L`animale normativo. Riflessioni sulla nostra differenza

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L`animale normativo. Riflessioni sulla nostra differenza
L’animale normativo. Riflessioni sulla nostra differenza
ROBERTA DE MONTICELLI
Premessa: moralità e natura
Ne La questione morale ho sostenuto che la profondità di questa questione, di cui pure parliamo
tutti i giorni, ci sfugge ancora quasi completamente. Non si tratta di qualche accidente che riguarda
i comportamenti dei politici, e nemmeno soltanto di una degenerazione complessiva, che pure
sembra in atto, della funzione di rappresentanza dell’interesse pubblico da parte della politica. La
questione ha a che fare con i nostri mores, con la nostra vita quotidiana, e con la qualità della nostra
esperienza assiologica e della nostra maturità personale. Ho sostenuto che c’è una storia profonda
della questione morale che né le teorie politiche né quelle etiche della modernità hanno saputo
decifrare, e che ci conduce alla situazione in cui ci troviamo oggi – in particolare qui, in Italia. E ho
argomentato che una ragione per la quale la storia profonda della questione morale non è stata
veramente compresa è che siamo abituati a pensare la sfera pratica della nostra vita – la sfera delle
decisioni, delle scelte, delle azioni, dei comportamenti – per comparti separati: etica, diritto, politica,
religione e le rispettive filosofie. Mentre la questione morale li attraversa tutti, proprio perché si
genera dalle dipendenze fra mores, politica, religione e diritto, in un circolo che ci sfida a ripensare
invece, al di là di tutte le necessarie distinzioni, la natura profonda della normalità – ovvero della
normatività radicata nel nostro comportamento quotidiano.
La questione morale è una questione antropologica – nel senso che, al di sotto dei modelli di società
che ispirano le diverse volontà politiche in competizione nelle arene nazionali e in quella
internazionale, si profilano modelli di umanità, e più esattamente dovremmo dire, di normalità
personale, molto differenti. La questione morale si chiudeva sulla constatazione che il modello di
normalità personale che abbiamo in mente quando parliamo di «personalità adulta» o «matura», che
possiamo caratterizzare mediante le nozioni di autonomia e di responsabilità, è una possibilità, non
certo una necessità della nostra natura. Per le ragioni che vedremo, vorrei caratterizzare questo
modello di normalità personale come modello della veglia morale. A questo modello daremo il
nome del personaggio che più intensamente e nobilmente l’ha rappresentato nella nostra tradizione:
Socrate.
Quello che la storia recente ci insegna è che le comunità umane, anche quelle che hanno sviluppato
istituzioni come la democrazia, possono facilmente farne a meno, come AldousHuxley vide assai
bene quando prospettò, in Brave New World, la sua società di ipnotizzati morali. Se chiamiamo
«modello socratico» il modello di normalità personale opposto a quello di Huxley, allora possiamo
dire che l’umanità socratica è una possibilità antropologica, una possibile via dell’evoluzione – ma
una via che non solo non è necessaria: non è neppure, una volta imboccata, irreversibile. Come
imboccarla sempre di nuovo, questa è la parte pratica della questione morale. Cioè la parte che
riguarda il che fare: che cosa vogliamo fare di noi stessi. La parte teorica della questione morale
riguarda la natura ultima della normalità umana.
È questo ultimo aspetto della questione morale – come questione antropologica, o questione sulla
natura della nostra normalità – l’orizzonte della mia attuale ricerca, di cui vorrei comunicarvi
qualche spunto. Confesso che in questa presentazione non ho solo uno scopo teorico, ma anche uno
pratico: indicare quanto urgente sia, per chi condivide la convinzione che il modello socratico di
umanità, cioè quello della veglia morale, sia migliore del modello degli ipnotizzati morali,
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convincersi che fra veglia e sonno morale c’è una vera differenza, e che non sono semplicemente
due modi del sognare, per cui tanto vale continuare a dormire in pace. Il mio ultimo scopo è
indicare a tutti noi quanto urgente sia svegliarsi.
Un gioco, per cominciare
Partiamo da un piccolo gioco, che ciascuno può fare con figli o nipoti purché abbiano almeno nove
mesi di età, meglio se già diciotto. Ce lo ha insegnato il famoso psicologo infantile, ma anche
comparativista animale, Michael Tomasello. C’è una casetta-giocattolo con porta e finestra, e un
pupazzetto. Giochiamo a fare entrare in casa il pupazzetto. Io lo faccio bussare prima alla porta, ma
è chiusa. Allora lo faccio entrare dalla finestra. Tocca a te, dico al bambino. Lui trova la finestra
chiusa. Non è che rinuncia: lo fa entrare dalla porta (che intanto si è aperta). Ha capito non solo
quale doveva essere il risultato finale, ma anche la mia intenzione. Non si limita a copiare l’azione,
ma riproduce l’azione per realizzare la stessa intenzione. Capisce cosa voglio fare e lo rifà
intenzionalmente.
