Fides Quaerens. Anno III n. 1-2. 2012

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Fides Quaerens. Anno III n. 1-2. 2012
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In 4ª di copertina
I cerchi trinitari, Liber figurum di Gioacchino da Fiore, Tav. XI
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FIDES QUAERENS
Rivista dell’Istituto Teologico Cosentino
“Redemptoris Custos”
dell’Arcidiocesi di Cosenza-Bisignano
Anno III - Numero 1-2 (2012)
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Direttore Responsabile
Enzo Gabrieli
Direttore Scientifico
Antonio Bartucci
Comitato Scientifico
Filippo Burgarella (Università della Calabria), Gian Pietro Calabrò (Università della Calabria), Hervé Cavallera (Università
del Salento), Giulio D'Onofrio (Università di Salerno), Andrea
Padovani (Università di Bologna), Gregorio Piaia (Università
di Padova), Jean-Marc Trigeaud (Université de Bordeaux - IV),
Christian Trottman (CNRS Tours, Université de Dijon)
Comitato di Redazione
Enzo Gabrieli, Luca Parisoli, Francesco Brancaccio, Leonardo
Spataro, Rosetta Napolitano, Antonella Doninelli, Ubaldo Comite, Rizzo Pompeo, Antonio Bartucci
Gli articoli sono sottoposti a doppia lettura anonima e vincolati al suo esito positivo
Iscrizione al trib. di Cs n. 672
Rivista dell'Istituto Teologico Cosentino
Seminario Cosentino "Redemptoris Custos"
Via G. Rossini - 87036 Rende - 0984.839509
Tel. 0984.839509 - e-mail:[email protected]
ISSN: 2035-6986
® Ottobre 2012
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essere riprodotta con qualsiasi mezzo senza l'autorizzazione
scritta da parte del titolare della testata
SOMMARIO
Introduzione
di Antonio Bartucci
Pag. 7
Autorivelazione dell’Essere di Dio
nell’incarnazione e kenosi di Cristo in S.N. Bulgakov
di Antonio Gatto
Pag. 9
Genitum non Factum:
Il principio di sinonimia di Aristotele nell’ontologia trinitaria
di Antonella Doninelli
Pag. 33
Alle origini della soggettività:
l’impossibilità di un io senza un noi
di Antonio Martino
Pag. 41
L’età del Figlio Inizio e Logos in Schelling ed Origene
di Vito Limone
Pag. 53
L’apocatastasi «necessaria» alla luce del Nuovo Testamento
di Alessandro Pertosa
Pag. 75
Duns Scoto e Giovanni Damasceno sulla processione dello
Spirito Santo. La questione sul fondamento dell’autorità
di Hernán Guerrero Troncoso
Pag. 117
Essere e visione in Nicola Cusano
Spunti per una Ontologia Trinitaria
di Leonardo Spataro
Pag. 153
Récits fondateurs et identité chrétienne de l’Europe
di Luca PARISOLI
Pag. 175
Feyerabend: anythings goes!
di Franco Staffa
Pag. 193
L’imitazione come conoscenza nella Poetica di Aristotele:
La superiorità del poeta rispetto allo storico
di Giulio Cesare De Rosis
Pag. 207
La Visita ad Limina e il fondo delle Visite
dell’Archivio Storico diocesano di Cosenza
di Enzo Gabrieli
Pag. 219
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INTRODUZIONE
Questo quarto numero della Rivista <Fides Quaerens>
è di tipo monografico poiché gli studiosi hanno fatto confluire le loro ricerche sul tema dell’ontologia trinitaria.
Il problema ontologico, inteso come problema del rapporto dell’uno e dei molti, sembra richiedere l’elaborazioni di una filosofia su basi triadiche in modo da
analizzare il diverso nel suo rapporto con l’essere.
L’interesse è filosofico e la domanda si giustifica anche
indipendentemente dalla Teologia dalla quale, tuttavia,
proviene un contenuto originale che risale alle grandi discussioni sulla Trinità.
I prossimi numeri della rivista saranno arricchiti da uno
spazio dedicato alle recensioni di libri, continuando con
la sezione dedicata ai contributi degli studenti del nostro
Istituto.
Il Direttore
sac. prof. Antonio Bartucci
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Autorivelazione dell’Essere di Dio
nell’incarnazione e kenosi di Cristo in S.N. Bulgakov
Antonio Gatto
1. L’incarnazione.
Nell’affrontare il tema dell’incarnazione di Gesù Cristo, Bulgakov inizia il suo discorso teologico dalla creazione, perché in esso
ne ravvede un profondo e imprescindibile nesso1, infatti afferma:
«si può anche dire che il mondo, nel quale si sarebbe incarnato,
Dio lo ha creato per l’incarnazione. Questa non è soltanto il mezzo
della redenzione, è la più alta realizzazione del mondo, superiore
alla stessa creazione. Con l’incarnazione Dio ha dimostrato quale
sia il suo amore per il creato».2
Quindi, nonostante le difficoltà umane di comprendere l’uscita
di Dio dalla sua eternità, che rimane un mistero della vita divina
dell’Altissimo, accettata da noi dalla fede nella sua rivelazione, il
mondo è, nel suo esistere, creazione di Dio.
Tale creazione, comunque non è un atto parziale di Dio o un
suo desiderio irragionevole, ma conserva in sé un principio divino
che per il Nostro si esplicita con la Sofia divina: «la cui immagine
è il fondamento del mondo, che è Sofia creata. In altre parole, il
mondo ha in sé qualcosa di divino anche per Iddio, è sua autorivelazione».3
Nel discorso teologico di Bulgakov non si può prescindere dalla
dottrina sofiologica che, nonostante le sue difficoltà e la sua ancora
inesplorata portata, è un elemento di comprensione determinante
per cogliere la sua riflessione complessiva su Dio.
Per l’autore: «la sofiologia è un Weltanschaung, una visione cristiana del mondo, una concezione teologica, o se si vuole dogmatica, che caratterizza una tendenza (per nulla prevalente)
dell’ortodossia, come lo sono, per esempio, il tomismo o il moder-
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Cfr .P.CODA, «Trinità, Sofiologia e Cristologia in S. Bulgakov» in LATERANUM, LIX
(1993), p. 134.
S. N. BULGAKOV, L’agnello di Dio il Mistero del Verbo Incarnato, Città Nuova, Roma
1990, pp.225-226.
Ibid., p.215.
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nismo in rapporto al cattolicesimo, il “gesuanismo” liberale o il barthismo in rapporto al protestantesimo. Il punto di vista sofiologico
definisce un’interpretazione particolare dell’insieme dei dogmi e
delle dottrine, da quelli che concernono la Santa Trinità e l’incarnazione fino alle questioni del cristianesimo pratico d’oggigiorno».4
Per questo motivo è importante esplorare il concetto della sofiologia che sarà essenziale per il prosieguo della lettura cristologica
di Bulgakov.5
«Il mondo è creato, ma non solo creato, perché nel suo proto-
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S. N. BULGAKOV, La Sagesse de Dieu, L’Age d’Homme, Lausanne 1983, p. 13.
Il concetto sofiologico nella teologia di Bulgakov è importante, ma nello stesso tempo
difficile sia nella esplicitazione che nella comprensione, per questo mi avvarrò degli
studi svolti da P. Coda e da L. Zak, per meglio delinearne la portata. Questa dottrina è
stata molto criticata oltre che dalla teologia neo-patristica russa anche della teologia
occidentale. Fonda le sue radici sia nella spiritualità che nell’iconografia russa, infatti,
il suo punto di partenza risiede nell’inculturazione del cristianesimo nella città russa di
Kiev, dove la Santa Sofia che nella tradizione bizantina viene identificata con la seconda persona della SS. Trinità, nella tradizione russa ha uno slittamento in Maria come
icona di bellezza di Dio. «Questa interpretazione mariologica del tema sofiologico è
strettamente connesso con il tema cosmico-creativo: la sofia non è soltanto la personificazione in Maria, oltrechè in Cristo, il Dio-Uomo, ma esprime la presenza stessa del
divino nella creazione». (P. CODA, «Trinità, Sofiologia e Cristologia in S. Bulgakov» in
LATERANUM, LIX (1993), p. 114). Il Nostro viene influenzato oltre che dalla dottrina
di Solov’ëv, il primo ad esplorare una visione sofionica come sintesi della filosofia e
della teologia, anche da Florenskij, che la colloca in prospettiva ecclesiale e ortodossa
come ebbe a dire Bulgakov nella sua opera La Sagesse de Dieu. Il Nostro partendo dalle
testimonianze bibliche dell’AT, presente nei Proverbi cap. 8-9; nel libro di Giobbe 28,
20-27 e nella Sapienza cap. 7-8, tenta di innalzare il discorso sofiologico alla dimensione più propriamente teologico-trinitaria. (Cfr. P. CODA, «Trinità, Sofiologia e Cristologia in S. Bulgakov»…, Cit, pp.120-121).
