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Simona Santicchia Disciplina generale delle obbligazioni: mezzi e risultato Sulla attualità della distinzione fra obbligazioni di mezzi e di risultato Disciplina generale delle obbligazioni: mezzi e risultato Sulla attualità della distinzione fra obbligazioni di mezzi e di risultato Capitolo Primo Obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato: introduzione della distinzione 1. Premessa p. 2 2. L’introduzione della distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato nel nostro ordinamento 3. L’integrazione dei concetti di diligenza, correttezza e buona fede p. 3 p. 8 Capitolo Secondo Adempimento ed imputazione della responsabilità nei primi orientamenti della dottrina e della giurisprudenza 1. Gli orientamenti della dottrina sui profili di responsabilità debitoria p. 11 2. La ripartizione dell’onere della prova tra dottrina e giurisprudenza p. 16 Capitolo Terzo Obbligazioni di mezzo e obbligazioni di risultato: le ultime evoluzioni della giurisprudenza e della dottrina 1. I nuovi orientamenti della giurisprudenza e della dottrina in tema di responsabilità p. 32 2. Obbligazioni di mezzo e obbligazioni di risultato: superamento o sovrapposizione? p. 40 Bibliografia p. 44 1 Capitolo Primo Obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato: introduzione della distinzione SOMMARIO: 1. Premessa – 2. L’introduzione della distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato nel nostro ordinamento – 3. L’integrazione dei concetti di diligenza, correttezza e buona fede 1. Premessa Le riflessioni sviluppate nel tempo circa le obbligazioni di risultato e le obbligazioni di mezzi ci portano qui ad analizzare i più significativi contributi della dottrina in merito. Tra le tante ragioni richiamate, infatti, appare interessante questa distinzione poiché dalla stessa deriva una diversa imputazione di responsabilità del debitore in caso di inadempimento. Di conseguenza, risulta rilevante analizzare di seguito il contenuto dei due tipi di obbligazioni, al fine di verificare la diversa intensità dell’impegno del debitore, così come la differente incidenza del rischio della mancata realizzazione dell’interesse del creditore. È opportuno, prima di entrare nel merito, sostanziare che si tratta sicuramente di un tema discusso. È, infatti, evidente come la caratterizzazione del comportamento che il debitore deve tenere per soddisfare l’interesse del creditore nelle obbligazioni di mezzo piuttosto che nelle obbligazioni di risultato abbia sollevato voci a favore e voci contrarie. Risulta complesso ma allo stesso tempo cruciale rispondere al quesito se abbia significato tale divisione delle obbligazioni di fare. Proprio su tale questione si muove lo studio, svolto da una duplice angolazione. 2 Da un lato, si esamina l’introduzione di tali qualificazioni nell’ordinamento. Dall’altro, si analizza se ed, eventualmente, attraverso quali modalità il diritto abbia riconosciuto legittimità alla distinzione in argomento. A questo proposito, il presente lavoro si divide in tre parti. La prima descrive la distinzione tra le obbligazioni di risultato e le obbligazioni di mezzi. La seconda analizza il dibattito che si è sviluppato a favore o contro tale distinzione. La terza esamina se ed in che modo la distinzione abbia ancora oggi rilevanza. Lo studio delle diverse fasi è svolto nella prospettiva di raccogliere elementi per ridefinire e redistribuire nel sistema giuridico la distinzione fra le due nozioni. 2. L’introduzione della distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato nel nostro ordinamento L’attuale distinzione fra obbligazioni di risultato ed obbligazioni di mezzi trova la sua prima rappresentazione intorno ai primi anni del XX secolo nel pensiero francese di Demogue1. Seppur non legittimata in una regola di diritto positivo, la classificazione tra “obligation de moyen” (obbligazione di mezzo) e “obligation de rèsultat” (obbligazione di risultato) fu accettata dalla giurisprudenza2 ed ancora oggi rappresenta un argomento notevole dell’ordinamento giuridico francese. La distinzione attiene all’oggetto dell’obbligazione. Nelle obbligazioni di risultato il debitore promette un certo risultato, che è tenuto a raggiungere. In particolare, tale figura si impegna a soddisfare l’interesse del creditore attraverso la piena realizzazione dello scopo perseguito. Nelle obbligazioni di mezzi il debitore si obbliga a porre in essere un’attività conforme a certe regole ed in vista di un risultato aleatorio. Dunque, tale figura promette al creditore solo i mezzi e non il risultato che dipende oltre che dal suo comportamento, anche da altri 1 R. Demogue, Traité des obligations en général, V, Paris, 1925, 1237; R. Demogue, Traité des obligations en général, VI, Paris, 1931, 599. 2 Tra le altre, Cassazione 20 maggio 1936, in Rec. Dalloz, 1936, I, 88; Cassazione 27 giugno 1939, in Rec. Dalloz, 1941, J, 53; Cassazione 13 luglio 1949, in Rec. Dalloz, 1949, J, 423. 3 fattori interni ed esterni al rapporto obbligatorio. Nel merito va detto, inoltre, che l’espressione trova la sua ratio nell’impegno che il debitore assume, il quale lo obbliga ad un contegno rappresentabile con la diligenza del buon padre di famiglia. Sulla rilevanza della ripartizione intervenne Nicolò, osservando che la distinzione era la conseguenza di un equivoco, infatti, in tutte le obbligazioni il risultato è la realizzazione del diritto del creditore (bene, oggetto del diritto), conseguenza dell’esplicazione dell’attività dovuta dal debitore (comportamento, oggetto dell’obbligo)3. Nel 1932 anche i Mazeaud obiettarono la nomenclatura data dal Demogue e proposero una diversa denominazione: obbligazioni determinate ed obbligazioni generali di prudenza e diplomazia4. La definizione di “obbligazioni determinate”, trovava la sua ragione nel contenuto della relazione obbligatoria, individuato alla luce del risultato, che deve essere realizzato, salvo caso fortuito. D’altra parte, la denominazione di “obbligazioni generali di prudenza e diplomazia” si basava sull’idea che la soddisfazione del creditore consistesse, in alcuni casi, nel contenuto secondario dell’obbligazione, ossia nel contegno del debitore. Si noti che in questa denominazione il termine “generali” intende riferirsi all’obbligo di diligenza del buon padre di famiglia che integra quanto è già dovuto dal debitore in virtù del contratto o della legge. In sostanza, il risultato dedotto risulta incerto ed il creditore assume a suo carico il rischio di un evento che renda non realizzabile la prestazione del debitore. Tra i fattori generali di criticità circa la denominazione data dai Mazeaud, si devono citare in primo luogo le critiche mosse da Esmein così come da Capitant. 3 R. Nicolò, Adempimento dell’obbligo altrui, Milano, 1936, p. 62, nota 79: “(…) Incorrono pure in un equivoco quegli scrittori che fanno leva sulla distinzione fra obbligazione avente per oggetto il risultato dovuto al creditore e l’obbligazione avente per oggetto i mezzi che il debitore deve impiegare, e discutono se l’obbligazione abbia per oggetto il risultato nella sua consistenza obiettiva o l’attività (subbiettiva) che il debitore deve porre in essere per raggiungerlo. L’equivoco consiste nel non aver considerato che il raggiungimento del risultato non è che la realizzazione del diritto del creditore e che esso si pone non come contenuto dell’obbligo ma come conseguenza normale dell’attuazione del contenuto cioè dell’esplicazione dell’attività dovuta dal debitore. (…)”. 4 H. e L. Mazeaud, Traité thèorique et pratique de la responsabilità civile, I, Paris, 1947. 4 Il primo contestò la definizione di “obbligazioni determinate”, più in particolare l’utilizzo dell’aggettivo “determinate”, poiché sostenne che lo stesso desse una falsa qualificazione, dato che in ogni rapporto obbligatorio l’oggetto deve essere determinato o determinabile5. Il secondo contestò, invece, la denominazione “obbligazioni generali di prudenza e diplomazia” o meglio, nel dettaglio, l’aggettivo “generali”, osservando che quest’ultimo induceva a ritenere che l’obbligo di prestazione fosse riferito ad una pluralità di soggetti, piuttosto che alla controparte di un rapporto contrattuale6. Queste critiche ebbero seguito in dottrina: nel 1947, infatti, Tunc ripropose la distinzione del Demogue, circoscrivendone però il contenuto7. In particolare per quelle obbligazioni che il Demogue definiva come “di mezzi”, egli propose l’enunciazione di “obbligazioni di diligenza”. Come si vedrà meglio più avanti, a partire da questo momento la diligenza iniziò ad essere intesa come qualità del comportamento e non solo come inclinazione dello spirito umano del debitore, sicché essa definisce un preciso obbligo di agire del debitore in funzione di un determinato risultato. A questo cammino nella tradizione francese si affianca una progressiva attestazione della nozione nell’ordinamento italiano. Qui le due categorie si affermarono ma senza alcun contributo sistematico. Infatti, eccetto il rapido accenno di Nicolò e, successivamente di Betti, nessun autore si occupò ex professo del problema. Per l’importanza che la stessa nozione di Mengoni ebbe nel seguito, sembra allora opportuno muovere proprio dal suo esame. Mengoni8 sostenne che nelle obbligazioni di risultato lo scopo dovuto fosse perfettamente individuabile, mentre nelle obbligazioni di mezzi esso avesse un valore neutro. Per questa ragione, con riguardo a tale sottospecie, preferì parlare di “obbligazioni di comportamento”, poiché il contenuto del dovere non si esauriva nella diligenza del buon padre di famiglia ma in un “far bene” congruente all’interesse primario del creditore. 5 P. Esmein, Obbligations, I, Paris, 1952. H. Capitant, Les effets des obbligations, in Rivista trimestrale Diritto civile, 1932. 7 A. Tunc, Distinzione delle obbligazioni di risultato e delle obbligazioni di diligenza, in Nuova Rivista Diritto commerciale, 1947-1948. 8 L. Mengoni, Obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi, in Rivista Diritto commerciale, 1954. 5 6 In tal modo Mengoni riprendeva un’ipotesi di Betti che aveva già parlato di obbligazioni di contegno intendendo con tale definizione l’obbligo del debitore di andare oltre l’osservanza della sola diligenza del buon padre di famiglia, con ciò interpretando l’attitudine della volontà del debitore a perseguire (ma non necessariamente raggiungere) un determinato risultato9. Mengoni, dunque, criticò le denominazioni utilizzate in precedenza e specie quella dei Mazeaud, poiché ritenne che il riferimento al risultato contenuto in una sola delle due definizioni lasciasse pensare che nell’altra lo stesso non potesse mai essere determinato. Secondo questa costruzione Mengoni aderì alla teoria di Siber secondo cui in generale non esistono obbligazioni che non abbiano per oggetto la produzione di un risultato, perché in ogni rapporto obbligatorio è sempre individuabile un’utilità10. Al modo di Mengoni nella distinzione tra obbligazioni di risultato ed obbligazioni di mezzi è configurabile un diverso rapporto tra l’interesse del creditore ed il risultato dedotto in obbligazione. In particolare, nelle prime vi è la soddisfazione dell’interesse primario del creditore, (ossia l’obbligazione ha ad oggetto uno scopo nel quale si spiega il fine economico); nelle seconde vi è la soddisfazione di un interesse secondario del creditore, che ha come scopo ulteriore l’attuazione dell’interesse primario, ossia l’obbligazione ha ad oggetto un comportamento utile per raggiungere il risultato, la cui realizzazione è però estranea al rapporto11. 9 E. Betti, Teoria generale delle obbligazioni, I, Milano, 1953, p. 130: “(…) l’articolo 1176, nell’enunciare il criterio della diligenza, non è punto inteso a stabilire quelli che sono i presupposti della responsabilità contrattuale, nel senso che il torto contrattuale consista unicamente nell’inosservanza di quella diligenza. Esso segna un criterio di valutazione della condotta solo per le obbligazioni di contegno, non già per le obbligazioni di risultato, giusta una distinzione alla quale la civilistica francese è stata indotta dal fatto che anche nel codice francese si trova una norma che fa pensare ad un possibile indipendenza del criterio della sopravvenuta impossibilità oggettiva della prestazione”. 10 H. Siber, Der rechtszwang im schuldverhaltniss, Leipzig, 1903. 