Sembra che le scimmie, quand’anche scimmiottino, non sappiano in questo senso imitare, ma solo
«emulare» – dove il termine è usato per dire appunto che al massimo sanno imitare l’uso di un
mezzo per scopi che già hanno indipendentemente, non condivisi: ad esempio se insegno loro a
usare un bastone per recuperare del cibo altrimenti irraggiungibile. Ma le scimmie non si mettono a
giocare con me gratis, e non imparano le regole del gioco. Ad esempio giochiamo a nascondino. Se
un altro bambino arriva e non rispetta le regole, i partecipanti glielo dicono: non si fa così. Se poi
c’è da cambiare ruolo, ora tu aspetti e io mi nascondo, anche qui il bambino non imita l’azione, ma
il metodo. Anzi a partire da una certa età fa una cosa straordinaria, che nessun animale fa – e che si
vede meglio con un’azione più semplice: se io do un colpetto sulla fronte al bambino, in un gioco di
imitazione, lui reciproca, e dà un colpetto sulla fronte a me. Qui è la base di una delle più complesse
abilità che sono senza dubbio alla base della comunicazione linguistica, ma rivelano anche un salto
cognitivo enorme rispetto al più intelligente dei primati: la capacità di relativizzare il proprio punto
di vista sulla realtà, di afferrare che ce ne sono anche altri, di vedere il mondo anche dal punto di
vista di questi altri.
Imitazione come capacità di cogliere l’intenzione altrui, attenzione condivisa come capacità di
condividere informazione sul mondo, cooperazione: Tomasello ha mostrato che è esercitando
queste capacità che impariamo a stare al mondo come umani. Cioè che effettivamente la
trasmissione culturale – che sarebbe impossibile senza queste capacità naturali di base, presenti già
a partire dal nono mese – è parte necessaria del nostro divenire membri «normali» della specie
umana.
La capacità più basilare fra queste, a quanto pare innata negli umani ma non negli altri primati, è
proprio quella di condividere l’attenzione a qualcosa. La verifica più limpida che noi abbiamo
questa capacità fin da infanti, mentre gli altri primati no, è il più basilare degli atti di comunicazione
umana, il puntare il dito. Se stiamo giocando a costruire una casa coi cubetti e io punto il dito, il
bambino in fase pre-linguistica capisce e guarda nella direzione indicata, dove c’è il pezzo
mancante – e può anche indicarlo lui stesso a me. Perché questo gesto abbia senso, occorre che
condividiamo un contesto – nel caso più semplice quello dell’azione in corso. Se io punto il dito ora
senza nessun contesto comune, non capite cosa io intenda. Ma se io indico a uno scimpanzé il punto
dove è nascosta la ricompensa che sta cercando, in genere lui non capisce. Nei due libri di Michael
Tomasello successivi a The cultural origins of human cognition, The origins of human
communication and Why we cooperate, l’autore ipotizza che alla base di questa innata disposizione
a condividere azioni e intenzioni, quindi ai giochi cooperativi, ci sia stata la modificazione genetica
chiave che ha portato i nostri antenati primati a diventare… noi. Questa disposizione dunque
sarebbe proprio quella che fa la differenza e permette l’ominizzazione, dallo sviluppo del
linguaggio alla creazione di tutte le istituzioni sociali, e soprattutto alla trasmissione culturale, che è
cosa qualitativamente diversa dall’apprendimento sociale animale.
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I primati che imparano a lavare le patate prima di mangiarle o non trasmettono veramente quest’arte
ai nipoti oppure la cosa non fa gran differenza perché questa possibilità viene di tanto in tanto
riscoperta dalle nuove generazioni – ma si riparte sempre da zero: non c’è alcun cumulo. Non c’è
propriamente crescita tramite accumulo e innovazione nel mondo animale. Tomasello studia in
particolare l’effetto ratchet: dove lo strumento viene migliorato attraverso innovazione individuale
o cooperativa, e la trasmissione culturale non riparte da zero, ma permette di innovare sul
miglioramento già acquisito. Questa è la differenza fra social learning e cultural learning.
Un possibile equivoco: la naturalizzazione dell’etica
Questa individuazione di una precondizione, guadagnata dai nostri predecessori su base
evoluzionistica, della nostra umanità, da un lato è indubbiamente affascinante (da una differenza
che geneticamente è piccola proverrebbe una cascata spettacolare di conseguenze); ma dall’altro
rischia di generare un malinteso: la tesi che gli umani sono tali in quanto sono per natura capaci di
cooperazione si trasforma impercettibilmente nella tesi che siamo per natura buoni o almeno
simpatici, in una specie di tesi neo-roussoviana; i sentimenti di simpatia e la cooperazione sono
disposizioni naturali che, instauratisi casualmente, ci hanno assicurato un vantaggio selettivo: e i
sistemi normativi umani sono il semplice rafforzamento di questa natura.
In una versione ulteriormente semplificata, essere cooperativi è già essere buoni, o è già
fondamento di moralità. Che questo rischio ci sia già come tentazione nello stesso Tomasello si
vede anche dai due esergo dell’ultimo libro: uno è la tesi di Machiavelli – «Un principe deve
imparare a non essere buono»; l’altra una citazione dalla filosofa kantiana, Christine Korsgaard:
«the primal scene of morality… is not one in which I do something to you or you do something to
me, but one in which we do something together» (51). Questo possibile equivoco farebbe delle
ricerche ammirevoli di Tomasello una sorta di sostegno a quella corrente oggi molto diffusa che
tende alla «naturalizzazione dell’etica», non nel senso vago e innocuo che vede nell’etica una
disciplina normativa priva di altro fondamento che la natura umana, e in particolare priva di
fondamento «soprannaturale» – insomma l’etica non ha a che fare con la religione e non la
presuppone, tesi questa che daremo qui per scontata e pacifica.
