simona santicchia

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simona santicchia
Simona Santicchia
Disciplina generale delle obbligazioni: mezzi e risultato
Sulla attualità della distinzione fra obbligazioni di mezzi e di risultato
Disciplina generale delle obbligazioni: mezzi e risultato
Sulla attualità della distinzione fra obbligazioni di mezzi e di risultato
Capitolo Primo
Obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato: introduzione della distinzione
1. Premessa
p. 2
2. L’introduzione della distinzione tra obbligazioni di mezzi
e obbligazioni di risultato nel nostro ordinamento
3. L’integrazione dei concetti di diligenza, correttezza e buona fede
p. 3
p. 8
Capitolo Secondo
Adempimento ed imputazione della responsabilità nei primi orientamenti della dottrina
e della giurisprudenza
1. Gli orientamenti della dottrina sui profili di responsabilità debitoria
p. 11
2. La ripartizione dell’onere della prova tra dottrina e giurisprudenza
p. 16
Capitolo Terzo
Obbligazioni di mezzo e obbligazioni di risultato: le ultime evoluzioni della
giurisprudenza e della dottrina
1. I nuovi orientamenti della giurisprudenza e della dottrina
in tema di responsabilità
p. 32
2. Obbligazioni di mezzo e obbligazioni di risultato: superamento
o sovrapposizione?
p. 40
Bibliografia
p. 44
1
Capitolo Primo
Obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato:
introduzione della distinzione
SOMMARIO: 1. Premessa – 2. L’introduzione della distinzione tra obbligazioni di mezzi e
obbligazioni di risultato nel nostro ordinamento – 3. L’integrazione dei concetti di
diligenza, correttezza e buona fede
1. Premessa
Le riflessioni sviluppate nel tempo circa le obbligazioni di risultato e le obbligazioni di
mezzi ci portano qui ad analizzare i più significativi contributi della dottrina in merito.
Tra le tante ragioni richiamate, infatti, appare interessante questa distinzione poiché dalla
stessa deriva una diversa imputazione di responsabilità del debitore in caso di
inadempimento.
Di conseguenza, risulta rilevante analizzare di seguito il contenuto dei due tipi di
obbligazioni, al fine di verificare la diversa intensità dell’impegno del debitore, così come
la differente incidenza del rischio della mancata realizzazione dell’interesse del creditore.
È opportuno, prima di entrare nel merito, sostanziare che si tratta sicuramente di un tema
discusso. È, infatti, evidente come la caratterizzazione del comportamento che il debitore
deve tenere per soddisfare l’interesse del creditore nelle obbligazioni di mezzo piuttosto
che nelle obbligazioni di risultato abbia sollevato voci a favore e voci contrarie.
Risulta complesso ma allo stesso tempo cruciale rispondere al quesito se abbia significato
tale divisione delle obbligazioni di fare.
Proprio su tale questione si muove lo studio, svolto da una duplice angolazione.
2
Da un lato, si esamina l’introduzione di tali qualificazioni nell’ordinamento. Dall’altro, si
analizza se ed, eventualmente, attraverso quali modalità il diritto abbia riconosciuto
legittimità alla distinzione in argomento.
A questo proposito, il presente lavoro si divide in tre parti.
La prima descrive la distinzione tra le obbligazioni di risultato e le obbligazioni di mezzi.
La seconda analizza il dibattito che si è sviluppato a favore o contro tale distinzione.
La terza esamina se ed in che modo la distinzione abbia ancora oggi rilevanza.
Lo studio delle diverse fasi è svolto nella prospettiva di raccogliere elementi per
ridefinire e redistribuire nel sistema giuridico la distinzione fra le due nozioni.
2. L’introduzione della distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato nel
nostro ordinamento
L’attuale distinzione fra obbligazioni di risultato ed obbligazioni di mezzi trova la sua
prima rappresentazione intorno ai primi anni del XX secolo nel pensiero francese di
Demogue1.
Seppur non legittimata in una regola di diritto positivo, la classificazione tra “obligation
de moyen” (obbligazione di mezzo) e “obligation de rèsultat” (obbligazione di risultato)
fu accettata dalla giurisprudenza2 ed ancora oggi rappresenta un argomento notevole
dell’ordinamento giuridico francese.
La distinzione attiene all’oggetto dell’obbligazione.
Nelle obbligazioni di risultato il debitore promette un certo risultato, che è tenuto a
raggiungere. In particolare, tale figura si impegna a soddisfare l’interesse del creditore
attraverso la piena realizzazione dello scopo perseguito.
Nelle obbligazioni di mezzi il debitore si obbliga a porre in essere un’attività conforme a
certe regole ed in vista di un risultato aleatorio. Dunque, tale figura promette al creditore
solo i mezzi e non il risultato che dipende oltre che dal suo comportamento, anche da altri
1
R. Demogue, Traité des obligations en général, V, Paris, 1925, 1237; R. Demogue, Traité des
obligations en général, VI, Paris, 1931, 599.
2
Tra le altre, Cassazione 20 maggio 1936, in Rec. Dalloz, 1936, I, 88; Cassazione 27 giugno
1939, in Rec. Dalloz, 1941, J, 53; Cassazione 13 luglio 1949, in Rec. Dalloz, 1949, J, 423.
3
fattori interni ed esterni al rapporto obbligatorio.
Nel merito va detto, inoltre, che l’espressione trova la sua ratio nell’impegno che il
debitore assume, il quale lo obbliga ad un contegno rappresentabile con la diligenza del
buon padre di famiglia.
Sulla rilevanza della ripartizione intervenne Nicolò, osservando che la distinzione era la
conseguenza di un equivoco, infatti, in tutte le obbligazioni il risultato è la realizzazione
del diritto del creditore (bene, oggetto del diritto), conseguenza dell’esplicazione
dell’attività dovuta dal debitore (comportamento, oggetto dell’obbligo)3.
Nel 1932 anche i Mazeaud obiettarono la nomenclatura data dal Demogue e proposero
una diversa denominazione: obbligazioni determinate ed obbligazioni generali di
prudenza e diplomazia4.
La definizione di “obbligazioni determinate”, trovava la sua ragione nel contenuto della
relazione obbligatoria, individuato alla luce del risultato, che deve essere realizzato, salvo
caso fortuito.
D’altra parte, la denominazione di “obbligazioni generali di prudenza e diplomazia” si
basava sull’idea che la soddisfazione del creditore consistesse, in alcuni casi, nel
contenuto secondario dell’obbligazione, ossia nel contegno del debitore.
Si noti che in questa denominazione il termine “generali” intende riferirsi all’obbligo di
diligenza del buon padre di famiglia che integra quanto è già dovuto dal debitore in virtù
del contratto o della legge. In sostanza, il risultato dedotto risulta incerto ed il creditore
assume a suo carico il rischio di un evento che renda non realizzabile la prestazione del
debitore.
Tra i fattori generali di criticità circa la denominazione data dai Mazeaud, si devono citare
in primo luogo le critiche mosse da Esmein così come da Capitant.
3
R. Nicolò, Adempimento dell’obbligo altrui, Milano, 1936, p. 62, nota 79: “(…) Incorrono pure
in un equivoco quegli scrittori che fanno leva sulla distinzione fra obbligazione avente per
oggetto il risultato dovuto al creditore e l’obbligazione avente per oggetto i mezzi che il debitore
deve impiegare, e discutono se l’obbligazione abbia per oggetto il risultato nella sua consistenza
obiettiva o l’attività (subbiettiva) che il debitore deve porre in essere per raggiungerlo.
L’equivoco consiste nel non aver considerato che il raggiungimento del risultato non è che la
realizzazione del diritto del creditore e che esso si pone non come contenuto dell’obbligo ma
come conseguenza normale dell’attuazione del contenuto cioè dell’esplicazione dell’attività
dovuta dal debitore. (…)”.
4
H. e L. Mazeaud, Traité thèorique et pratique de la responsabilità civile, I, Paris, 1947.
4
Il primo contestò la definizione di “obbligazioni determinate”, più in particolare l’utilizzo
dell’aggettivo “determinate”, poiché sostenne che lo stesso desse una falsa qualificazione,
dato che in ogni rapporto obbligatorio l’oggetto deve essere determinato o determinabile5.
Il secondo contestò, invece, la denominazione “obbligazioni generali di prudenza e
diplomazia” o meglio, nel dettaglio, l’aggettivo “generali”, osservando che quest’ultimo
induceva a ritenere che l’obbligo di prestazione fosse riferito ad una pluralità di soggetti,
piuttosto che alla controparte di un rapporto contrattuale6.
Queste critiche ebbero seguito in dottrina: nel 1947, infatti, Tunc ripropose la distinzione
del Demogue, circoscrivendone però il contenuto7. In particolare per quelle obbligazioni
che il Demogue definiva come “di mezzi”, egli propose l’enunciazione di “obbligazioni di
diligenza”.
Come si vedrà meglio più avanti, a partire da questo momento la diligenza iniziò ad
essere intesa come qualità del comportamento e non solo come inclinazione dello spirito
umano del debitore, sicché essa definisce un preciso obbligo di agire del debitore in
funzione di un determinato risultato.
A questo cammino nella tradizione francese si affianca una progressiva attestazione della
nozione nell’ordinamento italiano.
Qui le due categorie si affermarono ma senza alcun contributo sistematico.
Infatti, eccetto il rapido accenno di Nicolò e, successivamente di Betti, nessun autore si
occupò ex professo del problema.
Per l’importanza che la stessa nozione di Mengoni ebbe nel seguito, sembra allora
opportuno muovere proprio dal suo esame.
Mengoni8 sostenne che nelle obbligazioni di risultato lo scopo dovuto fosse perfettamente
individuabile, mentre nelle obbligazioni di mezzi esso avesse un valore neutro. Per questa
ragione, con riguardo a tale sottospecie, preferì parlare di “obbligazioni di
comportamento”, poiché il contenuto del dovere non si esauriva nella diligenza del buon
padre di famiglia ma in un “far bene” congruente all’interesse primario del creditore.
5
P. Esmein, Obbligations, I, Paris, 1952.
H. Capitant, Les effets des obbligations, in Rivista trimestrale Diritto civile, 1932.
7
A. Tunc, Distinzione delle obbligazioni di risultato e delle obbligazioni di diligenza, in Nuova
Rivista Diritto commerciale, 1947-1948.
8
L. Mengoni, Obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi, in Rivista Diritto commerciale,
1954.
5
6
In tal modo Mengoni riprendeva un’ipotesi di Betti che aveva già parlato di obbligazioni
di contegno intendendo con tale definizione l’obbligo del debitore di andare oltre
l’osservanza della sola diligenza del buon padre di famiglia, con ciò interpretando
l’attitudine della volontà del debitore a perseguire (ma non necessariamente raggiungere)
un determinato risultato9.
Mengoni, dunque, criticò le denominazioni utilizzate in precedenza e specie quella dei
Mazeaud, poiché ritenne che il riferimento al risultato contenuto in una sola delle due
definizioni lasciasse pensare che nell’altra lo stesso non potesse mai essere determinato.
Secondo questa costruzione Mengoni aderì alla teoria di Siber secondo cui in generale
non esistono obbligazioni che non abbiano per oggetto la produzione di un risultato,
perché in ogni rapporto obbligatorio è sempre individuabile un’utilità10.
Al modo di Mengoni nella distinzione tra obbligazioni di risultato ed obbligazioni
di
mezzi è configurabile un diverso rapporto tra l’interesse del creditore ed il risultato
dedotto in obbligazione. In particolare, nelle prime vi è la soddisfazione dell’interesse
primario del creditore, (ossia l’obbligazione ha ad oggetto uno scopo nel quale si spiega
il fine economico); nelle seconde vi è la soddisfazione di un interesse secondario del
creditore, che ha come scopo ulteriore l’attuazione dell’interesse primario, ossia
l’obbligazione ha ad oggetto un comportamento utile per raggiungere il risultato, la cui
realizzazione è però estranea al rapporto11.
9
E. Betti, Teoria generale delle obbligazioni, I, Milano, 1953, p. 130: “(…) l’articolo 1176,
nell’enunciare il criterio della diligenza, non è punto inteso a stabilire quelli che sono i
presupposti della responsabilità contrattuale, nel senso che il torto contrattuale consista
unicamente nell’inosservanza di quella diligenza. Esso segna un criterio di valutazione della
condotta solo per le obbligazioni di contegno, non già per le obbligazioni di risultato, giusta una
distinzione alla quale la civilistica francese è stata indotta dal fatto che anche nel codice francese
si trova una norma che fa pensare ad un possibile indipendenza del criterio della sopravvenuta
impossibilità oggettiva della prestazione”.