Facendo tesoro delle fonti teologiche presenti sia nella tradizione greca, ripresa da Gregorio di Palamas sulle energie divine, che nella tradizione latina, con Agostino che afferma: come la sapienza non può essere predicata soltanto al Verbo ma a tutte e tre le
divine persone, (Ibidem, 124), esplicita la sua dottrina sofiologica, partendo dal concetto
di ousia, che in rapporto al concetto di ipostasi, formano i poli antinomici del dogma
trinitario. «le tre ipostasi hanno la propria natura (ousia) non in comune, non in dominio comune e, tuttavia, non l’hanno conosciuta per sé (sarebbe triteismo) ma l’hanno
come unica per tutte, eppure non solo comune né uguale per ciascuna (che sarebbe non
l’homousia ma la homoiousìa). Razionalmente questo non può essere espresso se non
come uguaglianza del disuguale». (Ibidem, 128). Quindi, la via di approfondimento
dell’ ousia divina nel suo rapporto antinomico con l’ipostasi è offerta appunto dalla
sofia, che viene definita dal Nostro come :«ousia di Dio nella sua rivelazione». (Cfr. P.
CODA, l’altro di Dio. Rivelazione e kenosi in S. Bulgakov, Città Nuova, Roma 1998 p.,
29), la sofia: «si fonda sull’atto rivelativo dell’ ousia di Dio, […], la sofia stessa non è
un’ipostasi divina. Tuttavia, essa “non è mai senza un’ipostasi o fuori di un’ipostasi”. Si
può dire: essa è/esiste, in quanto è eternamente ipostitizzata, dove per ipostatizzazione
tipo, nella sua idea, non è affatto creato, ma è in Dio dall’eternità
come suo mondo divino nella divina sapienza, come parola del
suo Verbo e come respiro dello spirito».6
Il Nostro fa notare come il mondo, pur essendo un atto della
creazione di Dio, non vive uno stato di perfezione, ma è attraverso
l’accoglienza dell’uomo che arriva al suo perfezionamento.
Tuttavia lo stato di peccato dell’uomo pone la creazione nella
situazione di essere elevata attraverso la provvidenza di Dio, che
non è un atto di là dalla creazione, ma nella creazione stessa, poiché agisce attraverso la libertà dell’uomo, che porta in seno l’immagine di Dio.
Nel creare il mondo, quindi il Signore non ha posto solo la sua
autorivelazione, ma ha inteso rapportarsi con esso attraverso gli uomini e gli angeli, in modo che per mezzo di essi possa discendere
nel mondo.
Dopo aver evidenziato l’importanza che l’uomo riveste nella
creazione, Bulgakov mette in risalto come la divinizzazione dell’uomo non è una violenza ontologica, ma è un processo che risiede in se stesso, visto che è espressione dell’immagine di Dio,
quindi racchiude nel suo essere il divino - umano della creazione
a cui tende.
Il rapporto tra Dio e l’uomo avviene con l’autocomunicazione di
Dio, così come espressa dalla Bibbia, in un rapporto dialogico, nonostante il peccato dell’uomo che non gli impedisce di ricercarlo
nella sua vita.
Ricerca che sin dalle origini ritrova nella sapienzialità del
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si pensa alla rivelazione dell’ousia per mezzo delle ipostasi divine». (L ZAK, «Kenosi di
Cristo e mistero della chiesa nella sofiologia di S.N. Bulgakov», in SapCr, XX (2005),
p.128. « La natura divina è l’unica per le tre persone della trinità, dove ciascuna persona la possiede in proprio per sé e per le altre persone entro il circolo trinitario. In Dio
Padre non si può parlare di sofia perché dimora nella profondità nascosta della sua natura, mentre il Figlio e lo Spirito Santo rivelano la divina ousia ipostatizzandola come
sofia. Il Figlio la ipostatizza come, l’unità del tutto, lo Spirito come bellezza di Dio».
(Ibidem). Quindi la sofia per Bulgakov, altro non è che la natura di Dio in quanto si rivela a livello intratrinitario nel Figlio e nello Spirito, come multiforme sapienza di Dio.
. (Cfr. P. CODA, «Trinità, Sofiologia e Cristologia in S. Bulgakov»»…, Cit, pp., 128). Non
essendo un’ipostasi, ma la rivelazione delle tre ipostasi trinitarie, la sofia, ha la capacità di ipostatizzarsi, quindi d’appartenere all’ipostasi, d’essere la sua dimostrazione, di
donarsi a lei. (Ibidem, 130).
S. N. BULGAKOV, L’agnello di Dio …, Cit. , p. 215-216
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mondo, quindi puramente naturale, dando la possibilità di accogliere la rivelazione di Dio come popolo eletto, attraverso la sua
parola ed ispirazione.7
Questa rivelazione di Dio, secondo Bulgakov, non può essere
espressa secondo quella dicotomia che vuole L’AT come rivelazione di Dio, e il NT come rivelazione del Figlio.
Il Nostro evidenzia come la rivelazione è un atto trinitario, del
Padre attraverso il Figlio e lo Spirito Santo.
Infatti, se: «il Padre crea il mondo mediante il suo Verbo, attraverso il medesimo Verbo anche lo governa e ad esso si rivela. Perciò l’immediato Soggetto divino dell’Antica Alleanza è il medesimo
Soggetto divino della Nuova, la Seconda ipostasi, il Logos. Egli è per
eccellenza l’ipostasi demiurgica, e a lui appartiene l’economia
della salvezza».8
Tuttavia la rivelazione del Verbo si compie in stretta connessione
con lo Spirito, che riposa sul Figlio, quindi la rivelazione del Figlio
anche nell’AT, non può essere palesata senza lo Spirito che ne ispira
le parole. Il Nostro descrive i fondamenti dell’Incarnazione, partendo dalla scrittura come: «l’agnello senza difetto e senza macchia, designato già prima della creazione del mondo ma apparso
per voi negli ultimi tempi», (1Pt, 1,20), e altri passi biblici, in cui si
evidenzia come la venuta di Cristo sulla terra non sia solo un atto
provvidenziale di Dio per il mondo, ma sia l’opera volontaria e salvifica di Dio prima ancora della creazione, e quindi l’Incarnazione
dimostra l’amore di Dio per il creato.9
Nella interpretazione patristica, l’Incarnazione viene vista come
atto salvifico quindi soteriologico, ma a questo si affianca anche
quello escatologico, come espresso dal Credo nell’ espressione,
“per noi uomini” e “per la nostra salvezza”.
Sicuramente esse non rappresentano un aut-aut, ma un e-e, nel
senso che vanno prese nella loro interezza, «lo scopo soteriologico
è incluso in quello escatologico come il mezzo nel fine».10
Il Nostro si sofferma più sull’aspetto ontologico dell’Incarna-
7
Cfr. Ibid. pp. 220-222.
Ibid. p. 223.
9
Cfr. S. N. BULGAKOV, L’agnello di Dio …, Cit., pp. 225-226.
10
Ibid. p.226.
8
zione, nel quale si evidenzia con maggiore chiarezza l’amore effusivo di Dio per il creato, infatti, Dio vuole comunicare al mondo la
sua divinità, di cui lei stessa è intrisa, in modo che il Suo divenire
uomo, rende l’uomo un dio.
Se è vero che l’Incarnazione è un atto salvifico non si può esaurire solo in un atto redentivo, perché è un’opera che abbraccia tutti
gli aspetti: da quello teologico, cosmico e antropologico a quello
cristologico e soteriologico; tale da non essere visto come una violenza di Dio sul mondo, ma come un atto bilaterale in cui il mondo
nell’uomo accoglie Dio e nello stesso tempo Dio si lascia accogliere.11
L’aspetto della non violenza ontologica di Dio, nella creazione
come nell’Incarnazione, è molto presente in Bulgakov, che vuole
evidenziare come l’umanizzazione di Dio è già presente nella
stessa creazione dell’uomo, che è quindi pronto a riceverla e a invocarla.
L’umanizzazione di Dio non va vista solo come un atto esclusivo
della Seconda Persona della Trinità, ma come il concorso di tutte e
tre le Persone, in cui Il Padre genera il Figlio e lo invia nel mondo,
e lo Spirito partecipa all’Incarnazione santificando la carne umana
con la sua discesa sulla Vergine Maria.
D’altronde l’inseparabilità delle due ipostasi è evidenziata dal
Simbolo con le parole:«e si è incarnato per opera dello Spirito Santo
e nacque da Maria Vergine», dove si esprime che l’Incarnazione è:
«l’invio dell’ipostasi divina nell’uomo e la sua accoglienza da parte
di Questa ultima».12
Bulgakov, nello stesso tempo, evidenzia l’importanza della Vergine Maria nell’Incarnazione, affermando come lei sia il principale
evento della Chiesa veterotestamentaria, infatti, la sua divina maternità, che si esprime nella sua immacolatezza, ha permesso l’Incarnazione.
E’ utile ricordare che la purezza di Maria è volontà di Dio, poiché nessuna creatura sarebbe stata capace di incontrare Dio senza
ridursi in polvere, atto che Dio compie attraverso lo Spirito che
11
12
Cfr. Ibid. p, 229.
Ibid. p. 233.
13
14
scende sulla Vergine.
L’attestazione della veridicità dell’umanità di Cristo, attraverso
Maria, esprime quel principio fondamentale espresso dai Padri secondo cui: «ciò che non è assunto non può essere salvato», investendo quindi, una grossa importanza sul piano soteriologico.13
Quindi: «il Logos poteva incarnarsi e farsi veramente uomo solo
divenendo figlio umano, solo cioè entrando nel genere umano già
esistente, e non dandogli inizio con se stesso».14
Questo ultimo concetto evidenzia proprio la preoccupazione del
Nostro, di vedere l’atto dell’Incarnazione non come imposto da
Dio, al di fuori di ogni libertà umana, ma confacente all’atto creativo del mondo e dell’uomo.