Ma in quale altro senso? Quello, in ultima analisi, di una riduzione delle norme morali (e delle
norme in generale) all’espressione di regolarità di comportamento, di «leggi» nel senso in cui sono
tali le leggi di natura. Su questa base non ci sarebbero differenze qualitative fra le leggi che
regolano la nostra digestione e quelle che regolano le nostre azioni.Ma una «naturalizzazione
dell’etica» in questo senso paradossalmente ci farebbe perdere di vista esattamente il risultato della
ricerca di Tomasello: che alla formazione dell’umanità in ciascuno di noi umani precisamente non
basta la natura, ma ci vuole anche la cultura. Tuttavia questa tesi è infine piuttosto nota e acquisita,
anche se oggi in vario modo rimessa in discussione. Vogliamo invece metterla a fuoco meglio,
proprio a partire dall’ipotesi naturalistica – di biologia evoluzionistica – che la nostra differenza di
base dagli antenati pre-umani sia quella mutazione che ha fatto di alcuni di loro degli animali
essenzialmente cooperativi – e non solo competitivi. Che cosa comporta questa scoperta? Che cosa
ci può insegnare sulla natura stessa della cultura?
Il fenomeno da cui partire. L’animale normativo
La «normalità» del nostro vivere, per quanto riguarda la parte cosciente di questo vivere – tutta la
nostra vita cosciente, quasi nessuno stato escluso, che si tratti di azioni, decisioni, emozioni,
pensieri, percezioni – va intesa nel senso proprio di normatività. Questo è un fenomeno che stupisce
gli attuali studi sulla coscienza – esplosi in quantità e qualità fra i filosofi analitici in seguito alla
fioritura delle neuroscienze – non rilevino, o rilevino molto poco. Ecco invece un passo tratto da un
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filosofo che di questo fenomeno fece il punto di partenza di tutta intera la sua riflessione.
Questo filosofo è Edmund Husserl e il passo che vi cito risale al 1924:
«L’animale è soggetto a meri istinti, l’uomo anche a norme. Ogni genere d’atto di coscienza è attraversato da
una coscienza normativa, intrecciata con esso, del giusto e dell’ingiusto (dell’adeguato e dell’inadeguato, del
bello e dell’odioso, dell’opportuno e dell’inopportuno), la quale motiva un agire corrispondente nell’ambito
della conoscenza, della valutazione, dell’azione, sia esso rivolto alle cose o alla società» (71).
In effetti è questo il fenomeno più vivido e cospicuo di tutta la nostra vita cosciente, vista
dall’interno ma anche vista dall’esterno: tutti i nostri stati sono per così dire soggetti alla questione
implicita o esplicita, a volte semplicemente all’interrogativo senza questione: è giusto o sbagliato?
Va bene così?
Nel passo husserliano vediamo per così dire il lato interno delle decisioni, valutazioni, azioni,
atteggiamenti descritti in questo: la parola chiave è «coscienza normativa del giusto e dell’ingiusto».
Occorre qui intendere la parola nel senso più lato dell’italiano «giustezza» (di cui «giustizia» è solo
un valore particolare), del tedesco richtig, del latino rectus. C’è una coscienza normativa, dice
Husserl, che attraversa ogni nostro fare, dire, pensare, percepire, sentire: ci rendiamo conto del suo
essere più o meno adeguato, corretto, opportuno, riuscito… Più o meno aggiustato, giusto. Più o
meno «come si deve». Più o meno conforme a ciò che è richiesto, a ciò che è «esatto» (da esigenza).
Vale la pena di insistere sul carattere pervasivo di questo sfondo normativo del vivere umano.
Nessun tipo d’esperienza resta estraneo a questa possibile (in)adeguatezza. Una percezione può
essere illusoria, e per questo la percezione è tanto fallibile quanto correggibile: e noi costruiamo
l’insieme dei nostri comportamenti sul presupposto che le nostre percezioni siano veridiche. I
giudizi sono spesso erronei. Un’emozione può essere inappropriata, un sentimento – ad esempio
disprezzo o rancore – infondato, una decisione più o meno opportuna, conveniente, giusta.
Forse solo l’immaginazione si sottrae a questa pressione della norma – ma solo entro certi limiti. Ad
esempio, provate a immaginare veramente un quadro alla Escher. Non vi riuscirete più di quanto
riusciate a ottenere una percezione «coerente» di un suo quadro. Non si può dunque immaginare
proprio qualunque cosa. O forse si può – ma solo in sogno. La presenza della questione normativa
distingue in effetti gli stati di veglia da quelli di sogno, che possono svolgersi del tutto
indipendentemente dai vincoli normativi, anche se non necessariamente lo fanno.
La vita cosciente e desta si presenta forse diversamente dal punto di vista esterno? Certamente no,
l’evidenza è semmai accresciuta. Quando vediamo gli altri fare cose, esprimere pensieri, rendersi o
no conto delle circostanze, avere o no percezioni corrette, prendere o no decisioni adeguate, parlare
come si conviene o no – cosa facciamo se non sollevare tutto il tempo questo interrogativo
normativo? «Non giudicare», dice il vangelo: ma questa sembra davvero una richiesta più che
umana. Noi umani possiamo essere indulgenti o gentili, ma non possiamo costringerci a non vedere
se una cosa è fatta come si deve o no. Al massimo possiamo rivolgere l’interrogativo normativo
verso noi stessi: il mio giudizio è adeguato? Fondato? Giustificato?