11 L. Mengoni, Obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi, p. 188, cit., circa la distinzione: “essa non vuole significare l’assenza, in certe obbligazioni, di un risultato dovuto, il che sarebbe assurdo, ma piuttosto separare i rapporti obbligatori in due categorie, caratterizzate da una maggiore o minore del termine finale dell’obbligazione (risultato dovuto) al termine iniziale, cioè all’interesse da cui l’obbligazione trae origine. L’interesse-presupposto dell’obbligazione è sempre orientato al mutamento o ala conservazione di una situazione di fatto iniziale. Ma non sempre l’oggetto della qualificazione giuridica, coincide con la realizzazione di questo interesse che potremmo chiamare primario. Talvolta la tutela giuridica, che è la misura del dovere avere del creditore è circoscritta a un interesse strumentale, a un interesse di secondo grado che ha come scopo immediato un’attività del debitore capace di promuovere l’attuazione dell’interesse primario”. 6 Se si preferisce nelle obbligazioni di risultato il creditore si attende dal debitore un comportamento che modifichi la situazione, mentre nelle obbligazioni di mezzi il creditore si aspetta un comportamento che possa essere in grado di mutare la situazione. In quest’ultimo caso al raggiungimento dello scopo concorreranno, infatti, altri fattori, anche esterni al contegno dovuto dal debitore. In conclusione, Mengoni sostenne che la distinzione tra le obbligazioni di risultato e le obbligazioni di comportamento fosse attendibile solo se connessa ad una complementarità tra interesse e risultato dovuto. Ciò detto, nella sua opera Cottino aggiunse che la distinzione si risolve non tanto nello stabilire se nel rapporto obbligatorio sia sempre individuabile un risultato, ma come e in che cosa individuare quest’ultimo12. Ed ancora nel merito Santoro Passarelli osservò che in ogni obbligazione è sempre possibile individuare sia un comportamento dovuto dal debitore che un risultato atteso dal creditore, il quale è raffigurabile come lo scopo in funzione del quale è costituito il rapporto obbligatorio13. Al modo di Breccia le perplessità circa la distinzione tra obbligazioni di mezzi e le obbligazioni di risultato si concentrarono sulle diverse nozioni di risultato: una interna al rapporto obbligatorio, che corrisponde alla prestazione dovuta dal debitore, ed una esterna, che influisce sulla “ragion d’essere della prestazione”14. 12 G. Cottino, L’impossibilità sopravvenuta della prestazione e la responsabilità del debitore, Milano, 1975, p. 74: “il problema è in realtà non tanto di stabilire se nella prestazione sia sempre dedotto un risultato, ma come e in che modo identificare quest’ultimo (…)”. 13 F. Santoro Passarelli, “Professioni intellettuali”, in Novissimo Digesto Italiano, XIV, 1967, p. 25: “in ogni obbligazione, oltre al comportamento dovuto, si ha sempre anche un risultato atteso dal creditore, che è il risultato in vista del quale l’obbligazione è sorta”. Così anche le considerazioni di M. Giorgianni, “Obbligazione (Diritto privato)”, in Novissimo Digesto Italiano, XI, 1967, p. 598: “a nostro avviso un comportamento del debitore è sempre dovuto e la sua presenza costituisce anzi l’elemento individuatore del rapporto giuridico rispetto ad altre situazioni giuridiche; mentre, d’altro canto, un risultato (che talora si realizza in una cosa) è sempre necessario, indicando la direzione della prestazione verso il soddisfacimento di un interesse del creditore. Varia, è vero, la proporzione dei due elementi, cosicché vi sono rapporti in cui il comportamento prevale sul risultato e viceversa, secondo un’amplissima gamma di valori (…)”. 14 U. Breccia, Le obbligazioni, Milano, 1991, p. 139: “le perplessità più forti nascono per il fatto che la distinzione è basata su due diverse nozioni di risultato: l’una che influisce dall’esterno sulla ragion d’essere della prestazione ma resta estranea all’obbligazione (…); l’altra che è invece sicuramente ricompresa nella sfera della prestazione ma è frutto di un comportamento che è altrettanto dovuto e che costituisce pur sempre un momento essenziale del contenuto dell’obbligo”. 7 Se è pacifico, infatti, che il debitore assume un’obbligazione, il problema si pone nel momento in cui va definito se si tratti di un’obbligazione di mezzi piuttosto che di risultati. Tale qualifica non costituisce un dato assoluto, ma la conclusione di una valutazione circa la situazione e le obiettive possibilità di raggiungere lo scopo. Si aderisca o meno alle tesi fin qui esposte, in conclusione, è opportuno sottolineare che nonostante la distinzione tra le obbligazioni di risultato e le obbligazioni di mezzi non entrò nel Codice civile del 1942, come lo stesso Rescigno affermò, divenne punto fermo della discussione dottrinale da rivestire valore pari ad una norma15. Sembra, infatti, fuor di dubbio che dalle due sottocategorie esaminate possano essere desunte disposizioni di adempimento e regole di responsabilità dell’inadempimento. 3. L’integrazione dei concetti di diligenza, correttezza e buona fede Si potrebbe, per vero, ritenere che il dovere di diligenza formulato dall’esperienza francese16 confluì nell’articolo 1224 del Codice civile italiano del 1865: “la diligenza che si deve impiegare nell’adempimento dell’obbligazione, abbia questa per oggetto l’utilità di una delle parti o d’ambedue, è sempre quella di un buon padre di famiglia (…). Questa regola per altro si deve applicare con maggiore o minor rigore, secondo le norme contenute per certi casi in questo Codice”. Ed è proprio tale formulazione che venne poi recepita nel Codice civile del 1942 all’articolo 1176 che così recita: “nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia. Nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla 15 P. Rescigno, Fondamenti e problemi della responsabilità medica, in La responsabilità medica nel diritto italiano, Milano, 1982, p. 78: “una elaborazione dottrinale così radicata da rivestire valore pari ad una norma”. 16 Codice Napoleonico all’articolo 1137: “l’obbligazione di vigilare alla conservazione della cosa, sia che la convenzione non abbia per oggetto che l’utilità di una delle parti, sia che abbia per oggetto la loro utilità comune, assoggetta colui che ne è gravato a usarvi tutte le cure d’un buon padre di famiglia. Quest’obbligazione è più o meno estesa relativamente ad alcuni contratti, i cui effetti, a questo riguardo, sono spiegati sotto i titoli che li riguardano”. 8 natura dell’attività esercitata”. Il concetto di diligenza richiamato dalla diposizione riproduce una formula oggettiva di qualità di cura, sforzo, perizia ed attenzione su cui ogni debitore deve impostare il proprio comportamento. Il debitore opera diligentemente nel momento in cui agisce con scrupolo e serietà in funzione del risultato, al fine di soddisfare l’interesse del creditore. Al modo di Mengoni la diligenza è, infatti, proprio quella “funzione di volontà; la bontà o l’utilità dell’azione (…) la cui osservanza trasforma il semplice agere in un facere, in un’azione capace di dar principio al processo di attuazione dello scopo considerato”17. Del resto anche Ravazzoni affermò che “la diligenza costituisce una qualificazione di un comportamento umano; questa qualificazione opera nel senso della conformazione del comportamento ad un modello ispirato alla cura, alla solerzia, alla cautela, ad un complesso, quindi, di caratteristiche spiegate in modo che il comportamento umano possa essere valutato positivamente, in quanto adeguato al fine che esso deve raggiungere”18. Il concetto di diligenza deve essere interpretato altresì tenendo conto della specificità del rapporto obbligatorio, ossia della natura e del contenuto dell’adempimento dedotto in obbligazione. Ed è proprio a tale criterio che si riconduce la valutazione dell’adempimento o meno da parte del debitore che si propone nel proseguo del lavoro. Il concetto di diligenza così individuato ci permetterà, infatti, di definire quando possano considerarsi o non adempiute dall’obbligato le condizioni di esecuzione dell’obbligazione, così come determinare i profili di responsabilità debitoria. Riflettere sul criterio di diligenza ci porta alle nozioni di correttezza e buona fede, rispettivamente sancite dagli articoli 1175 e 1375 del Codice civile. Correttezza e buona fede non costituiscono obbligazioni autonome ma rappresentano degli strumenti d’integrazione della reale portata del rapporto obbligatorio. Ne consegue che tali concetti offrono un principio generale per valutare la conformità del comportamento del debitore al quello dovuto. In questa prospettiva l’integrazione delle nozioni con il criterio di diligenza rappresentano il parametro della minore o maggiore colpa dell’obbligato in caso di inadempimento. 17 18 L. Mengoni, Obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi, p. 193, cit.. Così R. Ravazzoni, “Diligenza”, in Enciclopedia Giuridica Treccani, VII, 1988. 9 In proposito va rimarcato, dunque, che le formule di correttezza e buona fede sono ispirate alla regola della solidarietà contrattuale che impone a ciascuna parte di un rapporto obbligatorio di salvaguardare l’utilità dell’altra, a prescindere dal regolamento negoziale. Rispetto al tema risulta interessante ricordare l’orientamento della Cassazione, che sostanzia i concetti di correttezza e buona fede come: “un generale obbligo di solidarietà (derivante soprattutto dall’articolo 2 della Costituzione) che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, trovando tale impegno solidaristico il suo limite precipuo unicamente nell’interesse proprio del soggetto, tenuto, pertanto, al compimento di tutti gli atti giuridici e/o materiali che si rendano necessari alla salvaguardia dell’interesse della controparte nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico”19. Questa definizione indica la rilevanza assunta nel rapporto obbligatorio dal comportamento delle parti. In sostanza, è vero che se l’obbligazione è volta al soddisfacimento dell’interesse del creditore, è pur vero che questo dipende da quanto posto in essere da entrambe le parti. Sicuramente va precisato che ciò che spetta al creditore non è certo agevolare l’esecuzione della prestazione del debitore o renderla meno onerosa di quella pattuita ma semmai non renderla più disagevole o gravosa di quanto secondo le regole ci condotta possa intendersi. 19 Cassazione 30 luglio 2004, n. 14605, in Giust. civ., 2005, 1, 1566; conf., ex plurimis, Cassazione 4 marzo 2003, n. 3185, in Giust. civ., 2004, 1, 2832. 10 Capitolo Secondo Adempimento ed imputazione della responsabilità nei primi orientamenti della dottrina e della giurisprudenza SOMMARIO: 1. Gli orientamenti della dottrina sui profili di responsabilità debitoria – 2. La ripartizione dell’onere della prova tra dottrina e giurisprudenza 1. Gli orientamenti della dottrina sui profili di responsabilità debitoria Di seguito si analizzeranno i profili di responsabilità debitoria nelle obbligazioni di risultato e nelle obbligazioni di mezzi. Prima di introdurre tale approfondimento, appare opportuno riassumere i tratti principali delle disposizioni sull’adempimento ed inadempimento, nonché della distinzione tra le obbligazioni di risultato e le obbligazioni di mezzi fin qui trattata. Con riguardo al primo punto va detto che nel Codice civile non esiste una definizione di adempimento. Dallo studio però delle disposizioni in esso presenti, alla Sezione I del Libro delle Obbligazione, può dedursi che l’adempimento è il modo in virtù del quale si estingue sia l’obbligo del debitore che il diritto del creditore. In altre parole, rappresenta l’estinzione naturale dell’obbligazione. Infatti, ai sensi dell’articolo 1218 del Codice civile, consiste nell’esatta esecuzione della prestazione dovuta. È chiaro, dunque, come la stessa norma individui la responsabilità del debitore che non esegue la prestazione dovuta. Del resto, l’inadempimento non è altro che la mancata esecuzione della prestazione originaria. In tale fattispecie la norma presuppone che il debitore è tenuto al risarcimento del danno se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da ragione a lui non imputabile. Dunque, l’impossibilità sopravvenuta rappresenta l’unica causa che legittima il debitore a non tenere il comportamento dovuto. 