Bisogna ora osservare come comprendere la specificità dell’incarnazione attraverso il Concilio di Calcedonia, che Bulgakov definisce come un paradosso ontologico, in quanto dall’impressione
di dissipare il collegamento esistente tra la natura e l’ipostasi, il
Concilio ,infatti, descrive l’Incarnazione come l’unione delle due
nature nell’unica ipostasi del Verbo.
Quindi l’ipostasi divina è anche l’ipostasi umana, la quale non
può rimanere senza la sua ipostasi, infatti, i Padri affermano che
ogni ente naturale non può sussistere senza l’ipostasi, nel caso dell’Incarnazione viene ipostatizzata nell’ipostasi divina, cioè in - ipostatizzazione.15
Il Nostro, riguardo all’in-ipostatizzazione, sostiene che non va
vista nel suo significato astratto, in quanto non apporterebbe nulla
alla comprensione dell’Incarnazione, ma, nel suo aspetto ontologico, senza tuttavia ricorrere alla onnipotenza di Dio, attestando
l’Incarnazione come un mistero indecifrabile.
Dio, nella creazione, ha posto un ordine ontologico al quale Egli
stesso non sfugge; il Suo rapporto con il mondo non si basa sulla
Sua onnipotenza, ma, su un rapporto di reciprocità provvidenziale.
L’Incarnazione, quindi, rientra in questa ambito, e non può essere vista come creazione dal nulla, nonostante sia una nuova crea-
13
Cfr. Ibid. p. 235.
Ibid. p. 237.
15
Cfr. Ibid. p. 240.
14
zione, quindi: «l’Incarnazione di Dio non abolisce l’ordine ontologico che è proprio del mondo e della natura umana in particolare.
L’uomo dal canto suo partecipa all’Incarnazione, e non può essere
eliminato né distrutto nella sua naturalità dall’onnipotenza divina a
causa dell’Incarnazione, perché l’Incarnazione, realizzata a tal
prezzo, non sarebbe per nulla Incarnazione. In essa la natura
umana è elevata, non distrutta».16
Queste affermazioni sono postulate nel Concilio di Calcedonia
e affermano l’assoluta perfezione delle due nature, senza vederne
sminuita una rispetto all’altra.
La possibilità ontologica dell’Incarnazione, per il Nostro, si poggia sulla necessità dell’ipostasi del Logos, poiché assume su di sé la
natura umana, vuol dire che in qualche modo è anche ipostasi
umana e non solo divina, quindi del Dio - uomo.17
«Per farsi ipostasi dell’umano, l’ipostasi del Logos deve essere
umana o, più esattamente, co-umana, sicché anche l’ipostatizzazione della sua umana natura non è una violenza fatta a quest’ultima, non è una distruzione, anzi è in armonia con una relazione
presente ab aeterno tra l’una e l’altro. D’altro lato, anche l’uomo
deve essere capace di ricevere e contenere l’ipostasi divina quasi
fosse ipostasi umana. In altre parole, l’uomo dev’essere, in questo
senso divino - umano già nella sua essenza iniziale, portare in sé
l’ipostatica Teantropia, ed essere con ciò il “luogo ontologico per
l’ipostasi del Logos».18
L’uomo stesso ha uno spirito ipostatico, che lo differenzia dalle
altre creature, e un’origine divina, data appunto dalla sua immagine di Dio, che nonostante sia ottenebrata dal peccato non può
cancellare la sua vera essenza.
Per questo, l’uomo ha bisogno di essere riportato al suo stato iniziale, attraverso Dio che si fa carne; questa sua Incarnazione è stata
resa possibile grazie al fatto che «l’ipostasi del Logos è umana dall’eternità, […]. Si può dire che nella natura umana di Cristo, il Logos
si sostituì puramente e semplicemente all’ipostasi creata.
16
S. N. BULGAKOV, L’agnello di Dio …, Cit., p. 241.
Cfr. Ibid. p. 242.
18
Ibid. pp. 242-243.
17
15
16
Ma questo fu possibile perché quella stessa ipostasi creata era
soprannaturale, rappresentava nell’uomo il principio divino».19
Bulgakov difende queste sue affermazioni teologiche da ogni
forma di apollinarismo, ricordando, come lo stesso Apollinare fu il
primo ad introdurre il problema cristologico della Teantropia, e i
suoi avversari,per difendere la veridicità della natura umana, le affiancavano il Logos con la sua natura divina, affermando quindi
non solo le due nature ma anche le due ipostasi in Cristo, cadendo
nel nestorianesimo.
Il Nostro ricorda come il Concilio di Calcedonia, quando parla
di anima, non si riferisce allo spirito ipostatico che porta con sè la
sua natura, ma, «l’anima che vivifica il corpo».20
Lo spirito e l’anima sono differenti nella loro essenza, infatti il
primo è un principio increato il secondo creato; nell’uomo lo spirito nonostante sia anche umano perché preordinato all’incarnazione è un principio divino, in Cristo, lo spirito ipostatico è il Logos
stesso che assume dall’uomo la sua componente naturale, cioè la
carne, per questo Cristo è perfetto uomo.21
«Quindi la perfezione della natura umana in Cristo non è affatto
determinata dall’esistenza in Lui di una concreta personalità
umana, Gesù, alla quale inoltre si sarebbe unito, dall’Alto, l’ipostatico Logos (questo è nestorianesimo), oppure la sua “energia”
(dottrina di Paolo di Samosata, degli ebioniti, dei sociniani e dei razionalisti nostri contemporanei), di modo che il Dio - uomo differirebbe da un semplice uomo per una maggiore complessità del
suo essere e per un maggior numero di elementi. Il Dio-Uomo differiva da ogni individuo in questo, che in Lui dei tre elementi, spirito ipostatico, anima, carne, il primo non era un’ipostasi creata,
sia pure di origine divina, bensì l’ipostasi dello stesso Logos».22
La complessità del Cristo, rispetto agli altri uomini, sta nella sua
doppia natura, quella umana assunta dal Logos e quella divina che
è propria del Logos, che sono, come afferma il Concilio, inconfondibili, immutabili, indivisibili, inseparabili.
19
Ibid. p. 244.
S. N. BULGAKOV, L’agnello di Dio …, Cit., p. 247.
21
Cfr. Ibid. p.248.
22
Ibid. p. 249.
20
Nell’Incarnazione, il Nostro, si pone il problema del rapporto
tra la seconda persona della Trinità e la Trinità stessa.
Questo perché la Trinità, rappresenta l’unità nella tri -ipostaticità, quindi Dio ha in sé tre Soggetti ipostatici che non turbano la
sua unicità; tuttavia le cose cambiano quando la Trinità immanente
si rivela al mondo nella sua economicità attraverso L’Incarnazione
della sua Seconda Persona.
Potrebbe diversamente generarsi l’idea di un triteismo, scongiurato dal fatto che all’opera dell’Incarnazione ha partecipato tutta la
Trinità, secondo le proprietà personali di ogni persona della stessa;
infatti, il Padre manda il Figlio, il Figlio si incarna e lo Spirito compie l’opera dell’Incarnazione, senza turbare la personale incarnazione del Logos, che ha il suo fondamento nell’eterna filialità del
Verbo.23
Nell’Incarnazione è importante scorgere non solo l’assunzione
da parte Logos della natura umana, ma anche la coesistenza tra le
due nature.
Il Concilio, nel suo pronunciamento dogmatico sull’Incarnazione, diventa un punto di equilibrio attraverso le definizioni negative (senza confusione, senza divisione, senza mutamento, senza
separazione), rispetto al pensiero monofisita, che vede il dissolversi
della natura umana in quella divina, oppure al pensiero degli ebioniti, che vedevano la natura divina essere abolita da quella umana,
porsi fuori dal cristianesimo per l’assurdità del loro pensiero.
Bulgakov, nel lodare l’importanza della proclamazione del Concilio nelle sue asserzioni negative, ritiene nello stesso modo importante una lettura in positivo, di cui si ravvede l’assenza nel
rapporto tra le due nature.24
Per il Nostro questo non è accettabile, in quanto l’Incarnazione
non è un atto di onnipotenza di Dio da accettare supinamente da
parte dell’uomo, ma esprime la possibilità della natura umana di essere assunta perché ontologicamente possibile.
Quindi, tra le due nature, il Nostro intravede un termine medio,
come elemento comune e fondante della loro unione, tale termine
23
24
Cfr. S. N. BULGAKOV, L’agnello di Dio …, Cit., pp. 250-252.
Cfr. Ibid. pp. 253-255.
17
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è la sapienzialità, sia creata che increata.
Questo è il frutto della visione del Nostro rispetto alla creazione,
secondo il quale il mondo è concepito conformemente agli archetipi del mondo divino nel suo divenire, quindi la sofia celeste e
quella terrena si identificano, differenziandosi per il loro essere.
Se nella creazione Dio rimane fuori da essa, tale che la stessa è
oggetto della sua azione salvifica, nell’Incarnazione Dio prende su
di sé la natura umana divenendone soggetto.
In questo risiede la grandezza dell’Incarnazione, cioè di un Dio
che si fa prossimo all’uomo, assume su di sé il divenire del mondo,
evidenziando questa antitesi tra eternità e tempo, che è di difficile
comprensione per l’uomo, ma nello stesso tempo lo riguarda perché gli rivela la pienezza della sua umanità.