Stupisce, dicevamo, che nelle moderne teorie della coscienza questa pervasività dell’elemento
normativo non sia messa nel giusto rilievo. Si parla ancora di intenzionalità e rappresentazione, si
parla di qualia irriducibili a intenzionalità e rappresentazione – e non si parla di normalità. Eppure
c’è anche una specie di indizio linguistico – nelle lingue almeno che usano la stessa parola –
coscienza – per gli stati coscienti di qualunque tipo e per la coscienza morale, cioè per una
particolare forma di coscienza normativa….
Ma una volta che abbiamo colto nei fenomeni del comportamento umano cosciente questa
caratteristica dimensione normativa, ecco che abbiamo la base per una concezione nuova della
nostra diversità dal resto del mondo animale. Abbiamo fatto una scoperta: l’anima di ogni cultura –
a cominciare dalla suo stesso scheletro, la lingua di quella cultura – è un’anima normativa, è in
qualche modo coscienza di un dovuto. Nell’esempio della lingua lo si vede con la massima
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chiarezza. Nessuno parla come gli passa per la testa, perché non parlerebbe affatto. Parlare è
piegarsi alle norme di senso della lingua in cui si parla…
(Fra parentesi, questa è anche la ragione per la quale la degenerazione della lingua nello spazio
della ragione pubblica è un sintomo così grave di declino della civiltà – intacca una cultura nella sua
anima stessa, intacca per così dire la stessa forma del giusto: eleva a «normalità» lo sgorbio, il
solecismo, e perfino l’osceno. Quando poi si arriva ai gesti da suburra e ai barriti, io credo che si sia
oltre il rischio. La civiltà è semplicemente finita. Almeno se – come ora – nessuno a quanto pare
protesta, forse addirittura nessuno se ne accorge. Qui siamo tornati indietro anche rispetto alla linea
che separa l’asilo nido di Tomasello dalle gabbie dei suoi scimmioni: non un bambino che si fa
avanti a dire che sono state infrante le regole del gioco)
L’animale normativo è l’animale neotenico
Questo dato è ben noto: siamo gli animali dall’infanzia più lunga, quelli che impiegano più tempo a
guadagnare l’indipendenza vitale. Questo non sorprende, data l’immensità del sapere implicito,
teorico e pratico, che chiamiamo senso comune, e nell’apprendimento del quale consiste
l’apprendistato alla vita umana. Fra l’infinito numero di cose da apprendere ci sono innumerevoli
regole implicite, che si assorbono partecipando alla vita della comunità in cui si nasce, insieme con
gli abiti, i modi di agire, di sentire, di pensare, le scale di valori e la distribuzione di ruoli, quindi di
diritti e doveri, propri di quella comunità: in breve, la sua cultura – insieme con la grammatica
profonda di questa cultura, la sua lingua. In questo senso, una sorta di coscienza condivisa o
comune – il senso comune, appunto, che non è solo fatto di opinioni, ma anche di modi «giusti» di
comportarsi, di reagire emotivamente, di sentire, di giudicare – precede certamente nella
formazione di ciascun individuo la coscienza personale – se con questo termine intendiamo la
capacità di «farsi carico» delle proprie convinzioni, azioni, decisioni – di «autenticarle», per così
dire, in prima persona. Come scriveva un grande fenomenologo, «L’uomo vive “in primo luogo”
più negli altri che in se stesso; più nella comunità che nel suo individuo. Documentano questo tanto
i fatti della vita infantile quanto i fatti della vita psichica primitiva di tutti i popoli. Le idee e i
sentimenti e le tendenze in cui un bambino vive sono – astrazion fatta da quelli più generali come
fame, sete eccetera – dapprima in tutto e per tutto quelli del suo ambiente, dei suoi genitori, dei
parenti, dei fratelli maggiori, degli educatori, del suo paese, della sua stirpe eccetera. […] Solo a
poco a poco egli solleva, per così dire, la sua testa personale dal flusso che la sommerge e si ritrova
ad essere una creatura che ha anche di tanto in tanto sentimenti, idee e tendenze proprie. Questo
però ha luogo solo nella misura in cui il bambino pur mentre partecipa ai vissuti del suo ambiente,
“nei” quali dapprima vive, riesce a oggettivarli, e in questo modo a guadagnare una “distanza” nei
loro confronti» (Scheler, 1922, 241, traduz. nostra).
Se ora ripensiamo al gioco inizialmente citato, o a molti altri che Tomasello usa per dimostrare
quanto differiscano le nostre capacità cooperative, imitative e di cognizione sociale da quelle degli
altri primati, ci rendiamo però anche conto dell’enorme apprendistato di realtà, di valori e di norme
che la pratica di un gioco così semplice mette in luce. Una casa va usata «come si deve». Anche le
cose che si possono fare con un pupazzetto e una casa – devono avere un senso. Pensate alla
quantità di norme che emanano dalle più semplici istituzioni, dalla divisione della giornata a quella
di un appartamento.