11 Con riguardo ad essa va detto che la prestazione è definita come oggettivamente impossibile qualora si presenti una causa di forza maggiore che il debitore non può contrastare o un evento inevitabile che il debitore non può prevedere. Proprio in relazione a ciò si vedrà più avanti che l’impossibilità libera il debitore quando nessuna azione oggettivamente può rimuoverla, quindi, prescinde da cause relative alla sfera di tale figura. Per quanto concerne la distinzione tra le obbligazioni di risultato e le obbligazioni di mezzi si è già fatto riferimento al criterio cardine della differenziazione, rappresentato dall’oggetto, che nell’obbligazione di mezzi è una prestazione che deve essere eseguita secondo il principio della diligenza di cui all’articolo 1176 del Codice civile, mentre nell’obbligazione di risultato è la realizzazione del risultato stesso. Allo stesso modo la Cassazione con la Sentenza n. 3848, del 29 novembre 1968, ha affermato che quella di risultato è “un’obbligazione nella quale la prestazione consiste nel conseguimento di un determinato risultato, mancato il quale il creditore insoddisfatto ha diritto per ciò stesso al risarcimento del danno” mentre quella di mezzi è un’obbligazione nella quale la prestazione del debitore è riconducibile ad una “certa attività indirizzata al conseguimento del risultato propostosi dall’altra parte, il quale però rimane estraneo al contenuto dell’obbligazione, poiché ad ottenerlo può essere necessario il concorso di altri fattori, non dipendenti dall’attività del prestatore d’opera né sempre da lui dominabili o controllabili”20. Un’ulteriore rappresentazione della distinzione è proposta dalla stessa Corte nella Sentenza n. 6416, del 10 dicembre 1979, nella quale si legge che “a differenza dell’obbligazione di mezzi, la quale richiede al debitore soltanto la diligente osservanza del comportamento pattuito, indipendentemente dalla sua fruttuosità allo scopo perseguito dal creditore”, l’obbligazione di risultato deve soddisfare l’effettivo interesse di una parte “assunto come contenuto essenziale ed irriducibile della prestazione”, sicché “l’adempimento coincide con la piena realizzazione dello scopo perseguito dal creditore, indipendentemente dall’attività e dalla diligenza spiegate dall’altra parte per conseguirlo. Pertanto, l’obbligazione di risultato può considerarsi adempiuta solo quando si sia realizzato l’evento previsto come conseguenza dell’attività esplicata dal 20 Così Cassazione 29 novembre 1968, n. 3848, in Foro It., 1969, 1, 903. 12 debitore, nell’identità di previsione negoziale e nella completezza quantitativa e qualitativa degli effetti previsti, e, per converso, non può ritenersi adempiuta se l’attività dell’obbligato, quantunque diligente, non sia valsa a far raggiungere il risultato previsto”21. Vengono in rilievo, dunque, dalla giurisprudenza gli stessi principi accolti in dottrina già oggetto di trattazione: nelle obbligazioni di mezzi la diligenza individua il contenuto dell’attività debitoria, mentre nelle obbligazioni di risultato tale criterio rappresenta uno strumento per valutare l’esattezza del comportamento posto in essere dal debitore. Accolta questa impostazione può conseguentemente affermarsi che nelle obbligazioni di mezzi il debitore è inadempiente se ha posto in essere l’attività con un grado minore di diligenza da quella dovuta, mentre nelle obbligazioni di risultato il debitore è inadempiente se non ha realizzato il risultato atteso. Sul piano normativo, coerentemente con questa tesi, si ritiene che la norma dettata dall’articolo 1218 del Codice civile riguardi le obbligazioni di risultato, mentre la regola dettata dall’articolo 1176 del Codice civile disciplini quelle di mezzi. A tale impostazione si richiama, ad esempio, Osti, secondo il quale la colpa del debitore, nell’ipotesi in cui oggetto della prestazione è l’attività del debitore, è da intendersi come mancanza della diligenza dovuta, la quale “è né più né meno che un elemento integrante dell’inesatto adempimento, vale a dire del presupposto obiettivo della responsabilità, non una condizione soggettiva che al presupposto obiettivo si aggiunga a costituire il fondamento di quella”22. Anche secondo Barassi le due disposizioni hanno un ambito applicativo differente: egli, infatti, afferma che nelle obbligazioni di mezzi il debitore non è responsabile se si è comportato diligentemente per evitare l’impossibilità della prestazione, mentre nelle obbligazioni di risultato il debitore non risponde dell’inadempimento solo nel caso fortuito23. In contrapposizione con l’opinione tradizionale si pone parte della dottrina che individua regole comuni alle due sottospecie di obbligazioni circa il profilo della responsabilità. Il dibattito intorno al tema si traduce in un raccordo sistematico tra gli articoli 1176 e 1218 del Codice civile. 21 Cassazione 10 dicembre 1979, n. 6416, in Mass. Giur. it., 1979, 1569. G. Osti, Deviazioni dottrinali in tema di responsabilità per inadempimento delle obbligazioni, in Scritti giuridici, I, 1973, pp.472-473. 23 L. Barassi, Teoria generale delle obbligazioni, III, Milano, 1948. 13 22 In altre parole, il principio generale di imputabilità della causa non evitabile riconosce il limite della diligenza, quindi, il mancato raggiungimento del risultato è imputabile al debitore qualora questi non abbia scongiurato l’impossibilità utilizzando l’ordinaria diligenza. Di conseguenza, il debitore non risponde dell’inadempimento in caso di impedimenti non prevedibili con lo sforzo diligente dovuto. In definitiva può affermarsi che sia l’impossibilità oggettiva sia la diligenza rappresentano i presupposti della responsabilità nelle obbligazioni di mezzi, così come nelle obbligazioni di risultato. La ricostruzione del pensiero dottrinale in materia di connessione delle norme trova particolarmente interessante il contributo di Betti. Sebbene egli sostenga che il criterio della diligenza possa applicarsi solo alle obbligazioni in cui il debitore si impegna a prestare un’attività che “deve essere controllata ad una stregua di diligenza e di abilità tecnica”, afferma che tale principio nelle obbligazioni di mezzi non è sufficiente ad escludere l’imputabilità dell’inadempimento, poiché “bisognerà inoltre vedere se, mancata la prestazione, (…) questa mancanza sia imputabile allo stesso debitore che la doveva o non dipendeva per avventura da causa a lui estranea (…)”, mentre in tutte le altre obbligazioni (obbligazioni di risultato) ha ragione di essere quando si tratti “di valutare quell’attività, che si potrebbe chiamare strumentale, che in sé sarebbe stata idonea a produrre quel risultato utile”. Il debitore, infatti, nelle obbligazioni di risultato “bisogna che ponga in essere l’opus; e si può esonerare da responsabilità solo col dimostrare che la formazione dell’opus gli sia stata impedita da una causa estranea alla sua sfera di controllo, da una causa che non è a lui imputabile, che egli non avrebbe potuto superare mettendo in opera quel grado di impegno, di sforzo, che gli era richiesto secondo il tipo del rapporto di obbligazione di cui si trattava” 24. Lo stretto collegamento tra gli articoli 1176 e 1218 del Codice civile implica il superamento del principio tradizionale di imputabilità, nel senso che tutti gli eventi non evitati utilizzando il criterio della diligenza sono considerati imputabili al debitore. In questo ordine di idee si individua, dunque, un criterio di imputazione della responsabilità di 24 natura soggettiva, ossia basato sulla colpa, operante sia nelle E. Betti, Teoria generale delle obbligazioni, p. 128, cit.. 14 obbligazioni di mezzi che nelle obbligazioni di risultato. A questo proposito, è interessante notare come Mengoni avvalori la tesi riprendendo l’operato del legislatore circa la generalizzazione del principio della “diligentia diligentis”. In particolare, questo Autore sostiene che la norma dettata dall’articolo 1176 del Codice civile completa quella descritta dall’articolo 1218 del Codice civile, dal momento che deve essere imputata al debitore l’impossibilità che deriva da una causa non fortuita, ossia “evitabile con l’ordinaria diligenza del buon padre di famiglia” 25. Al modo di Di Majo, qualora si parli di obbligazione di mezzi, poiché nessun risultato è dedotto in obbligazione “è evidente che il soggetto creditore, ove il proprio interesse non risulti realizzato, non potrà lamentarsi che del difetto di diligenza e/o di perizia del debitore e tale difetto tenderà a mettere in relazione con il mancato esito della prestazione dovuta (…). Ma ciò significa che, nella obbligazione di mezzi, ove materia è lo stesso agire diligente in vista del perseguimento di un risultato (…), lo stesso inadempimento, nella sua materialità, sarà rappresentato dall’agire negligente”. Mentre qualora si tratti delle obbligazioni di risultato “la prova della diligenza non potrà che servire a dimostrare che tale mancato risultato è dipeso da una causa, e cioè da un fatto impeditivo, non imputabile al debitore”26. Si spiega così perché nelle obbligazioni di mezzi il debitore debba dar prova del proprio sforzo diligente per scongiurare l’imputabilità dell’inadempimento, mentre nelle obbligazioni di risultato il debitore sia tenuto a documentare il suo agire diligente in direzione del risultato dell’obbligazione, tuttavia rivelatosi non sufficiente per evitare l’impossibilità oggettiva. L’idea espressa in dottrina è consolidata dalla orientamento della Corte di Cassazione nella Sentenza n. 1638, del 27 maggio 1955, teso ad affermare “che la causa non imputabile al debitore, la quale ha determinato l’impossibilità della prestazione, è quella che non può essere evitata mediante l’impiego della normale diligenza”27. Nella sentenza appare evidente l’integrazione del criterio di imputazione oggettivo indicato dall’articolo 1218 del Codice civile a quello di tipo soggettivo suggerito dall’articolo 1176 del Codice civile. 25 L. Mengoni, Obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi, p. 200, cit.. A. Di Majo, L’adempimento dell’obbligazione, Bologna, 1993, p. 58. 27 Così Cassazione 27 maggio 1955, n. 1638, in Giust. civ., 1955, 1632. 15 26 È, infatti, osservato che il debitore è obbligato, oltre che all’attività dedotta nel contratto, a porre in essere una serie di azioni preliminari e successive utili per il raggiungimento del risultato, così come ad agire per rimuovere l’eventuale impedimento della prestazione. In conclusione, emerge con chiarezza che le differenziazioni dottrinali e giurisprudenziali in tema di responsabilità debitoria nelle obbligazioni di risultato e nelle obbligazioni di mezzi non consentono una descrizione unitaria dell’argomento. Invero, seppur sotto un diverso profilo, anche in tema di distribuzione dell’onere della prova risulta doveroso osservare la difficoltà di individuare un criterio unanimemente condiviso. Seguitando, dunque, nel dibattito che si è sviluppato a favore o contro la distinzione tra le obbligazioni di mezzi e le obbligazioni di risultato a questo punto del lavoro si inserisce proprio la questione della ripartizione dell’onere della prova messa in evidenza dalla dottrina e dalla giurisprudenza. 2. La ripartizione dell’onere della prova tra dottrina e giurisprudenza Si osservi che la formulazione dell’articolo 2697 del Codice civile stabilisce che chi vuol far valere un diritto in giudizio debba documentare i fatti costitutivi del suo diritto. Secondo tale disposizione, quindi, nel caso in cui il debitore disattenda l’obbligo di prestazione, il creditore deve provare le situazioni che ne rappresentano il fondamento. D’altra parte, chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti, ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto, deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda. Poste tali premesse, si può affermare che nelle obbligazioni di mezzi il creditore deve dar prova che l’attività posta in essere dal debitore non è stata conforme a diligenza, mentre nelle obbligazioni di risultato deve provare che il risultato non è stato raggiunto. La ripartizione individua, dunque, una diversa distribuzione del rischio di non realizzazione del risultato: nelle prime esso grava sul creditore, nelle seconde sul debitore. A questo punto conviene rilevare tale distinzione nei primi orientamenti della dottrina e della giurisprudenza. L’evoluzione poi del pensiero sarà oggetto di trattazione del capitolo successivo. 16 Con rifermento alla sottocategoria delle obbligazioni di mezzi, nel contratto di prestazione d’opera professionale il cliente conferisce al professionista l’incarico per lo svolgimento di una prestazione secondo modelli di diligenza media. Ove questi non adempia l’obbligo assunto, il cliente deve dar prova della mancata perizia nell’esercizio dell’attività professionale. L’analisi della casistica giurisprudenziale indica il principio generale di responsabilità, che può ben ravvisarsi nella Sentenza della Cassazione n. 969, del 12 febbraio 1981: “la responsabilità del professionista per i danni causati dalla sua attività professionale deve essere valutata alla stregua dello svolgimento di tale attività e in particolare del dovere di diligenza il quale, a norma dell’articolo 1176 del Codice civile, deve adeguarsi alla natura dell’attività esercitata”28. In linea con l’opinione della giurisprudenza, dunque, il dovere di diligenza del professionista va definito con riferimento alla prestazione oggetto del contratto. Pertanto, appare importante di seguito individuare l’applicazione del criterio di diligenza, nonché il profilo di responsabilità rispetto ai diversi ambiti professionali. Muovendo i passi dell’indagine dalla figura dell’avvocato, si rammenti che “le obbligazioni del professionista forense sono obbligazioni (…) di mezzi, sicché l’inadempimento non può essere desunto dal mancato raggiungimento del risultato utile cui mira il cliente, ma soltanto da specifica responsabilità professionale, con riguardo alla natura ed alla modalità dell’attività esercitata”29. Con riferimento all’aspetto contrattuale va detto che l’articolo 2230 del Codice civile stabilisce che “l’avvocato o il procuratore legale che, in forza della procura conferita loro dal cliente, ne assumo il ruolo di difensore, entrano con il cliente in un rapporto che ha per oggetto una prestazione d’opera professionale”. In materia appare significativo l’intervento della Cassazione, il quale afferma che “il contratto di clientela è disciplinato dalle norme di diritto sostanziale circa il mandato, per cui non è dubbio che il difensore, munito di procura ad lites sia oggetto a quelle medesime obbligazioni che fanno carico a qualsiasi altro mandatario, in quanto, s’intende, non siano inconciliabili con la funzione di rappresentanza tipicamente tecnico-processuale demandata al difensore. 