10
H. Siber, Der rechtszwang im schuldverhaltniss, Leipzig, 1903.
11
L. Mengoni, Obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi, p. 188, cit., circa la distinzione:
“essa non vuole significare l’assenza, in certe obbligazioni, di un risultato dovuto, il che sarebbe
assurdo, ma piuttosto separare i rapporti obbligatori in due categorie, caratterizzate da una
maggiore o minore del termine finale dell’obbligazione (risultato dovuto) al termine iniziale, cioè
all’interesse da cui l’obbligazione trae origine. L’interesse-presupposto dell’obbligazione è
sempre orientato al mutamento o ala conservazione di una situazione di fatto iniziale. Ma non
sempre l’oggetto della qualificazione giuridica, coincide con la realizzazione di questo interesse
che potremmo chiamare primario. Talvolta la tutela giuridica, che è la misura del dovere avere del
creditore è circoscritta a un interesse strumentale, a un interesse di secondo grado che ha come
scopo immediato un’attività del debitore capace di promuovere l’attuazione dell’interesse
primario”.
6
Se si preferisce nelle obbligazioni di risultato il creditore si attende dal debitore un
comportamento che modifichi la situazione, mentre nelle obbligazioni di mezzi il
creditore si aspetta un comportamento che possa essere in grado di mutare la situazione.
In quest’ultimo caso al raggiungimento dello scopo concorreranno, infatti, altri fattori,
anche esterni al contegno dovuto dal debitore.
In conclusione, Mengoni sostenne che la distinzione tra le obbligazioni di risultato e le
obbligazioni di comportamento fosse attendibile solo se connessa ad una complementarità
tra interesse e risultato dovuto.
Ciò detto, nella sua opera Cottino aggiunse che la distinzione si risolve non tanto nello
stabilire se nel rapporto obbligatorio sia sempre individuabile un risultato, ma come e in
che cosa individuare quest’ultimo12.
Ed ancora nel merito Santoro Passarelli osservò che in ogni obbligazione è sempre
possibile individuare sia un comportamento dovuto dal debitore che un
risultato atteso dal creditore, il quale è raffigurabile come lo scopo in funzione del quale è
costituito il rapporto obbligatorio13.
Al modo di Breccia le perplessità circa la distinzione tra obbligazioni di mezzi e le
obbligazioni di risultato si concentrarono sulle diverse nozioni di risultato: una interna al
rapporto obbligatorio, che corrisponde alla prestazione dovuta dal debitore, ed una
esterna, che influisce sulla “ragion d’essere della prestazione”14.
12
G. Cottino, L’impossibilità sopravvenuta della prestazione e la responsabilità del debitore,
Milano, 1975, p. 74: “il problema è in realtà non tanto di stabilire se nella prestazione sia sempre
dedotto un risultato, ma come e in che modo identificare quest’ultimo (…)”.
13
F. Santoro Passarelli, “Professioni intellettuali”, in Novissimo Digesto Italiano, XIV, 1967, p.
25: “in ogni obbligazione, oltre al comportamento dovuto, si ha sempre anche un risultato atteso
dal creditore, che è il risultato in vista del quale l’obbligazione è sorta”.
Così anche le considerazioni di M. Giorgianni, “Obbligazione (Diritto privato)”, in Novissimo
Digesto Italiano, XI, 1967, p. 598: “a nostro avviso un comportamento del debitore è sempre
dovuto e la sua presenza costituisce anzi l’elemento individuatore del rapporto giuridico rispetto
ad altre situazioni giuridiche; mentre, d’altro canto, un risultato (che talora si realizza in una cosa)
è sempre necessario, indicando la direzione della prestazione verso il soddisfacimento di un
interesse del creditore. Varia, è vero, la proporzione dei due elementi, cosicché vi sono rapporti in
cui il comportamento prevale sul risultato e viceversa, secondo un’amplissima gamma di valori
(…)”.
14
U. Breccia, Le obbligazioni, Milano, 1991, p. 139: “le perplessità più forti nascono per il fatto
che la distinzione è basata su due diverse nozioni di risultato: l’una che influisce dall’esterno sulla
ragion d’essere della prestazione ma resta estranea all’obbligazione (…); l’altra che è invece
sicuramente ricompresa nella sfera della prestazione ma è frutto di un comportamento che è
altrettanto dovuto e che costituisce pur sempre un momento essenziale del contenuto
dell’obbligo”.
7
Se è pacifico, infatti, che il debitore assume un’obbligazione, il problema si pone nel
momento in cui va definito se si tratti di un’obbligazione di mezzi piuttosto che di
risultati.
Tale qualifica non costituisce un dato assoluto, ma la conclusione di una valutazione circa
la situazione e le obiettive possibilità di raggiungere lo scopo.
Si aderisca o meno alle tesi fin qui esposte, in conclusione, è opportuno sottolineare che
nonostante la distinzione tra le obbligazioni di risultato e le obbligazioni di mezzi non
entrò nel Codice civile del 1942, come lo stesso Rescigno affermò, divenne punto fermo
della discussione dottrinale da rivestire valore pari ad una norma15.
Sembra, infatti, fuor di dubbio che dalle due sottocategorie esaminate possano essere
desunte disposizioni di adempimento e regole di responsabilità dell’inadempimento.
3. L’integrazione dei concetti di diligenza, correttezza e buona fede
Si potrebbe, per vero, ritenere che il dovere di diligenza formulato dall’esperienza
francese16 confluì nell’articolo 1224 del Codice civile italiano del 1865: “la diligenza che
si deve impiegare nell’adempimento dell’obbligazione, abbia questa per oggetto l’utilità
di una delle parti o d’ambedue, è sempre quella di un buon padre di famiglia (…). Questa
regola per altro si deve applicare con maggiore o minor rigore, secondo le norme
contenute per certi casi in questo Codice”.
Ed è proprio tale formulazione che venne poi recepita nel Codice civile del 1942
all’articolo 1176 che così recita: “nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la
diligenza del buon padre di famiglia. Nell’adempimento delle obbligazioni inerenti
all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla
15
P. Rescigno, Fondamenti e problemi della responsabilità medica, in La responsabilità medica
nel diritto italiano, Milano, 1982, p. 78: “una elaborazione dottrinale così radicata da rivestire
valore pari ad una norma”.
16
Codice Napoleonico all’articolo 1137: “l’obbligazione di vigilare alla conservazione della cosa,
sia che la convenzione non abbia per oggetto che l’utilità di una delle parti, sia che abbia per
oggetto la loro utilità comune, assoggetta colui che ne è gravato a usarvi tutte le cure d’un buon
padre di famiglia.
Quest’obbligazione è più o meno estesa relativamente ad alcuni contratti, i cui effetti, a questo
riguardo, sono spiegati sotto i titoli che li riguardano”.
8
natura dell’attività esercitata”.
Il concetto di diligenza richiamato dalla diposizione riproduce una formula oggettiva di
qualità di cura, sforzo, perizia ed attenzione su cui ogni debitore deve impostare il
proprio comportamento.
Il debitore opera diligentemente nel momento in cui agisce con scrupolo e serietà in
funzione del risultato, al fine di soddisfare l’interesse del creditore.
Al modo di Mengoni la diligenza è, infatti, proprio quella “funzione di volontà; la bontà o
l’utilità dell’azione (…) la cui osservanza trasforma il semplice agere in un facere, in
un’azione capace di dar principio al processo di attuazione dello scopo considerato”17.
Del resto anche Ravazzoni affermò che “la diligenza costituisce una qualificazione di un
comportamento umano; questa qualificazione opera nel senso della conformazione del
comportamento ad un modello ispirato alla cura, alla solerzia, alla cautela, ad un
complesso, quindi, di caratteristiche spiegate in modo che il comportamento umano possa
essere valutato positivamente, in quanto adeguato al fine che esso deve raggiungere”18.
Il concetto di diligenza deve essere interpretato altresì tenendo conto della specificità del
rapporto obbligatorio, ossia della natura e del contenuto dell’adempimento dedotto in
obbligazione.
Ed è proprio a tale criterio che si riconduce la valutazione dell’adempimento o meno da
parte del debitore che si propone nel proseguo del lavoro.
Il concetto di diligenza così individuato ci permetterà, infatti, di definire quando possano
considerarsi
o
non
adempiute
dall’obbligato
le
condizioni
di
esecuzione
dell’obbligazione, così come determinare i profili di responsabilità debitoria.
Riflettere sul criterio di diligenza ci porta alle nozioni di correttezza e buona fede,
rispettivamente sancite dagli articoli 1175 e 1375 del Codice civile.
Correttezza e buona fede non costituiscono obbligazioni autonome ma rappresentano
degli strumenti d’integrazione della reale portata del rapporto obbligatorio.
Ne consegue che tali concetti offrono un principio generale per valutare la conformità del
comportamento del debitore al quello dovuto.
In questa prospettiva l’integrazione delle nozioni con il criterio di diligenza rappresentano
il parametro della minore o maggiore colpa dell’obbligato in caso di inadempimento.
17
18
L. Mengoni, Obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi, p. 193, cit..
Così R. Ravazzoni, “Diligenza”, in Enciclopedia Giuridica Treccani, VII, 1988.
9
In proposito va rimarcato, dunque, che le formule di correttezza e buona fede sono
ispirate alla regola della solidarietà contrattuale che impone a ciascuna parte di un
rapporto obbligatorio di salvaguardare l’utilità dell’altra, a prescindere dal regolamento
negoziale.
Rispetto al tema risulta interessante ricordare l’orientamento della Cassazione, che
sostanzia i concetti di correttezza e buona fede come: “un generale obbligo di solidarietà
(derivante soprattutto dall’articolo 2 della Costituzione) che impone a ciascuna delle parti
di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra a prescindere tanto da specifici
obblighi contrattuali, quanto dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, trovando
tale impegno solidaristico il suo limite precipuo unicamente nell’interesse proprio del
soggetto, tenuto, pertanto, al compimento di tutti gli atti giuridici e/o materiali che si
rendano necessari alla salvaguardia dell’interesse della controparte nella misura in cui essi
non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico”19.
Questa definizione indica la rilevanza assunta nel rapporto obbligatorio dal
comportamento delle parti. In sostanza, è vero che se l’obbligazione è volta al
soddisfacimento dell’interesse del creditore, è pur vero che questo dipende da quanto
posto in essere da entrambe le parti.
Sicuramente va precisato che ciò che spetta al creditore non è certo agevolare
l’esecuzione della prestazione del debitore o renderla meno onerosa di quella pattuita ma
semmai non renderla più disagevole o gravosa di quanto secondo le regole ci condotta
possa intendersi.
19
Cassazione 30 luglio 2004, n. 14605, in Giust. civ., 2005, 1, 1566; conf., ex plurimis,
Cassazione 4 marzo 2003, n. 3185, in Giust. civ., 2004, 1, 2832.
10
Capitolo Secondo
Adempimento ed imputazione della responsabilità
nei primi orientamenti della dottrina e della giurisprudenza
SOMMARIO: 1. Gli orientamenti della dottrina sui profili di responsabilità debitoria – 2. La
ripartizione dell’onere della prova tra dottrina e giurisprudenza
1. Gli orientamenti della dottrina sui profili di responsabilità debitoria
Di seguito si analizzeranno i profili di responsabilità debitoria nelle obbligazioni di
risultato e nelle obbligazioni di mezzi.
Prima di introdurre tale approfondimento, appare opportuno riassumere i tratti principali
delle disposizioni sull’adempimento ed inadempimento, nonché della distinzione tra le
obbligazioni di risultato e le obbligazioni di mezzi fin qui trattata.
Con riguardo al primo punto va detto che nel Codice civile non esiste una definizione di
adempimento. Dallo studio però delle disposizioni in esso presenti, alla Sezione I del
Libro delle Obbligazione, può dedursi che l’adempimento è il modo in virtù del quale si
estingue sia l’obbligo del debitore che il diritto del creditore. In altre parole, rappresenta
l’estinzione naturale dell’obbligazione. Infatti, ai sensi dell’articolo 1218 del Codice
civile, consiste nell’esatta esecuzione della prestazione dovuta.
È chiaro, dunque, come la stessa norma individui la responsabilità del debitore che non
esegue la prestazione dovuta. Del resto, l’inadempimento non è altro che la mancata
esecuzione della prestazione originaria.
In tale fattispecie la norma presuppone che il debitore è tenuto al risarcimento del danno
se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della
prestazione derivante da ragione a lui non imputabile. Dunque, l’impossibilità
sopravvenuta rappresenta l’unica causa che legittima il debitore a non tenere il
comportamento dovuto.
11
Con riguardo ad essa va detto che la prestazione è definita come oggettivamente
impossibile qualora si presenti una causa di forza maggiore che il debitore non può
contrastare o un evento inevitabile che il debitore non può prevedere.
