“scena” è forse quello che ha assunto

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“scena” è forse quello che ha assunto
SCENA. QUESTIONCELLE LESSICALI
di Cesare Molinari
Nel lessico del teatro il termine “scena” è forse quello che ha assunto il maggior numero di
significati diversi, sviluppatisi secondo due principali articolazioni che sembrerebbero fra
loro oppositive, la prima riferendosi allo spazio, la seconda all’azione.
Come tutti sanno, all’origine c’è il greco σκηνή che propriamente significa “tenda”,
etimologicamente “qualcosa che fa ombra” (da σκία – sscr chaya), ciò che parrebbe
indicare principalmente un ambiente interno, riparato dal sole – ombreggiato appunto.
Ovviamente però una tenda possiede anche un esterno, può essere vista dal di fuori, e in
effetti σκηνή si trova in Eschilo e in Sofocle in entrambe queste sue dimensioni, l’interno:
sotto la tenda, o l’esterno: le tende dei Greci formano un accampamento, quasi un
paesaggio.
Non so quando miticamente, nella sua prima accezione teatrale, il termine σκηνή avrebbe
indicato lo spogliatoio degli attori, la tenda dove si riparavano per indossare i loro costumi,
qualcosa dunque di ufficialmente (se si può dire) esterno all’area visiva degli spettatori (dai
quali era relativamente lontana), qualcosa di non pertinente allo spettacolo. Qualcosa però
che, in un secondo momento, sarebbe stata collocata vicino all’orchestra, anzi, tangente ad
essa in modo da costituirne uno sfondo che Aristotele definisce esplicitamente
σκηνογραφία, termine che Manara Valgimigli traduce prudentemente con «decorazione
della scena». Traduzione “prudente” in quanto non si impegna a chiarire se questa
“decorazione” fosse di tipo architettonico o se si trattasse di uno sfondo dipinto, come il
suffisso -grafia sembrerebbe piuttosto indicare. In verità, nei suoi derivati anche moderni,
tale suffisso sembra piuttosto riferito al disegno e poi all’incisione che, con la parola
“grafica”, verranno distinti dalla “pittura”.
Ma, per quanto riguarda il teatro greco, la questione è un po’ diversa poiché σκηνογραφία
potrebbe riferirsi al significato etimologico di σκηνή (ricordiamo da σκία – ombra) e
significare quindi pittura (o disegno) fatti con le ombre o, meglio, con opportuna
distribuzione di ombre e di luci e quindi addirittura in prospettiva – tanto più che la
tradizione assegna ad Agatarco di Samo sia la prima scenografia, che gli sarebbe stata
commissionata da Sofocle, sia un trattato sulla pittura prospettica. Storicamente succederà
poi che scena e scenografia tenderanno a incontrarsi per diventare quasi sinonimi.
Ma su ciò dovremo tornare poiché, intanto, bisogna prendere in considerazione un’altra
evoluzione dell’antico teatro greco – un evento che è diventato centrale nel dibattito teso a
ricostruirne l’immagine e la funzionalità spettacolare. A un certo punto, ma quando e come
è difficile a dirsi, gli attori abbandonano l’orchestra, dove, a detta di Dörpfeld, avevano fino
ad allora recitato mescolati al coro, per collocarsi non davanti, ma sopra la σκηνή:
Demostene definisce gli attori come οι από σκηνής (coloro che stanno sulla scena), e
Aristotele parla del canto degli attori come di ίδια τά από σκηνής (le cose particolari sulla
scena). Talché da questo punto diventa possibile parlare di “scena” come del luogo elevato
su cui gli attori recitano.