L’ontologia sociale è la disciplina che indaga la natura degli oggetti sociali come il denaro e i
matrimoni, quindi in particolare delle istituzioni, e della distribuzione di obblighi e diritti che esse
istituiscono (pensiamo ad esempio al matrimonio). Una delle cose più giuste che uno dei suoi
fondatori, John Searle, ha fatto notare, è che lungi dall’avere un ruolo eminentemente repressivo
(che certo anche hanno, ma solo in modo derivativo) istituzioni e regole servono ad aumentare
enormemente i nostri poteri, cioè il numero delle cose che si possono fare (e naturalmente dei
relativi limiti e vincoli). È un po’ diverso vivere senza, o vivere con la possibilità di studiare e
andare all’università. E così via.
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Con gli studiosi di ontologia sociale vediamo la ricchissima trama di regole e istituzioni di cui è
fatta la nostra quotidiana «normalità». Con Tomasello vediamo come dobbiamo essere fatti per
apprendere a vivere in questa «normalità». Ma c’è una cosa che né John Searle né Michael
Tomasello sembrano aver visto con sufficiente chiarezza. È il nesso fra umanità, normalità e
relazione alla verità. La maggior parte dei filosofi contemporanei vedono il nesso fra le due prime
cose – ma non fra la seconda e la terza.
Il fondamento delle norme: libertà e verità
Possiamo chiamare «primaria» la normalità di base, quella che ci costituisce membri «normali» –
non pazzi né dementi – di una comunità umana. Vivere al modo umano è una faccenda abbastanza
complicata, ma una caratteristica della nostra umanità è sempre stata chiara e riconosciuta: le norme
alle quali ci conformiamo non hanno lo stesso stato delle leggi di natura, perché possiamo violarle
(per questo una «naturalizzazione dell’etica» non sarà mai convincente). Sono obblighi e non
necessità, Sollen e non Muessen. La loro esistenza è l’altra faccia della nostra libertà.
Così nella figura di Eva o in quella di Antigone riconosciamo paradigmi di questa nostra
condizione: un poter disubbidire, che chiamiamo libertà. Un potere che ci costituisce persone, e che
la sapienza poetica mitica e filosofica riconosce caratteristica dell’umano molto ma molto prima che
nasca il concetto di libertà come diritto. È un potere di decidersi, che non è una vacua costruzione
speculativa, perché è il fenomeno più centrale della vita umana, accanto alla normatività. Tutta la
vita umana è prendere posizione: nessuno di noi può sottrarsi all’esercizio quotidiano dei sì e dei no,
con il quale facciamo di noi stessi quello che ne facciamo. Decidersi è necessario anche per
obbedire, conformarsi a un obbligo. Lo è per assumere un qualunque impegno, anche minimo.
Molto spesso i sì e i no sono talmente scontati che sono presupposti. Ad esempio se parlando non ci
impegnassimo tacitamente ad affermare ciò che crediamo vero, nessuno potrebbe neppure mentire.
I nostri sì e no diventano abituali, e fanno la sostanza dei nostri mores. Da dove viene il potere
obbligante delle norme? Da Dio, dalla Natura, dalla Società, dalla Ragione? Possiamo ricostruire la
storia della filosofia in base alle risposte che si danno a questa questione.
Ma se il mondo antico e quello moderno ancora disputano in noi con le loro risposte, c’è una cosa
che il nostro sguardo preciso sulla prima infanzia oggi ci insegna, ma di cui la nostra filosofia non
trae le conseguenze. Perché da un neonato venga fuori un soggetto umano normale, un bambino,
occorre che l’apprendimento di tutte le regole del gioco umano, qualunque sia la comunità e dunque
la cultura in cui si nasce, sia veramente un elementare apprendistato di verità, sia per quanto
riguarda i fatti si per quanto riguarda i valori. La sfera del convenzionale o dell’arbitrario non può
che modificare quella del dovuto, cioè delle risposte giuste, adeguate a ciò che è «esatto» o richiesto
dalle cose stesse, ai dati di realtà e di valore: pena l’impossibilità di apprendere a stare al mondo.
Che il fuoco scotti e il cibo appaghi, che l’aspettativa di protezione e nutrimento siano fondate, che
il cucchiaio e il seggiolone abbiano un loro modo di essere usati, che una casa sia fatta in un certo
modo, una porta e una finestra abbiano certe funzioni: prenderne atto è l’adeguatezza al dato
iscritta nei giochi che Tomasello ci mostra, e che permettono al bambino di «capire» anche le
intenzioni dell’adulto, o di costruirne di proprie. Realtà e valore fanno da base normativa, purché
l’adulto aiuti a svelare il dovuto, l’ordine del mondo. E l’adulto come fa?
Tutta la vita umana è prendere posizione. Ma all’inizio le nostre posizioni sono piuttosto caotiche. Il
bebè è come bombardato di percezioni ed emozioni. Come fa a far ordine nel mondo? Il genitore
porta quest’ordine, rafforzando tutte e sole le posizioni adeguate, il giusto pianto e il giusto riso, il
sì e il no che presenza e assenza delle cose chiedono.
Senza una disciplina dei consensi e dei dissensi, ma anche dei permessi e dei divieti, con cui ogni
comunità umana accoglie un nuovo venuto, non può neppure formarsi la coerenza di una mente – il
possibile, l’impossibile, la memoria, il linguaggio. La normalità primaria non si acquista senza
individuazione personale primaria. L’unità di un soggetto, una persona e la sua coerenza, si edifica
soltanto sulla base delle risposte giuste che impariamo a dare alle cose stesse e alle loro esigenze.