Proprio in relazione a ciò si vedrà più avanti che l’impossibilità libera il debitore quando
nessuna azione oggettivamente può rimuoverla, quindi, prescinde da cause relative alla
sfera di tale figura.
Per quanto concerne la distinzione tra le obbligazioni di risultato e le obbligazioni di
mezzi si è già fatto riferimento al criterio cardine della differenziazione, rappresentato
dall’oggetto, che nell’obbligazione di mezzi è una prestazione che deve essere eseguita
secondo il principio della diligenza di cui all’articolo 1176 del Codice civile, mentre
nell’obbligazione di risultato è la realizzazione del risultato stesso.
Allo stesso modo la Cassazione con la Sentenza n. 3848, del 29 novembre 1968, ha
affermato che quella di risultato è “un’obbligazione nella quale la prestazione consiste nel
conseguimento di un determinato risultato, mancato il quale il creditore insoddisfatto ha
diritto per ciò stesso al risarcimento del danno” mentre quella di mezzi è un’obbligazione
nella quale la prestazione del debitore è riconducibile ad una “certa attività indirizzata al
conseguimento del risultato propostosi dall’altra parte, il quale però rimane estraneo al
contenuto dell’obbligazione, poiché ad ottenerlo può essere necessario il concorso di altri
fattori, non dipendenti dall’attività del prestatore d’opera né sempre da lui dominabili o
controllabili”20.
Un’ulteriore rappresentazione della distinzione è proposta dalla stessa Corte nella
Sentenza n. 6416, del 10 dicembre 1979, nella quale si legge che “a differenza
dell’obbligazione di mezzi, la quale richiede al debitore soltanto la diligente osservanza
del comportamento pattuito, indipendentemente dalla sua fruttuosità allo scopo perseguito
dal creditore”, l’obbligazione di risultato deve soddisfare l’effettivo interesse di una parte
“assunto come contenuto essenziale ed irriducibile della prestazione”, sicché
“l’adempimento coincide con la piena realizzazione dello scopo perseguito dal creditore,
indipendentemente dall’attività e dalla diligenza spiegate dall’altra parte per conseguirlo.
Pertanto, l’obbligazione di risultato può considerarsi adempiuta solo quando si sia
realizzato l’evento previsto come conseguenza dell’attività esplicata dal
20
Così Cassazione 29 novembre 1968, n. 3848, in Foro It., 1969, 1, 903.
12
debitore,
nell’identità di previsione negoziale e nella completezza quantitativa e qualitativa degli
effetti previsti, e, per converso, non può ritenersi adempiuta se l’attività dell’obbligato,
quantunque diligente, non sia valsa a far raggiungere il risultato previsto”21.
Vengono in rilievo, dunque, dalla giurisprudenza gli stessi principi accolti in dottrina già
oggetto di trattazione: nelle obbligazioni di mezzi la diligenza individua il contenuto
dell’attività debitoria, mentre nelle obbligazioni di risultato tale criterio rappresenta uno
strumento per valutare l’esattezza del comportamento posto in essere dal debitore.
Accolta questa impostazione può conseguentemente affermarsi che nelle obbligazioni di
mezzi il debitore è inadempiente se ha posto in essere l’attività con un grado minore di
diligenza da quella dovuta, mentre nelle obbligazioni di risultato il debitore è
inadempiente se non ha realizzato il risultato atteso.
Sul piano normativo, coerentemente con questa tesi, si ritiene che la norma dettata
dall’articolo 1218 del Codice civile riguardi le obbligazioni di risultato, mentre la regola
dettata dall’articolo 1176 del Codice civile disciplini quelle di mezzi.
A tale impostazione si richiama, ad esempio, Osti, secondo il quale la colpa del debitore,
nell’ipotesi in cui oggetto della prestazione è l’attività del debitore, è da intendersi come
mancanza della diligenza dovuta, la quale “è né più né meno che un elemento integrante
dell’inesatto adempimento, vale a dire del presupposto obiettivo della responsabilità, non
una condizione soggettiva che al presupposto obiettivo si aggiunga a costituire il
fondamento di quella”22.
Anche secondo Barassi le due disposizioni hanno un ambito applicativo differente: egli,
infatti, afferma che nelle obbligazioni di mezzi il debitore non è responsabile se si è
comportato diligentemente per evitare l’impossibilità della prestazione, mentre nelle
obbligazioni di risultato il debitore non risponde dell’inadempimento solo nel caso
fortuito23.
In contrapposizione con l’opinione tradizionale si pone parte della dottrina che individua
regole comuni alle due sottospecie di obbligazioni circa il profilo della responsabilità.
Il dibattito intorno al tema si traduce in un raccordo sistematico tra gli articoli 1176 e
1218 del Codice civile.
21
Cassazione 10 dicembre 1979, n. 6416, in Mass. Giur. it., 1979, 1569.
G. Osti, Deviazioni dottrinali in tema di responsabilità per inadempimento delle obbligazioni,
in Scritti giuridici, I, 1973, pp.472-473.
23
L. Barassi, Teoria generale delle obbligazioni, III, Milano, 1948.
13
22
In altre parole, il principio generale di imputabilità della causa non evitabile riconosce il
limite della diligenza, quindi, il mancato raggiungimento del risultato è imputabile al
debitore qualora questi non abbia scongiurato l’impossibilità utilizzando l’ordinaria
diligenza. Di conseguenza, il debitore non risponde dell’inadempimento in caso di
impedimenti non prevedibili con lo sforzo diligente dovuto.
In definitiva può affermarsi che sia l’impossibilità oggettiva sia la diligenza rappresentano
i presupposti della responsabilità nelle obbligazioni di mezzi, così come nelle
obbligazioni di risultato.
La ricostruzione del pensiero dottrinale in materia di connessione delle norme trova
particolarmente interessante il contributo di Betti.
Sebbene egli sostenga che il criterio della diligenza possa applicarsi solo alle obbligazioni
in cui il debitore si impegna a prestare un’attività che “deve essere controllata ad una
stregua di diligenza e di abilità tecnica”, afferma che tale principio nelle obbligazioni di
mezzi non è sufficiente ad escludere l’imputabilità dell’inadempimento, poiché
“bisognerà inoltre vedere se, mancata la prestazione,
(…)
questa
mancanza
sia
imputabile allo stesso debitore che la doveva o non dipendeva per avventura da causa a
lui estranea (…)”, mentre in tutte le altre obbligazioni (obbligazioni di risultato) ha
ragione di essere quando si tratti “di valutare quell’attività, che si potrebbe chiamare
strumentale, che in sé sarebbe stata idonea a produrre quel risultato utile”.
Il debitore, infatti, nelle obbligazioni di risultato “bisogna che ponga in essere l’opus; e si
può esonerare da responsabilità solo col dimostrare che la formazione dell’opus gli sia
stata impedita da una causa estranea alla sua sfera di controllo, da una causa che non è a
lui imputabile, che egli non avrebbe potuto superare mettendo in opera quel grado di
impegno, di sforzo, che gli era richiesto secondo il tipo del rapporto di obbligazione di cui
si trattava” 24.
Lo stretto collegamento tra gli articoli 1176 e 1218 del Codice civile implica il
superamento del principio tradizionale di imputabilità, nel senso che tutti gli eventi non
evitati utilizzando il criterio della diligenza sono considerati imputabili al debitore.
In questo ordine di idee si individua, dunque, un criterio di imputazione della
responsabilità di
24
natura soggettiva, ossia basato sulla colpa, operante sia nelle
E. Betti, Teoria generale delle obbligazioni, p. 128, cit..
14
obbligazioni di mezzi che nelle obbligazioni di risultato.
A questo proposito, è interessante notare come Mengoni avvalori la tesi riprendendo
l’operato del legislatore circa la generalizzazione del principio della “diligentia
diligentis”. In particolare, questo Autore sostiene che la norma dettata dall’articolo 1176
del Codice civile completa quella descritta dall’articolo 1218 del Codice civile, dal
momento che deve essere imputata al debitore l’impossibilità che deriva da una causa non
fortuita, ossia “evitabile con l’ordinaria diligenza del buon padre di famiglia” 25.
Al modo di Di Majo, qualora si parli di obbligazione di mezzi, poiché nessun risultato è
dedotto in obbligazione “è evidente che il soggetto creditore, ove il proprio interesse non
risulti realizzato, non potrà lamentarsi che del difetto di diligenza e/o di perizia del
debitore e tale
difetto tenderà
a mettere in relazione con il mancato esito della
prestazione dovuta (…). Ma ciò significa che, nella obbligazione di mezzi, ove materia è
lo stesso agire diligente in vista del perseguimento di un risultato (…), lo stesso
inadempimento, nella sua materialità, sarà rappresentato dall’agire negligente”.
Mentre qualora si tratti delle obbligazioni di risultato “la prova della diligenza non potrà
che servire a dimostrare che tale mancato risultato è dipeso da una causa, e cioè da un
fatto impeditivo, non imputabile al debitore”26.
Si spiega così perché nelle obbligazioni di mezzi il debitore debba dar prova del proprio
sforzo diligente per scongiurare l’imputabilità dell’inadempimento, mentre nelle
obbligazioni di risultato il debitore sia tenuto a documentare il suo agire diligente in
direzione del risultato dell’obbligazione, tuttavia rivelatosi non sufficiente per evitare
l’impossibilità oggettiva.
L’idea espressa in dottrina è consolidata dalla orientamento della Corte di Cassazione
nella Sentenza n. 1638, del 27 maggio 1955, teso ad affermare “che la causa non
imputabile al debitore, la quale ha determinato l’impossibilità della prestazione, è quella
che non può essere evitata mediante l’impiego della normale diligenza”27.
Nella sentenza appare evidente l’integrazione del criterio di imputazione oggettivo
indicato dall’articolo 1218 del Codice civile a quello di tipo soggettivo suggerito
dall’articolo 1176 del Codice civile.
25
L. Mengoni, Obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi, p. 200, cit..
A. Di Majo, L’adempimento dell’obbligazione, Bologna, 1993, p. 58.
27
Così Cassazione 27 maggio 1955, n. 1638, in Giust. civ., 1955, 1632.
15
26
È, infatti, osservato che il debitore è obbligato, oltre che all’attività dedotta nel contratto,
a porre in essere una serie di azioni preliminari e successive utili per il raggiungimento
del risultato, così come ad agire per rimuovere l’eventuale impedimento della prestazione.
In conclusione, emerge con chiarezza che le differenziazioni dottrinali e giurisprudenziali
in tema di responsabilità debitoria nelle obbligazioni di risultato e nelle obbligazioni di
mezzi non consentono una descrizione unitaria dell’argomento.
Invero, seppur sotto un diverso profilo, anche in tema di distribuzione dell’onere della
prova risulta doveroso osservare la difficoltà di individuare un criterio unanimemente
condiviso.
Seguitando, dunque, nel dibattito che si è sviluppato a favore o contro la distinzione tra le
obbligazioni di mezzi e le obbligazioni di risultato a questo punto del lavoro si inserisce
proprio la questione della ripartizione dell’onere della prova messa in evidenza dalla
dottrina e dalla giurisprudenza.
2. La ripartizione dell’onere della prova tra dottrina e giurisprudenza
Si osservi che la formulazione dell’articolo 2697 del Codice civile stabilisce che chi vuol
far valere un diritto in giudizio debba documentare i fatti costitutivi del suo diritto.
Secondo tale disposizione, quindi, nel caso in cui il debitore disattenda l’obbligo di
prestazione, il creditore deve provare le situazioni che ne rappresentano il fondamento.
D’altra parte, chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti, ovvero eccepisce che il diritto si è
modificato o estinto, deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda.
Poste tali premesse, si può affermare che nelle obbligazioni di mezzi il creditore deve dar
prova che l’attività posta in essere dal debitore non è stata conforme a diligenza, mentre
nelle obbligazioni di risultato deve provare che il risultato non è stato raggiunto.
La ripartizione individua, dunque, una diversa distribuzione del rischio di non
realizzazione del risultato: nelle prime esso grava sul creditore, nelle seconde sul debitore.
A questo punto conviene rilevare tale distinzione nei primi orientamenti della dottrina e
della giurisprudenza. L’evoluzione poi del pensiero sarà oggetto di trattazione del
capitolo successivo.
16
Con rifermento alla sottocategoria delle obbligazioni di mezzi, nel contratto di
prestazione d’opera professionale il cliente conferisce al professionista l’incarico per lo
svolgimento di una prestazione secondo modelli di diligenza media.
Ove questi non adempia l’obbligo assunto, il cliente deve dar prova della mancata perizia
nell’esercizio dell’attività professionale.
L’analisi della casistica giurisprudenziale indica il principio generale di responsabilità,
che può ben ravvisarsi nella Sentenza della Cassazione n. 969, del 12 febbraio 1981: “la
responsabilità del professionista per i danni causati dalla sua attività professionale deve
essere valutata alla stregua dello svolgimento di tale attività e in particolare del dovere di
diligenza il quale, a norma dell’articolo 1176 del Codice civile, deve adeguarsi alla natura
dell’attività esercitata”28.