La possibilità di questa antitesi, tra eternità e divenire, secondo
l’autore, è espressa dalla Chiesa, che nel dono dello Spirito Santo,
genera alla divinizzazione i suoi membri, i quali sperimentano nella
stessa la dualità delle nature che le appartiene.25
La natura umana, tuttavia è stata toccata dal peccato originale inficiando la sua naturale sapienzialità, allora la stessa natura decaduta può essere assunta dal Logos, attraverso uno strumento umano
debitamente preparato da Dio, che è la Vergine Maria.
Ella «è appunto la sua ipostatica umanità, è quella “seconda natura”da lui assunta nell’Incarnazione. In tal senso l’incarnazione
non è soltanto l’unione di due nature in un’unica ipostasi, è anche
l’unione di due ipostasi in una sola natura. La propria natura umana
Cristo non la portò con sé dal cielo, ne la creò ex novo dalla terra,
bensì la prese “dalla carne e dal sangue purissimi di Maria”».26
In queste sue affermazione, Bulgakov, evidenzia l’importanza
della figura di Maria, e nello stesso tempo considera l’Incarnazione
non solo l’assunzione della natura umana del Logos, ma la discesa
su Maria dello Spirito Santo, che non è Incarnazione ma piena partecipazione alla stessa.
L’importanza di Maria all’Incarnazione risiede nella sua partecipazione non solo nella carne, «come atto naturale, fisiologico né li-
25
26
Cfr. Ibid. pp. 258-259.
Ibid. p.261.
bero né creativo, e si potrebbe dire persino cieco- e tale di fatto lo
considera il protestantesimo-, ma vi partecipa anche con la propria
ipostasi, spiritualmente, liberamente, ispirata e pronta al sacrificio».27
Il fatto che Maria partecipa all’Incarnazione come portatrice
della sapienzialità creata è importante rispetto alla discussione sulla
individualità umana del Cristo.
Il Cristo, infatti, pur incarnandosi storicamente in una individualità storica, non conosce parzialità, nel senso che Lui rappresenta l’uomo totale.
Ogni uomo trova in Cristo la verità della sua persona, proprio
perché ne rappresenta la sua sapienzialità umana, donatagli da
Maria che grazie alla discesa dello Spirito Santo è personificazione
della Sofia creata.28
Come accennato in più occasioni, il Concilio di Calcedonia nel
suo enunciato dogmatico non dice nulla sulla interazione delle due
nature, per questo il Nostro ritiene sia importante mettere a confronto i dogmi cristologici con il vangelo che propone la vita
umano-divina di Cristo, e rappresenta il nucleo della problematica
cristologica.
Bulgakov, soffermandosi ancora una volta sulle idee espresse dai
Padri della Chiesa attraverso le due scuole di pensiero, quella Alessandrina e quella Antiochena, evidenziandone i meriti ed i limiti,
oltre al concetto dell’in-ipostatizzazione, ritiene che il pensiero patristico spesso si è nascosto dietro vari accorgimenti senza trovare
la giusta soluzione.
Tuttavia ritiene importante l’espressione “energia teandrica” pronunciata dallo Pseudo - Dionigi Areopagita, in quanto l’espressione Teantropia (divino - umano) è la chiave per risolvere il
problema cristologico, oltre ad essere il concetto base della cristologia contemporanea.29
Il concetto della teantropia è usato nella dottrina della communicatio idiomatum, o scambio delle proprietà.
27
Ibid. p. 262.
Cfr. Ibid. pp. 264-266.
29
Cfr. S. N. BULGAKOV, L’agnello di Dio …, Cit., p. 272.
28
19
20
Nella dottrina della communicatio idiomatum, se diventa facile
per i Padri comprendere l’influsso che la natura divina ha avuto su
quella umana, di complicata soluzione è l’inverso, quindi la loro
unica risoluzione fu un celato monofisismo.
Bulgakov, invece, ritiene che: «la problematica cristologica implicita nel dogma di Calcedonia conduce necessariamente, come
a sua condizione è premessa, alla dottrina della kenosi della divinità nell’incarnazione».30
Questo perché l’assunzione dell’umanità da parte di Dio, non
può che essere un abbassamento, una umiliazione, quindi una kenosi.31
2. la Kenosi di Cristo.
Bulgakov esprime l’umiliazione di Cristo, la sua kenosi, facendo
riferimento al Prologo di Giovanni e alla lettera ai Filippesi di Paolo.
Parte dal dato biblico per esprimere il suo pensiero sulla kenosi
del Signore, come procedimento migliore per capire l’Incarnazione
di Cristo.
La parola di Giovanni nel suo prologo: «Il Verbo, divenuto carne,
abitò in mezzo a noi, e vedemmo la sua Gloria, come Unigenito del
Padre» (Gv 1,14), esprime tutto il paradosso dell’Incarnazione, con
la sua discesa dal Cielo, Dio è diventato non- Dio senza tuttavia
cessare di essere al contempo Dio.
Per Bulgakov tale avvenimento non è un fatto semplicistico, che
esprime un concetto puramente geografico - astronomico, ma un
evento profondamente ontologico che va compreso nel suo valore
realistico senza alcun accomodamento di carattere docetico portato
a deturparne la realtà.32
Nella lettera di S. Paolo ai Filippesi: «Egli (Cristo Gesù) essendo
nella forma di Dio non considerò una rapina essere uguale a Dio,
ma annientò se stesso (vuotò), prendendo la forma di schiavo, divenuto in similitudine di uomo e, essendo apparso nell’aspetto
come un uomo, umiliò se stesso, divenuto obbediente anche fino
30
Ibid. p. 274.
Ibid.
32
Cfr. S. N. BULGAKOV, L’agnello di Dio …, Cit., pp.275-276.
31
alla morte, e alla morte di croce» (Fil 2, 6-8), il Nostro, non vede
espresso soltanto l’Incarnazione terrena del Cristo, ma la volontà
di Dio rispetto alla stessa, vedendo l’una compiersi nell’altra.
L’umiliazione di Cristo quindi pur riferendosi a quella terrena,
che si manifesta nella sua morte in croce per obbedienza al Padre,
per il Nostro, si è compiuta grazie all’obbedienza in cielo, infatti
«non si tratta di un evento svoltosi soltanto entro i limiti della vita
umana, ma di un evento celeste nel senso stesso di Dio, la kenosi
del Dio-Verbo».33
Nella lettera ai Filippesi, quando si menziona il concetto di
forma non va identificata con il concetto di natura, come spesso
avveniva nell’esegesi patristica, ma come norma di vita che appartiene alla natura esprimendo il modo di essere divino.
Cristo scambia questo suo modo di essere divino con la forma di
schiavo, quindi non scambia la natura che è immutabile, ma il
modo di essere che è soggetto al mutamento.34
In questo modo Dio non pose un atto della sua onnipotenza, ma
rinunciò volontariamente alla sua gloria divina per assumere su di
sé la natura di schiavo, che non è assimilabile alla natura ma al suo
modo di essere, quindi Dio non abbandonando la sua natura divina entra nel mondo creato e si umanizza.
Il vedere l’Incarnazione nell’ottica della kenosi, potrebbe ingenerare il dubbio che la natura umana, come serva, nel rapporto con
la natura divina venga sminuita nella sua reale portata da apparire
inferiore nella loro unione.
Per questo, il Nostro, afferma come la kenosi non va percepita
sulla linea delle dispute cristologiche, che vedevano il predominare
o della linea ascendente, che portava al monofisismo o della linea
discendente assimilabile all’arianesimo, ma il mistero della teantropia, che va riletto accorciando l’enorme distanza tra le due nature mediante un termine medio che è: «Sofia, sussistente Sapienza
divina, eterna ed creata».35
Questa sapienzialità rappresenta il ponte ma non il movimento
33
Ibid. p. 277.
Cfr. Ibid. p. 278.
35
Ibid. p.284.
34
21
22
tra le due nature, da scorgere nella paradossalità degli assiomi cristologici.36
Nella kenosi secondo Bulgakov si esprimono due aspetti veritativi:
1) da una parte la SS. Trinità che sussiste nella relazione reciproca delle tre ipostasi nell’unica natura divina che non può diminuire;
2) dall’altra, la possibilità di una diminuzione volontaria della
propria divinità nella sua fruizione.
Quindi nella divinità è possibile intravedere una distinzione tra
la vita di Dio in sé, che è immutabile, e la vita di Dio per sé che è
mutabile nel suo esercizio; infatti, limitare in Dio l’utilizzo della
sua divinità vorrebbe dire diminuire la sua autonomia.37
La Trinità rimane sempre se stessa, sia nella sua assolutezza, che
nel suo rapportarsi al mondo come creatore, nella sua eternità non
può esserci mutamento.
«Codesta eternità è trascendente non solo rispetto al mondo con
il suo divenire, ma anche a Dio stesso, in quanto Egli si autodetermina in rapporto col mondo, come Creatore-Provvidente, ovvero
alla Trinità “economica” come distinta dalla “immanente”. La Trinità “immanente” è immutabilmente presente nella trinità “economica”, è Essa medesima nella profondità della “economica”, alla
sua base, e tuttavia resta altra, e in questo senso è anche trascendente rispetto alla trinità “economica”. È questa la conclusione fondamentale nella vita della SS. Trinità, come Assoluto di Dio».38
Questa auto-limitazione, che Dio volontariamente si dona nella
sua libertà, per il Nostro, nasce dalla constatazione che Dio è
Amore, quindi pone la sua limitazione già nella creazione pur
mantenendo la sua immanenza; a maggior ragione stabilisce in maniera assolutamente nuova la sua kenosi, in quanto si unisce alla
creazione stessa umanizzandosi.39
Bulgakov nel descrivere la kenosi del Verbo nell’Incarnazione,
afferma che può essere considerata secondo tre diverse ottiche: a)
36
Cfr. Ibid.
