Tasso e Leopardi - Liceo Mazzini Napoli
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Tasso e Leopardi - Liceo Mazzini Napoli
TORQUATO TASSO E GIACOMO LEOPARDI “D’in su la vetta della torre antica, Passero solitario, alla campagna Cantando vai finché non more il giorno; Ed erra l’armonia per questa valle”. Così Leopardi descrive la vita di un piccolo passero che pensieroso in disparte se ne sta mentre osserva il mondo che lo circonda ed il tripudio della natura con l’avvento della primavera: il piccolo volatile non si cura dei compagni, non mostra di aver voglia di volare né di fare festa insieme agli altri. Preferisce cantare e trascorrere così la primavera non solo intesa come la più bella stagione dell’anno, ma anche come la più felice stagione della vita: la giovinezza. Il comportamento del passero non è diverso da quello del poeta che per questo recita:“Oimè, quanto somiglia Al tuo costume il mio!”. Come il passero trascorre solitario la primavera, così Leopardi trascorre solo ed incompreso la primavera della sua vita, avvertendo un profondo senso di estraneità anche rispetto al proprio luogo natale. Entrambi disdegnano compagnia e divertimenti, preferendo trascorrere il proprio tempo esiliati dalla realtà: la descrizione di questo stato d’animo si pone in stridente contrasto con la descrizione della natura lussureggiante e festosa che lo circonda. E’ primavera e Recanati è in festa: la gioventù del luogo esce dalle proprie case rallegrandosi della bella stagione. Il Leopardi, proprio come il passero, è un acuto osservatore: sa comprendere come sia molto più giusto gioire della vita piuttosto che soffrire in solitudine come egli sa ben fare. Ciò nonostante tutto quello che agli altri cagiona felicità per il poeta è solo motivo di tormento dal momento in quanto triste presagio del momento in cui tutta questa bellezza non ci sarà più (Mi fere il Sol che tra lontani monti, Dopo il giorno sereno, Cadendo si dilegua, e par che dica Che la beata gioventù vien meno.) Tuttavia il passero è più fortunato del poeta perché non avrà rimpianti: egli vive secondo l’istinto naturale che lo porta a vagare da solo spandendo il suo canto per la campagna. Diversamente il Leopardi, semmai dovesse vivere tanto a lungo da diventare vecchio, certamente rimpiangerà di aver sciupato la propria giovinezza e più in generale la propria vita, sfuggendo alle sue gioie delle quali non è stato in grado di godere. Cessa così la similitudine tra la vita del passero e quella del poeta: la vecchiaia che per l’uccellino è solo la parte finale della vita, per il poeta è una “detestata soglia” in quanto rappresenta il momento del bilancio di una vita e, nel suo caso, è solo fonte di pentimenti e rimpianti. Questi contenuti caratterizzano la struttura metrica dell’opera che è strettamente simmetrica in quanto la prima strofa si concentra sul passero e sulla descrizione dei suoi modi di vivere e delle sue abitudini, la seconda è dedicata al poeta, la cui condizione è assimilabile a quella del passero, mentre la terza svolge il confronto inevitabile tra i due, opponendo la vecchiaia di entrambi. Colpisce inoltre che il poeta, in questo dettagliato ritratto della sua giovinezza, non attribuisca la colpa della propria infelicità alla natura, alla società o a qualsiasi fattore esterno e diverso da lui, bensì ad un malessere proprio della sua persona, fatto di insicurezza personale e di impotenza nei confronti delle avversità, in definitiva un qualcosa che gli impedisce di relazionarsi al mondo esterno e di godere in questo modo delle cose belle che lo caratterizzano. Non sorprende dunque la predilezione che Leopardi mostra nei confronti delle opere di Torquato Tasso, probabilmente proprio a causa della visione pessimistica della vita che in certo modo permea le sue opere: non a caso durante il suo breve soggiorno romano, Leopardi si reca in visita alla tomba di Tasso provando un’incredibile emozione. A Tasso Leopardi dedica anche la più affettuosa e malinconica delle Operette morali, il “Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare”. Si tratta di dialogo accorato in cui l’autore rinnova la sua incondizionata devozione nei confronti del suo poeta preferito, poiché si rispecchia molto nel suo modo di vivere, nel dramma della sua vita privata e nella sua condizione personale di infelicità. È proprio la condizione di infelicità permanente ad accomunare i due poeti, unitamente al rapporto tormentato con la famiglia ed all’amore per i classici