In linea con l’opinione della giurisprudenza, dunque, il dovere di diligenza del
professionista va definito con riferimento alla prestazione oggetto del contratto. Pertanto,
appare importante di seguito individuare l’applicazione del criterio di diligenza, nonché il
profilo di responsabilità rispetto ai diversi ambiti professionali.
Muovendo i passi dell’indagine dalla figura dell’avvocato, si rammenti che “le
obbligazioni del professionista forense sono obbligazioni (…) di mezzi, sicché
l’inadempimento non può essere desunto dal mancato raggiungimento del risultato utile
cui mira il cliente, ma soltanto da specifica responsabilità professionale, con riguardo alla
natura ed alla modalità dell’attività esercitata”29.
Con riferimento all’aspetto contrattuale va detto che l’articolo 2230 del Codice civile
stabilisce che “l’avvocato o il procuratore legale che, in forza della procura conferita loro
dal cliente, ne assumo il ruolo di difensore, entrano con il cliente in un rapporto che ha
per oggetto una prestazione d’opera professionale”.
In materia appare significativo l’intervento della Cassazione, il quale afferma che “il
contratto di clientela è disciplinato dalle norme di diritto sostanziale circa il mandato, per
cui non è dubbio che il difensore, munito di procura ad lites sia oggetto a quelle
medesime obbligazioni che fanno carico a qualsiasi altro mandatario, in quanto, s’intende,
non siano inconciliabili con la funzione di rappresentanza tipicamente tecnico-processuale
demandata al difensore.
28
29
Cassazione 12 febbraio 1981, n. 969, in Foro it., 1981, “Professioni intellettuali”, n. 34.
Cassazione 25 marzo 1995, n. 3566, in Mass. Giur. it., 1995.
17
Fra dette obbligazioni sono certamente da annoverare quelle imposte al mandatario dagli
articoli 1712 e 1713 del Codice civile, tenendo altresì presente che se la responsabilità del
professionista soggiace agli stessi criteri che regolano la responsabilità del mandatario,
essa deve essere peraltro valutata secondo la diligenza del buon padre di famiglia”30.
In relazione a tale orientamento si parla, quindi, di un contratto misto, disciplinato dalle
regole sia del mandato, nel momento in cui l’avvocato è chiamato ad esercitare l’attività
di patrocinio fiduciario della parte in sede giudiziaria che del contratto di prestazione
d’opera per tutte quelle attività professionali stragiudiziali.
Tale inquadramento è sostenuto anche da parte della dottrina. Nel merito Viola asserisce
che si parla di contratto misto “quando il rapporto cliente/avvocato viene considerato
unitariamente, ed il rilascio del mandato ad litem rimane una vicenda legata alle
esigenze processuali31.
Quanto all’attività svolta dall’avvocato è utile ricordare quanto specificato dalla
Cassazione in merito, ossia che il lavoro forense, così come descritto dall’ordinamento
della professione e dalle norme del codice di rito è quello “di rappresentanza, assistenza
e difesa delle parti in giudizio”32.
Al modo di Baldassarri il dovere dell’avvocato è quello “di adempiere (…) con dignità e
decoro, come si conviene all’altezza delle funzioni” che è chiamato “ad esercitare
nell’amministrazione della giustizia”33.
Tale figura, dunque, non garantisce al cliente l’accoglimento della sua istanza ma
l’impegno dei mezzi per il raggiungimento del risultato auspicato.
Pertanto, può affermarsi che in caso di inadempimento il cliente, nel richiedere il ristoro
dei danni subiti, deve dimostrare che questi gli sono derivati dall’omissione di un’attività
diligente di cui all’articolo 1176 del Codice civile.
Per quanto riguarda, invece, la controprova del debitore, essa è connessa alla
dimostrazione di fatti che provino un comportamento diligente, in grado di giustificare
l’impossibilità della prestazione.
30
Così Cassazione 2 agosto 1973, n. 2230, in Giust. civ., 1973, 1, 1864.
L. Viola, I danni da inadempimento, professionisti e consumatori, Matelica, 2008, p. 162.
32
Così Cassazione 28 maggio 1976, n. 1929, in Codice civile commentato, Simone, 2007.
33
A. Baldassarri e S. Baldassarri, La responsabilità civile del professionista, Milano, 2006, p.
944.
18
31
Ancora in tema, merita di essere analizzato l’indirizzo “mitigato” ravvisabile in alcune
pronunce della Corte di Cassazione che riconoscono al cliente un risarcimento del danno
nei termini in cui l’esatto adempimento da parte dell’avvocato avrebbe consentito di
raggiungere concretamente il risultato auspicato.
L’orientamento può riassumersi nella sentenza della Corte di Cassazione che ha
sostenuto, con riferimento al nesso di causalità tra errore e danno, che il cliente è “tenuto
a provare non solo di aver sofferto un danno ma anche che questo è stato cagionato dalla
insufficiente o inadeguata attività del professionista e cioè della difettosa prestazione
professionale”. Ed ancora, ragionando in termini di accoglimento della domanda di
risarcimento proposta dal cliente contro il proprio difensore si “presuppone che sia
accertata l’esistenza di un danno economico e che questo dipenda direttamente ed
effettivamente dal suddetto comportamento. L’affermazione della responsabilità del
difensore implica pertanto l’indagine, positivamente svolta, sul sicuro e chiaro
fondamento dell’azione che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente coltivata e,
quindi la certezza morale che gli effetti di una diversa attività del professionista
medesimo sarebbero stati più favorevoli per il cliente”34.
La pronuncia sintetizza la prima nozione enunciata dalla Corte, quella della “certezza
morale”, con la quale si è cercato di superare l’orientamento più tradizionale. Difatti, una
volta affermato il principio, si riconosceva l’avvocato come responsabile solo dopo aver
condotto un’indagine circa la sicura produzione degli effetti favorevoli per il cliente.
In particolare, è interessante ricordare anche il successivo indirizzo della Corte di
Cassazione concretizzatosi nel principio della “ragionevole certezza”.
In questa prospettiva la Sentenza n. 2222,
del 5 aprile 1984, ha così stabilito: “la
condanna (dell’avvocato inadempiente per omessa proposizione dell’appello) (…) non
può essere pronunciata, limitatamente alla declaratoria generica, se l’attore non abbia
fornito la prova, oltre che della negligenza o errore professionale del convenuto, anche
dell’esistenza di un concreto danno patrimoniale e del necessario nesso di causalità.
Pertanto, il cliente che chieda al proprio difensore il ristoro dei danni subiti a seguito della
mancata impugnazione della sentenza di primo grado non può limitarsi a dedurre
l’astratta possibilità della riforma in appello in senso a lui favorevole di tale pronuncia,
34
Cassazione 11 maggio 1977, n. 1831, in Foro it., 1977.
19
ma deve dimostrare l’erroneità di questa, oppure produrre nuovi documenti o altri mezzi
di prova idonei a fornire la ragionevole certezza che il gravame, se proposto, sarebbe stato
accolto”35.
Ma il più rilevante superamento dell’orientamento tradizionale si è avuto con gli
interventi successivi della Corte di Cassazione che ha ritenuto che la responsabilità non
dovesse più essere valutata secondo il presupposto della “certezza”, ma della
“probabilità” che una differente riuscita dell’azione dell’avvocato si sarebbe realizzata36.
L’impostazione così delineata ha raffigurato il cosiddetto danno da perdita di chance che,
discostandosi dalla categoria dei danni futuri, si rifà ad una lesione presente e concreta,
che rappresentata la probabilità di raggiungere un risultato favorevole37.
Dal punto di vista tecnico la giurisprudenza si è occupata del tema della perdita di chance
nella Sentenza della Cassazione n. 15759, del 13 dicembre 2001, che ha distinto tra
“danno da mancata impugnazione” e “danno da perdita della possibilità d’impugnazione”,
affermando che il danno da perdita della possibilità d’impugnazione va “liquidato in
ragione d’un criterio prognostico basato sulle concrete ragionevoli possibilità di risultati
utili,
assumendo
come
parametro
di
valutazione
il
vantaggio
economico
complessivamente realizzabile dal danneggiato diminuito d’un coefficiente di riduzione
proporzionato al grado di possibilità di conseguirlo e deducibile, questo, caso per caso,
dagli elementi costitutivi della situazione giuridica dedotta od, ove tale criterio risulti di
difficile applicazione, con ricorso al criterio equitativo”38.
Nell’affrontare l’argomento occorre anche ricordare la Sentenza della Cassazione n.
14597, del 30 luglio 2004, in virtù della quale si stabilisce che “il cliente che chieda il
risarcimento del danno subito a seguito di una tardiva proposizione di un’impugnazione,
derivante da una condotta colposa dell’avvocato, deve specificare le circostanze che
avrebbero portato ad un esito favorevole nel giudizio d’appello”39.
Si tratta, quindi, di una reintegrazione comparata al grado di possibilità di successo che un
differente comportamento dell’avvocato avrebbe determinato e non alla perdita di tale
risultato.
35
Così Cassazione 5 aprile 1984, n. 2222, in Dir. prat. ass., 1985, 306.
A partire dalla Sentenza n. 1286/98 la Cassazione ha stabilito ch la responsabilità del difensore
possa essere imputata secondo principi probabilistici.
37
In particolare, Cassazione 4 marzo 2004, n. 4400, in Dir. e giust., 2004, 24, 38.
38
Cassazione 13 dicembre 2001, n. 15759, in Giust. civ. 2002, 1, 1285.
39
Cassazione del 30 luglio 2004, n. 14597, in Corr. giur., 2005, 10, 1412.
20
36
Fatta questa fondamentale precisazione, occorre ora introdurre la restrizione di
responsabilità che la normativa rivela in situazioni di particolare difficoltà. Particolare
rilievo assume, infatti, la previsione dell’articolo 2236 del Codice civile, secondo la quale
la responsabilità dell’avvocato è limitata ai casi di dolo o colpa grave.
Il legislatore riconosce una siffatta attenuazione al fine di accordare l’esigenza “di non
mortificare l’iniziativa del professionista con il timore di giuste rappresaglie da parte del
cliente in caso di insuccesso” con l’istanza di “non indulgere verso non ponderate
decisioni o riprovevoli inerzie del professionista”40.
In linea con tale orientamento, il creditore deve dar prova oltre che della prestazione non
diligente anche del comportamento doloso o colposo in maniera grave del debitore, ossia
di errori ed impreparazioni non scusabili e non compatibili con il grado di preparazione
che una data professione richiede.
Così detto, il cliente che chieda, ad esempio, il risarcimento dei danni subiti a seguito del
rigetto di un’azione giudiziaria dopo la scadenza del termine di prescrizione “deve
provare che quest’ultima sarebbe stata con certezza accolta se tempestivamente proposta e
che, quindi, il rigetto di essa sia dipeso, con rapporto di causa ed effetto, dalla irregolarità
della prestazione dell’attività intellettuale. Pertanto, consegue che il giudice di merito una
volta accertato che la tardiva proposizione della domanda sia dipesa dalla colpa del
difensore è tenuto ad esaminare, ai fini della condanna del medesimo al risarcimento dei
danni, se la domanda avrebbe dovuto essere accolta, ove proposta nel termine”41.
La previsione di limitazione di responsabilità alle ipotesi di colpa ha trovato maggiore
applicazione nel settore della responsabilità medica.
Prima di giungere, però, a tale osservazione è opportuno introdurre alcune nozioni, onde
definire l’attività svolta dal medico ed il rapporto contrattuale.
Parlando della professione medica, innanzitutto, va fatto riferimento a quanto stabilito
dall’ordine professionale circa l’esercizio della funzione, che può essere ricondotta
all’espletamento degli impegni di prevenzione, assistenza e cura.
Anche la giurisprudenza si è orientata verso l’individuazione dell’attività medica,
stabilendo che essa “si scende in due fasi, quella, preliminare, diagnostica, basata sul
40
Corte costituzionale, Sentenza 28 novembre 1973, n. 166, consultabile sul sito web
http://www.giurcost.org/.
41
Cassazione 29 novembre 1968, n. 5848, in Rep. Giust. civ., 1968, 1, 276.
21
rilevamento dei dati sintomatologici, e l’altra conseguente, terapeutica o di intervento
chirurgico, determinata dalla prima. (…). Poiché solo dopo l’esaurimento della fase
diagnostica sorge il dovere del chirurgo di informare il cliente sulla natura e sugli
eventuali pericoli dell’intervento operatorio risultato necessario, questo dovere di
informazione, diretto ad ottenere un consapevole consenso alla prosecuzione dell’attività
professionale, non può rientrare nella complessa prestazione”42.