28 29 Cassazione 12 febbraio 1981, n. 969, in Foro it., 1981, “Professioni intellettuali”, n. 34. Cassazione 25 marzo 1995, n. 3566, in Mass. Giur. it., 1995. 17 Fra dette obbligazioni sono certamente da annoverare quelle imposte al mandatario dagli articoli 1712 e 1713 del Codice civile, tenendo altresì presente che se la responsabilità del professionista soggiace agli stessi criteri che regolano la responsabilità del mandatario, essa deve essere peraltro valutata secondo la diligenza del buon padre di famiglia”30. In relazione a tale orientamento si parla, quindi, di un contratto misto, disciplinato dalle regole sia del mandato, nel momento in cui l’avvocato è chiamato ad esercitare l’attività di patrocinio fiduciario della parte in sede giudiziaria che del contratto di prestazione d’opera per tutte quelle attività professionali stragiudiziali. Tale inquadramento è sostenuto anche da parte della dottrina. Nel merito Viola asserisce che si parla di contratto misto “quando il rapporto cliente/avvocato viene considerato unitariamente, ed il rilascio del mandato ad litem rimane una vicenda legata alle esigenze processuali31. Quanto all’attività svolta dall’avvocato è utile ricordare quanto specificato dalla Cassazione in merito, ossia che il lavoro forense, così come descritto dall’ordinamento della professione e dalle norme del codice di rito è quello “di rappresentanza, assistenza e difesa delle parti in giudizio”32. Al modo di Baldassarri il dovere dell’avvocato è quello “di adempiere (…) con dignità e decoro, come si conviene all’altezza delle funzioni” che è chiamato “ad esercitare nell’amministrazione della giustizia”33. Tale figura, dunque, non garantisce al cliente l’accoglimento della sua istanza ma l’impegno dei mezzi per il raggiungimento del risultato auspicato. Pertanto, può affermarsi che in caso di inadempimento il cliente, nel richiedere il ristoro dei danni subiti, deve dimostrare che questi gli sono derivati dall’omissione di un’attività diligente di cui all’articolo 1176 del Codice civile. Per quanto riguarda, invece, la controprova del debitore, essa è connessa alla dimostrazione di fatti che provino un comportamento diligente, in grado di giustificare l’impossibilità della prestazione. 30 Così Cassazione 2 agosto 1973, n. 2230, in Giust. civ., 1973, 1, 1864. L. Viola, I danni da inadempimento, professionisti e consumatori, Matelica, 2008, p. 162. 32 Così Cassazione 28 maggio 1976, n. 1929, in Codice civile commentato, Simone, 2007. 33 A. Baldassarri e S. Baldassarri, La responsabilità civile del professionista, Milano, 2006, p. 944. 18 31 Ancora in tema, merita di essere analizzato l’indirizzo “mitigato” ravvisabile in alcune pronunce della Corte di Cassazione che riconoscono al cliente un risarcimento del danno nei termini in cui l’esatto adempimento da parte dell’avvocato avrebbe consentito di raggiungere concretamente il risultato auspicato. L’orientamento può riassumersi nella sentenza della Corte di Cassazione che ha sostenuto, con riferimento al nesso di causalità tra errore e danno, che il cliente è “tenuto a provare non solo di aver sofferto un danno ma anche che questo è stato cagionato dalla insufficiente o inadeguata attività del professionista e cioè della difettosa prestazione professionale”. Ed ancora, ragionando in termini di accoglimento della domanda di risarcimento proposta dal cliente contro il proprio difensore si “presuppone che sia accertata l’esistenza di un danno economico e che questo dipenda direttamente ed effettivamente dal suddetto comportamento. L’affermazione della responsabilità del difensore implica pertanto l’indagine, positivamente svolta, sul sicuro e chiaro fondamento dell’azione che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente coltivata e, quindi la certezza morale che gli effetti di una diversa attività del professionista medesimo sarebbero stati più favorevoli per il cliente”34. La pronuncia sintetizza la prima nozione enunciata dalla Corte, quella della “certezza morale”, con la quale si è cercato di superare l’orientamento più tradizionale. Difatti, una volta affermato il principio, si riconosceva l’avvocato come responsabile solo dopo aver condotto un’indagine circa la sicura produzione degli effetti favorevoli per il cliente. In particolare, è interessante ricordare anche il successivo indirizzo della Corte di Cassazione concretizzatosi nel principio della “ragionevole certezza”. In questa prospettiva la Sentenza n. 2222, del 5 aprile 1984, ha così stabilito: “la condanna (dell’avvocato inadempiente per omessa proposizione dell’appello) (…) non può essere pronunciata, limitatamente alla declaratoria generica, se l’attore non abbia fornito la prova, oltre che della negligenza o errore professionale del convenuto, anche dell’esistenza di un concreto danno patrimoniale e del necessario nesso di causalità. Pertanto, il cliente che chieda al proprio difensore il ristoro dei danni subiti a seguito della mancata impugnazione della sentenza di primo grado non può limitarsi a dedurre l’astratta possibilità della riforma in appello in senso a lui favorevole di tale pronuncia, 34 Cassazione 11 maggio 1977, n. 1831, in Foro it., 1977. 19 ma deve dimostrare l’erroneità di questa, oppure produrre nuovi documenti o altri mezzi di prova idonei a fornire la ragionevole certezza che il gravame, se proposto, sarebbe stato accolto”35. Ma il più rilevante superamento dell’orientamento tradizionale si è avuto con gli interventi successivi della Corte di Cassazione che ha ritenuto che la responsabilità non dovesse più essere valutata secondo il presupposto della “certezza”, ma della “probabilità” che una differente riuscita dell’azione dell’avvocato si sarebbe realizzata36. L’impostazione così delineata ha raffigurato il cosiddetto danno da perdita di chance che, discostandosi dalla categoria dei danni futuri, si rifà ad una lesione presente e concreta, che rappresentata la probabilità di raggiungere un risultato favorevole37. Dal punto di vista tecnico la giurisprudenza si è occupata del tema della perdita di chance nella Sentenza della Cassazione n. 15759, del 13 dicembre 2001, che ha distinto tra “danno da mancata impugnazione” e “danno da perdita della possibilità d’impugnazione”, affermando che il danno da perdita della possibilità d’impugnazione va “liquidato in ragione d’un criterio prognostico basato sulle concrete ragionevoli possibilità di risultati utili, assumendo come parametro di valutazione il vantaggio economico complessivamente realizzabile dal danneggiato diminuito d’un coefficiente di riduzione proporzionato al grado di possibilità di conseguirlo e deducibile, questo, caso per caso, dagli elementi costitutivi della situazione giuridica dedotta od, ove tale criterio risulti di difficile applicazione, con ricorso al criterio equitativo”38. Nell’affrontare l’argomento occorre anche ricordare la Sentenza della Cassazione n. 14597, del 30 luglio 2004, in virtù della quale si stabilisce che “il cliente che chieda il risarcimento del danno subito a seguito di una tardiva proposizione di un’impugnazione, derivante da una condotta colposa dell’avvocato, deve specificare le circostanze che avrebbero portato ad un esito favorevole nel giudizio d’appello”39. Si tratta, quindi, di una reintegrazione comparata al grado di possibilità di successo che un differente comportamento dell’avvocato avrebbe determinato e non alla perdita di tale risultato. 35 Così Cassazione 5 aprile 1984, n. 2222, in Dir. prat. ass., 1985, 306. A partire dalla Sentenza n. 1286/98 la Cassazione ha stabilito ch la responsabilità del difensore possa essere imputata secondo principi probabilistici. 37 In particolare, Cassazione 4 marzo 2004, n. 4400, in Dir. e giust., 2004, 24, 38. 38 Cassazione 13 dicembre 2001, n. 15759, in Giust. civ. 2002, 1, 1285. 39 Cassazione del 30 luglio 2004, n. 14597, in Corr. giur., 2005, 10, 1412. 20 36 Fatta questa fondamentale precisazione, occorre ora introdurre la restrizione di responsabilità che la normativa rivela in situazioni di particolare difficoltà. Particolare rilievo assume, infatti, la previsione dell’articolo 2236 del Codice civile, secondo la quale la responsabilità dell’avvocato è limitata ai casi di dolo o colpa grave. Il legislatore riconosce una siffatta attenuazione al fine di accordare l’esigenza “di non mortificare l’iniziativa del professionista con il timore di giuste rappresaglie da parte del cliente in caso di insuccesso” con l’istanza di “non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista”40. In linea con tale orientamento, il creditore deve dar prova oltre che della prestazione non diligente anche del comportamento doloso o colposo in maniera grave del debitore, ossia di errori ed impreparazioni non scusabili e non compatibili con il grado di preparazione che una data professione richiede. Così detto, il cliente che chieda, ad esempio, il risarcimento dei danni subiti a seguito del rigetto di un’azione giudiziaria dopo la scadenza del termine di prescrizione “deve provare che quest’ultima sarebbe stata con certezza accolta se tempestivamente proposta e che, quindi, il rigetto di essa sia dipeso, con rapporto di causa ed effetto, dalla irregolarità della prestazione dell’attività intellettuale. Pertanto, consegue che il giudice di merito una volta accertato che la tardiva proposizione della domanda sia dipesa dalla colpa del difensore è tenuto ad esaminare, ai fini della condanna del medesimo al risarcimento dei danni, se la domanda avrebbe dovuto essere accolta, ove proposta nel termine”41. La previsione di limitazione di responsabilità alle ipotesi di colpa ha trovato maggiore applicazione nel settore della responsabilità medica. Prima di giungere, però, a tale osservazione è opportuno introdurre alcune nozioni, onde definire l’attività svolta dal medico ed il rapporto contrattuale. Parlando della professione medica, innanzitutto, va fatto riferimento a quanto stabilito dall’ordine professionale circa l’esercizio della funzione, che può essere ricondotta all’espletamento degli impegni di prevenzione, assistenza e cura. Anche la giurisprudenza si è orientata verso l’individuazione dell’attività medica, stabilendo che essa “si scende in due fasi, quella, preliminare, diagnostica, basata sul 40 Corte costituzionale, Sentenza 28 novembre 1973, n. 166, consultabile sul sito web http://www.giurcost.org/. 41 Cassazione 29 novembre 1968, n. 5848, in Rep. Giust. civ., 1968, 1, 276. 21 rilevamento dei dati sintomatologici, e l’altra conseguente, terapeutica o di intervento chirurgico, determinata dalla prima. (…). Poiché solo dopo l’esaurimento della fase diagnostica sorge il dovere del chirurgo di informare il cliente sulla natura e sugli eventuali pericoli dell’intervento operatorio risultato necessario, questo dovere di informazione, diretto ad ottenere un consapevole consenso alla prosecuzione dell’attività professionale, non può rientrare nella complessa prestazione”42. Così anche la Sentenza della Cassazione n. 6707, del 4 agosto 1987, afferma che “la tutela della salute, che rientra tra i compiti istituzionali primari degli enti ospedalieri, in relazione alle persone di minorata o nulla autotutela (nella specie, neonato), non si esaurisce nella mera prestazione delle cure medico-chirurgiche generali specialistiche, ma comprende anche la protezione delle stesse quando la mancata predisposizione di persone; o pertanto, una organizzazione volta a sopperire a tale compito abbia favorito il prodursi di un danno (nella specie, il rapimento del neonato dal nido ad opera di ignoti), va affermata la responsabilità dell’ente ospedaliero per la violazione dei suoi obblighi istituzionali”43. Quanto al regime contrattuale occorre porre un distinguo tra l’ipotesi in cui il medico eserciti la propria attività in regime di libera professione e la fattispecie in cui lo stesso operi in virtù di un contratto all’interno di una struttura sanitaria. Peraltro, nessuna differenza si riconosce tra struttura privata e struttura pubblica, essendo il diritto alla salute tutelato costituzionalmente come diritto fondamentale e quindi, senza alcuna possibilità di limitazioni di assistenza. Il contratto che intercorre nel caso in cui il medico eserciti la propria attività in regime di libera professione è quello di prestazione d’opera, come già ricordato per la professione forense. Il tema è chiarito nell’intervento della Cassazione n. 1132/76 appena ricordato: “il contratto di prestazione d’opera si conclude tra il medico e il cliente quando il primo, su richiesta del secondo, accetta di esercitare la propria attività professionale in relazione al caso prospettatogli. (…). L’una (attività diagnostica) e l’altra (attività terapeutica) esistono sempre, e compongono l’iter dell’attività professionale, costituendo perciò 42 43 Cassazione 29 marzo 1976, n. 1132, in Foro it., “Professioni intellettuali”, n. 59. Cassazione 4 agosto 1987, n. 6707, in Foro it., 1988, 1, 1629. 