Introduzione dell`autore Questo libro conta una

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Introduzione dell`autore Questo libro conta una
Introduzione dell’autore
Questo libro conta una storia di mafia. È una
storia come tante altre, soltanto che la prospettiva
è quella d’una ragazza, orfana di un padre troppo
onesto per sopravvivere alla prepotenza mafiosa.
È anche una storia d’amore vero, di passione, di
grandi abbuffate, di inaspettate conversioni e di
umorismo smaccatamente siciliano. A rileggerla
mi è sembrata un’altra opera dei pupi, anche se i
personaggi sono vestiti di t-shirt alla moda e usano
con implacabile impenitenza microscopici cellulari d’ultima generazione. Buon divertimento.
N.B.: Neanche a dirlo... nomi, fatti e circostanze sono completamente frutto dell’immaginazione dell’autore e... di qualche personaggio che
scoprirete tra poco...
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Caro Diario,
dieci anni, tremilaseicentocinquantadue passi... mi hanno portato a Te. Sono così finita in
questo luogo senza tempo né spazio. Mi chiedo se
abbandonarmi a questo monologo solitario sia la
celebrazione rassegnata di una sconfitta o piuttosto il coraggio di pretendere una vittoria, seppur
fugace e amara.
Ho sempre pensato che tutte le ricorrenze nascondano in sé una tristezza sottile, quasi impercettibile. Natale, Capodanno, i compleanni, sono
rappresentazioni poco eleganti di un copione
senza autore né regista. Tutti quanti diventiamo
così attori improvvisati di un teatro, o di una mezza parodia circense. Tutti quanti burattini senza
burattinaio. Tutti quanti personaggi d’una fiaba
monca, senza scenografia e senza storia.
Il decimo anniversario della morte di mio padre. L’ennesimo canone di sofferenza, vanità e
tanta falsità. Il dolore solo mio e di mia madre.
Tutto il resto è la grande e costosa sceneggiatura
di una fantasmagorica pagliacciata. Mia mamma
piegata, consumata dalla pena di un dolore stra15
Antonino Vaccaro
ziante. Sembra uno scheletro nero di sola fatica e
smarrimento. Non riesco ad aiutarla, non saprei
neppure come. Mi sento infinitamente sola, paralizzata nel nulla.
Il Presidente della Regione, plumbeo in volto,
si avvicina per la partecipazione funerea di rito.
Il suo viso grasso e viscido mi ricorda i maiali nervosi nel periodo del calore delle femmine.
Devo parlargli, ringraziarlo, baciarlo. Ben due
volte, lentamente. Uno schifo immondo. E con lui
si avvicina una grottesca accolita di funzionari
regionali e statali. Una successione nauseabonda. Ogni anno sono tutti orrendamente più grassi,
ancora più sudati e scomposti. Come se il tempo
li riporti con ferma impenitenza al loro stato di
natura. Bestie selvagge. Peggio dei mafiosi veri,
quelli che sciolgono i bambini nell’acido, quelli
che ammazzano gli onesti poveracci con la forza
nuda delle mani.
Ho dolore alla testa. Tutt’intorno un insieme
indistinto di voci senza senso, senza vergogna,
senza dignità. Vorrei strillare, obliare questa infame tortura. Per una volta, almeno una, vorrei
urlar a tutti di andar via. Gridare semplicemente
la verità: “Brutti porci bastardi, l’avete ammazzato voi mio padre. Figli di puttana, i sicari li
avete pagati e rassicurati con i vostri fottuti affari, e adesso venite qui a insultare la memoria di
mio padre. Come se tutti non sapessero che voi
siete i veri mandanti di quel brutale assassinio.
Bastardi, porci fottuti.”
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L’inversione delle cose
E invece non posso gridare. Non posso nemmeno bisbigliare quello che penso veramente.
Non fa parte del copione. Sarebbe un diversivo
appena sgradevole, rapidamente assorbito nella
laconica immobilità della mandria dei maiali.
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Andiamo a casa. C’è sempre un gran silenzio
quando torniamo dalla messa per papà. Mamma
guida la macchina come un automa, io guardo
immobile innanzi il parabrezza. Non muovo nemmeno gli occhi. Lascio che tutto quanto mi passi
avanti e poi scivoli via beffardamente. È una situazione surreale. Come se il traffico ci tenga a
debita distanza, noi, vittime della mafia. Vittime
di un crimine non nostro, di una malattia che ha
appestato tutti tranne noi. E la malattia è diventata normalità. E la normalità è diventata malattia.
Così, noi siamo diverse e tutto il resto è normalità. Il traffico per l’appunto, la folla dei maiali,
e soprattutto il capo dei capi, il re dei cannoli, il
Presidente della Regione.
Mamma piange sempre quando rientriamo a
casa. Nascosta nel salotto semibuio, vestita ancora con gli abiti della cerimonia, rimane immobile
e rigida su un divano. È l’unica concessione volontaria accordata a un dolore oramai familiare.
Mi ha sempre impressionato quella sua capacità
di nascondere la sofferenza. È riuscita a creare,
nel tempo, una distanza tra sé e gli altri e in questo spazio ha posto tutta la sofferenza, la rabbia,
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L’inversione delle cose
il silenzio e la solitudine delle vittime. E questo
spazio è diventato non solo un luogo, ma anche
uno stendardo, un’immagine dura e tagliente che
le ha permesso di rispondere alle ingerenze della
vita e alla stupidità della gente comune.
Non mi resta che andare in camera mia. Penso, col cuore che vorrebbe esplodere e lo stomaco
ancora sconcertato dalla nausea, che per la decima volta sono sopravvissuta a questa strampalata processione. Forse, però, mi ripeto ancora una
volta, sarebbe stato meglio morire con papà. Sarebbe stato più dignitoso e onesto. Sarebbe stata
la giusta declinazione di una morte infame. Se
fossi morta anch’io e mia madre insieme, ci sarebbe stato meno dolore a sgorgare dalle pendici delle Madonie. Appena i nonni e pochi amici
sinceri si sarebbero curati della nostra scomparsa.
Ma domani è un altro giorno, me lo disse nonna
Stefania dieci anni fa. Abbiamo il dovere di alzarci e ricominciare daccapo. Anche senza papà,
anche se vorremmo rimanere a letto e piangere
senza tregua, anche se sappiamo bene che tutti
gli altri sono dei porci maledetti. Non importa,
bisogna continuare.
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