Così anche la Sentenza della Cassazione n. 6707, del 4 agosto 1987, afferma che “la
tutela della salute, che rientra tra i compiti istituzionali primari degli enti ospedalieri,
in relazione alle persone di minorata o nulla autotutela (nella specie, neonato), non si
esaurisce nella mera prestazione
delle
cure
medico-chirurgiche generali
specialistiche, ma comprende anche la protezione delle stesse
quando
la
mancata
predisposizione di
persone;
o
pertanto,
una organizzazione volta a sopperire a tale
compito abbia favorito il prodursi di un danno (nella specie, il rapimento del neonato
dal nido ad opera di ignoti), va affermata la responsabilità dell’ente ospedaliero per la
violazione dei suoi obblighi istituzionali”43.
Quanto al regime contrattuale occorre porre un distinguo tra l’ipotesi in cui il medico
eserciti la propria attività in regime di libera professione e la fattispecie in cui lo stesso
operi in virtù di un contratto all’interno di una struttura sanitaria. Peraltro, nessuna
differenza si riconosce tra struttura privata e struttura pubblica, essendo il diritto alla
salute tutelato costituzionalmente come diritto fondamentale e quindi, senza alcuna
possibilità di limitazioni di assistenza.
Il contratto che intercorre nel caso in cui il medico eserciti la propria attività in regime di
libera professione è quello di prestazione d’opera, come già ricordato per la professione
forense.
Il tema è chiarito nell’intervento della Cassazione n. 1132/76
appena ricordato: “il
contratto di prestazione d’opera si conclude tra il medico e il cliente quando il primo, su
richiesta del secondo, accetta di esercitare la propria attività professionale in relazione al
caso prospettatogli. (…). L’una (attività diagnostica) e l’altra (attività terapeutica)
esistono sempre, e compongono l’iter dell’attività professionale, costituendo perciò
42
43
Cassazione 29 marzo 1976, n. 1132, in Foro it., “Professioni intellettuali”, n. 59.
Cassazione 4 agosto 1987, n. 6707, in Foro it., 1988, 1, 1629.
22
entrambe la complessa prestazione che il medico si obbliga ad eseguire per effetto del
concluso contratto di opera professionale”44.
Un ulteriore elemento di qualifica del rapporto contrattuale è costituito dal principio
personale della prestazione, rispetto al quale è opportuno rammentare l’articolo 2232 del
Codice civile (primo comma), che valevole per la figura del prestatore d’opera in
generale, sottolinea più che in altri rapporti il legame fiduciario che si instaura tra il
medico ed il suo cliente. Difatti, sebbene il professionista possa ricorrere al contributo di
sostituti ed ausiliari nell’adempimento della propria attività, rimane responsabile
dell’esecuzione della stessa, essendo riconosciuto al paziente il diritto a che il
professionista presti personalmente la propria prestazione.
Risulta, invece, più articolato descrivere il rapporto che intercorre tra il paziente ed il
medico, qualora questi svolga la propria attività in una struttura sanitaria.
Secondo parte della dottrina, non essendo ravvisabile un contratto, che invece esiste tra
struttura e cliente, si parla di responsabilità extracontrattuale.
La ragione di tale pensiero trova il suo fondamento nell’articolo 28 del Decreto del
Presidente della Repubblica n. 761/79, che riconosce un diverso regime disciplinare che a
titolo esemplificativo può essere così riassunto: il medico dipendente risponde
personalmente al paziente del danno provocato nell’erogazione della propria prestazione
solo in caso di dolo o colpa grave, per cui in tutte le altre fattispecie il danneggiato non
può che agire contro la struttura.
Di contro, la Corte di Cassazione sostiene che, oltre alla responsabilità diretta dell’ente
gestore del servizio, possa essere individuata anche una responsabilità diretta del medico
dipendente, qualora si riscontri una violazione di un diritto soggettivo, in virtù
dell’articolo 28 della Costituzione. In particolare, “la responsabilità dell’ente pubblico
gestore del servizio sanitario è diretta essendo riferibile all’ente, per il principio
dell’immedesimazione organica, l’operato del medico suo dipendente, inserito
nell’organizzazione del servizio, che con il suo operato, nell’esecuzione non diligente
della prestazione sanitaria, ha causato danno al privato che ha richiesto e usufruito del
servizio pubblico. E, per l’articolo 28 della Costituzione, accanto alla responsabilità
dell’ente, esiste la responsabilità del medico dipendente.
44
Cassazione 29 marzo 1976, n. 1132, cit..
23
Responsabilità che hanno entrambe radice nell’esecuzione non diligente della prestazione
sanitaria da parte del medico dipendente, nell’ambito dell’organizzazione sanitaria.
Pertanto, stante questa radice comune, la responsabilità del medico dipendente è, come
quella dell’ente pubblico, di tipo professionale; e vanno applicate anche a essa,
analogicamente, le norme che regolano la responsabilità in tema di prestazione
professionale medica in esecuzione di un contratto d’opera professionale”45.
Successivamente altri interventi giurisprudenziali si sono definitivamente indirizzati a
questa sentenza46. Occorre, tuttavia, chiarire che parte della dottrina ha criticato
l’orientamento della Corte, dal momento che lo stesso non descrive in modo analitico la
natura delle norme violate dal medico, rinviando a leggi penali, civili ed amministrative.
Ed è proprio nel merito che Viola offre il suo contributo: “in questo iter logico è
ravvisabile una forzatura della norma di cui all’articolo 28 della Costituzione, la quale si
limita a considerare diretta la responsabilità di funzionari e dipendenti pubblici per atti
compiuti in violazione di diritti, ma nulla dice circa la natura o il titolo di tale
responsabilità”47.
Ma soprattutto, nell’affrontare la tematica, vale la pena analizzare il rilevante
orientamento dottrinale e giurisprudenziale che ha delineato una responsabilità da
“contatto sociale” proprio in quegli ambiti nei quali la natura della responsabilità medica
era discussa (tra contratto e fatto illecito).
In particolare, la Sentenza della Corte di Cassazione n. 589, del 22 gennaio 1999, ha
superato le considerazioni che riconducevano la responsabilità del medico a quanto
stabilito dall’articolo 2043 del Codice Civile, nelle fattispecie in cui il paziente stipulava
il contratto solo con la struttura sanitaria e non con il medico48.
Al modo di Castronovo l’intervento ha affermato che nel rapporto tra medico e paziente si
configurerebbe sempre una responsabilità contrattuale che nasce da “un’obbligazione
senza prestazione ai confini tra contratto e torto”49.
45
Cassazione 1 marzo 1988, n. 2144, in Giur. it., 1989, 1, 300.
Per citarne alcune Cassazione 6 maggio 1971, n. 1282, in Foro it., 1971, 1, 1476; Cassazione
21 dicembre 1978, n. 6141, in Foro it., 1979, 1, 4; Cassazione 21 marzo 1981, n. 1656, in Foro
it., 1981, 1, 1585; Cassazione 27 febbraio 1984, n. 1393, in Foro it., 1984, 1, 1280; Cassazione 1
marzo 1988, n. 2144, in Foro it., 1988, 1, 2296; Cassazione 27 maggio 1993, 5939, in Rep. Foro
it., 1993, “Professioni intellettuali”, n. 114.
47
L. Viola, I danni da inadempimento, professionisti e consumatori, cit., p. 83.
48
Cassazione 22 gennaio 1999, n. 589, in Foro it., 1999, 1, 3332.
49
C. Castronovo, L’obbligazione senza prestazione ai confini tra contratto e torto, in La nuova
responsabilità civile, Milano, 1997.
24
46
In altri termini, la Sentenza n. 589/99 ha disposto la prevalenza dell’aspetto contrattuale
anche nel rapporto che si instaura tra paziente e medico dipendente dal servizio sanitario.
Tutto ciò emerge dagli obblighi che gravano sul medico, anche nel caso in cui non sia
configurabile un contratto, in virtù dalla professione che esercita. Difatti, si è ritenuto che
“la pur confermata assenza di un contratto, e quindi di un obbligo di prestazione in capo
al sanitario dipendente nei confronti del paziente, non è in grado di neutralizzare la
professionalità, che qualifica ab origine l’opera di quest’ultimo e che si traduce in
obblighi di comportamento nei confronti di chi su tale professione ha fatto affidamento,
entrando in contatto con lui”. Ed ancora, “l’obbligazione del medico dipendente dal
servizio sanitario nazionale per responsabilità professionale nei confronti del paziente ha
natura contrattuale, ancorché non fondata sul contratto ma sul - contatto sociale -,
caratterizzato dall’affidamento che il malato pone nella professionalità dell’esercente una
professione protetta. Consegue che relativamente a tale responsabilità, come per quella
dell’ente gestore del servizio sanitario, i regimi della ripartizione dell’onere della prova,
del grado della colpa e della prescrizione sono quelli tipici delle obbligazioni da contratto
d’opera intellettuale professionale”.
Svolte, dunque, le considerazioni circa il regime contrattuale, per poter meglio affrontare
l’argomento, è necessario introdurre i limiti alla responsabilità contrattuale previsti
dall’articolo 2236 del Codice civile.
L’incidenza del criterio di ripartizione dell’onere della prova si rileva nella sua
pienezza, se applicato ai casi di difficile soluzione. Infatti, in tale fattispecie spetta al
medico dar prova della complessità dell’intervento, mentre compete al paziente provare il
dolo e la colpa grave.
Si afferma così che, qualora un medico si trovi ad effettuare un intervento chirurgico di
routine, la responsabilità individuata a suo carico è più ampia rispetto al caso in cui sia
chiamato ad un intervento di particolare complessità.
In proposito, va ricordata la Sentenza della Cassazione n. 2439, del 18 giugno 1975, che
stabilisce “l’attenuazione della responsabilità del professionista (…) quando l’attività da
svolgere in relazione al caso concreto implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale
difficoltà secondo l’espressione usata nell’articolo 2236 Codice civile,
l’impegno
intellettuale
richiesto
dal
caso
25
concreto
cioè quando
sia superiore a
quello
professionale medio”. Quindi, il medico risponde “soltanto per colpa grave quando il caso
concreto sia straordinario od eccezionale, sì da essere non adeguatamente studiato nella
scienza medica e sperimentato nella pratica ovvero quando nella scienza medica siano
proposti e dibattuti diversi, ed incompatibili tra loro, sistemi diagnostici, terapeutici e di
tecnica chirurgica tra i quali il medico operi la sua scelta”50.
Avuto riguardo al profilo dell’onere della prova, è noto, dunque, che il creditore debba
provare, ai fini dell’accertamento della responsabilità, le modalità di esecuzione
dell’attività, di conseguenza l’esistenza di un danno ingiusto, il nesso causale con il
comportamento del medico e l’eventuale dolo o colpa, mentre il debitore debba
dimostrare di aver adempiuto diligentemente o di non aver potuto adempiere per causa a
lui non imputabile con l’ordinaria diligenza.
Parimenti significativo il profilo penale, nel quale il medico risponde di reati omissivi e
commissivi, nonché di delitti colposi.
Finucci sostiene che il principio della responsabilità limitata alla colpa grave possa essere
applicabile anche all’ambito penale. Sede nella quale, di contro, la giurisprudenza ha
sviluppato un’ulteriore ipotesi di responsabilità del medico, dato l’indiscutibile rilevanza
che in tale professione ha l’errore quando possa provocare una lesione alla persona51.
Particolarmente significativo in materia di responsabilità medica risulta essere anche
quanto pronunciato dalla Suprema Corte in tema di risarcimento del danno da perdita di
chance.
Si tratta di un orientamento ben rappresentato dalla Sentenza n. 4400, del 4 marzo 2004,
che ha stabilito: “in tema di responsabilità del professionista esercente la professione
sanitaria, la diagnosi errata o inadeguata integra di per sé un inadempimento della
prestazione sanitaria e, in presenza di fattori di rischio legati alla gravità della patologia o
alle precarie condizioni di salute del paziente,
aggrava
la possibilità che l’evento
negativo si produca, producendo in capo al paziente la perdita delle chances di conseguire
un risultato utile; tale perdita di chances configura un’autonoma voce di danno emergente,
che va commisurato alla perdita della possibilità di conseguire un risultato positivo, e non
alla mera perdita del risultato stesso, e la relativa domanda è domanda diversa rispetto a
50
Così Cassazione 18 giugno 1975, n. 2439, in Giur. it., 1976, 1, 953.
G. Finucci, Riflessioni sulla responsabilità professionale del medico nella complessa situazione
sanitaria moderna, in Nuovo Diritto, 1992.
26
51
quella di risarcimento del danno da mancato raggiungimento del risultato sperato”52.
