecitata
dalla fucina si ravviva e riprende la sua funzione.
Molti pentonesi, per questo, usavano anche fare
carbone di castagno che vendevano come tale.
La Chiesa di S. Nicola di Bari di Pentone, scrive
l’attuale presidente della Pro Loco di Pentone,
Vitaliano Marino, l’edificio più vecchio di tanti altri,
ha i pilastri di sostegno della volta costruiti intorno a
grosse travi di castagno, che, ancora oggi, dopo
innumerevoli anni della sua messa in opera, sono
sommamente valide.
Ma il pregio maggiore dell’albero di cui parliamo
glielo dà il legname; sia quello che un tempo si usava
per travi ed impiantito nel costruire le case, sia quello
che si usava (o ancora si usa) per traversine
ferroviarie.
Legname eterno e di notevole pregio quello di
castagno usato per aperture e mobili, ma voglio
ricordare specificatamente le cassapanche, una delle
quali è ancora a casa mia e che apparteneva a mia
nonna, voglio ricordare il comò e la credenza di mia
madre del 1902, vorrei ricordare i solidi infissi che un
grande maestro, Nicola Perricelli, ci fece nel 1927,
che ancora sono li immarcescibili e belli e potrei
ancora continuare, ma ognuno che mi legge, sa quanta
armonia e quanta potenza ha quel legno, del quale noi
tutti a Pentone abbiamo sentito i benefici.
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Infine mi pare opportuno inserire in questo ricordo
la significativa poesia di Aldo Sirianni recentemente
scomparso. Da quella composizione poetica, che mette
in contrasto Dio e Satana intorno al castagno
considerato nel suo grande valore, si può ricavare che
protagonista della leggenda sia anche “Il pentonese”,
la cui nascita si fa risalire al momento della creazione.
Ciò che appare poeticamente elogiativo e
cristianamente meritorio. Se ne ricava la forza della
grazia che vince ogni avversità.
Legenda Cristiana sul riccio e la castagna
E disse all’uomo:
“I suoi frutti dolci e farinosi
E creò il castagno, Iddio
saranno per te uguali al pane
per te e i figli;
Tu sei buono
E te ne faccio dono”.
Pregò tanto il signore il pentonese
Per quel dono d’amore che non chiese!
Ma l’invidia, (si sa) ch’è del demonio
A notte fonda rivestì quel frutto (castagna)
Da spinosa scorza pungente
Che appena si tocca
Lascia la carne dolente
Provò e riprovò il contadino
D’aprir il riccio tante volte tante
Finchè un mattino
Sentì una risata stravagante
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“Chi ride improvviso e cosi sciolto ? ”
chiese il brav’uomo affranto.
Sono il padrone del mondo tutto
E correggo i creati dal tuo Dio
Che un di mi fu padrone,
ma come vedi, ora, anche la castagna
è sottoposta al voler mio”!
Rincontrò il creatore l’uomo onesto
E, ”Signore”, gli disse:
“Il diavolo ha ravvolto il castagno
da pungente riccio,
Perdona ancora se così mi lagno,
non potrò giammai toccarne
giacché ha combinato tal pasticcio,
e addirittura, non potrò mangiarne”!
E Iddio rimproverò :
“E’ debole e meschina
la tua fede in me ?
pazienta un poco e vedrai domato
il guastatore delle coscienze
prima che la neve abbia posato
sulla dormiente terra
il manto puro….,
aspetta e vedrai.”
Tornò consolato l’uomo a casa
E sentiva ridere il nemico
Ed ogni istante il creatore
Confortandolo diceva: ” Benedico! ”
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Venne l’autunno d’oro
Venne la pioggia
E tremulo andava il ruscello
Al mare, a fermare la sua corsa…..
cadde dalla pianta il riccio,
si adagiò sulla terrà, si dischiuse
Ammorbidì la nebbia l’involucro spinoso,
e sbucò grossa e lucente la castagna.
L’uomo osservò, ringraziò, raccolse….
Tornò a casa
Col sacco ricolmo sulle spalle:
“il pane promesso”.
Sconfitto e scornato fu il ribelle
E la vittoria fu del sommo iddio!
Aldo Sirianni
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Conclusioni
Dopo aver parlato ampiamente del castagno e del
suo frutto, in vero, come ricordo che per tanti anziani
del luogo, rappresenta una memoria e forse una
nostalgia, nella nuova civiltà in cui la tecnica ha
dappertutto il sopravvento rispetto al passato, non
penso che si possa tornare indietro e tornare alla
civiltà contadina di un tempo. No!
Però dobbiamo renderci conto che il castagneto da
frutto e i boschi di castagni non vanno completamente
abbandonati, come succede attualmente.La coltura del
castagno può significare le basi per una gestione del
castagno produttiva e forestale. Penso che la
coltivazione del castagno va guardata con amore e con
più impegno. Mi duole, certamente mi duole, quando
vedo in mezzo al bosco i tanti rami nudi e senza foglie
emergere da tanti alberi colpiti da mal d’inchiostro o
da cancro.Mi duole il cuore quando penso che nulla si
fa per combattere tali mali e per dare al castagneto ed
al bosco l’antica floridezza.
Sono convinto che una buona coltura del castagno,
anche con innesti di nuove qualità, di rinnovazione
cioè e del bosco e del castagneto, potrebbe risolvere il
problema economico.
Ma il discorso va approfondito. E non dico male se
incito la Pro Loco pentonese ad andare oltre il ricordo
per un futuro pieno di speranze.
Avv. Antonio Talerico
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