22 entrambe la complessa prestazione che il medico si obbliga ad eseguire per effetto del concluso contratto di opera professionale”44. Un ulteriore elemento di qualifica del rapporto contrattuale è costituito dal principio personale della prestazione, rispetto al quale è opportuno rammentare l’articolo 2232 del Codice civile (primo comma), che valevole per la figura del prestatore d’opera in generale, sottolinea più che in altri rapporti il legame fiduciario che si instaura tra il medico ed il suo cliente. Difatti, sebbene il professionista possa ricorrere al contributo di sostituti ed ausiliari nell’adempimento della propria attività, rimane responsabile dell’esecuzione della stessa, essendo riconosciuto al paziente il diritto a che il professionista presti personalmente la propria prestazione. Risulta, invece, più articolato descrivere il rapporto che intercorre tra il paziente ed il medico, qualora questi svolga la propria attività in una struttura sanitaria. Secondo parte della dottrina, non essendo ravvisabile un contratto, che invece esiste tra struttura e cliente, si parla di responsabilità extracontrattuale. La ragione di tale pensiero trova il suo fondamento nell’articolo 28 del Decreto del Presidente della Repubblica n. 761/79, che riconosce un diverso regime disciplinare che a titolo esemplificativo può essere così riassunto: il medico dipendente risponde personalmente al paziente del danno provocato nell’erogazione della propria prestazione solo in caso di dolo o colpa grave, per cui in tutte le altre fattispecie il danneggiato non può che agire contro la struttura. Di contro, la Corte di Cassazione sostiene che, oltre alla responsabilità diretta dell’ente gestore del servizio, possa essere individuata anche una responsabilità diretta del medico dipendente, qualora si riscontri una violazione di un diritto soggettivo, in virtù dell’articolo 28 della Costituzione. In particolare, “la responsabilità dell’ente pubblico gestore del servizio sanitario è diretta essendo riferibile all’ente, per il principio dell’immedesimazione organica, l’operato del medico suo dipendente, inserito nell’organizzazione del servizio, che con il suo operato, nell’esecuzione non diligente della prestazione sanitaria, ha causato danno al privato che ha richiesto e usufruito del servizio pubblico. E, per l’articolo 28 della Costituzione, accanto alla responsabilità dell’ente, esiste la responsabilità del medico dipendente. 44 Cassazione 29 marzo 1976, n. 1132, cit.. 23 Responsabilità che hanno entrambe radice nell’esecuzione non diligente della prestazione sanitaria da parte del medico dipendente, nell’ambito dell’organizzazione sanitaria. Pertanto, stante questa radice comune, la responsabilità del medico dipendente è, come quella dell’ente pubblico, di tipo professionale; e vanno applicate anche a essa, analogicamente, le norme che regolano la responsabilità in tema di prestazione professionale medica in esecuzione di un contratto d’opera professionale”45. Successivamente altri interventi giurisprudenziali si sono definitivamente indirizzati a questa sentenza46. Occorre, tuttavia, chiarire che parte della dottrina ha criticato l’orientamento della Corte, dal momento che lo stesso non descrive in modo analitico la natura delle norme violate dal medico, rinviando a leggi penali, civili ed amministrative. Ed è proprio nel merito che Viola offre il suo contributo: “in questo iter logico è ravvisabile una forzatura della norma di cui all’articolo 28 della Costituzione, la quale si limita a considerare diretta la responsabilità di funzionari e dipendenti pubblici per atti compiuti in violazione di diritti, ma nulla dice circa la natura o il titolo di tale responsabilità”47. Ma soprattutto, nell’affrontare la tematica, vale la pena analizzare il rilevante orientamento dottrinale e giurisprudenziale che ha delineato una responsabilità da “contatto sociale” proprio in quegli ambiti nei quali la natura della responsabilità medica era discussa (tra contratto e fatto illecito). In particolare, la Sentenza della Corte di Cassazione n. 589, del 22 gennaio 1999, ha superato le considerazioni che riconducevano la responsabilità del medico a quanto stabilito dall’articolo 2043 del Codice Civile, nelle fattispecie in cui il paziente stipulava il contratto solo con la struttura sanitaria e non con il medico48. Al modo di Castronovo l’intervento ha affermato che nel rapporto tra medico e paziente si configurerebbe sempre una responsabilità contrattuale che nasce da “un’obbligazione senza prestazione ai confini tra contratto e torto”49. 45 Cassazione 1 marzo 1988, n. 2144, in Giur. it., 1989, 1, 300. Per citarne alcune Cassazione 6 maggio 1971, n. 1282, in Foro it., 1971, 1, 1476; Cassazione 21 dicembre 1978, n. 6141, in Foro it., 1979, 1, 4; Cassazione 21 marzo 1981, n. 1656, in Foro it., 1981, 1, 1585; Cassazione 27 febbraio 1984, n. 1393, in Foro it., 1984, 1, 1280; Cassazione 1 marzo 1988, n. 2144, in Foro it., 1988, 1, 2296; Cassazione 27 maggio 1993, 5939, in Rep. Foro it., 1993, “Professioni intellettuali”, n. 114. 47 L. Viola, I danni da inadempimento, professionisti e consumatori, cit., p. 83. 48 Cassazione 22 gennaio 1999, n. 589, in Foro it., 1999, 1, 3332. 49 C. Castronovo, L’obbligazione senza prestazione ai confini tra contratto e torto, in La nuova responsabilità civile, Milano, 1997. 24 46 In altri termini, la Sentenza n. 589/99 ha disposto la prevalenza dell’aspetto contrattuale anche nel rapporto che si instaura tra paziente e medico dipendente dal servizio sanitario. Tutto ciò emerge dagli obblighi che gravano sul medico, anche nel caso in cui non sia configurabile un contratto, in virtù dalla professione che esercita. Difatti, si è ritenuto che “la pur confermata assenza di un contratto, e quindi di un obbligo di prestazione in capo al sanitario dipendente nei confronti del paziente, non è in grado di neutralizzare la professionalità, che qualifica ab origine l’opera di quest’ultimo e che si traduce in obblighi di comportamento nei confronti di chi su tale professione ha fatto affidamento, entrando in contatto con lui”. Ed ancora, “l’obbligazione del medico dipendente dal servizio sanitario nazionale per responsabilità professionale nei confronti del paziente ha natura contrattuale, ancorché non fondata sul contratto ma sul - contatto sociale -, caratterizzato dall’affidamento che il malato pone nella professionalità dell’esercente una professione protetta. Consegue che relativamente a tale responsabilità, come per quella dell’ente gestore del servizio sanitario, i regimi della ripartizione dell’onere della prova, del grado della colpa e della prescrizione sono quelli tipici delle obbligazioni da contratto d’opera intellettuale professionale”. Svolte, dunque, le considerazioni circa il regime contrattuale, per poter meglio affrontare l’argomento, è necessario introdurre i limiti alla responsabilità contrattuale previsti dall’articolo 2236 del Codice civile. L’incidenza del criterio di ripartizione dell’onere della prova si rileva nella sua pienezza, se applicato ai casi di difficile soluzione. Infatti, in tale fattispecie spetta al medico dar prova della complessità dell’intervento, mentre compete al paziente provare il dolo e la colpa grave. Si afferma così che, qualora un medico si trovi ad effettuare un intervento chirurgico di routine, la responsabilità individuata a suo carico è più ampia rispetto al caso in cui sia chiamato ad un intervento di particolare complessità. In proposito, va ricordata la Sentenza della Cassazione n. 2439, del 18 giugno 1975, che stabilisce “l’attenuazione della responsabilità del professionista (…) quando l’attività da svolgere in relazione al caso concreto implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà secondo l’espressione usata nell’articolo 2236 Codice civile, l’impegno intellettuale richiesto dal caso 25 concreto cioè quando sia superiore a quello professionale medio”. Quindi, il medico risponde “soltanto per colpa grave quando il caso concreto sia straordinario od eccezionale, sì da essere non adeguatamente studiato nella scienza medica e sperimentato nella pratica ovvero quando nella scienza medica siano proposti e dibattuti diversi, ed incompatibili tra loro, sistemi diagnostici, terapeutici e di tecnica chirurgica tra i quali il medico operi la sua scelta”50. Avuto riguardo al profilo dell’onere della prova, è noto, dunque, che il creditore debba provare, ai fini dell’accertamento della responsabilità, le modalità di esecuzione dell’attività, di conseguenza l’esistenza di un danno ingiusto, il nesso causale con il comportamento del medico e l’eventuale dolo o colpa, mentre il debitore debba dimostrare di aver adempiuto diligentemente o di non aver potuto adempiere per causa a lui non imputabile con l’ordinaria diligenza. Parimenti significativo il profilo penale, nel quale il medico risponde di reati omissivi e commissivi, nonché di delitti colposi. Finucci sostiene che il principio della responsabilità limitata alla colpa grave possa essere applicabile anche all’ambito penale. Sede nella quale, di contro, la giurisprudenza ha sviluppato un’ulteriore ipotesi di responsabilità del medico, dato l’indiscutibile rilevanza che in tale professione ha l’errore quando possa provocare una lesione alla persona51. Particolarmente significativo in materia di responsabilità medica risulta essere anche quanto pronunciato dalla Suprema Corte in tema di risarcimento del danno da perdita di chance. Si tratta di un orientamento ben rappresentato dalla Sentenza n. 4400, del 4 marzo 2004, che ha stabilito: “in tema di responsabilità del professionista esercente la professione sanitaria, la diagnosi errata o inadeguata integra di per sé un inadempimento della prestazione sanitaria e, in presenza di fattori di rischio legati alla gravità della patologia o alle precarie condizioni di salute del paziente, aggrava la possibilità che l’evento negativo si produca, producendo in capo al paziente la perdita delle chances di conseguire un risultato utile; tale perdita di chances configura un’autonoma voce di danno emergente, che va commisurato alla perdita della possibilità di conseguire un risultato positivo, e non alla mera perdita del risultato stesso, e la relativa domanda è domanda diversa rispetto a 50 Così Cassazione 18 giugno 1975, n. 2439, in Giur. it., 1976, 1, 953. G. Finucci, Riflessioni sulla responsabilità professionale del medico nella complessa situazione sanitaria moderna, in Nuovo Diritto, 1992. 