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Gli ontologi e gli psicologi sociali contemporanei non sembrano vedere quale sia la controparte
della libertà caratteristica dell’animale normativo, che appunto non agisce in base a istinti o
programmi interni ma in base a norme, e quindi può trasgredirle. Questa controparte è la misura di
verità – cioè di conoscenza, di presa di coscienza, di esperienza veridica – necessaria
all’individuazione personale – a divenire persone normali. La relazione alla verità è fondante prima
di essere cosciente. Paradossalmente dobbiamo apprendere un gran numero di «risposte giuste» al
livello di base, prima di esserci come soggetti coscienti. Questa è la «libertà guidata», l’esperienza
compartecipata, le prese di posizioni co-eseguite da chi ha cura di noi – che segna tutta la nostra
prima infanzia.
Il modello della veglia morale e quello dell’ipnosi
Che tutta la vita sia prendere posizione, significa che c’è una libertà per il bene e per il male che ci
costituisce persone, agenti liberi e volontari. Questa libertà, che coincide con il potere di
riconoscere ma anche di non riconoscere situazioni di fatto e situazioni di valore, questa libertà che
è indispensabile per assumere obblighi e impegni ma anche per disattenderli, possiamo anche dire
che fa parte della nostra natura: il potere di decisione e di scelta, o la «libera» volontà, fa parte della
definizione tradizionale di persona umana. Noi abbiamo visto qualcosa di più, e cioè che una libertà
«guidata» è necessaria all’inizio perché l’animale umano costituisca una sua soggettività coerente o
«normale», cosa che può fare soltanto partecipando alla vita della sua comunità d’origine,
condividendo l’attenzione e co-operando, cioè co-effettuando le posizioni «giuste» (cultural
learning, apprendimento per «tradizione»).
Abbiamo visto cioè che normalità primaria, individuazione primaria e relazione alla verità vanno
insieme. Esistono purtroppo persone seriamente «a-normali», nel senso di incapacitate in qualche
dimensione della normalità primaria: non tutte queste mancate costituzioni di normalità sono effetto
di cattivo accudimento, ma certamente una completa deprivazione dell’apprendimento cooperativo
di realtà – compresa l’esposizione al linguaggio – inibirebbe seriamente il costituirsi di un soggetto
personale (l’individuazione primaria). La libertà di Eva fa parte della nostra natura – ed Eva noi la
conosciamo già uscita dall’infanzia. La normalità primaria, e un ben regolato rapporto con la realtà
del mondo e delle altre persone, è per noi ciò che corona la fine dell’infanzia. Ma quella che noi
oggi, con termine kantiano e illuministico, chiamiamo «autonomia» – o anche maturità, maggiore
età, responsabilità, indipendenza morale – non è affatto una necessità, ma solo una possibilità della
nostra natura. Ancora maggioritarie, forse, sono nel mondo le culture il cui tipo normativo non
prevede affatto che la ricerca di verità che possano fondare le norme duri tutta la vita adulta, che
anzi questa consista essenzialmente in una simile ricerca. Che sia questa la «normalità». Adamo ed
Eva furono precisamente condannati all’esperienza del bene e del male: cioè a una vita di
conoscenza personale di ciò che può dare fondamento alle norme, comprese quelle del miglior
ordine di convivenza civile e di governo delle città umane. E in effetti Adamo ed Eva cacciati dal
giardino e condannati all’esercizio personale della libertà sono per noi un’immagine archetipa di
uscita dall’infanzia.
Ma il modello di questa normalità umana che vorrei chiamare «secondaria», la normalità
dell’individuo che emerge dalla comunità vitale d’appartenenza e dall’anonimato della normalità
primaria (ciò che «si fa», «si pensa», «si deve»), prendendo posizione (consenso o dissenso) rispetto
alla cultura «tradizionale», ai suoi «si fa» e «si deve», è il modello che vorrei chiamare socratico, o
il modello della veglia assiologica, in particolare morale. Fatti non foste a viver come bruti…
Il modello socratico della normalità umana è interessante precisamente perché non è un ethos fra gli
altri – cioè un dato ordinamento di priorità di valore, da cui discendono certe norme (ad esempio: la
divisione dei ruoli e delle caste nella società della repubblica platonica ecc.). Nel modello della
veglia morale la normalità umana è chieder ragione delle norme, è l’approfondimento indefinito e in
ogni rispetto di ciò che è dovuto, di ciò che la realtà delle cose e delle persone esigono da noi, e
quindi il dubbio sulla fondatezza dei doveri già dati. Ma soprattutto l’iniziativa di chiedere ragione.
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La normalità come veglia, dubbio e ricerca è il contrario esatto della normalità come routine,
indifferenza, inerzia. Lungo la via di Socrate è cresciuto, nell’anima d’Europa, quasi tutto ciò per
cui vale la pena di vivere: la libera ricerca nelle scienze, nelle arti, nell’etica, nel diritto, nella
politica, nella religione.
Conclusioni sull’attualità
Torniamo alla caratteristica fondamentale che distingue l’animale normativo dall’animale istintivo.