Cfr. Ibid. p.284.
38
S. N. BULGAKOV, L’agnello di Dio …, Cit., pp. 285-286.
39
Cfr. Ibid. p.287.
37
dal lato della natura; b) dal lato dell’ipostasi; c) in rapporto alle tre
ipostasi della SS. Trinità.
Nell’esaminare la prima ottica (rispetto alla natura), il Nostro,
manifesta come la kenosi non si riferisce alla natura ma alla morfé,
cioè la condizione divina di cui il Cristo si è spogliato per assumere
la natura umana, e benché la natura e la condizione divina stanno
in un rapporto di causa ed effetto, possono tuttavia separarsi.40
Bulgakov facendo riferimento al concetto di Sofia, evidenzia rispetto alla stessa la differenza tra natura e gloria di Dio, quest’ultima
è quella forma che Cristo possiede come Dio, di cui si spoglia nella
kenosi per riappropriarsene nella glorificazione del Padre (Gv 17,5).
La gloria ricorda il Nostro è la Sofia, in quanto è la manifestazione della natura divina rivelata in sé, di questa manifestazione il
Cristo si spoglia nella sua discesa dai cieli conservandone la sua
potenzialità che verrà di nuovo alla luce attraverso la preghiera sacerdotale.
In questo modo «la Seconda ipostasi, discendendo dai cieli, abbandona quella luce, non la possiede più per sé, prende la condizione di servo nella volontaria ascesi della kenosi. E in questo senso
il “giovane Adolescente Dio eterno” smette, per dir così, di avere
per sé la propria divinità e rimane con la sola natura divina, ma
senza la sua gloria ».41
Quest’operazione è possibile alla Seconda Persona della Trinità
grazie alla sua filiale obbedienza, che gli permette di spogliarsi della
sua vita personale per consegnarla nelle mani del Padre; obbedienza
filiale che si attua grazie allo Spirito Santo che riposa in Cristo.42
«Tale separazione di natura e vita, in cui consiste la kenosi del
Figlio non è un sacrificio umano, empirico, ma un sacrificio divino,
metafisico, un inconcepibile miracolo dell’amore divino, un mistero
“nel quale anche gli Angeli desiderano penetrare” (1 Pt 1,12). Davanti a questa autoestenuazione divina ogni creatura può soltanto
stupire e adorare nei secoli dei secoli».43
Guardando la kenosi nel secondo aspetto (dal lato dell’ipostasi),
40
Cfr. Ibid.
Ibid. p. 288.
42
Ibid.
43
S. N. BULGAKOV, L’agnello di Dio …, Cit., pp. 289.
41
23
24
il Nostro, rivela come la stessa non cambia il rapporto personale
che intercorre tra il Padre e il Figlio, perché nella kenosi il Figlio rimane, in tutto il suo essere, la Seconda persona della Trinità.
Quindi la kenosi non va a interferire con l’essere della SS. Trinità,
a differenza del pensiero di alcuni kenotici, in quanto «la Trinità
“immanente” non conosce la kenosi del Figlio, che esiste solo nella
Trinità economica».44
Gesù Cristo decide volontariamente di svuotarsi della sua divinità perché non va a ledere la «fonte della vita inter-ipostatica nella
SS. Trinità»45 ma è il suo essere personale divino; quindi rinuncia ad
essere Dio per sé rivolgendosi al Padre non solo perché ne condivide la stessa natura, ma come al suo Dio.46
In Gesù Cristo, il suo essere mandato dal Padre, riveste un ruolo
fondamentale rispetto alla sua generazione che passa in secondo
piano, è la sua obbedienza filiale che gli permette di svuotarsi della
sua divinità per umanizzarsi.
Tale umanizzazione è resa possibile dalla capacità che l’uomo
ha di ricevere la rivelazione divina, infatti, in tutto il creato l’uomo
è lo spazio adatto a accogliere la discesa di Dio dal cielo.47
Bulgakov nella disamina sulla kenosi, rivela con forza come attraverso la spoliazione della sua natura divina Cristo non assume
solo la carne, ma si è fatto lui stesso «ipostasi umana».48
Quindi il Logos non ha assunto la carne umana come qualcosa
che è esterno alla sua vera esistenza, ma è divenuto volontariamente Egli stesso uomo accettandone la temporalità e il divenire;
quindi afferma il Nostro : «dobbiamo accettare la kenosi dell’Incarnazione in tutta la sua terribile serietà, come il Golgota metafisico dell’autocrocifissione del Logos nel tempo, della quale il
Golgota storico è solo una conseguenza, possibile e reale in virtù
del primo».49
Questa affermazione di Bulgakov descritta da von Balthasar
44
Ibid. p. 290.
Ibid. p. 292.
46
Cfr. Ibid.
47
Cfr. Ibid. p. 293.
48
Ibid. p. 295.
49
Ibid.
45
come gnostica, invece sottolinea come la «Kenosi intratrinitaria sia,
al contrario, relazionata alla kenosi di Cristo nel pieno rispetto della
libertà dell’uomo e della storia».50
Lo stesso Marcello Bordoni, nella riflessione sulla scuola teologica russa, di cui identifica in Bulgakov una figura di preminenza,
afferma come: «la riflessione soteriologica di questa scuola ortodossa russa ci consente di aprire uno spiraglio più positivo in un
quadro teologico trinitario, per cui il mistero più oscuro e orrido
dell’abbandono della croce rifletta il bagliore della vita e della risurrezione, perché essa, divenuta la croce dei Tre, cambia il suo significato diventando segno di salvezza, manifestazione di amore».51
Bulgakov, rispetto alla kenosi, sottolinea un altro dato importante quella della Sua coscienza, nel senso che lo sviluppo della
coscienza divino - umana tratteggia quella umana.
Il Cristo ha consapevolezza del suo sviluppo facendo riferimento
all’ ipostasi divina del Logos, e all’interezza della sua Persona che
è divino - umana; in questo modo Lui comprende le cose in sé e su
di sé non solo con la sua autocoscienza divina, ma anche con quella
umana che cresceva e dispiegava la sua pienezza con il tempo.52
In tale contesto i miracoli, che il Cristo compie durante la sua
vita terrena, non possono essere addebitati o solo alla parte divina
o solo alla parte umana, ma alla sua pienezza come Dio-Uomo.
Diversamente ci sarebbe stata una dimostrazione della potenza
divina che avrebbe annientato la verità di questa unione, presentata
dal Concilio nella sua completezza.
Difatti: «la Divinità di Gesù ispirava la sua personalità divino umana ed Egli ne era cosciente nella misura in cui poteva riceverla
e contenerla la sua umana natura, ma senza imposizione violenta
su questa ultima e senza restare esterna ad essa; in questo si manifesta l’incessante, efficace kenosi della Divinità, la quale (secondo
l’espressione di San Cirillo) si proporziona all’umanità».53
Nella verità della Sua teantropia, in Cristo la natura divina non
50
L. ZAK, «Kenosi di Cristo e mistero della chiesa nella sofiologia di S. N. Bulgakov», in
SapCr, XX (2005) p.120.
51
M. BORDONI, Gesù di Nazaret Signore e Cristo,vol. 3. il Cristo annunciato dalla Chiesa,
Herder-Pul, Perugia 1986, p. 423.
52
Cfr. S. N. BULGAKOV, L’agnello di Dio …, Cit., p. 297.
53
Ibid. p.301.
25
26
è un dato esterno ma un progresso dovuto alla comprensione del divino e dell’umano nel loro reciproco rapporto, quindi è manifesto
che è la natura divina che si raffronta kenoticamente con l’umana
in modo che in Gesù Cristo, Dio, si mostra come uomo, teandricamente.54
Senza questo rapporto kenotico l’unione non avrebbe quel senso
ontologico che il Concilio ha affermato, cioè di un’unità delle due
nature senza confusione e senza cambiamento, ma si ridurrebbe
ad un’unione falsa in cui la natura divina sarebbe sempre predominante rispetta a quella umana, cadendo immancabilmente o nel
docetismo o nel monofisismo.55
Nel rapporto delle due nature dal punto di vista della volontà
espresso nel Concilio di Costantinopoli III (681), si parla di sottomissione, nel senso che la volontà umana segue quella divina,
senza per questo essere annientata, ma evidenziando soltanto un
rapporto gerarchico tra le volontà in cui è «innegabile il primato
teologico della volontà divina, e dello scopo più alto, che è la piena
divinizzazione dell’uomo».56
Il Nostro, nel sottolineare l’importanza che la visione kenotica ha
nell’Incarnazione, puntualizza con ossessivo interesse la realtà
della kenosi, da osservare come l’uscita dall’eternità nel divenire
temporale del mondo non in senso astratto ma nella sua drammatica verità.