26 51 quella di risarcimento del danno da mancato raggiungimento del risultato sperato”52. Di conseguenza, rifacendosi a tali argomentazioni, viene affermato che il medico, non potendo assicurare il risultato favorevole sperato dal paziente, sarà responsabile del danno che deriva da un suo comportamento non diligente, solo se ciò sia identificabile sulla base di un’analisi, condotta secondo criteri probabilistici, che vada ad accertare se, in assenza dell’omissione, l’esito sarebbe stato conseguito. L’argomento è stato trattato diffusamente dalla dottrina. Bitetto esprime opinioni sul tema sostenendo che “il danno da perdita di chance va liquidato in ragione di un criterio prognostico basato sulle concrete e ragionevoli probabilità che aveva il soggetto danneggiato di raggiungere un risultato utile, assumendo come parametro di valutazione proprio la chance, ovvero proprio il vantaggio economico complessivamente realizzabile dal danneggiato diminuito di un coefficiente di riduzione proporzionato al grado di possibilità di conseguirlo e deducibile dagli elementi della situazione giuridica dedotta oppure con ricorso al criterio equitativo ex articolo 1226 del Codice civile”53. Ne parla anche De Matteis che evidenzia come “in campo medico ogni qual volta si ha un peggioramento dello stato di salute del paziente è certa la non riuscita dell’intervento” ma “ciò che non è certo è l’apporto causale ovvero non è certo che l’errato intervento abbia determinato un peggioramento dello stato di salute del paziente”, quindi non appare possibile “parlare di chance come possibilità di conseguire un risultato utile bensì si deve guardare alla condotta tenuta dal medico proprio perché è il medico stesso che determina il danno all’origine con la sua condotta, pertanto in questi casi bisogna indagare sulla diligenza richiesta per il tipo d’intervento, ovvero si compie un’indagine volta ad accertare se il danno poteva essere evitato usando l’ordinaria diligenza oppure esistevano situazioni di rischio oggettive connesse con il tipo d’intervento eseguito tali da giustificare il rischio di un peggioramento, pertanto in questi termini la chance assume il significato di possibilità di evitare un danno e diviene uno strumento utile per valutare proprio la condotta del medico e conseguentemente il pregiudizio subito dal paziente ovvero se lo stesso poteva essere evitato proprio perché al paziente non si è preclusa la 52 Cassazione 4 marzo 2004, n. 4400, cit.. A. L. Bitetto, in Danno e resp., 2002, 4, p. 395, nota di commento a Cassazione 13 dicembre 2001, n. 15759. 27 53 possibilità di conseguire un risultato utile quanto la possibilità di evitare un danno”54. Ed inoltre da Violante è stato sottolineato come “la chance perduta costituisce in definitiva un escamotage, di cui si avvale l’interprete per più facilmente individuare e graduare il quantum risarcitorio da infliggere a chi col suo comportamento non si è uniformato ai principi della correttezza e della lealtà e che per questo deve essere sanzionato”55. Dopo aver affrontato nel particolare tutte le questioni inerenti le obbligazioni di mezzi, a questo punto risulta opportuno introdurre i primi orientamenti sulla ripartizione dell’onere della prova rispetto alle obbligazioni di risultato. La ricostruzione del sistema della responsabilità ci porta a formulare l’esempio del contratto di appalto, in virtù del quale l’appaltatore assume l’obbligazione di compiere in favore del committente un’opera o un servizio, a fronte di un corrispettivo in denaro. In particolare, l’appaltatore deve garantire l’esecuzione della prestazione da eventuali difformità e vizi ed è responsabile nei confronti del committente della rovina dell’opera, quando si tratti di edifici o altre cose immobili. In approfondimento Ballati riprende l’orientamento della stessa giurisprudenza che afferma che il contratto di appalto ipotizza che l’imprenditore abbia un’organizzazione di mezzi e persone destinati a realizzare un’opera complessa per conto del committente. Rilevante è il requisito del rischio, in particolare nel momento di determinazione del corrispettivo, infatti, il rischio si individua nel fatto che, nonostante l’applicazione delle tariffe, possa aversi da parte dell’imprenditore un impiego della propria organizzazione che non viene coperto dall’ammontare del corrispettivo. E dunque, qualora l’appaltatore risulti inadempiente, il committente può agire per inadempimento in virtù di una giurisprudenza consolidata56. Sul punto la Sentenza della Cassazione n. 4637, del 9 luglio 1983, ha precisato che “il committente il quale agisce nei confronti dell’appaltatore (…) per il risarcimento dei danni derivati da vizio o difformità dell’opera, non è tenuto a dimostrare la colpa 54 R. De Matteis, La responsabilità medica. Un sottosistema della responsabilità civile , Padova, 1995, p. 445. 55 U. Violante, in Danno e resp., 1999, 5, p. 536, nota di commento a Cassazione 25 settembre 1998, n. 9598. 56 F. Ballati, La responsabilità dell'appaltatore e del direttore dei lavori per vizi e difformità delle opere. Alla luce delle nuove disposizioni legislative in materia di appalti, Matelica, 2006. 28 dell’appaltatore medesimo, in quanto, vertendosi di responsabilità contrattuale, tale colpa è presunta fino a prova contraria”57. L’appaltatore, quindi, si libera dando prova di un’impossibilità oggettiva o di una causa non evitabile. Per sottrarsi alla responsabilità la Sentenza della Cassazione n. 3844, del 17 giugno 1980, stabilisce che l’impossibilità è “da intendere in modo assoluto e obiettivo e consiste nella sopravvenienza di una causa, non imputabile al debitore, che definisce definitivamente o temporaneamente l’adempimento”58. Ed ancora, la Sentenza della Cassazione n. 1192, del 18 febbraio del 1980, afferma che “il caso fortuito, manifestandosi come una forza esterna improvvisa e imprevedibile, è tale da neutralizzare e soverchiare la normale diligenza del debitore; esso può costituire perciò causa di esclusione di responsabilità, salvo che per particolari situazioni o specifiche pattuizioni, il debitore debba comunque sopportarne il rischio”59. Nel caso in cui il debitore non riesca a documentare che i fatti derivino da una causa a lui non imputabile con gli strumenti e le capacità proprie, sarà tenuto al risarcimento del danno subito dal committente. In una prospettiva di ancora maggiore attualità del quadro normativo e giurisprudenziale, va qui ricordata la Sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 13533, del 30 ottobre 2001, con la quale è stato affermato che il creditore deve solo portare a fondamento del proprio diritto la fonte ed il relativo termine di scadenza, mentre al debitore convenuto spetta l’onere di provare il fatto estintivo dell’altrui pretesa, ossia l’avvenuto adempimento. In particolare, la Corte sostiene che “in tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento, ed eguale criterio di riparto dell’onere della prova deve ritenersi 57 Cassazione 9 luglio 1983, n. 4637, Resp. civ., 1984, 651. Cassazione 17 giugno 1980, n. 3844, in Arch. civ., 1980, 905. 59 Cassazione 18 febbraio 1980, n. 1192, in Mass. Giust. civ., 1980, 2. 29 58 applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l’adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell’eccezione di inadempimento ex articolo 1460. Anche nel caso in cui sia dedotto non l’inadempimento dell’obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento, gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento”60. In conclusione, rispetto al tema della ripartizione dell’onere della prova si osserva, dunque, che la giurisprudenza propende per la soluzione di unificazione del regime gravante sul creditore, sia questi agisca per l’adempimento, la risoluzione o per il risarcimento del danno. La regola si spiega con una ratio di presunzione di persistenza il principio. La prospettiva protegge la parte non inadempiente della mancata o difettosa attuazione della prestazione, prevedendo la possibilità per i diversi soggetti di provare fatti e circostanze che concernono le rispettive sfere di azione. Pertanto si considera che non vi sia bisogno per il creditore di provare l’inadempimento ma solo la fonte, dal momento che si presuppone la continuità del diritto. Principio sulla base del quale, una volta provata dal creditore l’esistenza di un diritto destinato ad essere soddisfatto, incombe sul debitore l’onere di dimostrare l’esistenza del fatto estintivo. La Sentenza n. 13533/01 afferma, dunque, la perdita di consistenza della distinzione relativa al riparto dell’onere della prova dell’inadempimento. Col tempo anche parte della dottrina ed altri interventi della giurisprudenza hanno sostenuto la tesi della scarsa validità della divisione del rischio di inadempimento della prestazione tra la categoria delle obbligazioni di mezzo e le obbligazioni di risultato. A riguardo del tema è opportuno segnalare anche il dibattito circa il contenuto dei contratti di prestazione d’opera professionale piuttosto che di prestazione d’opera tecnica. Infatti, sebbene la giurisprudenza sia concorde nel sostenere il primo dia luogo ad obbligazioni di mezzi ed il secondo ad obbligazioni di risultato, attualmente alcuni interventi della Corte di Cassazione affermano sempre più che in specifiche fattispecie nell’obbligazione del professionista possa considerarsi un’obbligazione di risultato, come 60 Cassazione, sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533, in Foro it., 2002, 1, 769. 30 già rilevato nei primi orientamenti. È proprio in virtù di tali considerazioni che si ritiene interessante proseguire il presente lavoro. 31 Capitolo Terzo Obbligazioni di mezzo e obbligazioni di risultato: le ultime evoluzioni della giurisprudenza e della dottrina SOMMARIO: 1. I nuovi orientamenti della giurisprudenza e della dottrina in tema di responsabilità – 2. Obbligazioni di mezzo e obbligazioni di risultato: superamento o sovrapposizione? 1. I nuovi orientamenti della giurisprudenza e della dottrina in tema di responsabilità Le conclusioni raggiunte in materia di responsabilità debitoria non possono non tener conto dei nuovi indirizzi giurisprudenziali. Se, infatti, quanto delineato nel corso del lavoro rappresenta un orientamento consolidato della dottrina e della giurisprudenza, bisogna altresì tener presente alcune sentenze della Corte di Cassazione che hanno proposto un mutamento di prospettiva da cui sembrerebbe potersi trarre il venir meno di una solida distinzione tra le obbligazioni di risultato e le obbligazioni di mezzi. Una chiara presa di posizione in questo senso si è avuta in alcune sentenze negli ultimi anni. Si tratta, invero, di interventi che sono giunti a riconoscere, in determinate circostanze, l’obbligazione avente ad oggetto l’esercizio di un’attività professionale, generalmente configurata come obbligazione di mezzi, come obbligazione di risultato. Come primo caso può richiamarsi la Sentenza n. 3046, del 8 aprile 1997, che introduce una nuova distinzione tra chirurgia plastica estetica e chirurgia plastica “ricostituiva” dipendente, per dir cosi, “da fatto proprio”61. Con la pronuncia in questione, infatti, la Corte di Cassazione ha affermato che “è evidente 61 Cassazione 8 aprile 1997, n. 3046, in Corr. giur., 1995, 5, 546. 32 la ben diversa situazione che si presenta nel caso di chi intende, attraverso una operazione chirurgica sul proprio corpo, migliorare le proprie apparenze estetiche, da quella di chi intende porre rimedio ad uno stato, da esso stesso voluto e provocato, ma da esso stesso successivamente ritenuto ripugnante, ponendo quindi rimedio ad una situazione considerata insopportabile”. Secondo la Corte, infatti, se nel primo caso l’obbligo d’informazione da parte del medico investe (…) non soltanto le cause potenziali di invalidità o di inefficacia delle prestazioni professionali, ma anche le ragioni che queste rendono eventualmente inutili in rapporto al risultato sperato dal cliente, o addirittura dannosi, nel secondo caso, caratterizzato dall’intento di rimuovere una situazione dallo stesso paziente considerata insopportabile, non vi è dubbio che il predetto obbligo d’informazione circa i possibili esiti dell’operazione venga ad essere affievolito, essendo limitato a quelli eventuali esiti che, contrariamente agli intenti del paziente, potrebbero rendere vana l’operazione non comportando in sostanza un effettivo miglioramento rispetto alla situazione preesistente all’operazione”. In tal modo il giudice di legittimità si è consapevolmente discostato dalla giurisprudenza sul consenso informato, riconoscendo quasi, nel comportamento del paziente, autore delle ingiurie fisiche da rimuovere, una corresponsabilità (costruita sul modello del concorso del debitore nella correzione del danno), in grado di incidere sul piano risarcitorio, degradando sin quasi ad annullarla la distinzione fra obbligazioni di mezzo e di risultato. Il tema della ripartizione tra le due categorie è emerso anche in un successivo intervento della Corte di Cassazione e cioè nella Sentenza n. 16023, del 14 novembre 2002, che ha qualificato quella dell’avvocato come obbligazione di risultato relativamente al compimento di atti processuali62. In tale caso il professionista è inadempiente non solo nella circostanza di inosservanza della diligenza nel comportamento posto in essere, ma in ogni ipotesi di mancato raggiungimento del compito prestabilito, come, ad esempio, l’omesso adempimento di notifiche in termini utili. Nella medesima prospettiva la Corte di Cassazione, Sezioni Unite, nella Sentenza n. 15781, del 28 luglio 2005, ha ritenuto l’obbligazione del progettista un’obbligazione di 62 Cassazione 14 novembre 2002, n. 16023, in Danno e resp., 2003, 3, 256. 