C. BELTRAME, Vita a bordo delle navi in età romana, p. 25

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C. BELTRAME, Vita a bordo delle navi in età romana, p. 25
VITA A BORDO DELLE NAVI IN ETÀ ROMANA
di Carlo Beltrame
1. - Proposta ricostruttiva di pompa di sentina “a bindolo” (da Carre, Jézégou, 1984).
La ricerca archeologica sottomarina e l’indagine dei relitti di imbarcazioni
“interrate” hanno portato al ritrovamento di un gran numero di reperti che non
sono riferibili al carico delle navi bensì alle operazioni di governo o alla vita
quotidiana degli imbarcati. Lo studio di questa categoria di oggetti è stato, fino
ad oggi, abbastanza trascurato perché ben maggiore interesse ha suscitato negli
studiosi la merce presente nei relitti, utile per lo studio dei commerci. Una più
accurata attenzione andrebbe invece posta sugli oggetti non collegabili al carico poiché essi aprono una finestra unica sul passato: permettono infatti di comprendere le abitudini, le superstizioni o gli scrupoli religiosi sia di chi della
nave faceva la sua abitazione, cioè i marinai, sia di chi della nave si serviva
saltuariamente per lunghi trasferimenti o per transazioni commerciali. Questi
manufatti aiutano inoltre a ricostruire le operazioni più strettamente legate al
governo dell’imbarcazione e alla sua manutenzione.
I manufatti in questione possono essere divisi
in due grandi insiemi: gli oggetti relativi all’attrezzatura della nave e alle operazioni per la sua
manutenzione e tutti gli oggetti connessi alla vita
quotidiana. Del secondo insieme fanno parte
utensili, specialmente metallici, armi, strumenti
commerciali, suppellettili da cucina, attrezzi per
la pesca, oggetti relativi al culto abituale e a riti
propiziatori, giochi e passatempi, oggetti personali e attrezzature specialistiche (quale quella del
medico).
La maggior parte degli oggetti relativi alla
vita quotidiana si rinviene ad un’estremità del
relitto ossia nella zona della cabina. In base alla
documentazione iconografica e ai confronti
etnografici, tale estremità viene interpretata
come la poppa. Utile per distinguere poppa e
prua è comunque l’identificazione della posizione delle ancore normalmente, sempre in base
alla documentazione di cui si è detto, a prua.
Ricca è la documentazione archeologica relativa alle attrezzature impiegate nelle navi. Uno
dei meccanismi più importanti era senz’altro la
pompa di sentina per l’evacuazione dell’acqua
depositatasi sul fondo dell’imbarcazione. Le
navi romane erano armate con pompe del tipo a
bindolo, ossia cime munite di dischetti di legno
che scorrevano all’interno di “tubi” sempre di
legno grazie al movimento rotatorio provocato
da un marinaio collocato sul ponte della nave.
L’acqua veniva caricata dal fondo verso il ponte
di coperta dove veniva espulsa attraverso due
tubi di piombo (fig. 1). L’azionamento di questa
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2. - Gomena arrotolata dal relitto
di Procchio (cortesia A. Fioravanti).
3. - Ancora di ferro dal relitto Dramont E (da Santamaria, 1995).
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macchina doveva essere mansione
particolarmente ingrata se, come ci
tramandano Artemidoro (Oneirop., I,
48) e Svetonio (Vita di Tiberio, LI, 6),
spesso esso era oggetto di condanne.
Non infrequente è il rinvenimento
di cime, a volte forse appartenenti
alle manovre delle vele, ma altre volte relative alle operazioni di ormeggio o
ancoraggio quale la gomena eccezionalmente conservatasi ancora arrotolata
nel relitto di Procchio (fig. 2). Delle manovre veliche invece facevano certo
parte i bozzelli, ossia una sorta di carrucole per tendere il sartiame, in legni
duri e muniti di una o più pulegge per lo scorrimento delle corde. Destinate ad
uso simile erano le bigotte, semplici tavolette munite di uno o più fori.
Attrezzi fondamentali per la navigazione erano le ancore e lo scandaglio.
L’ancora delle navi romane era inizialmente (fino all’età medio-imperiale)
costituita da fusto e marre di legno, per la presa sul fondale, mentre il ceppo di
appesantimento era di piombo. Già in età repubblicana, ma specialmente, in
età medio-imperiale, viene introdotta
l’ancora di metallo molto simile a
quella moderna (detta ancora “ammiragliato”). In questo caso, marre,
fusto e ceppo sono di ferro e quest’ultimo è smontabile e di piccole dimensioni (fig. 3).