Di conseguenza, rifacendosi a tali argomentazioni, viene affermato che il medico, non
potendo assicurare il risultato favorevole sperato dal paziente, sarà responsabile del danno
che deriva da un suo comportamento non diligente, solo se ciò sia identificabile sulla base
di un’analisi, condotta secondo criteri probabilistici, che vada ad accertare se, in assenza
dell’omissione, l’esito sarebbe stato conseguito.
L’argomento è stato trattato diffusamente dalla dottrina. Bitetto esprime opinioni sul tema
sostenendo che “il danno da perdita di chance va liquidato in ragione di un criterio
prognostico basato sulle concrete e ragionevoli probabilità che aveva il soggetto
danneggiato di raggiungere un risultato utile, assumendo come parametro di valutazione
proprio la chance, ovvero proprio il vantaggio economico complessivamente realizzabile
dal danneggiato diminuito di un coefficiente di riduzione proporzionato al grado di
possibilità di conseguirlo e deducibile dagli elementi della situazione giuridica dedotta
oppure con ricorso al criterio equitativo ex articolo 1226 del Codice civile”53.
Ne parla anche De Matteis che evidenzia come “in campo medico ogni qual volta si ha un
peggioramento dello stato di salute del paziente è certa la non riuscita dell’intervento” ma
“ciò che non è certo è l’apporto causale ovvero non è certo che l’errato intervento abbia
determinato un peggioramento dello stato di salute del paziente”, quindi non appare
possibile “parlare di chance come possibilità di conseguire un risultato utile bensì si deve
guardare alla condotta tenuta dal medico proprio perché è il medico stesso che
determina il danno all’origine con la sua condotta, pertanto in questi casi bisogna
indagare sulla diligenza richiesta per il tipo d’intervento, ovvero si compie un’indagine
volta ad accertare se il danno poteva essere evitato usando l’ordinaria diligenza oppure
esistevano situazioni di rischio oggettive connesse con il tipo d’intervento eseguito tali da
giustificare il rischio di un peggioramento, pertanto in questi termini la chance assume il
significato di possibilità di evitare un danno e diviene uno strumento utile per valutare
proprio la condotta del medico e conseguentemente il pregiudizio subito dal paziente
ovvero se lo stesso poteva essere evitato proprio perché al paziente non si è preclusa la
52
Cassazione 4 marzo 2004, n. 4400, cit..
A. L. Bitetto, in Danno e resp., 2002, 4, p. 395, nota di commento a Cassazione 13 dicembre
2001, n. 15759.
27
53
possibilità di conseguire un risultato utile quanto la possibilità di evitare un danno”54.
Ed inoltre da Violante è stato sottolineato come “la chance perduta costituisce in
definitiva un escamotage, di cui si avvale l’interprete per più facilmente individuare e
graduare il quantum risarcitorio da infliggere a chi col suo comportamento non si è
uniformato ai principi della correttezza e della lealtà e che per questo deve essere
sanzionato”55.
Dopo aver affrontato nel particolare tutte le questioni inerenti le obbligazioni di mezzi, a
questo punto risulta opportuno introdurre i primi orientamenti sulla ripartizione dell’onere
della prova rispetto alle obbligazioni di risultato.
La ricostruzione del sistema della responsabilità ci porta a formulare l’esempio del
contratto di appalto, in virtù del quale l’appaltatore assume l’obbligazione di compiere in
favore del committente un’opera o un servizio, a fronte di un corrispettivo in denaro.
In particolare, l’appaltatore deve garantire l’esecuzione della prestazione da eventuali
difformità e vizi ed è responsabile nei confronti del committente della rovina dell’opera,
quando si tratti di edifici o altre cose immobili.
In approfondimento Ballati riprende l’orientamento della stessa giurisprudenza che
afferma che il contratto di appalto ipotizza che l’imprenditore abbia un’organizzazione di
mezzi e persone destinati a realizzare un’opera complessa per conto del committente.
Rilevante è il requisito del rischio, in particolare nel momento di determinazione del
corrispettivo, infatti, il rischio si individua nel fatto che, nonostante l’applicazione delle
tariffe, possa aversi da parte dell’imprenditore un impiego della propria organizzazione
che non viene coperto dall’ammontare del corrispettivo. E dunque, qualora l’appaltatore
risulti inadempiente, il committente può agire per inadempimento in virtù di una
giurisprudenza consolidata56.
Sul punto la Sentenza della Cassazione n. 4637, del 9 luglio 1983, ha precisato che “il
committente il quale agisce nei confronti dell’appaltatore (…) per il risarcimento dei
danni derivati da vizio o difformità dell’opera, non è tenuto a dimostrare la colpa
54
R. De Matteis, La responsabilità medica. Un sottosistema della responsabilità civile , Padova,
1995, p. 445.
55
U. Violante, in Danno e resp., 1999, 5, p. 536, nota di commento a Cassazione 25 settembre
1998, n. 9598.
56
F. Ballati, La responsabilità dell'appaltatore e del direttore dei lavori per vizi e difformità delle
opere. Alla luce delle nuove disposizioni legislative in materia di appalti, Matelica, 2006.
28
dell’appaltatore medesimo, in quanto, vertendosi di responsabilità contrattuale, tale colpa
è presunta fino a prova contraria”57.
L’appaltatore, quindi, si libera dando prova di un’impossibilità oggettiva o di una causa
non evitabile.
Per sottrarsi alla responsabilità la Sentenza della Cassazione n. 3844, del 17 giugno 1980,
stabilisce che l’impossibilità è “da intendere in modo assoluto e obiettivo e consiste nella
sopravvenienza di una causa, non imputabile al debitore, che definisce definitivamente o
temporaneamente l’adempimento”58. Ed ancora, la Sentenza della Cassazione n. 1192, del
18 febbraio del 1980, afferma che “il caso fortuito, manifestandosi come una forza esterna
improvvisa e imprevedibile, è tale da neutralizzare e soverchiare la normale diligenza del
debitore; esso può costituire perciò causa di esclusione di responsabilità, salvo che per
particolari situazioni o specifiche pattuizioni, il debitore debba comunque sopportarne il
rischio”59.
Nel caso in cui il debitore non riesca a documentare che i fatti derivino da una causa a lui
non imputabile con gli strumenti e le capacità proprie, sarà tenuto al risarcimento del
danno subito dal committente.
In una prospettiva di ancora maggiore attualità del quadro normativo e giurisprudenziale,
va qui ricordata la Sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 13533, del
30 ottobre 2001, con la quale è stato affermato che il creditore deve solo portare a
fondamento del proprio diritto la fonte ed il relativo termine di scadenza, mentre al
debitore convenuto spetta l’onere di provare il fatto estintivo dell’altrui pretesa, ossia
l’avvenuto adempimento.
In particolare, la Corte sostiene che “in tema di prova dell’inadempimento di una
obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del
danno, ovvero per l’adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del
suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della
circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato
dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto
adempimento, ed eguale criterio di riparto dell’onere della prova deve ritenersi
57
Cassazione 9 luglio 1983, n. 4637, Resp. civ., 1984, 651.
Cassazione 17 giugno 1980, n. 3844, in Arch. civ., 1980, 905.
59
Cassazione 18 febbraio 1980, n. 1192, in Mass. Giust. civ., 1980, 2.
29
58
applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l’adempimento, la risoluzione o il
risarcimento del danno si avvalga dell’eccezione di inadempimento ex articolo 1460.
Anche nel caso in cui sia dedotto non l’inadempimento dell’obbligazione, ma il suo
inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione
dell’inesattezza dell’adempimento, gravando ancora una volta sul debitore l’onere di
dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento”60.
In conclusione, rispetto al tema della ripartizione dell’onere della prova si osserva,
dunque, che la giurisprudenza propende per la soluzione di unificazione del regime
gravante sul creditore, sia questi agisca per l’adempimento, la risoluzione o per il
risarcimento del danno.
La regola si spiega con una ratio di presunzione di persistenza il principio.
La prospettiva protegge la parte non inadempiente della mancata o difettosa attuazione
della prestazione, prevedendo la possibilità per i diversi soggetti di provare fatti e
circostanze che concernono le rispettive sfere di azione.
Pertanto si considera che non vi sia bisogno per il creditore di provare l’inadempimento
ma solo la fonte, dal momento che si presuppone la continuità del diritto.
Principio sulla base del quale, una volta provata dal creditore l’esistenza di un diritto
destinato ad essere soddisfatto, incombe sul debitore l’onere di dimostrare l’esistenza del
fatto estintivo.
La Sentenza n. 13533/01 afferma, dunque, la perdita di consistenza della distinzione
relativa al riparto dell’onere della prova dell’inadempimento.
Col tempo anche parte della dottrina ed altri interventi della giurisprudenza hanno
sostenuto la tesi della scarsa validità della divisione del rischio di inadempimento della
prestazione tra la categoria delle obbligazioni di mezzo e le obbligazioni di risultato.
A riguardo del tema è opportuno segnalare anche il dibattito circa il contenuto dei
contratti di prestazione d’opera professionale piuttosto che di prestazione d’opera tecnica.
Infatti, sebbene la giurisprudenza sia concorde nel sostenere il primo dia luogo ad
obbligazioni di mezzi ed il secondo ad obbligazioni di risultato, attualmente alcuni
interventi della Corte di Cassazione affermano sempre più che in specifiche fattispecie
nell’obbligazione del professionista possa considerarsi un’obbligazione di risultato, come
60
Cassazione, sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533, in Foro it., 2002, 1, 769.
30
già rilevato nei primi orientamenti.
È proprio in virtù di tali considerazioni che si ritiene interessante proseguire il presente
lavoro.
31
Capitolo Terzo
Obbligazioni di mezzo e obbligazioni di risultato:
le ultime evoluzioni della giurisprudenza e della dottrina
SOMMARIO: 1. I nuovi orientamenti della giurisprudenza e della dottrina in tema di
responsabilità – 2. Obbligazioni di mezzo e obbligazioni di risultato: superamento o
sovrapposizione?
1. I nuovi orientamenti della giurisprudenza e della dottrina in tema di responsabilità
Le conclusioni raggiunte in materia di responsabilità debitoria non possono non tener
conto dei nuovi indirizzi giurisprudenziali.
Se, infatti, quanto delineato nel corso del lavoro rappresenta un orientamento consolidato
della dottrina e della giurisprudenza, bisogna altresì tener presente alcune sentenze della
Corte di Cassazione che hanno proposto un mutamento di prospettiva da cui sembrerebbe
potersi trarre il venir meno di una solida distinzione tra le obbligazioni di risultato e le
obbligazioni di mezzi.
Una chiara presa di posizione in questo senso si è avuta in alcune sentenze negli ultimi
anni. Si tratta, invero, di interventi che sono giunti a riconoscere, in determinate
circostanze, l’obbligazione avente ad oggetto l’esercizio di un’attività professionale,
generalmente configurata come obbligazione di mezzi, come obbligazione di risultato.
Come
primo caso
può richiamarsi la Sentenza n. 3046, del 8 aprile 1997, che
introduce una nuova distinzione tra chirurgia plastica estetica e chirurgia plastica
“ricostituiva” dipendente, per dir cosi, “da fatto proprio”61.
Con la pronuncia in questione, infatti, la Corte di Cassazione ha affermato che “è evidente
61
Cassazione 8 aprile 1997, n. 3046, in Corr. giur., 1995, 5, 546.
32
la ben diversa situazione che si presenta nel caso di chi intende, attraverso una operazione
chirurgica sul proprio corpo, migliorare le proprie apparenze estetiche, da quella di chi
intende porre rimedio ad uno stato, da esso stesso voluto e provocato, ma da esso stesso
successivamente ritenuto ripugnante, ponendo quindi rimedio ad una situazione
considerata insopportabile”. Secondo la Corte, infatti, se nel primo caso l’obbligo
d’informazione da parte del medico investe (…) non soltanto le cause potenziali di
invalidità o di inefficacia delle prestazioni professionali, ma anche le ragioni che queste
rendono eventualmente inutili in rapporto al risultato sperato dal cliente, o addirittura
dannosi, nel secondo caso, caratterizzato dall’intento di rimuovere una situazione dallo
stesso paziente considerata insopportabile, non vi è dubbio che il predetto obbligo
d’informazione circa i possibili esiti dell’operazione venga ad essere affievolito, essendo
limitato a quelli eventuali esiti che, contrariamente agli intenti del paziente, potrebbero
rendere vana l’operazione non comportando in sostanza un effettivo miglioramento
rispetto alla situazione preesistente all’operazione”.
In tal modo il giudice di legittimità si è consapevolmente discostato dalla giurisprudenza
sul consenso informato, riconoscendo quasi, nel comportamento del paziente, autore
delle ingiurie fisiche da rimuovere, una corresponsabilità (costruita sul modello del
concorso del debitore nella correzione del danno), in grado di incidere sul piano
risarcitorio, degradando sin quasi ad annullarla la distinzione fra obbligazioni di mezzo e
di risultato.