33 risultato, quando al professionista è conferito l’incarico di analizzare il sottosuolo, il suolo, i confini, le dimensioni e le altre caratteristiche dell’area da destinare alla costruzione63. In proposito, dopo aver ricordato che “nelle obbligazioni di mezzi la prestazione dovuta prescinde da un particolare esito positivo dell’attività del debitore, che adempie esattamente ove svolga l’attività richiesta nel modo dovuto” e nelle obbligazioni di risultato “ciò che importa è il conseguimento del risultato stesso”, ossia “è il risultato cui mira il creditore, e non il comportamento, ad essere direttamente in obligatione”, la Corte ha stabilito che “tale impostazione non è immune da profili problematici, specialmente se applicata proprio alle ipotesi di prestazione d’opera intellettuale, in considerazione della struttura stessa del rapporto obbligatorio e tenendo conto, altresì, che un risultato è dovuto in tutte le obbligazioni”. Difatti, con riferimento all’obbligazione dell’appaltatore, la Cassazione ha sottolineato la compresenza “sia del comportamento del debitore che del risultato, anche se in proporzione variabile”. Ed inoltre, si è sottolineato come la ripartizione tra obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi non abbia alcuna rilevanza sul regime di responsabilità del prestatore d’opera intellettuale, né sul meccanismo di distribuzione dell’onere della prova. La Sentenza in questione, ha stabilito che il regime di responsabilità del professionista è sempre il medesimo, per cui, le conclusioni non cambiano sia che si guardi all’inadempimento nel caso di colpa (articolo 1176, comma 2, c.c.), così come di dolo o colpa grave (articolo 2236 C.c.). In particolare, la Corte ha affermato che il contenuto dell’obbligo del professionista si trae dalle “comuni regole di correttezza e di diligenza”, sennonché “per quanto attiene alla diligenza, l’articolo 1176, comma 2, del Codice civile, ne qualifica il contenuto allorché si tratti di valutare il comportamento del professionista, con la conseguenza che al rapporto scaturente dal contratto di prestazione d’opera intellettuale debbono essere applicate, in linea generale e di tendenza le norme che determinano le conseguenze dell’inadempimento e che consentono di operare la definizione di inadempimento nel quadro dell’attuazione del rapporto”. 63 Cassazione 28 luglio 2005, n. 15781, in Obbl. e Contr., 2006, 8, 712. 34 In conclusione, ha osservato la Corte “il regime di responsabilità del professionista è sempre il medesimo” e la ripartizione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato “non ha (…) alcuna incidenza” sullo stesso. La ripartizione fra le due specie di obbligazioni è stata esaminata anche dal Tribunale di Roma che, nella Sentenza del 19 gennaio 2006, rappresenta la prestazione contrattuale di una società di revisione come un’obbligazione di mezzi e non di risultato64. Si dice, infatti, che al termine “relazione di certificazione” non può essere attribuito “un significato assimilabile a quello di un attestato notarile, nel senso che la relazione di certificazione, lungi dal costituire un giudizio di legalità e veridicità di bilancio, rappresenta, piuttosto, un giudizio professionale sull’attendibilità del documento contabile, intesa come capacità dello stesso di rappresentare correttamente la situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società sottoposta a revisione”. La società di revisione deve, quindi, “accertare che il bilancio rifletta correttamente gli effetti delle operazioni compiute dalla società oggetto di revisione e che degli stessi venga data con chiarezza notizia secondo quanto previsto dalla normativa in tema di redazione del bilancio”. In quest’ordine di idee, dunque, i giudici proseguono affermando che il lavoro dovuto dalla società di revisione si configura “come obbligazioni di comportamento o di mezzi e non di risultato, con tutte le evidenti conseguenze collegate all’onere della prova”. Pertanto, spetta al soggetto che lamenta di aver subito un danno fornire sia la prova della mancanza di diligenza della società di revisione nell’esecuzione della prestazione, sia la prova del nesso causale tra il preteso inadempimento e i danni subiti. Le messa in discussione della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato trova una puntuale corrispondenza in un’ultima più recente pronuncia della Suprema Corte e precisamente nella Sentenza della Cassazione n. 8826, del 13 aprile 2007. Si tratta di una decisione particolarmente innovatrice sia perché afferma nuove disposizioni in tema di responsabilità dell’ente ospedaliero, sia perché dichiara l’irrilevanza della distinzione tra le obbligazioni di risultato e le obbligazioni di mezzi in ambito medico-chirurgico65. 64 65 App. Roma, 19 gennaio 2006, in Giur. it., 2006, 12, 2331. Cassazione 13 aprile 2007, n. 8826, in Resp. civ. prev., 2007, 1824. 35 Più in dettaglio, la Corte di Cassazione ha stabilito per l’ente ospedaliero una responsabilità di natura contrattuale, sia rispetto a propri eventi d’inadempimento sia rispetto alla condotta dei medici dipendenti. In proposito deve essere evidenziato che quando un paziente si reca in ospedale conclude un contratto atipico di prestazione d’opera di spedalità e quindi l’ente ospedaliero risponde in via contrattuale. Nella specie, l’ente ospedaliero è stato ritenuto responsabile verso il paziente per i danni patiti in conseguenza di un intervento chirurgico eseguito dal medico presso la struttura. La massima è così formulata: “l’accettazione del paziente in una struttura (pubblica o privata) deputata a fornire assistenza sanitaria ospedaliera, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto di prestazione d’opera atipico di spedalità, essendo essa tenuta ad una prestazione complessa che non si esaurisce nella prestazione delle cure mediche e di quelle chirurgiche (generali e specialistiche) (…), ma si estende ad una serie di altre prestazioni, quali la messa a disposizione di personale medico ausiliario e di personale paramedico, di medicinali e di tutte le attrezzature tecniche necessarie, nonché di quelle lato sensu alberghiere. Ne consegue, a tale stregua, che la responsabilità dell’ente ospedaliero ha natura contrattuale sia in relazione a propri fatti d’inadempimento (ad esempio, in ragione della carente o inefficiente organizzazione relativa alle attrezzature o alla messa a disposizione di medicinali o del personale medico ausiliario e paramedico, o alle prestazioni di carattere alberghiero) sia per quanto concerne il comportamento in particolare dei medici dipendenti, trovando nel caso applicazione la regola posta dall’articolo 1228 del Codice civile, secondo cui il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si avvale dell’opera di terzi risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro ancorché non siano alle sue dipendenze. Responsabilità per fatto dell’ausiliario o preposto che in realtà prescinde dalla sussistenza di un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato del medico con la struttura (pubblica o privata) sanitaria, essendo irrilevante la natura del rapporto tra i medesimi sussistente ai fini considerati, laddove fondamentale rilevanza assume viceversa la circostanza che dell’opera del terzo il debitore originario comunque si avvalga nell’attuazione del rapporto obbligatorio”. 36 Ma soprattutto, la Sentenza n. 8826/07 affronta il tema della ripartizione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato nell’attività medico-chirurgica, esprimendo un significativo allontanamento dall’orientamento tradizionale. Secondo la Corte, infatti “le obbligazioni professionali sono dunque caratterizzate dalla prestazione di attività particolarmente qualificata da parte di un soggetto dotato di specifica abilità tecnica, in cui il paziente fa affidamento nel decidere di sottoporsi all’intervento chirurgico, al fine del raggiungimento del risultato perseguito o sperato. Affidamento tanto più accentuato (…) quanto maggiore è la specializzazione del professionista, e la preparazione organizzativa e tecnica della struttura sanitaria presso la quale l’attività medica viene dal primo espletata. Sotto altro profilo, va posto in rilievo che una limitazione della misura dello sforzo diligente dovuto nell’adempimento dell’obbligazione, e della conseguente responsabilità per il caso di relativa mancanza o qualificazione inesattezza, non può farsi invero discendere dalla dell’ obbligazione (…). Il professionista, ed il medico specialista in particolare, è infatti tenuto non già ad una prestazione professionale purchessia bensì è impegnato ad una condotta specifica particolarmente qualificata, in ragione del proprio grado di abilità tecnico-scientifica nel settore di competenza, in vista del conseguimento di un determinato obiettivo dovuto, avuto riguardo al criterio di normalità secondo il più sopra esposto giudizio relazionale. E’ infatti proprio la prestazione professionale particolarmente qualificata dal grado di conoscenza ed abilità tecnica, e la particolare organizzazione di uomini e mezzi della struttura sanitaria specializzata in cui la stessa viene espletata, ad ingenerare nel paziente l’affidamento idoneo ad indurlo a sottoporsi ad un particolare tipo di intervento sulla propria persona, che lo espone in ogni caso ad un più o meno alto grado di rischio per la propria incolumità, quando non addirittura sopravvivenza. Per il professionista e conseguentemente per la struttura sanitaria non vale dunque invocare, al fine di farne conseguire la propria irresponsabilità, la distinzione tra obbligazione di mezzi e obbligazione di risultato, sostenendo che la propria attività è da ricomprendersi tra le prime, sì da non rispondere in caso di risultato non raggiunto”. Proprio sul tema, con particolare riguardo alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato, è stato evidenziato che “siffatta distinzione costituisce, infatti, come ormai da qualche tempo dalla migliore dottrina non si manca di porre in rilievo, il 37 frutto di una risalente elaborazione dogmatica accolta dalla tradizionale interpretazione e tralatiziamente tramandatasi, priva invero di riscontro normativo e di dubbio fondamento (…)”66. L’importanza dell’orientamento affermato dalla Cassazione è da sottolineare rispetto al tema dell’onere della prova nelle cause di responsabilità professionale del medico. Si ritiene, infatti, che la distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione avente in sé la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà non possa servire come criterio di distribuzione dell’onere della prova, ma possa essere utilizzato solo per valutare il grado di diligenza ed il corrispondente grado di colpa imputabile al sanitario. Del resto, come D’Amico osserva “le regole sull’onere della prova non si possono toccare senza modificare la fattispecie sostanziale della responsabilità e quindi la natura dell’obbligazione” poiché “tali regole, seppure appartenenti al diritto processuale, sono però strettamente legate alle norme del diritto materiale”67. Ma qualunque analisi dei nuovi indirizzi giurisprudenziali civili in materia di responsabilità debitoria non può non tener conto di quanto espresso dalle Sezioni Unite della Cassazione con le dieci sentenze (dalla n. 576 alla n. 585), depositate l’11 gennaio 2008, che hanno disciplinato le più importanti questioni di diritto relative alle cause di risarcimento del danno in materia di sangue infetto. A questo proposito è utile riportare le osservazioni contenute nella Sentenza n. 577/08, che in tema di emotrasfusioni ha così affermato: “risulta a tale stregua dalla Corte di merito disatteso il principio in base al quale quando l’intervento chirurgico da cui è derivato un danno non è di difficile esecuzione, l’aggravamento della situazione patologica del paziente o l’insorgenza di nuove patologie eziologicamente ad esso ricollegabili comportano, a norma dell’articolo 1218 del Codice civile, una presunzione semplice in ordine all’inadeguata o negligente prestazione, spettando all’obbligato - sia esso il sanitario o la struttura - fornire la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo idoneo e che sia invece intervenuto un evento imprevisto e imprevedibile. (…). 66 M. Gorgoni, in Resp. civ. prev., cit., nota di commento a Cassazione 13 aprile 2007, n. 8826. G. D’Amico, Responsabilità per inadempimento e distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, in Il diritto delle obbligazioni e dei contratti: verso una riforma?, Atti del Convegno svoltosi a Treviso 23-24-25 marzo 2006 per il cinquantenario della Rivista di diritto civile, 2006, p. 141. 