Abbastanza sottovalutata è stata
fino ad oggi l’importanza dell’uso
dello scandaglio nella navigazione
antica. Esso era costituito da una
sorta di campanella di piombo che
sulla sommità veniva collegata ad
una cimetta mentre all’interno poteva
essere spalmata di grasso (fig. 4). In
questa maniera, era possibile non solo
saggiare la profondità del fondale
durante la navigazione sotto costa ma
anche campionarlo per conoscerne la
natura e facilitare quindi anche le
operazioni di ancoraggio.
A bordo delle navi erano imbarcati utensili per operazioni di manutenzione dello scafo. Stranamente
rarissimi sono i rinvenimenti di asce
da carpentiere, utili per rifinire elementi lignei dello scafo, mentre
numerose sono le accette semplici o
bipenni. Queste potevano essere uti-
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4. - Scandagli in piombo dal relitto
Dramont D (da Joncheray, 1975).
5. - Dolabra dal relitto Cabrera III (da Bost et al., 1992).
lizzate sia in operazioni di riparazione della nave sia
per le attività di procacciamento di legname per il
focolare di bordo o altro.
I mazzuoli di legno di varie forme, come ricordato
da Plauto quando afferma che «navis lignea saepe
trita, saepe fixa, saepe excussa malleo» (Menandro, II,
3, 52), erano utili per saggiare il fasciame e per ribattere i cavicchi di collegamento, ma forse venivano
impiegati durante le operazioni di impiombatura delle
cime (ossia di collegamento tra più corde).
A bordo si poteva provvedere anche alla manutenzione del rivestimento protettivo della carena. Come
documentano alcune anfore piene di resina e vasi con
questa sostanza sottoposta a cottura, i marinai erano
attrezzati per provvedere allo spalmo della resina
all’interno e all’esterno dello scafo e come sembrerebbero testimoniare, almeno in alcuni casi, dei ritagli di
lamina di piombo, essi potevano intervenire per riparare eventuali squarci apertisi sul rivestimento plumbeo
dell’“opera viva”.
Ad altra categoria appartengono invece quegli
utensili non finalizzati alla manutenzione della nave
ma ad operazioni di vario genere. Si tratta, ad esempio,
di coltelli o roncole utili sia in cucina che per tranciare
cime, caviglie per forare le vele, sessole per asciugare
la sentina, scopette ecc.
Particolare attenzione merita un utensile a forma di
piccone definito dagli autori antichi dolabra. La sua
particolare versatilità e la frequenza con cui appare nei
relitti, ci fa pensare che esso costituisse un utensile in
dotazione ai marinai romani così come lo era ai soldati
del genio (fig. 5).
Gladii (fig. 6), spade, lance, pugnali o armi da lancio, quali ghiande missili, frecce o proiettili litici per
frombola nonché, nel solo caso del relitto di Mahdia,
armi pesanti, sono ritrovamenti abbastanza comuni nei
6. - Gladio in ferro dal relitto di Porto Nuovo (da Bernard, Bessac, Mardikian, Feugère, 1998).
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7. - Stadera “danese” dal relitto di
Taillat (da Joncheray, 1987).
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relitti di navi romane. Alle armi
vanno poi aggiunti gli elementi
di armatura, perlopiù elmi.
In base alla lettura delle fonti
scritte, la presenza di armi nelle
navi potrebbe essere spiegata con la presenza di soldati imbarcati per vari
scopi. In alcuni casi si potrebbe trattare di armati imbarcati per un viaggio di
trasferimento, come i cavalieri arabi a bordo della nave di Sinesio (Epist., V,
96); oppure si potrebbe trattare di soldati di scorta a prigionieri, come quelli
destinati ad accompagnare San Paolo a Roma (Atti degli Apostoli, XXVII, 144). A veri e propri servizi di scorta dovevano essere addetti i φυλακιται
menzionati nei papiri del III e II sec. a.C. che documentano il trasporto dei
rifornimenti granari a Roma, mentre, in base al Digesto (IV, 9, 1, 3), per garantire l’ordine a bordo e per sorvegliare la nave al porto erano imbarcati i ναυ−
φυλακες.