Possibile, ma non sempre stilisticamente accettato: le lingue moderne tendono a
distinguere, per cui in italiano si dirà “palco” o “palcoscenico”, in tedesco “Bühne”, in
spagnolo “escenario”, in inglese “stage”, mantenendo solo in francese “scène”. Tutti questi
lemmi hanno una propria area semantica e sopportano diversi impieghi come sineddoche,
metonimie o metafore: in tedesco esiste la parola “Szene”, ma è pochissimo usata, per cui
“Bühne” vale sia per “palcoscenico” che per “scena”, rendendo possibili espressioni come
“auf der Bühne erscheinen” (apparire in scena), d’altra parte, “Bühne” può valere anche
come sineddoche per “Theater” o “Schauspielhaus”; parimenti in inglese si potrà dire
“enter the stage” per entrare in scena, oppure “to be upon the stage” per dire recitare,
mentre, d’altra parte, “to be on the stage” significa essere attore professionista, essere nel
teatro* – paragonabile all’italiano “calcare le scene”. Mentre l’italiano, come il francese,
non ammette le espressioni “entrare nel palco” o “salire sul palcoscenico” se non nel loro
valore meramente materiale. In termini più squisitamente teatrali bisognerà dire “entrare
in scena”, ma anche “uscire in scena”, intendendosi che si “esce” dal mondo reale, appunto
per entrare in quello fittizio dello spettacolo.
Nel teatro romano lo sfondo dell’azione degli attori era costituito da un imponente
complesso architettonico chiamato “scaenae frons”, parte anteriore della scena, concepita
dunque come un insieme che comprendeva sia il palco sia la costruzione che lo delimitava,
addirittura sui tre lati. La “scaenae frons” conteneva alcuni elementi pittorici, dipinti in
prospettiva: così, per estensione, essa potrà essere definita come “scenografia”.
A maggior ragione, quando, nel Rinascimento, l’apparato scenografico si identificherà in
una grande pittura prospettica, anche il termine “scenografia” potrà, dunque, in qualche
misura, essere impiegato come sinonimo di “scena”, ragion per cui una frase come “la
scenografia rappresenta una sala” può essere percepita come perfettamente equivalente a
“la scena rappresenta una sala”. Tuttavia il concetto di “scenografia” conserva pur sempre
una connotazione relativa al disegno o alla pittura, che deriva appunto dal ricordo della
scenografia prospettica rinascimentale e poi barocca, ma che ha resistito, nella struttura a
quinte e fondale, fino al tardo Ottocento e, in Italia, anche oltre, come una sorta di pittura
tridimensionale.
Comunque sia di ciò, il termine “scenografia” è rimasto nell’uso soltanto in italiano:
l’inglese impiega molti termini che tendono a precisare la qualità tecnica, dal più generico
“set” o “setting” a “stage design” o addirittura “stage painting” che conservano la memoria
della scena dipinta, un po’ come il tedesco “Bühnenbild” (quadro scenico), normalmente
preferito a “Szenerie” che fa pensare piuttosto all’oggettistica e al trovarobato, mentre il
francese ha optato decisamente per “décor” che in qualche modo connota qualcosa di
superfluo, o comunque di non essenziale – si ricordi la polemica che il razionalismo
condusse contro la decorazione delle architetture, da qualcuno definita persino immorale.
Ma ci sono altre ragioni che forse, in certo modo (forse + in certo modo: una ridondanza
che certifica l’incertezza), hanno contribuito a separare il concetto di “scenografia” da
quello di “scena” fino a quasi cancellare il primo: se la scenografia serve a qualcosa, questo
qualcosa è di rappresentare il luogo dove l’azione drammatica è pensata svolgersi. Ma,
secondo diverse poetiche del teatro moderno a partire dal simbolismo, in verità non è
necessario neppure per questo: per dire dove l’azione si svolge basta enunciarlo nelle
parole dei personaggi o attraverso un segno qualsiasi, tipo i mitici cartelli di elisabettiana
memoria.