Il tema della ripartizione tra le due categorie è emerso anche in un successivo intervento
della Corte di Cassazione e cioè nella Sentenza n. 16023, del 14 novembre 2002, che ha
qualificato quella dell’avvocato come obbligazione di risultato relativamente al
compimento di atti processuali62.
In tale caso il professionista è inadempiente non solo nella circostanza di inosservanza
della diligenza nel comportamento posto in essere, ma in ogni ipotesi di mancato
raggiungimento del compito prestabilito, come, ad esempio, l’omesso adempimento di
notifiche in termini utili.
Nella medesima prospettiva la Corte di Cassazione, Sezioni Unite, nella Sentenza n.
15781, del 28 luglio 2005, ha ritenuto l’obbligazione del progettista un’obbligazione di
62
Cassazione 14 novembre 2002, n. 16023, in Danno e resp., 2003, 3, 256.
33
risultato, quando al professionista è conferito l’incarico di analizzare il sottosuolo, il
suolo, i confini, le dimensioni e le altre caratteristiche dell’area da destinare alla
costruzione63.
In proposito, dopo aver ricordato che “nelle obbligazioni di mezzi la prestazione dovuta
prescinde da un particolare esito positivo dell’attività del debitore, che adempie
esattamente ove svolga l’attività richiesta nel modo dovuto” e nelle obbligazioni di
risultato “ciò che importa è il conseguimento del risultato stesso”, ossia “è il risultato cui
mira il creditore, e non il comportamento, ad essere direttamente in obligatione”, la Corte
ha stabilito che “tale impostazione non è immune da profili problematici, specialmente se
applicata proprio alle ipotesi di prestazione d’opera intellettuale, in considerazione della
struttura stessa del rapporto obbligatorio e tenendo conto, altresì, che un risultato è dovuto
in tutte le obbligazioni”.
Difatti, con riferimento all’obbligazione dell’appaltatore, la Cassazione ha sottolineato la
compresenza “sia del comportamento del debitore che del risultato, anche se in
proporzione variabile”.
Ed inoltre, si è sottolineato come la ripartizione tra obbligazioni di risultato e obbligazioni
di mezzi non abbia alcuna rilevanza sul regime di responsabilità del prestatore d’opera
intellettuale, né sul meccanismo di distribuzione dell’onere della prova.
La Sentenza in questione, ha stabilito che il regime di responsabilità del professionista è
sempre il medesimo, per cui, le conclusioni non cambiano sia che si guardi
all’inadempimento nel caso di colpa (articolo 1176, comma 2, c.c.), così come di dolo o
colpa grave (articolo 2236 C.c.).
In particolare, la Corte ha affermato che il contenuto dell’obbligo del professionista si trae
dalle “comuni regole di correttezza e di diligenza”, sennonché “per quanto attiene alla
diligenza, l’articolo 1176, comma 2, del Codice civile, ne qualifica il contenuto allorché si
tratti di valutare il comportamento del professionista, con la conseguenza che al rapporto
scaturente dal contratto di prestazione d’opera intellettuale debbono essere applicate, in
linea
generale
e
di
tendenza
le
norme
che
determinano
le
conseguenze
dell’inadempimento e che consentono di operare la definizione di inadempimento nel
quadro dell’attuazione del rapporto”.
63
Cassazione 28 luglio 2005, n. 15781, in Obbl. e Contr., 2006, 8, 712.
34
In conclusione, ha osservato la Corte “il regime di responsabilità del professionista è
sempre il medesimo” e la ripartizione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato
“non ha (…) alcuna incidenza” sullo stesso.
La ripartizione fra le due specie di obbligazioni è stata esaminata anche dal Tribunale di
Roma che, nella Sentenza del 19 gennaio 2006, rappresenta la prestazione contrattuale di
una società di revisione come un’obbligazione di mezzi e non di risultato64.
Si dice, infatti, che al termine “relazione di certificazione” non può essere attribuito “un
significato assimilabile a quello di un attestato notarile, nel senso che la relazione di
certificazione, lungi dal costituire un giudizio di legalità e veridicità di bilancio,
rappresenta, piuttosto, un giudizio professionale sull’attendibilità del documento
contabile, intesa come capacità dello stesso di rappresentare correttamente la situazione
economica, patrimoniale e finanziaria della società sottoposta a revisione”. La società di
revisione deve, quindi, “accertare che il bilancio rifletta correttamente gli effetti delle
operazioni compiute dalla società oggetto di revisione e che degli stessi venga data con
chiarezza notizia secondo quanto previsto dalla normativa in tema di redazione del
bilancio”.
In quest’ordine di idee, dunque, i giudici proseguono affermando che il lavoro dovuto
dalla società
di
revisione si
configura “come obbligazioni di comportamento o
di mezzi e non di risultato, con tutte le evidenti conseguenze collegate all’onere della
prova”.
Pertanto, spetta al soggetto che lamenta di aver subito un danno fornire sia la prova della
mancanza di diligenza della società di revisione nell’esecuzione della prestazione, sia la
prova del nesso causale tra il preteso inadempimento e i danni subiti.
Le messa in discussione della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato trova una
puntuale corrispondenza in un’ultima più recente pronuncia della Suprema Corte e
precisamente nella Sentenza della Cassazione n. 8826, del 13 aprile 2007.
Si tratta di una decisione particolarmente innovatrice sia perché afferma nuove
disposizioni in tema di responsabilità dell’ente ospedaliero, sia perché dichiara
l’irrilevanza della distinzione tra le obbligazioni di risultato e le obbligazioni di mezzi in
ambito medico-chirurgico65.
64
65
App. Roma, 19 gennaio 2006, in Giur. it., 2006, 12, 2331.
Cassazione 13 aprile 2007, n. 8826, in Resp. civ. prev., 2007, 1824.
35
Più in dettaglio, la Corte di Cassazione ha stabilito per l’ente ospedaliero una
responsabilità di natura contrattuale, sia rispetto a propri eventi d’inadempimento sia
rispetto alla condotta dei medici dipendenti.
In proposito deve essere evidenziato che quando un paziente si reca in ospedale conclude
un contratto atipico di prestazione d’opera di spedalità e quindi l’ente ospedaliero
risponde in via contrattuale.
Nella specie, l’ente ospedaliero è stato ritenuto responsabile verso il paziente per i danni
patiti in conseguenza di un intervento chirurgico eseguito dal medico presso la struttura.
La massima è così formulata: “l’accettazione del paziente in una struttura (pubblica o
privata) deputata a fornire assistenza sanitaria ospedaliera, ai fini del ricovero o di una
visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto di prestazione d’opera
atipico di spedalità, essendo essa tenuta ad una prestazione complessa che non si
esaurisce nella prestazione delle cure mediche e di quelle chirurgiche
(generali e
specialistiche) (…), ma si estende ad una serie di altre prestazioni, quali la messa a
disposizione di personale medico ausiliario e di personale paramedico, di medicinali e di
tutte le attrezzature tecniche necessarie, nonché di quelle lato sensu alberghiere. Ne
consegue,
a tale stregua,
che la responsabilità dell’ente ospedaliero ha natura
contrattuale sia in relazione a propri fatti d’inadempimento (ad esempio, in ragione della
carente o inefficiente organizzazione relativa alle attrezzature o alla messa a disposizione
di medicinali o del personale medico ausiliario e paramedico, o alle prestazioni di
carattere alberghiero) sia per quanto concerne il comportamento in particolare dei medici
dipendenti, trovando nel caso applicazione la regola posta dall’articolo 1228 del Codice
civile, secondo cui il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si avvale
dell’opera di terzi risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro ancorché non siano
alle sue dipendenze. Responsabilità per fatto dell’ausiliario o preposto che in realtà
prescinde dalla sussistenza di un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato del medico
con la struttura (pubblica o privata) sanitaria, essendo irrilevante la natura del rapporto tra
i medesimi sussistente ai fini considerati, laddove fondamentale rilevanza assume
viceversa la circostanza che dell’opera del terzo il debitore originario comunque si
avvalga nell’attuazione del rapporto obbligatorio”.
36
Ma soprattutto, la Sentenza n. 8826/07 affronta il tema della ripartizione tra obbligazioni
di mezzi e obbligazioni di risultato nell’attività medico-chirurgica, esprimendo un
significativo allontanamento dall’orientamento tradizionale.
Secondo la Corte, infatti “le obbligazioni professionali sono dunque caratterizzate dalla
prestazione di attività particolarmente qualificata da parte di un soggetto dotato di
specifica abilità tecnica, in cui il paziente fa affidamento nel decidere di sottoporsi
all’intervento chirurgico, al fine del raggiungimento del risultato perseguito o sperato.
Affidamento tanto più accentuato (…) quanto maggiore è la specializzazione del
professionista, e la preparazione organizzativa e tecnica della struttura sanitaria presso la
quale l’attività medica viene dal primo espletata. Sotto altro profilo, va posto in rilievo
che
una
limitazione
della
misura
dello
sforzo
diligente
dovuto
nell’adempimento dell’obbligazione, e della conseguente responsabilità per il caso di
relativa mancanza o
qualificazione
inesattezza,
non
può
farsi
invero
discendere
dalla
dell’ obbligazione (…). Il professionista, ed il medico specialista in
particolare, è infatti tenuto non già ad una prestazione professionale purchessia bensì è
impegnato ad una condotta specifica particolarmente qualificata, in ragione del proprio
grado di abilità tecnico-scientifica nel settore di competenza, in vista del conseguimento
di un determinato obiettivo dovuto, avuto riguardo al criterio di normalità secondo il più
sopra esposto giudizio relazionale. E’ infatti proprio la prestazione professionale
particolarmente qualificata dal grado di conoscenza ed abilità tecnica, e la particolare
organizzazione di uomini e mezzi della struttura sanitaria specializzata in cui la stessa
viene espletata, ad ingenerare nel paziente l’affidamento idoneo ad indurlo a sottoporsi ad
un particolare tipo di intervento sulla propria persona, che lo espone in ogni caso ad un
più o meno alto grado di rischio per la propria incolumità, quando non addirittura
sopravvivenza. Per il professionista e conseguentemente per la struttura sanitaria non vale
dunque invocare, al fine di farne conseguire la propria irresponsabilità, la distinzione tra
obbligazione di mezzi e obbligazione di risultato, sostenendo che la propria attività è da
ricomprendersi tra le prime, sì da non rispondere in caso di risultato non raggiunto”.
Proprio sul tema, con particolare riguardo alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e
obbligazioni di risultato, è stato evidenziato che “siffatta distinzione costituisce, infatti,
come ormai da qualche tempo dalla migliore dottrina non si manca di porre in rilievo, il
37
frutto di una risalente elaborazione dogmatica accolta dalla tradizionale interpretazione e
tralatiziamente tramandatasi, priva invero di riscontro normativo e di dubbio fondamento
(…)”66.
L’importanza dell’orientamento affermato dalla Cassazione è da sottolineare rispetto al
tema dell’onere della prova nelle cause di responsabilità professionale del medico.
Si ritiene, infatti, che la distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione
avente in sé la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà non possa servire come
criterio di distribuzione dell’onere della prova, ma possa essere utilizzato solo per
valutare il grado di diligenza ed il corrispondente grado di colpa imputabile al sanitario.
Del resto, come D’Amico osserva “le regole sull’onere della prova non si possono toccare
senza modificare la fattispecie sostanziale della responsabilità e quindi la natura
dell’obbligazione” poiché “tali regole, seppure appartenenti al diritto processuale, sono
però strettamente legate alle norme del diritto materiale”67.
Ma qualunque analisi dei nuovi indirizzi giurisprudenziali civili in materia di responsabilità
debitoria non può non tener conto di quanto espresso dalle Sezioni Unite della Cassazione
con le dieci sentenze (dalla n. 576 alla n. 585), depositate l’11 gennaio 2008, che hanno
disciplinato le più importanti questioni di diritto relative alle cause di risarcimento del
danno in materia di sangue infetto.
A questo proposito è utile riportare le osservazioni contenute nella Sentenza n. 577/08,
che in tema di emotrasfusioni ha così affermato: “risulta a tale stregua dalla Corte di
merito disatteso il principio in base al quale quando l’intervento chirurgico da cui è
derivato un danno non è di difficile esecuzione, l’aggravamento della situazione
patologica
del paziente o l’insorgenza di nuove patologie eziologicamente ad esso
ricollegabili comportano, a norma dell’articolo 1218 del Codice civile, una presunzione
semplice in ordine all’inadeguata o negligente prestazione, spettando all’obbligato - sia
esso il sanitario o la struttura - fornire la prova che la prestazione professionale sia stata
eseguita in modo idoneo e che sia invece intervenuto un evento imprevisto e
imprevedibile. (…).