L’interpretazione della presenza delle armi con la spiegazione della loro
appartenenza a scorte a carichi particolarmente preziosi sembrerebbe la più
plausibile. Pur rimanendo su un’interpretazione di tipo difensivo, però, il
numero assai ridotto di manufatti per singolo relitto ci fa pensare che le navi
dovessero essere munite di una sorta di armeria, utilizzabile da chiunque in
caso di assalto piratesco, piuttosto che di professionisti.
Su navi da carico, quali erano la maggior parte dei relitti giunti a noi, era
d’obbligo la dotazione di un’attrezzatura commerciale costituita perlopiù da
strumenti da pesatura. Si tratta di stadere di bronzo complete del romano (contrappeso) spesso raffigurante delle divinità. Su due relitti sono state rinvenute
anche rarissime stadere “danesi” (fig. 7).
I pesi litici sono certo testimonianza dell’uso anche di librae ossia grandi
bilance a due bracci fabbricate in materiale deperibile. Una bella immagine di
questo tipo di bilancia ci è offerto dal mosaico dell’ipogeo di Sousse (Tunisia)
dove lo strumento viene impiegato per la pesatura di lingotti appena scaricati
da una nave.
Alcune imbarcazioni potevano essere attrezzate dello strumentario utile per
sigillare le anfore: punzoni che servivano a marchiare le sigillature di pozzolana che coprivano i tappi di sughero delle anfore, tappi di sughero semilavorati
e pozzolana, contenuta in anfore.
Quasi in ogni nave vi era un servizio da tavola per la consumazione e,
meno frequentemente, per la preparazione di pasti.
Ovviamente il vasellame più documentato è quello in ceramica, sebbene
non manchi qualche testimonianza dell’uso di servizi di legno.
Per quanto la distinzione tra ceramica destinata all’uso di bordo da quella
finalizzata allo smercio sia particolarmente difficoltosa specialmente nei relitti
con carichi di vasellame, possiamo dire che a bordo si utilizzava perlopiù ceramica comune ma anche sigillata e campana. Si trattava di piatti e scodelle per
mangiare, coppe, tazze, boccalini e bicchieri per bere. Acqua e vino erano serviti in brocche, ma anche in olpi e bottiglie. I liquidi erano conservati nella
cambusa in anfore a fondo piatto. Per cucinare cibi semiliquidi si utilizzavano
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8. - Casseruola in bronzo dal relitto di Diano Marina (da AA. VV.,
1983).
9. - Mortaio fittile dal mare di Venezia (foto dell’autore).
molto le olle, utili anche per conservare; per
cibi solidi invece erano impiegati tegami. Casseruole e pentole, anch’esse con frequenti tracce di fuoco, erano recipienti ad uso misto.
Piatti, coppe, scodelle, tazze e olle potevano
essere personalizzati dal proprietario con un
graffito quale una croce o un quadrato oppure
con il proprio nome.
Il calcolo del numero di pezzi di vasellame da mensa a volte permette di
ipotizzare il numero originario di persone imbarcate che si doveva aggirare tra
le tre e le cinque unità.
Oltre al vasellame fittile non mancava quello di bronzo e di vetro. In
bronzo erano prevalentemente brocche e coppe mentre in vetro erano bicchieri,
piattini e vasetti.
Per attingere e versare liquidi si faceva ricorso ad attingitoi di bronzo
mentre non è ben chiaro a cose servissero le molte casseruole rinvenute nei
relitti. Dato il contesto marinaresco, è presumibile che, come i soldati, anche i
marinai le utilizzassero come gamelle (fig. 8).
La dieta era prevalentemente a base di cereali che venivano macinati a
bordo così da permettere una migliore conservazione del grano. Quasi ogni
nave, quindi, era fornita di una o due macinelle rotatorie manuali. Semplicemente tostati oppure ridotti in semola o farina, i cereali potevano servire per la
preparazione di pagnotte, gallette o farinate, ma anche di zuppe.
Per impastare ingredienti, mescolare farina o preparare salse si faceva largo
uso di mortai fittili muniti di beccuccio (fig. 9), anch’essi, come le macine,
presenti spesso in coppia per provvedere forse ad una rapida sostituzione in
caso di guasto.
Per la cottura delle pietanze la nave era spesso dotata di un fornello del tipo
“a cassa”, costituito da una base di mattonelle e da pareti di argilla. Sopra le
braci veniva appoggiata una graticola. La ricostruzione più attendibile di questo tipo di focolare è stata possibile grazie all’ottima conservazione e all’analitico lavoro
di documentazione del relitto
bizantino di Yassi Ada; tale
tipologia di fornello si è conservata sino almeno al XVI
secolo. In alcuni casi comunque, le navi potevano essere
armate di un vero forno coperto come ricostruito per il relitto
di Guernsey rinvenuto nel
Canale della Manica.