Il rapporto che sussiste tra le due nature nell’unione ipostatica,
secondo Bulgakov, è di «reciprocità che non è soltanto interazione
ma anche scambievole limitazione».57
Questo ipotizza che entrambe le nature si manifestino per ciò
che sono, esprimendosi tuttavia l’uno nell’altro senza che la natura
umana abbia un atteggiamento di passività che la ridurrebbe ad accessorio dell’Incarnazione.
L’ascendenza che la natura divina ha sulla natura umana è la divinizzazione, concetto caro alla patristica orientale, che non è da
riferirsi solo a Gesù ma a tutta l’umanità, non è un atto di sopraffa-
54
Cfr. Ibid. pp. 301-302.
Cfr. Ibid. p. 299.
56
Ibid. p. 309.
57
Ibid.p. 313.
55
zione ma di graduale penetrazione e accettazione, lo stesso Gesù
la accolse con graduale progressione nella sua vita; la possibilità
della divinizzazione è basata sull’immagine di Dio nell’uomo tanto
da non apparire innaturale allo stesso.58
Nella letteratura patristica venne fatta una interpretazione della
divinizzazione non sempre corretta, dimenticando la inseparabilità e incofondibilità delle nature in Cristo specialmente nel visionare i miracoli, la preghiera e il non sapere in Gesù.
Bulgakov, infatti, mette in luce come con l’Incarnazione Cristo
attraverso la kenosi, si è spogliato della sua divinità e quindi anche
della sua onniscienza, la quale rientra nel rapporto teandrico, proporzionandosi alla natura umana.
Anche la preghiera di Gesù, se non è letta nell’ottica kenotica, rischia di cadere nel docetismo, in una pura apparenza, invece facendo
riferimento alla natura umana che ha di suo l’anelito verso Dio e il suo
rivolgersi attraverso la preghiera, «ecco che per il Dio - uomo la preghiera è vita e respiro, ed egli non fa niente senza pregare.[…] Perciò
anche la natura divina, unita in stato di kenosi con la natura umana,
non solo non impedisce la preghiera rendendola superflua, ma ispira
anzi la sua essenza umana a una preghiera continua».59
La divinizzazione del Dio - uomo, nella sua vita terrena, non va
intesa solo rispetto alla natura umana, ma ad ambedue le nature,
quindi ogni manifestazione di Cristo va vista in modo teandrico,
cioè nell’unità delle due nature senza sopraffazione dell’uno rispetto all’altro.
Anche rispetto alla sofferenza di Cristo sulla croce non è possibile parlare di impassibilità di Dio nel Dio - uomo; a tale proposito
Bulgakov va oltre affermando che neanche del Padre e dello Spirito
Santo si può parlare di impassibilità rispetto alla croce, infatti, evitando ogni forma di patripassionismo, il mistero della croce si compie anche in cielo nel cuore del Padre in virtù di quel mistero
d’amore che sussiste nella SS. Trinità.60
La stessa coscienza divina - umana del Cristo va letta all’interno
58
Cfr. Ibid. p. 314.
S. N. BULGAKOV, L’agnello di Dio …, Cit., p. 319.
60
Cfr. Ibid. p.325.
59
27
28
della dottrina kenotica che l’illumina nella sua verità, rispetto alle
antinomie e paradossalità del dato biblico, le quali presentano alcune volte la disparità del Figlio rispetto al Padre ed altre volte l’assoluta parità, invece:
«Gesù si rivolge al Padre suo come al Padre e a Dio nello stesso
tempo, ma non lo fa in qualità di Dio e di Uomo, bensì come DioUomo, dalla profondità e unità della sua coscienza teandrica».61
Le stesse tentazioni che Gesù subì nella sua vita terrena, trascurando l’aspetto kenotico, apparirebbero non reali nella visione docetista: Bulgakov invece puntualizza tutta la realtà delle tentazioni
di Cristo, in quanto la sua umanità benché non separata dalla sua
divinità nel rapporto teandrico, è capace di subire le tentazioni.62
Su questo punto il Nostro fa emergere il concetto della variabilità della libertà creata, la stessa che è comune agli uomini come
agli spiriti; è in funzione di questa variabilità che si può comprendere la caduta degli angeli. Questa variabilità, non essendo essenziale per le creature, può essere depotenziata grazie ad una
crescita spirituale e all’uso della propria libertà, cosa che il Cristo
attuò nella sua libertà, anche se il compito del Cristo non era sfuggire ad esse ma ad affrontarle e a vincerle.
La tentazione, nonostante fosse destinata all’insuccesso, in
quanto la natura umana era in comunione con la natura divina
che l’ispirava, si esplicitò nel «Superamento delle difficoltà lungo
il cammino dell’obbedienza e dell’umiliazione. Superamento
non gratuito, né automatico o meccanico, bensì sofferto, difficoltoso, creativo, sottomissione dell’essenza creata, dalla carne,
allo spirito».63
Il rapporto tra il Padre e il Figlio, ma in generale il rapporto intratrinitario è descritto dal Nostro come un rapporto gerarchico, che
nel linguaggio umano viene comunicato con il vocabolo taxis,
senza cadere nel subordinazionismo ma evidenziando delle differenze «in quanto Esse sono tre centri ipostatici all’interno dell’unico
ipostatico soggetto»64
61
Ibid. p. 350.
Cfr. Ibid. p. 362.
63
S. N. BULGAKOV, L’agnello di Dio …, Cit., p. 370.
64
Ibid. p.373.
62
In questo rapporto gerarchico per cui il Padre è il principio
primo, la kenosi si comprende con maggiore intensità visto che il
Figlio nella sua Incarnazione, per amore della missione voluta dal
Padre nello Spirito, si sottrae gerarchicamente dalla uguaglianza
con il Padre nella natura divina.65
La kenosi viene vissuta dal Figlio in ossequio alla volontà del
Padre, infatti, tutta la vita del Cristo è trascorsa nell’obbedienza al
Padre a tal punto da sperimentare la morte in croce, morte voluta
direttamente dal Padre e accettata nella docilità dal Figlio; accettazione che esprime il punto culminante della kenosi del Figlio.
Nel grido della croce il Figlio non si rivolge al Padre come tale
ma al suo Dio che lo ha abbandonato, quindi sperimenta anche
Lui come ogni altro uomo la solitudine dell’abbandono.66
«E’ proprio il Figlio di Dio nella sua Tentropia a varcare la soglia
della morte, il gemito mortale verso Dio si trasforma in quella invocazione al Padre che è anche l’epilogo della kenosi: “Padre nelle
tue mani raccomando il mio spirito” (Lc 23, 46) con la parola che
tutto conclude: “Tutto è compiuto” (Gv 19,30)».67
La morte del Figlio, secondo Bulgakov, coinvolge anche le altre
ipostasi della Trinità, poiché l’abbandono del Padre manifesta l’accettazione della sua morte quindi se non è la morte stessa è comunque «con - morire nel sacrificio dell’amore»,68 questo abbandono del
Padre è anche abbandono dello Spirito Santo.
«Siffatta partecipazione dello Spirito Santo alla kenosi del Figlio,
alla sua umiliazione alla croce, estende a suo modo la kenosi del
Figlio anche alla terza ipostasi, perché kenosi è per l’Amore ipostatico non manifestarsi all’Amato».69
La kenosi di Gesù Cristo, come afferma il Nostro, non si ferma
con la sua morte in croce ma esprime tutta la sua portata anche
nella discesa agli inferi, oltre che nella risurrezione e ascensione.
La sua discesa agli inferi, oltre che a testimoniare l’autenticità
della sua morte, esprime la sua portata kenotica perché fa espe-
65
Cfr. Ibid.p. 375.
Cfr. Ibid. p.382.
67
Ibid.
68
S. N. BULGAKOV, L’agnello di Dio …, Cit., p.383.
69
Ibid. p.384.
66
29
30
rienza della condizione della vita oltre la morte, i tre giorni sono
il periodo del kenotico nascondimento del Dio - uomo.
Anche nella resurrezione si mostra l’atto kenotico, essendo la
stessa un’azione attivo-passivo, il Padre che l’ha risuscitato nello
Spirito, resta Dio non vi è identità nella divinità ma è generato dalla
disuguaglianza e dalla kenosi.70
Con l’assunzione del Signore si chiude il suo ministero terreno
e quindi si conclude il suo cammino kenotico, evidenziando come
la kenosi del Dio-Uomo attraversa tutti gli atti del suo ministero.
La conclusione della lettera ai Filippesi inneggia alla glorificazione del Signore, per questo Bulgakov conclude dicendo che: «se
nel suo ministero terreno il Signore ci ha chiamati a “imparare da
Lui” e a “venire dietro a Lui”, anche nella sua Gloria Egli ci risusciterà tutti e introdurrà tutti nella vita e nell’autocoscienza di DioUomo, nella sua Teantropia, sicché tutta l’umanità che appartiene
a Cristo vivrà nella vita di Cristo, e per conseguenza anche della sua
coscienza divina».71
Questa correlazione tra le tre ipostasi della Trinità si esprime nell’amore e nel sacrificio kenotico superato dalla beatitudine.