«Ogni genere d’atto di coscienza è attraversato da una coscienza normativa, intrecciata con esso,
del giusto e dell’ingiusto». In effetti: ognuno di questi stati può essere attraversato dal dubbio di
(non) essere nel giusto. Non dico che lo sia di fatto nella maggior parte dei casi. Allora saremmo
tutti esseri socratici. Dico però che la circostanza che possa essere attraversato da un simile dubbio,
diciamo da una modificazione interrogativa, è essenziale e costitutivo di uno stato di coscienza
desta umano. La nostra storia sarebbe decisamente andata meglio se avessimo maggiormente posto
mente all’importanza antropologica dell’interrogativo. Anzi, osiamo pure di più: a questa
miracolosa sospensione dei meccanismi della attualità, delle leggi della necessità naturale, della
corsa cieca dei fati e dei destini, che è il potere più straordinario, apparentemente, delle nostre menti.
Il più vivo e silenzioso, vivo nella mente del più grande filosofo come nello sguardo di un bambino
che non sa ancora parlare: il potere dell’interrogativo. Occorrerebbe scrivere una piccola lirica sulla
grazia di quel ricciolo che nelle nostre lingue scritte lo esprime, e sembra mimare il sopracciglio che
si solleva, o l’arricciarsi pigro dell’onda che indugia, sospesa, prima di accettare il suo destino e
frangersi sulla battigia…
Per questa possibilità che abbiamo di stupore e di sdegno, dunque per il potere dell’interrogativo
che ne dipende, e solo per questo, ci è possibile anche ogni giorno e ogni ora rinnovare le nostre
posizioni, rinnovare l’insieme dei sì e dei no che ci definiscono e definiscono i nostri mores –
rinnovare questi stessi mores. L’elemento incredibilmente innovativo del modello socratico è
proprio questo: che qualcosa di simile alle esperienze fondamentali dell’infanzia e dell’adolescenza
possa in ogni momento venire vissuto al livello di maturità, conoscenza, esperienza che distingue
l’adulto. Se tutta la vita è prendere posizione, noi abbiamo la possibilità di rinnovare – dunque
anche rivedere – tutte le nostre posizioni. La normalità socratica è il rinnovamento morale
quotidiano, nella quotidiana ricerca e verifica dell’adeguatezza dei propri mores. In un certo senso è
l’eterna giovinezza: ma nel senso vero e giusto. La terribile, grottesca, scimmiesca simulazione di
questa eterna giovinezza l’abbiamo sotto gli occhi nella viziosa gerontocrazia delle caste che stanno
dissipando tutte le risorse nostre comuni: della cultura, del paesaggio, della memoria e della
bellezza, per continuare indisturbati a vivere secondo le loro leggi di casta.
Se c’è una cosa che il secondo dopoguerra ci ha mostrato, con il tradimento delle speranze e del
progetto di società della generazione uscita dalla guerra, è che, mentre una società ben ordinata, in
particolare una democrazia, ha bisogno di un sufficiente numero di persone moralmente,
socraticamente «adulte», una società umana purchessia non ne ha affatto bisogno. Al contrario,
l’esperienza recente getta la più inquietante e cupa delle luci proprio su quell’innata capacità di
cooperazione che ci distingue come specie. La normalità come rinnovamento tende sempre a
sclerotizzarsi nella normalità come routine. La veglia del dovuto tende sempre a decadere nel sonno
del «si fa così», lo stupore e lo sdegno tendono sempre a spegnersi nell’indifferenza e nella
rassegnazione. E questo è possibile precisamente perché le società umane sono organizzate in modo
cooperativo. È possibile in quanto la cooperazione funziona tanto nella giustizia quanto
nell’ingiustizia – quello che cambia non è necessariamente l’efficienza dell’organizzazione, ma la
distribuzione EQUA dei doveri e dei diritti, cioè appunto l’attenzione al dovuto a ciascuno. Da uno
zero a un massimo di giustizia. La nostra situazione di oggi si avvicina allo zero.
Il fenomeno più palese della cooperazione senza giustizia è la consorteria, origine di ogni forma di
criminalità organizzata, che è oggettivamente la tendenza a co-operare non nel rispetto del dovuto,
ma conformemente al vantaggio dei cooperanti qualunque sia lo svantaggio di terzi estranei
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all’accordo di cooperazione, e quindi della comunità più vasta cui il gruppo dei cooperanti
appartiene. Ma per concludere, e in relazione alla riflessione che abbiamo fatto, a noi interessa
soprattutto che cosa sia la consorteria dal punto di vista soggettivo dei cooperanti. La soggettività
dell’uomo di consorteria è precisamente la soggettività degli ipnotizzati morali. Al meglio, è
semplicemente quella dell’uomo tribale o dell’uomo pre-moderno, che non ha ancora trovato se
stesso come qualcosa di distinto dal «noi» collettivo: l’uomo che non ha avuto accesso
all’individuazione secondaria, l’uomo-massa. Al peggio, è la soggettività così caratteristica dei
nostri giorni, per la quale non abbiamo ancora una parola, se non la banalizzazione della parola
«normale». È la normalità incosciente, nel senso letterale di priva di coscienza morale, letteralmente
priva di ogni senso di (in)adeguatezza, priva perfino dell’ombra di un interrogativo. È la mentalità
dell’esecutore di posizioni prese altrove, che sia poi quella del complice, del servitore o di quel
mezzo fra i due che è il moderno servo dei potenti. È dovunque caratterizzata dalla perfetta assenza
di una disponibilità personale a rispondere di decisioni, comportamenti o asserzioni (cioè di
responsabilità, e tanto più rivoltante è l’uso della parola «responsabili» invalsa nel nostro gergo
politico per designare questa razza di servi-padroni); il tipico rappresentante di questa normalità
esiste in una gamma quasi infinita di varianti, a seconda del tipo di consorteria a responsabilità
personale nulla di cui si tratta: dalle cordate dei concorsi universitari alle cosche mafiose.