In alternativa ad una struttura fissa, le imbarcazioni potevano caricare un piccolo for-
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10. - Fornello di piombo dal relitto
Barthélémy B (da Lopez, 1996).
11. - Rilievo dal Portus Augusti di
Ostia (collezione Torlonia) (da
Casson, 1995).
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nello mobile di lamina di piombo. Si trattava di
un oggetto a forma di ferro di cavallo, con bacino per la posa delle braci e pareti cave collegate
ad una sorta di camino (fig. 10). Sopra le braci
era posta la pentola mentre dal “camino” si poteva versare dell’acqua che impediva che il piombo raggiungesse la temperatura di fusione. Il
tutto funzionava in pratica sul principio di un
moderno sistema di raffreddamento di un motore. Perché utilizzare il piombo per un oggetto da
sottoporre al fuoco? semplice, un oggetto di piombo risulta particolarmente
stabile ed inoltre è quasi indistruttibile e facilmente riparabile: caratteristiche
particolarmente indicate per l’uso navale.
La dieta di bordo, come detto, era basata principalmente sui cereali ma non
mancavano frutta secca, frutta fresca, carne e ovviamente pesce. Quest’ultimo
poteva essere agevolmente pescato sia con reti, che alla lenza, che con arpioni
e fiocine, come documentato da numerosi attrezzi alieutici e come illustrato
anche da molti mosaici africani. La pesca poteva avvenire sia durante le soste
all’ancora, come descritto dai vivaci racconti di Petronio (Satyricon, CIX, 6) e
Sinesio (Epistolario, V, 207-212), sia durante la navigazione, in base al ricordo
di Eliano (De Animalium Natura, XV, 10).
A bordo ognuno portava con sé la sua fede religiosa alla quale però spesso
si aggiungeva, dato il particolare rischio che comportava ogni viaggio, una
buona dose di superstizione. Molti erano i tabù da rispettare: era infatti proibito avere rapporti sessuali, bestemmiare, tagliarsi i capelli, le unghie ed altri
comportamenti.
La superstizione non si fermava qui, un corno poteva ornare la prua della
nave forse per uno scopo apotropaico; il ceppo dell’ancora veniva decorato
con la combinazione vincente degli astragali: il “colpo di Afrodite”. Ma queste
credenze si manifestavano
già in occasione del varo
della nave, quando, al di
sotto del piede dell’albero
della vela, veniva posta
una moneta con funzione
beneaugurante.
Sin dall’età greca,
prima della partenza, era
prassi comune propiziarsi
gli dei con delle abluzioni
rituali, ma funzioni analoghe si dovevano svolgere
anche durante la navigazione, come, ad esempio,
in occasione del passaggio davanti ad un santua-
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12. - Attrezzi da lapicida dal relitto
di Porto Nuovo (da Bernard, Bessac, Mardikian, Feugère, 1998).
13. - Bisturi di bronzo dal relitto di
Plemmirio (da Gibbins, 1989).
rio, o forse all’arrivo, come sembrerebbe
testimoniarci il noto rilievo di Portus della
collezione Torlonia (fig. 11) dove un personaggio togato, assistito da altre due persone, appare nell’atto di aspergere incenso su
di un altare mobile.
Alcuni ritrovamenti sembrano indicare
che, oltre che con i rituali visti, la religione
a bordo si doveva manifestare sotto forma
di devozione personale. È possibile cioé
che alcuni imbarcati portassero con sé
oggetti devozionali quali le statuette, raffiguranti divinità perlopiù legate al mare, rinvenute in alcuni relitti. Non ha fondamento
invece la teoria secondo la quale a bordo
delle navi romane sarebbe stato collocato
un altarino in pietra.
Le lunghe ore di inattività venivano
riempite con il gioco dei dadi, degli astragali o quello dei latrunculi. Quest’ultimo si
giocava con pedine bianche e nere su una tabula lusoria. Piacevole intrattenimento poteva essere offerto anche da un suonatore di strumento musicale a
corde o a fiato, come indicherebbe il rinvenimento di alcuni flauti. Dagli autori
antichi, comunque, sappiamo che molte opere letterarie furono composte proprio nel corso di un viaggio per mare durante il quale lettura e scrittura, come
conferma anche il rinvenimento di calamai e stili scrittori, aiutavano a trascorrere le lunghe pause di bonaccia.