D’altra parte, argomentano queste poetiche (che spesso pretendono di annullare il passato,
dimenticando che l’ontogenesi ricapitola la filogenesi), dove sta scritto che la scena deve
rappresentare qualche cosa? Può farlo, ma non è neppure bene che lo faccia. La scena non
rappresenta, è – è l’ambiente dove si svolge un’azione, dove si svolge la vita. Per questo
può essere concretissima, come la scena-strumento di Meierchol’d, costruita soltanto in
funzione delle evoluzioni degli attori, ma non significare nulla al di fuori di se stessa. Per
questo neppure in italiano si potrà dire “entrare in scenografia”, così come in tedesco non
ha mai incontrato qualcosa come “treten das Bühnebild ein”.
Il fatto che la scena venga percepita come l’ambiente dell’azione teatrale piuttosto che
come la rappresentazione di tale ambiente, rende possibile un largo impiego del termine
con valore di metafora. Espressioni come “la scena del crimine” fanno ormai parte del
linguaggio corrente, anche televisivo. Entriamo così nella seconda area semantica della
parola, in quanto, se è vero che il crimine è qualcosa di già avvenuto e di cui rimane
*
Mi si permetta, in nota, un ricordo personale: la prima volta che, da ragazzo, sono stato a Londra, la signora che mi
ospitava mi ha presentato sua figlia precisando “she is on the stage”: fa l’attrice. È la prima attrice che ho conosciuto, e
le ho fatto anche la corte, ma non so come sia andata la sua carriera. Si chiamava Ann Paton.
soltanto l’ambiente (scena) che permetterà di ricostruirlo, è anche vero che espressioni
come “ho visto una scena d’amore” o “una scena atroce” sono di uso altrettanto comune.
Altre espressioni, come l’usatissima “fare una scena” si riferiscono al concetto di “mettere
in scena”, cioè di allestire o costruire uno spettacolo o una finzione – in francese, si ricordi,
il “regista” è chiamato “metteur-en-scène”.
Tali modi di dire del linguaggio quotidiano corrispondono esattamente a certe formule
tecniche del linguaggio teatrale: una commedia, secondo una tradizione letteraria che
risale almeno al Rinascimento, si struttura in “atti” e in “scene” – una terminologia che
ricorre in tutte le lingue europee, con la parziale eccezione del tedesco, che al romanzo
“Szene” preferisce il germanico “Auftritt”, che significa ingresso, riferito al fatto che l’inizio
di una scena è segnato dall’ingresso (in scena!) di un nuovo personaggio, ma anche
dall’uscita di uno che era già presente. Peraltro, se questo è l’uso prevalente, non mancano
importanti eccezioni: Wagner impiega per lo più il termine romanzo “Szene” con il quale
indica un mutamento anche scenografico, mentre Shakespeare (o i suoi editori) impiegano
“Scene” per designare un episodio che abbia una sua compiutezza narrativa.
Anche in russo (come mi illustra Francesca Fici), per indicare la partizione di un testo
drammatico, esiste un calco dal latino, ma il termine più usato è “являние” (pronuncia
“javlenie”), che significa non già azione, ma apparizione o addirittura fenomeno. Ma
neppure questa eccezione inficia il principio della derivazione delle partizioni
drammaturgiche da quelle propriamente teatrali, ma anche viceversa. Così “atto” è la
radice stessa di “attore” (“el actor actua” dicono gli spagnoli), mentre una “scena”
(d’amore o di guerra) è un’azione che si svolge nell’ambiente di una “scena”(!).
“La scena è vuota \ la commedia è finita” canta Mario Cavaradossi nella Tosca. Per cui non
gli resta che “morire disperato”. Anche quando entriamo in una casa disabitata proviamo
una sorta di imbarazzo, come se visitassimo un luogo che ha perso la sua funzione e il suo
significato. Ma niente è più triste di una scena abbandonata, che si immagina sempre
coperta di polvere e che neppure i ricordi riescono a vivificare: la “scena” vive soltanto per
e nelle “scene” che la possono popolare, anche e soprattutto quando non intende
rappresentare qualcosa di altro da sé, come se volesse vivere “juxta sua iura”, rendendosi
conto di non avere diritti propri.
Cesare Molinari