Ma in ogni punto della gamma, anche quelli più innocui, c’è una caratteristica di questa soggettività
che giustifica l’espressione «ipnotizzati morali». Quella caratteristica assenza di coscienza o di
senso di (in)adeguatezza del proprio essere e fare si estende a ogni tipo di esigenza, a ogni aspetto
del dovuto. Si estende non soltanto a ogni sentimento del dovuto ad altri, e alle cose tutte che alla
nostra coscienza si affidano, dal passato alla cultura, dalla bellezza al paesaggio; ma si estende
molto più frequentemente di quanto non si creda anche al sentimento del dovuto a se stessi. Ad
esempio, il rispetto.
Con questa constatazione abbiamo forse trovato la chiave della forma che ha preso la banalità del
male oggi e qui. La banalità del male, questa scoperta del Novecento, non è come voleva Arendt la
semplice assenza di «pensiero» del bene e del male. È piuttosto l’ottundimento della coscienza
assiologica e della stessa vita personale – la routinizzazione dei sì e dei no nella cooperazione
amorale. Ma c’è una formula specialmente italiana della banalità del male, cioè dell’ipnosi morale,
tutta diversa dalla delirante auto-esaltazione nel nome del Fuehrer, che distingueva l’ipnosi morale
dei nazisti. È la forma auto-dispregiativa dell’ipnosi, è quel caratteristico, sordo, strisciante
disprezzo della propria identità così ben significato nella caratteristica espressione «all’italiana».
Kant aveva scritto: «Quando la giustizia perisce, non ha più alcun valore l’esistenza degli uomini
sulla terra». Il disprezzo di sé è il ritorno del rimosso dell’indifferente morale, è la vendetta
dell’auto-anestesia dell’animale normativo senza più coscienza. Il disprezzo di sé è la forma che
prende in lui il sentimento di questa perdita di valore. È il risentimento per l’oscura percezione del
fatto che letteralmente non vale più la pena di vivere, da «bruto»: da animale normativo, senza
rispetto per la propria umanità. Chiunque condivida quest’analisi sentirà forte il richiamo della
domanda socratica: perché? Perché cooperi a questa routine dell’ingiustizia? E cooperi, se non ti
fermi, non chiedi ragione, non prendi posizione. Se non ti svegli, se non ascolti il richiamo della
giovinezza che hai tradito, se non sei pronto a rinnovare la tua intera vita, i tuoi costumi. Ma per
svegliarsi bisogna che si risvegli in noi il dolore, anche per ciò che abbiamo fatto di noi stessi. I
greci avevano una parola per indicare l’eccellenza umana cui mirava la paideia, anche quella
socratica. Simile a un dio appare il ragazzo che si sveglia al pensiero, il kalokagathos.
Ma chi ci vuole mantenere nell’inerzia del sonno e dell’ipnosi, invece? Guardate all’ultimo slogan
della più grossa consorteria italiana, che schiaccia il dubbio socratico sotto le piazze gremite,
all’insegna di una collettiva «immensa certezza». Quello slogan, girato quest’estate, dice: «Dio c’è,
ma non sei tu. Rilassati». Indubbiamente efficace. Ma non deve sfuggire l’invito: ad affidarsi a
qualcun altro, all’alzata di spalle, al disimpegno – al riposo. E il profondo deprezzamento del nostro
essere che queste parole (mal)celano. Esprimono una filosofia della minorità morale e della servilità.
Non certo dell’umiltà.
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SINTESI E PAROLE CHIAVE
L’uomo è animale normativo. Questo vuol dire che mentre gli altri primati vivono in base agli istinti, tutta la
nostra vita è invece soggetta a norme. Bisognerebbe imparare a sentire, nella parola «normalità», proprio il
senso pervasivo della normatività radicata nel nostro comportamento quotidiano. Ma l’uomo è anche animale
cooperativo. Secondo recenti ipotesi, alla base della cultura c’è una mutazione genetica che ci rende animali
cooperativi, a differenza degli altri primati – come hanno mostrato le ricerche di Michael Tomasello. Ma la
cooperazione funziona tanto nella giustizia quanto nell’ingiustizia – quello che cambia non è
necessariamente l’efficienza dell’organizzazione, ma la distribuzione equa dei doveri e dei diritti. Da uno
zero a un massimo di giustizia.
PAROLE CHIAVE: Cooperazione, coscienza, norma, primati.
BIBLIOGRAFIA
Husserl E. (1924). L’idea di Europa – Cinque saggi sul rinnovamento (a cura di) di C. Sinigaglia. Milano,
Cortina, 1999.
Scheler M. (1922). Wesen und Formender Sympathie. Bonn, Bouvier Verlag, 1985.
Tomasello M. (1999). The Cultural Origins of Human Cognition. Harvard University Press.
Tomasello M. (2008). Origins of Human Communication. MIT Press.
Tomasello M. (2009). Why We Cooperate. MIT Press.
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