In alcuni casi, gli oggetti personali che si rinvengono nei relitti ci permettono di identificare la personalità di alcuni imbarcati. Si sono riconosciute, ad
esempio, specifiche figure professionali quali
quella del lapicida. Due artigiani di questo tipo
erano certo imbarcati sulla nave carica di marmi
naufragata sulle coste della Corsica, presso Porto
Nuovo, come dimostra chiaramente l’eccezionale insieme di attrezzi (scalpelli, mazzette, pinze,
martelli, punte, sgorbie ecc.) rinvenuto insieme
al carico (fig. 12).
Le navi erano spesso dotate di una cassetta di
pronto-soccorso ma, a volte, dovevano imbarcare
un medico in carne ed ossa. Frequente infatti è il
rinvenimento di cassettine contenenti sostanze
medicamentose e di attrezzi chirurgici. Sul relitto
di Plemmirio (Sicilia) sono stati rinvenuti dei bisturi ad uso oftalmico che fanno appunto pensare
alla presenza di un medico, forse in viaggio di trasferimento (fig. 13). Sul relitto di Ladispoli, poi, il
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14. - Strigile e ariballos di bronzo
dalla nave di Comacchio (da Berti,
a cura di, 1990).
15. - Proposta ricostruttiva della
cabina della nave bizantina di
Yassi Ada, con tettoia in tegole e
coppi (la restituzione del fornello
è errata) (da Van Doorninck,
1972).
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ricordo di un medico è ancora più evidente essendo stato impresso il suo nome sul fondo di
un piatto rinvenuto vicino ad un cassettina di
medicinali.
Altri oggetti personali ci hanno lasciato
traccia del viaggio intrapreso da alcune donne
che trattenevano i capelli con aghi crinali in
osso e si profumavano con olii conservati in
unguentari e si specchiavano con preziosi specchi di bronzo. Ma il culto del corpo, come noto, non era esclusivo appannaggio femminile come testimoniano, ad
esempio, molti strigili e ariballoi per contenere l’olio (fig. 14) o pettini in osso.
Anelli, pendagli d’oro e gemme sono chiara testimonianza che le navi commerciali erano preferite anche da personaggi benestanti a causa della minore affidabilità, maggiore instabilità e scomodità delle più veloci imbarcazioni militari, spinte da rematori. Tali oggetti potevano essere stati abbandonati dai naufraghi, prima di abbandonare la nave, oppure potevano avere decorato il corpo di
qualche persona perita nella sciagura, ma a volte, come nel caso di alcuni gruzzoli di monete, essi erano stati nascosti o al di sotto del pagliolato o all’interno
di un contenitore per scongiurarne il furto da parte di qualche compagno di viaggio.
A bordo si portavano zoccoli da marinaio
con tasselli rialzanti oppure sandali in cuoio,
ma è possibile, dato il frequente rinvenimento
di calzature, che sul ponte della nave si girasse scalzi abbandonando le scarpe in un angolo
della nave fino al momento di scendere a terra.
I marinai vestivano normalmente un grembiule di pelle e usavano portare con sé pratiche borse a tracolla.
Dai racconti degli autori antichi (si veda,
ad esempio, l’impostazione scenica del Satyricon di Petronio) si deduce che almeno alcune delle navi di età romana fossero dotate di
un ponte sotto coperta e forse di alcune cabine
che permettevano una certa privacy. I relitti e
le raffigurazioni di navi però sembrano darci
un’immagine un po’ diversa.
Le galere erano dotate di una semplice copertura voltata a poppa che permetteva il ricovero del comandante mentre le navi ad esclusiva propulsione velica erano munite di una
cabina più capiente. Questa però occupava
solo la zona di poppa, o quella centrale, ed era
posta sul ponte di coperta mentre lo spazio
nella stiva doveva essere quasi sempre occu-
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pato dal carico. La struttura era dotata di porte e finestrelle ed aveva un tetto che,
come mostra il rinvenimento, nella maggior parte dei relitti, di tegole ed embrici, doveva essere in materiale fittile e quindi ignifugo per scongiurare possibili
incendi dovuti alla presenza del focolare della cucina (fig. 15).
L’illuminazione a bordo era garantita da lucerne ma anche da lanterne che
permettevano la navigazione in convoglio e, presumibilmente, da torce di cui
non ci è giunta traccia.
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