e per la traduzione. Anche Torquato Tasso dunque si descrive come una persona infelice e perseguitata dalla cattiva sorte e lo fa proprio in occasione della “Canzone al Metauro” dove, così come farà due secoli dopo Giacomo Leopardi, sfrutta la descrizione della natura per dare voce agli stati d’animo che hanno caratterizzato la sua vita sfortunata. “O del grand’Apennino figlio picciolo sì ma glorioso, e di nome, più chiaro assai che d’onde; fugace peregrino a queste tue cortesi amiche sponde per sicurezza vengo e per riposo.”così descrive il poeta il fiume Metauro, nelle Marche, dove si ferma a riflettere sulla sua triste condizione di fuggitivo. È proprio una quercia rigogliosa ad attirare la sua attenzione anche perché evoca lo stemma della famiglia Della Rovere, i signori di Urbino, presso cui spera di trovare ospitalità e riparo dalla cattiva sorte che lo perseguita. Questa prima strofa, dal taglio encomiastico allorché attraverso la metafora della quercia il poeta elogia la stabilità della famiglia Della Rovere, introduce la descrizione delle tappe più infelici della sua vita: al bisogno di protezione e di equilibrio si affianca il ricordo del travagliato passato. Così tutte le sventure si dipanano dall’abbraccio dato alla madre, che non rivedrà più, quando aveva dovuto seguire il padre che per questo rappresenta per lui un nemico che lo aveva separato dalla braccia materne. Le parole sono dolci ed affettuose, proprio come dolce e caro al poeta è il ricordo dei baci della mamma e delle sue languide carezze, ma più straziante ancora il ricordo delle lacrime versate dalla mamma che si separa dal proprio figlio. Tasso descrive così la sua vita, quando, ancora piccolo e incerto nei suoi passi, segue il padre che viaggia di corte in corte: sarà proprio il padre, povero e vecchio, ad affiancarlo nel dolore e nella sventura. Il poeta lo assiste per poi piangerlo da morto e proprio adesso che il padre è in cielo, degno di essere ricordato con onore, che Tasso rimane solo con il proprio dolore e con questo testo autobiografico commisera sé stesso e la propria cattiva sorte ed esprime il desiderio di essere protetto e accolto, come un bambino che ha bisogno dei suoi genitori, senza i quali si sente perduto. La giovane madre piangente, il vecchio padre ammalato e poi morto su cui il poeta, troppo presto maturo, veglia e piange, sono le immagini simboliche delle ferite che la sorte ha inflitto al poeta e che continuano a dolere. In questi versi emerge prepotente la figura del poeta “eroe” cioè di colui che non si sottrae alla lotta pur sapendo che ne uscirà sconfitto: non si sottrae alla vita,anche se è sconfitto dai tempi in cui è costretto a vivere in condizioni di perseguitato. Per questo egli è un fuggitivo in quanto sfugge alla cattiva sorte che lo perseguita, ma non sfugge alla vita. Pertanto l’eroismo del Tasso è un eroismo di sventura che consiste nel conoscere il dolore e nell’accettarne la sua necessità, cercando consolazioni in circostanze favorevoli, come, appunto, l’ospitalità dei della Rovere. Infatti egli comincia la poesia proprio con un encomio ai signori di Urbino: in definitiva i versi del Tasso non rappresentano semplicemente una forma di autocommiserazione, ma sono piuttosto espressione di speranza, laddove la descrizione delle avversità affrontate dal Tasso – e che egli non termina di descrivere – sono funzionali ad evidenziare la figura dell’eroe poeta. Forse è proprio l’eroismo di sventura del Tasso ad affascinare Leopardi, che si sente accomunato al poeta dalla condizione di infelicità permanente: si tratta tuttavia di un’infelicità che mentre nel caso del Tasso deriva dalla cattiva sorte vista come forza sovrannaturale (“Ohimè! dal dì che pria trassi l’aure vitali e i lumi apersi in questa luce a me non mai serena, fui de l’ingiusta e ria trastullo e segno, e di sua man soffersi piaghe che lunga età risalda a pena.”), nel caso del Leopardi deriva da una condizione di malessere interiore e, dunque, non dipendente da cause esterne. Leopardi perciò non è un eroe di sventura, ma è solo una vittima del suo stato d’animo, che fugge dalla vita e rifiuta ogni contatto col mondo esterno in quanto gli provoca solo dolore, quello stesso dolore che Tasso riconosce come necessario e dal quale si sente perseguitato e che, non per questo, gli impedisce di proseguire nella lotta contro il destino avverso, alla ricerca di quella felicità che il Leopardi sa bene esistere e della quale non riesce purtroppo a godere.