L’espressione giovannea” Dio è amore” per Bulgakov esprime
l’essere stesso di Dio, in questa prospettiva, « l’amore esprime l’essenza dello Spirito e la sua vita. Dobbiamo dunque concepire la
Santissima Trinità come Spirito la cui vita è Amore».72
Bulgakov descrive in generale l’amore attraverso due assiomi:
a) «non vi è amore senza sacrificio» (anche se in Dio il “sacrificio” non è dolore ma solo dar-Si nell’Altro e così essere Sé);73
b) «non vi è amore senza gioia e senza beatitudine, e in generale
non vi è beatitudine all’infuori dell’amore».74
Dei due il secondo è « superiore perché ultimo, rappresentando
in certo modo il risultato del primo. In sintesi, l’amore si mostra
dunque come antinomia concreta: sacrificio e ritrovamento di se
stesso grazie al sacrificio. Essendo tragico, l’amore è nello stesso
tempo superamento della tragedia: è proprio in questo che consi-
70
Cfr. Ibid. p. 386.
Ibid. p.389.
72
P. CODA, L’agape come grazia e libertà, Città Nuova, Roma 1994, p. 115.
73
Ibid. p.120.
74
Ibid.p. 121.
71
ste la forza dell’amore».75
La visione kenotica di Bulgakov non riguarda solo la Seconda
Persona della Trinità, ma tutte le ipostasi vista la partecipazione
nella kenosi del Figlio anche del Padre e dello Spirito Santo.
Quindi Bulgakov approfondisce il tema della kenosi in rapporto
alle singole ipostasi. Rispetto al Padre, afferma: «la paternità è la
forma di amore in cui l’amante vuole essere se stesso non in sé, ma
fuori di sé, per dare il proprio io a quell’altro io che pure egli identifica con sé e per manifestare il proprio io nella generazione spirituale, nel Figlio, che è la viva immagine del Padre. Nella vita di lui,
e non in sé vive il Padre generando, cioè uscendo da sé, aprendosi.
L’amore del Padre esce da sé, accende, inizia, agisce. È incomprensibile per uno spirito creato questa generazione del Figlio dal
Padre, della Persona dalla Persona. Questa forza generatrice è estasi
dell’uscita da sé, come un autoannichilamento che è nel contempo
realizzazione di sé mediante quel generare».76
In rapporto al Figlio, afferma: « ciò che da parte del Padre è attivo generare, è da parte del Figlio passivo essere generato, nascita
obbediente. Il Figlio, in quanto Figlio, possiede se stesso non come
sé e proprio, ma come appartenente al Padre, nell’immagine del
Padre. Lo stato di Figlio nello Spirito consiste anche in questo, che
il Figlio si cancella nel Nome del Padre. Lo stato di Figlio è già una
eterna kenosi. Il Figlio non è la fiamma del fuoco Paterno, ma la
calma luce della gloria santa. L’amore del Figlio è l’abnegazione, la
mitezza dell’agnello di Dio che si immola, predestinato “prima
della creazione del mondo” (1Pt 1,20). E se il Padre vuole possedersi fuori di sé, nel Figlio, anche il Figlio non vuole possedersi per
sé stesso, offre in sacrificio al Padre il suo personale sé, ed essendo
Parola del Padre – essendo ricco si spoglia, e come vittima se ne sta
in silenzio nel seno del Padre».77
Infine rispetto allo Spirito santo afferma: « è la gioia dell’amore
sacrificale, la sua beatitudine e concretezza. Questa di Padre e Figlio, la loro identificazione di sé nell’amore, si realizza in un atto
ipostatico nella processione dello Spirito Santo dal Padre al Figlio
75
Ibid.
S. N. BULGAKOV, L’agnello di Dio …, Cit., p. 154..
77
Ibid. p. 155.
76
31
32
(o “attraverso” il Figlio). In quanto il Padre e il Figlio si conoscono
reciprocamente nell’immolazione d’amore come in un atto che si
sta compiendo, il loro essere reciproco l’uno per l’altro ha un carattere soltanto ideale. Esso acquista realtà soltanto nell’atto compiuto della nascita, dell’essere stato generato. Questa realtà della
natura divina , che idealmente già si rivela nella paternità del Padre
e nella filialità del Figlio, si attua con lo Spirito santo, che procede
dal Padre, si posa sul Figlio e li unisce entrambi. E questo il reciproco amore del Padre e del Figlio, ed è la gioia di questo amore
che ha compiuto l’autorivelazione della Divinità nella sua natura,
non solo in Verità, ma anche in Bellezza».78
È questa l’impostazione dominante nella teologia di Bulgakov e
ancor più della comprensione del mistero dell’Incarnazione, che
secondo il Nostro senza la lettura kenotica rimane incompresa e
suscettibile a temi che ieri come oggi rischiano di avere come conclusione mezze verità e velate eresie.
L’indicazione che il Nostro esprime è chiara e precisa: il mistero
di Dio può essere contemplato solo a partire dall’evento dell’Incarnazione che ha il suo culmine nella pasqua di morte e resurrezione di Gesù Cristo.
In sintesi si possono esprimere i vari tentativi compiuti di una
ontologia Trinitaria come : «il donarsi sino in fondo (eis télos), al
Padre e agli uomini, del Figlio/Logos incarnato sulla croce e nell’abbandono, giungendo a sperimentare la morte, e il riceversi di ritorno dal Padre mediante l’effusione escatologica dello Spirito Santo
nella resurrezione, è espressione della carne dell’uomo dell’Agápe
che è Dio nel dono reciproco e pericoretico di Sé delle tre divine
Persone, che gratuitamente coinvolge, nella corrispondenza libera
della fede a questo dono, le persone create che, in Cristo, rispondono al dono del Padre mediante lo Spirito Santo nella dedizione
reciproca le une verso le altre».79
Quindi l’ontologia Trinitaria si dischiude nella mediazione di
Gesù Cristo che nello Spirito evidenzia il mistero di Dio, come
evento tripersonale dell’Agápe.
78
79
Ibid.p. 156.
P. CODA, Dalla Trinità l’avvento di Dio tra storia e profezia, Città Nuova, Roma 2011,
p.560.
GENITUM NON FACTUM:
Il principio di sinonimia di Aristotele
nell’ontologia trinitaria
Antonella Doninelli1
La filosofia greca in generale e quella aristotelica più in particolare hanno avuto un’influenza decisa e decisiva nella costituzione
del patrimonio della fede dei primi secoli dopo Cristo. Il linguaggio
filosofico e teologico dei Padri della Chiesa deve infatti gran parte
del lessico al pensiero filosofico precedente, ad ambienti neoplatonici e gnostici, ma in prima battuta certamente a Platone e Aristotele. E attraverso il lessico, come appare del tutto naturale, sono
passati anche concetti, spiegazioni e teorie, nati in un contesto pagano, ma che ben si prestavano alla formulazione dei principali
dogmi del Cristianesimo e alla loro spiegazione.
Nel presente scritto si vuole porre l’attenzione sul dogma della
Santissima Trinità, cioè la simultanea essenza una e trina del Dio
cristiano e sul ruolo di primo piano che ha avuto, nella spiegazione
di alcune dinamiche interne ad essa, un principio tutto aristotelico,
che gli studiosi indicano con il nome di “principio di sinonimia”.
1. Il “principio di sinonimia” ha trovato ampio impiego nella formulazione delle teorie sulla generazione naturale, in particolare
nell’analisi delle modalità attraverso cui si realizza la costituzione
dell’embrione a partire dal seme del genitore.
I luoghi principali in cui Aristotele enuncia tale principio sono sia
nella Metafisica2, sia nello scritto di filosofia naturale conosciuto
1
[email protected]
Dedico questo lavoro a mio marito e ai miei figli, in particolare ai più piccoli: Chiara
ed Elia. E poi ai ‘miei’ studenti del Seminario Teologico Cosentino, attuali e passati, con
un sincero ringraziamento per gli stimoli nella ricerca e nell’insegnamento che da loro
ricevo e ho ricevuto.
2
I luoghi della Metafisica sono citati dall’edizione di GIOVANNI REALE, Aristotele. Metafisica, Rusconi Milano 1993.
33
34
col titolo di De Generatione et Corruptione.
Cominciamo col prendere in esame i due luoghi della Metafisica, il primo si trova nel libro Lambda, capitolo 3 (1070a 4-5), in
cui Aristotele scrive:
La sostanza si genera da ciò che è sinonimo
Come si vede Aristotele usa il termine “sinonimo” per indicare
la tipologia del genitore rispetto al generato. Per la definizione di
“sinonimo” è necessario far riferimento alle Categorie3, in cui Aristotele spiega che sono sinonimi i termini che hanno lo stesso nome
e la stessa definizione4, cioè condividono anche la stessa essenza
(o sostanza5).
Nel passo seguente Aristotele fa riferimento sempre alla condivisione da parte di genitore e generato della stessa essenza, utilizzando a livello lessicale i termini “specie”, o “natura”, collegati tra
loro da quello di “forma”. Scrive lo Stagirita in Metafisica, Zeta, 7
(1032a 24-25).
Ciò ad opera di cui le cose si generano è natura: natura intesa nel senso di forma, della medesima specie del generato (ancorchè risiedente in un altro individuo diverso):
infatti è sempre un uomo che genera un altro uomo
Il quadro finora disegnato viene completato da quanto si legge
nel seguente passaggio tratto dal De Generatione et Corruptione,
5 (320b 18-20), che introduce il concetto di ‘essere in atto’, come
tratto distintivo del genitore, che proprio in quanto possessore di
una certa forma in atto, è in grado di trasmettere quella stessa
forma (nella generazione naturale non in quella artificiale) al generato:
Pertanto come si è stabilito anche in altri luoghi, una cosa
si genera in senso assoluto dall’altra, ossia <si genera> da
3
Cat. 5, 1. I sinonimi si differenziano dagli omonimi e dai paronimi. “Si dicono sinonime
le cose delle quali il nome è comune e la definizione corrispondente al nome è la medesima. ad esempio è detto ‘animale’ l’uomo e il bue” (1a 6-8).