38 67 Applicando tale principio all’onere della prova nelle cause di responsabilità professionale del medico si è affermato che il paziente che agisce in giudizio deve, anche quando deduce l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria, provare il contratto e allegare l’inadempimento del sanitario, restando a carico del debitore (medicostruttura sanitaria) l’onere di dimostrare che la prestazione è stata eseguita in modo diligente, e che il mancato o inesatto adempimento è dovuto a causa a sé non imputabile, in quanto determinato da impedimento non prevedibile né prevenibile con la diligenza nel caso dovuta. Pertanto, in base alla regola di cui all’articolo 1218 del Codice civile il paziente-creditore ha il mero onere di allegare il contratto ed il relativo inadempimento o inesatto adempimento, non essendo tenuto a provare la colpa del medico e/o della struttura sanitaria e la relativa gravità”. In sostanza, con queste decisioni è stata ulteriormente confermata la linea di tendenza precedente, e dunque “una sorta di metamorfosi dell’obbligazione di mezzi in quella di risultato, attraverso l’individuazione di doveri di informazione e di avviso definiti accessori ma integrativi rispetto all’obbligo primario della prestazione, ed ancorati a principi di buona fede, quali obblighi di protezione, indispensabili per il corretto adempimento della prestazione professionale in senso proprio”68. Le conseguenze sono apprezzabili sul piano della distribuzione dell’onere della prova giacché l’attore-paziente può limitarsi a provare il contratto e l’aggravamento della patologia o l’insorgenza di un’affezione ed allegare l’inadempimento del debitore (astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato), mentre competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato o che, pur esistendo, esso non è eziologicamente rilevante69. Sulla scorta di queste decisioni, la dottrina ha affermato che “le Sezioni Unite della 68 Cassazione, sez. un., 11 gennaio 2008, n. 577, in Resp. civ. prev., 2008, 849. Al riguardo, infatti, la Sentenza n. 577/08 ha affermato: “avendo l’attore provato il contratto relativo alla prestazione sanitaria (ed il punto non è in contestazione) ed il danno assunto (epatite), allegando che i convenuti erano inadempienti avendolo sottoposto ad emotrasfusione con sangue infetto, competeva ai convenuti fornire la prova che tale inadempimento non vi era stato, poiché non era stata effettuata una trasfusione con sangue infetto, oppure che, pur esistendo l’inadempimento, esso non era eziologicamente rilevante nell’azione risarcitoria proposta, per una qualunque ragione, tra cui quella addotta dell’affezione patologica già in atto al momento del ricovero”. 69 39 Cassazione ribadiscono anche con riguardo al medico l’unitarietà della responsabilità del debitore che, disciplinata in generale dall’articolo 1218 del Codice civile, implica necessariamente il riferimento a un risultato dovuto da determinare in modo appropriato in funzione degli affidamenti creati ed eventualmente del contratto. Quando il medico presta la propria opera in una struttura sanitaria, ipotesi in cui peraltro solitamente manca il contratto col paziente, occorre distinguere la responsabilità professionale del medico da quella della struttura la quale risponde in funzione della propria organizzazione e alla quale perciò potrebbero essere accollati rischi estranei all’oggetto vero e proprio dell’obbligazione del medico. La considerazione del risultato dovuto, che tuttavia non coincide necessariamente con la guarigione del malato, mette in evidenza il profilo obiettivo dell’oggetto della obbligazione facendo distinguere la responsabilità che ne deriva, fondata sull’inadempimento, dalla responsabilità extracontrattuale fondata sulla colpa. Tale distinzione si riflette nelle regole probatorie: poiché il medico è tenuto all’adempimento non si libera semplicemente mettendo in dubbio la propria colpa come se gli fosse richiesto un mero dovere di diligenza (obbligazione di mezzi) in funzione di un generico neminem laedere” 70. Ciò comporta, quindi, il richiamo all’orientamento illustrato in precedenza, che prevede un regime di responsabilità uniforme, secondo il quale viene riconosciuto il favor verso il paziente, che risulta così esonerato dalla relativa prova. In sintesi, dalla casistica giurisprudenziale emergono spunti significativi circa il superamento della distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato giacché l’unitarietà del criterio di ripartizione dell’onere della prova travolge la dicotomia. 2. Obbligazioni di mezzo e obbligazioni di risultato: superamento o sovrapposizione? A fronte dei nuovi orientamenti della giurisprudenza e della dottrina in tema di responsabilità, che sembrerebbero segnare il superamento della distinzione tra obbligazioni 70 A. Nicolussi, Sezioni sempre più unite contro la distinzione fra obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi. La responsabilità del medico, in Danno e resp., 2008, p. 873. 40 di mezzi e obbligazioni di risultato, vi sono da segnalare alcuni interventi della dottrina e della giurisprudenza che hanno rinnovato l’attenzione sul tema. Innanzitutto, a ben vedere, la collocazione di tali categorie di obblighi è penetrata nel diritto privato internazionale. Nel 2004 l’International Institute for the Unification of Private Law ha accolto la distinzione fra obbligazioni di risultato ed obbligazioni di mezzi tra i principi dei contratti commerciali internazionali71. In linea con l’opinione tradizionale, la distinzione è basata sull’oggetto dell’obbligazione. Infatti l’articolo 5.1.4, 1 comma, stabilisce che “quando l’obbligazione di una parte comporti il dovere di raggiungere uno specifico risultato, quella parte è tenuta a raggiungere quel risultato72” dunque, nelle obbligazioni di risultato il creditore ha diritto di conseguire dalla prestazione posta in essere dal debitore l’utilità attesa. A sua volta, l’articolo 5.1.4, 2 comma, statuisce che “quando l’obbligazione di una parte comporti il dovere di adoperarsi con diligenza nell’esecuzione della prestazione, quella parte è tenuta a compiere gli sforzi che una persona ragionevole della stessa qualità compirebbe nelle medesime circostanze”, la soddisfazione del creditore sta nel contenuto secondario dell’obbligazione, ossia il contegno del debitore, e dunque la soddisfazione del creditore sta nel contenuto secondario dell’obbligazione, ossia il contegno del debitore73. Occorre osservare come l’Istituto puntualizzi che nel determinare quando l’obbligazione di una parte sia di mezzi o di risultato, bisogna avere riguardo al modo in cui essa è espressa nel contratto; al prezzo ed alle altre clausole presenti nel contratto; al grado di 71 G. C. Chiaromonte, L’obbligazione del professionista intellettuale, Padova, 2008, p. 75, ha affermato a questo proposito che l’accoglimento della divisione nei Principi Unidroit è “sintomo dell’importanza pratica e della rilevanza transfrontaliera della partizione tra obbligazioni di mezzi e di risultato e, di conseguenza, come fonte di legittimazione di proposte interpretative miranti ad attribuire valore dogmatico alla stessa”. 72 Così, prendendo ad esempio quanto indicato dallo stesso Istituto, si può dire che l’obbligazione conclusa tra un venditore (che promette di raggiungere la quota di 15.000 articoli entro l’anno) ed un cliente, consente a quest’ultimo di agire per la propria soddisfazione se il rivenditore allo scadere del termine ha concluso solo 13.000 compravendite. 73 In tale fattispecie, riprendendo lo stesso esempio il venditore si obbligherà verso il cliente a “fare del suo meglio per espandere le vendite del prodotto”, ovvero a prendere tutte le misure che una persona ragionevole adotterebbe, trovandosi nelle stesse circostanze. Pertanto il cliente potrà agire solo se il debitore a fine anno non abbia fatto tutto ciò che ci si può attendere per favorire le vendite (es. servizi ai cliente ed annunci pubblicitari). 41 rischio che di norma è connesso al raggiungimento del risultato atteso ed alla capacità della controparte di influire sull’adempimento dell’obbligazione. Sembra, dunque, affermato il principio che alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato non possa essere riconosciuta una definizione univoca e piuttosto in ogni fattispecie si debba considerare il contesto in cui il debitore è chiamato ad operare, come se ogni obbligazione fosse, nello stesso tempo, di mezzi e di risultato. Non si può affermare, infatti, che esistano categorie di obbligazioni in cui non si tenga conto del comportamento (inteso come mezzi predisposti dal debitore per l’esecuzione della prestazione), così come del risultato (interpretato come momento finale della prestazione). Da detta affermazione si evince che un aspetto certamente molto delicato in tema è quello concernente l’adattamento flessibile della distinzione. Difatti, le categorie delle obbligazioni di mezzi e delle obbligazioni di risultato appaiono attuali purché adattate alla molteplicità delle fattispecie. In particolare, una volta riconosciuti i principi della partizione in astratto, occorre rilevare caso per caso quale sia in concreto l’obbligazione assunta dal debitore. In buona sostanza, è il contenuto della prestazione definita mediante stipula di un contratto a precisare l’attività nonché la responsabilità del soggetto che si impegni a fornire una determinata prestazione. Questa impostazione, però, non è scevra da critiche. Essa ferma l’attenzione al profilo contrattuale ed alla libertà negoziale nella direzione di una meno efficace tutela del cliente. In definitiva, appare dimenticato quel significato descrittivo e ricostruttivo della ripartizione in esame rispetto all’individuazione dell’oggetto della prestazione, secondo cui valutare l’adempimento del debitore. Occorre, peraltro, osservare che questo punto è avvertito con maggiore intensità in quei settori professionali in cui il creditore appare la “parte debole” del rapporto contrattuale. Come detto in apertura, anche la giurisprudenza a sua volta ha riproposto la distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato. Infatti, nella Sentenza del 12 giugno 2009 il Tribunale di Salerno ha inteso “le obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale” come “obbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista assumendo l’incarico - si impegna alla prestazione della propria opera per raggiungere il 42 risultato desiderato, ma non al suo conseguimento. Ne discende che l’inadempimento del professionista alla propria obbligazione non può essere desunto ipso facto dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal paziente ma deve essere valutato alla stregua dei doveri inerenti lo svolgimento dell’attività professionale e, in particolare, del dovere di diligenza”74. Fatta, dunque, anche questa doverosa precisazione circa gli interventi che hanno ripresentato la tradizionale dicotomia, la conclusione appare chiara: l’insieme delle regole sulle quali si basava la responsabilità civile del professionista-debitore si è orientato verso una più efficace tutela del contraente “debole”. Secondo questa chiave di lettura, infatti, dottrina e giurisprudenza sono pacificamente concordi nel rilevare nuove regole ed indirizzi in grado di determinare un regime di tutela preferenziale degli interessi del contraente “debole”. L’esame delle sentenze e dei contributi della dottrina più rappresentativi porta a sostenere che se l’introduzione della distinzione poteva rappresentare uno strumento di difesa processuale del prestatore d’opera intellettuale (in particolare, posta la natura rischiosa dell’attività medica), attualmente riproduce l’intenzione di voler estendere le fattispecie in cui l’inadempimento possa essere considerato imputabile al professionista con evidente beneficio per la categoria dei consumatori. I riflessi della ripartizione tra le obbligazioni di mezzi e le obbligazioni di risultato sul regime di responsabilità, sulla definizione in termini probabilistici del nesso di causalità, sulla ripartizione dell’onere della prova permettono di individuare momenti di revisione delle due categorie. Inoltre, va detto che la ripartizione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato risente fortemente dell’evoluzione delle conoscenze scientifiche, che stanno determinando la definizione di nuovi settori e situazioni professionali, come già considerato nel corso del presente lavoro, nonché di prestazioni complesse sulla base delle quali approntare una serie di strumenti a tutela del contraente “debole”. 74 Sentenza del Tribunale di Salerno del 12 giugno 2009, consultabile sul sito http://www.economia.unitus.it/. 43 BIBLIOGRFIA Agnino F., Responsabilità della struttura ospedaliera: si rafforza la tutela per i malati, in Danno e responsabilità, 2005, 537. Baldassarri A. e Baldassarri S., La responsabilità civile del professionista, in Trattati a cura di Paolo Cendon, Giuffrè, Milano, 2006. Ballati F., La responsabilità dell’appaltatore e del direttore dei lavori per vizi e difformità delle opere. 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