66
M. Gorgoni, in Resp. civ. prev., cit., nota di commento a Cassazione 13 aprile 2007, n. 8826.
G. D’Amico, Responsabilità per inadempimento e distinzione tra obbligazioni di mezzi e di
risultato, in Il diritto delle obbligazioni e dei contratti: verso una riforma?, Atti del Convegno
svoltosi a Treviso 23-24-25 marzo 2006 per il cinquantenario della Rivista di diritto civile, 2006,
p. 141.
38
67
Applicando tale principio all’onere della prova nelle cause di responsabilità professionale
del medico si è affermato che il paziente che agisce in giudizio deve, anche quando
deduce
l’inesatto
adempimento dell’obbligazione sanitaria, provare il contratto e
allegare l’inadempimento del sanitario, restando a carico del debitore (medicostruttura sanitaria) l’onere di dimostrare che la prestazione è stata eseguita in modo
diligente, e che il mancato o inesatto adempimento è dovuto a causa a sé non imputabile,
in quanto determinato da impedimento non prevedibile né prevenibile con la diligenza nel
caso dovuta. Pertanto, in base alla regola di cui all’articolo 1218 del Codice civile il
paziente-creditore ha il mero onere di allegare il contratto ed il relativo inadempimento o
inesatto adempimento, non essendo tenuto a provare la colpa del medico e/o della
struttura sanitaria e la relativa gravità”.
In sostanza, con queste decisioni è stata ulteriormente confermata la linea di tendenza
precedente, e dunque “una sorta di metamorfosi dell’obbligazione di mezzi in quella di
risultato, attraverso l’individuazione di doveri di informazione e di avviso definiti
accessori ma integrativi rispetto all’obbligo primario della prestazione, ed ancorati a
principi di buona fede, quali obblighi di protezione, indispensabili per il corretto
adempimento della prestazione professionale in senso proprio”68.
Le conseguenze sono apprezzabili sul piano della distribuzione dell’onere della prova
giacché l’attore-paziente può limitarsi a provare il contratto e l’aggravamento della
patologia o l’insorgenza di un’affezione ed allegare l’inadempimento del debitore
(astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato), mentre competerà al debitore
dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato o che, pur esistendo, esso non è
eziologicamente rilevante69.
Sulla scorta di queste decisioni, la dottrina ha affermato che “le Sezioni Unite della
68
Cassazione, sez. un., 11 gennaio 2008, n. 577, in Resp. civ. prev., 2008, 849.
Al riguardo, infatti, la Sentenza n. 577/08 ha affermato: “avendo l’attore provato il contratto
relativo alla prestazione sanitaria (ed il punto non è in contestazione) ed il danno assunto
(epatite), allegando che i convenuti erano inadempienti avendolo sottoposto ad emotrasfusione
con sangue infetto, competeva ai convenuti fornire la prova che tale inadempimento non vi era
stato, poiché non era stata effettuata una trasfusione con sangue infetto, oppure che, pur
esistendo l’inadempimento, esso non era eziologicamente rilevante nell’azione risarcitoria
proposta, per una qualunque ragione, tra cui quella addotta dell’affezione patologica già in atto al
momento del ricovero”.
69
39
Cassazione ribadiscono anche con riguardo al medico l’unitarietà della responsabilità
del debitore che, disciplinata in generale dall’articolo 1218 del Codice civile, implica
necessariamente il riferimento a un risultato dovuto da determinare in modo appropriato
in funzione degli affidamenti creati ed eventualmente del contratto.
Quando il medico presta la propria opera in una struttura sanitaria, ipotesi in cui peraltro
solitamente
manca
il
contratto col
paziente,
occorre
distinguere
la
responsabilità professionale del medico da quella della struttura la quale risponde in
funzione della propria organizzazione e alla quale perciò potrebbero essere accollati rischi
estranei all’oggetto vero e proprio dell’obbligazione del medico.
La considerazione del risultato dovuto, che tuttavia non coincide necessariamente con la
guarigione del malato, mette in evidenza il profilo obiettivo dell’oggetto della
obbligazione
facendo
distinguere
la
responsabilità
che
ne
deriva,
fondata
sull’inadempimento, dalla responsabilità extracontrattuale fondata sulla colpa.
Tale distinzione si riflette nelle regole probatorie: poiché il medico è tenuto
all’adempimento non si libera semplicemente mettendo in dubbio la propria colpa
come se gli fosse richiesto un mero dovere di diligenza (obbligazione di mezzi) in
funzione di un generico neminem laedere” 70.
Ciò comporta, quindi, il richiamo all’orientamento illustrato in precedenza, che prevede
un regime di responsabilità uniforme, secondo il quale viene riconosciuto il favor verso il
paziente, che risulta così esonerato dalla relativa prova.
In sintesi, dalla casistica giurisprudenziale emergono spunti significativi circa il
superamento della distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato giacché
l’unitarietà del criterio di ripartizione dell’onere della prova travolge la dicotomia.
2. Obbligazioni di mezzo e obbligazioni di risultato: superamento o sovrapposizione?
A fronte dei nuovi orientamenti della giurisprudenza e della dottrina in tema di
responsabilità, che sembrerebbero segnare il superamento della distinzione tra obbligazioni
70
A. Nicolussi, Sezioni sempre più unite contro la distinzione fra obbligazioni di risultato e
obbligazioni di mezzi. La responsabilità del medico, in Danno e resp., 2008, p. 873.
40
di mezzi e obbligazioni di risultato, vi sono da segnalare alcuni interventi della dottrina e
della giurisprudenza che hanno rinnovato l’attenzione sul tema.
Innanzitutto, a ben vedere, la collocazione di tali categorie di obblighi è penetrata nel
diritto privato internazionale.
Nel 2004 l’International Institute for the Unification of Private Law ha accolto la
distinzione fra obbligazioni di risultato ed obbligazioni di mezzi tra i principi dei contratti
commerciali internazionali71.
In linea con l’opinione tradizionale, la distinzione è basata sull’oggetto dell’obbligazione.
Infatti l’articolo 5.1.4, 1 comma, stabilisce che “quando l’obbligazione di una parte
comporti il dovere di raggiungere uno specifico risultato, quella parte è tenuta a
raggiungere quel risultato72” dunque, nelle obbligazioni di risultato il creditore ha diritto
di conseguire dalla prestazione posta in essere dal debitore l’utilità attesa.
A sua volta, l’articolo 5.1.4, 2 comma, statuisce che “quando l’obbligazione di una
parte comporti il dovere di adoperarsi con diligenza nell’esecuzione della prestazione,
quella parte è tenuta a compiere gli sforzi che una persona ragionevole della stessa
qualità compirebbe nelle medesime circostanze”, la soddisfazione del creditore sta nel
contenuto secondario dell’obbligazione, ossia il contegno del debitore, e dunque la
soddisfazione del creditore sta nel contenuto secondario dell’obbligazione, ossia il
contegno del debitore73.
Occorre osservare come l’Istituto puntualizzi che nel determinare quando l’obbligazione
di una parte sia di mezzi o di risultato, bisogna avere riguardo al modo in cui essa è
espressa nel contratto; al prezzo ed alle altre clausole presenti nel contratto; al grado di
71
G. C. Chiaromonte, L’obbligazione del professionista intellettuale, Padova, 2008, p. 75, ha
affermato a questo proposito che l’accoglimento della divisione nei Principi Unidroit è “sintomo
dell’importanza pratica e della rilevanza transfrontaliera della partizione tra obbligazioni di mezzi
e di risultato e, di conseguenza, come fonte di legittimazione di proposte interpretative miranti ad
attribuire valore dogmatico alla stessa”.
72
Così, prendendo ad esempio quanto indicato dallo stesso Istituto, si può dire che l’obbligazione
conclusa tra un venditore (che promette di raggiungere la quota di 15.000 articoli entro l’anno) ed
un cliente, consente a quest’ultimo di agire per la propria soddisfazione se il rivenditore allo
scadere del termine ha concluso solo 13.000 compravendite.
73
In tale fattispecie, riprendendo lo stesso esempio il venditore si obbligherà verso il cliente a
“fare del suo meglio per espandere le vendite del prodotto”, ovvero a prendere tutte le misure che
una persona ragionevole adotterebbe, trovandosi nelle stesse circostanze. Pertanto il cliente potrà
agire solo se il debitore a fine anno non abbia fatto tutto ciò che ci si può attendere per favorire le
vendite (es. servizi ai cliente ed annunci pubblicitari).
41
rischio che di norma è connesso al raggiungimento del risultato atteso ed alla capacità
della controparte di influire sull’adempimento dell’obbligazione.
Sembra, dunque, affermato il principio che alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e
obbligazioni di risultato non possa essere riconosciuta una definizione univoca e piuttosto in ogni
fattispecie si debba considerare il contesto in cui il debitore è chiamato ad operare, come se
ogni obbligazione fosse, nello stesso tempo, di mezzi e di risultato.
Non si può affermare, infatti, che esistano categorie di obbligazioni in cui non si tenga
conto del comportamento (inteso come mezzi predisposti dal debitore per l’esecuzione
della prestazione), così come del risultato (interpretato come momento finale della
prestazione).
Da detta affermazione si evince che un aspetto certamente molto delicato in tema è quello
concernente l’adattamento flessibile della distinzione. Difatti, le categorie delle
obbligazioni di mezzi e delle obbligazioni di risultato appaiono attuali purché adattate alla
molteplicità delle fattispecie.
In particolare, una volta riconosciuti i principi della partizione in astratto, occorre rilevare
caso per caso quale sia in concreto l’obbligazione assunta dal debitore.
In buona sostanza, è il contenuto della prestazione definita mediante stipula di un
contratto a precisare l’attività nonché la responsabilità del soggetto che si impegni a
fornire una determinata prestazione.
Questa impostazione, però, non è scevra da critiche. Essa ferma l’attenzione al profilo contrattuale
ed alla libertà negoziale nella direzione di una meno efficace tutela del cliente.
In definitiva, appare dimenticato quel significato descrittivo e ricostruttivo della
ripartizione in esame rispetto all’individuazione dell’oggetto della prestazione, secondo
cui valutare l’adempimento del debitore.
Occorre, peraltro, osservare che questo punto è avvertito con maggiore intensità in quei
settori professionali in cui il creditore appare la “parte debole” del rapporto contrattuale.
Come detto in apertura, anche la giurisprudenza a sua volta ha riproposto la distinzione
tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato. Infatti, nella Sentenza del 12 giugno
2009 il Tribunale di Salerno ha inteso “le obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività
professionale” come “obbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista assumendo l’incarico - si impegna alla prestazione della propria opera per raggiungere il
42
risultato desiderato, ma non al suo conseguimento. Ne discende che l’inadempimento del
professionista alla propria obbligazione non può essere desunto ipso facto dal mancato
raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal paziente ma deve essere valutato alla
stregua dei doveri inerenti lo svolgimento dell’attività professionale e, in particolare, del
dovere di diligenza”74.
Fatta, dunque, anche questa doverosa precisazione circa gli interventi che hanno
ripresentato la tradizionale dicotomia, la conclusione appare chiara: l’insieme delle regole
sulle quali si basava la responsabilità civile del professionista-debitore si è orientato verso
una più efficace tutela del contraente “debole”.
Secondo questa chiave di lettura, infatti, dottrina e giurisprudenza sono pacificamente
concordi nel rilevare nuove regole ed indirizzi in grado di determinare un regime di tutela
preferenziale degli interessi del contraente “debole”.
L’esame delle sentenze e dei contributi della dottrina più rappresentativi porta a sostenere
che se l’introduzione della distinzione poteva rappresentare uno strumento di difesa
processuale del prestatore d’opera intellettuale (in particolare, posta la natura rischiosa
dell’attività medica), attualmente riproduce l’intenzione di voler estendere le fattispecie
in cui l’inadempimento possa essere considerato imputabile al professionista con evidente
beneficio per la categoria dei consumatori.
I riflessi della ripartizione tra le obbligazioni di mezzi e le obbligazioni di risultato sul
regime di responsabilità, sulla definizione in termini probabilistici del nesso di causalità,
sulla ripartizione dell’onere della prova permettono di individuare momenti di revisione
delle due categorie.
Inoltre, va detto che la ripartizione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato
risente
fortemente
dell’evoluzione
delle
conoscenze
scientifiche,
che
stanno
determinando la definizione di nuovi settori e situazioni professionali, come già
considerato nel corso del presente lavoro, nonché di prestazioni complesse sulla base
delle quali approntare una serie di strumenti a tutela del contraente “debole”.
74
Sentenza del Tribunale di Salerno del 12 giugno 2009, consultabile sul sito
http://www.economia.unitus.it/.
43
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