4
Si ricordi che per Aristotele la definizione rappresenta il ‘discorso che dice l’essenza’
(logos tes ousias)
5
In questa sede i termini ‘essenza’ e ‘sostanza’ possono essere usati come interscambiabili, ancorchè in Aristotele non siano esattamente equivalenti dal momento che ogni essenza è certamente sostanza, ma non ogni sostanza è essenza.
qualcosa che è in atto, <ed è> o della stessa specie - come
il fuoco si genera dal fuoco o l’uomo dall’uomo - oppure
<da qualcosa di specie diversa ma sempre in> atto6.
La rilevanza del ‘principio di sinonimia’ risiede nel fatto che si
crea un legame diretto ed esplicito tra generante e generato. Tale legame coinvolge l’essenza stessa del genitore, oltre che quella del
generato, nella trasmissione dall’uno all’altro della forma, o essenza, che contraddistingue specificamente gli individui.
Nella classificazione ontologica di Aristotele individui appartenenti alla medesima specie (ad esempio ‘uomo’) sono caratterizzati dall’avere la stessa forma, che si manifesta però a livello
concreto in quell’unione inscindibile con la materia che è il sinolo.
Pertanto, ogni individuo, in virtù dell’unione tra materia e forma,
porta in sè l’essenza della specie alla quale appartiene, che mantiene quindi un livello universale pur essendo nel concreto parte di
un ente individuale. Tale posizione, riassumibile con l’etichetta di
“essenzialismo”, non accettata universalmente nella comunità
scientifica aristotelica, sembra essere però la sola in grado di spiegare in modo coerente ed efficace il processo generativo in Aristotele e di rendere conto di alcune affermazioni del Filosofo che
altrimenti resterebbero piuttosto oscure. Il fatto di considerare gli
universali (si badi bene si tratta della specie e non del genere, che
è universale ma a titolo differente7) nelle cose ha come corollario
la fissità delle specie e la necessità che la specie stessa possa essere
perpetuata attraverso la trasmissione da padre a figlio8. Che è proprio quanto afferma il ‘principio di sinonimia’.
Al tempo stesso condividere la stessa essenza non impedisce di
essere due individui differenti. Le differenze sono dovute principalmente all’intervento della materia, cioè di quel sostrato di per sè
indifferenziato, caratterizzato dall’essere pura potenzialità, che
consente, accogliendo in sè la forma-specie, il venire-all’essere di
un nuovo ente.
6
ARISTOTELE, De Generatione et Corruptione, traduzione nostra, dal testo critico stabilito
da BEKKER.
7
Si veda Metaph., Z, 3
8
L’eternità conosciuta dagli enti terrestri non è numerica, ma specifica.
35
36
2. Da Aristotele in poi quindi l’evocazione del concetto di generazione rimanda in ambito filosofico a quanto illustrato attraverso
il principio di sinonimia.
E questo sembra essere anche il caso quando nel Credo nicenocostantinopolitano si pronunciano le parole relative alla generazione di Gesù:
Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero generato,
non creato, della stessa sostanza del Padre
E’ stato probabilmente fondamentale per i Padri conciliari distinguere la generazione dalla creazione ed esplicitare che, nel caso
di Gesù, la sua derivazione dal Padre, per azione dello Spirito
Santo, sia da classificare come generazione e non come creazione.
Se si fosse trattato di creazione infatti si sarebbe verificata quella
distanza ontologica tra Padre e Figlio tipica dell’azione creatrice
che tiene in un certo senso ben distinti creatore e creatura9.
Tale distinzione tra l’essere del Creatore e l’essere delle creature
fu avvertita in maniera tanto vivida da condurre ad esempio san
Tommaso all’elaborazione della famosa “analogia dell’ essere”, in
grado di rendere conto dell’utilizzo dello stesso termine “essere”
per due realtà così differenti, cioè le modalità secondo le quali Dio
“è”, e quelle secondo cui l’uomo, e le altre creature, “sono”.
Invece, affermando nel Simbolo della Fede Apostolica che
Gesù è stato “generato” dal Padre “prima di tutti i secoli” l’intenzione espressa indica proprio la condivisione della stessa essenza
tra Dio-Padre e Dio-Figlio (tralasciamo in questa sede la processione dello Spirito Santo e l’Incarnazione di Gesù nel grembo
della Vergine Maria). Dio-Padre e Dio-Figlio dunque sono ‘co-sostanziali’, identici secondo l’essenza, pur essendo distinguibili secondo le persone.
Quanto appena sostenuto appare ancora più fondato se si considera che già il testo del Primo concilio di Nicea del 325 recita:
ghennethènta ou poiethènta homoùsion tò patrì, dove per il nostro dis-
9
Anche l’espressione ‘da Dio’ è tipica della descrizione riguardante la generazione di
Gesù e non la creazione. Cfr. R. SORABJI, Time, creation and continuum, Duckworth,
London 1983; p. 294
corso appare estremamente importante quell’homoùsion, vale a dire
‘con uguale ousia’, che poi sarà reso con il Latino “co-substatialem”, termine usato per la prima volta da Tertulliano.
Come abbiamo già avuto modo di ricordare, nei casi riguardanti
gli enti fisici, la differenziazione numerica tra gli individui, che ancora una volta condividono la medesima forma (o essenza) è da attribuire alla presenza della materia e di quelle categorie accidentali
che ineriscono ad un certo sostrato.
Si potrebbe quindi affermare che il ruolo in Aristotele svolto dalla
materia, che rende numericamente distinguibili gli individui appartenenti alla stessa specie, venga assunto nell’ambito della Trinità dalla distinzione delle persone divine, dove per ‘persona’ si
deve intendere la peculiarità che ognuna porta in sè.
Tale peculiarità, che nel caso della Trinità distingue appunto le
tre persone divine, sarà costituita dalla categoria della relazione
che va ad introdurre la differenziazione tra Padre, Figlio e Spirito
Santo10.
D’altra parte non mancano nel vasto panorama della storiografia filosofica aristotelica interessanti studi sul rapporto essenza-individuo volti a mettere in luce l’impossibilità di ridurre ad identità
un certo individuo e la sua essenza specifica11.
Ecco un altro punto dell’ontologia aristotelica potenzialmente
utile alla ‘costruzione’ filosofica del dogma della Trinità: Aristotele
ammette un’unità specifica degli individui appartenenti alla medesima specie, ma ne salva l’individualità grazie alla precisazione che
essi esistono come sinoli di materia e forma.
Particolarmente illuminante è il contenuto, ma anche la terminologia, del seguente brano tratto da un bel volume sull’ontologia
trinitaria di Michele Federico Sciacca:
Attraverso il processo di generazione e di processione il
10
In questi termini, ad esempio, è posta la questione in Boezio (Trattati teologici, Quomodo Trinitas unus deus ac non tres dii, III)
Si veda ad esempio lo studio di F.A. LEWIS, What is Aristotle’s Theory of Essence?, New
Essays on Aristotle, in «Canadian Journal oh Philosophy», Supplementary Volume X;
pp. 89-131.
11
M.F. SCIACCA, Ontologia triadica e trinitaria. Discorso metafisico teologico, L’Epos, Palermo 1990; p. 80.
37
38
Verbo e lo Spirito sono termini relativi, e dunque distinti, di
una sola sostanza, cosustanziali e coessenziali: Dio-Uno è
nelle tre Persone, e queste sono in Dio-Uno, l’Assoluto. La
Sostanza divina è identica e tutta nelle tre Persone che sono
tre relativi in essa sussistenti, nessuno dei quali è più o
meno dell’altro, e ciascuna è l’identico Dio.12
E lo stesso Autore continua il discorso mettendo bene in chiaro,
riprendendo la Somma di san Tommaso, che se è solo la persona
del Figlio il termine che realizza l’Incarnazione, si deve tuttavia ritenere principio di essa tutta la Trinità:
Maturi i tempi, s’incarna il Figlio o Dio-Verbo di Dio, il
Logos generato da Dio-Padre; s’incarna, ed è Gesù Cristo;
in Lui è la Trinità13.
Questa lettura del senso della generazione all’interno della Trinità viene confermata anche da quanto afferma san Tommaso
d’Aquino nella sua Summa Theologiae14 quando distingue due sensi
di generazione: in un primo senso si parla di generazione facendo
riferimento a tutto ciò che è generabile e corruttibile, in un secondo
senso si parla di generazione facendo riferimento al mutamento dal
non-essere all’essere. Quando si vuole parlare degli esseri viventi si
usa il secondo senso di generazione, che corrisponde quindi alla
nascita. Tuttavia, precisa l’Aquinate, non ogni caso di questo secondo senso può essere detto ‘generato’, ma soltanto quello che
procede secondo similitudine (secundum rationem similitudinis).
Gli esempi portati da san Tommaso sono gli stessi usati da Aristotele per indicare la trasmissione della stessa essenza da genitore a
generato, racchiusi un po’ tutti nell’espressione divenuta emblematica “l’ uomo genera l’uomo”15.
12
Ibid., p. 91
SAN TOMMASO, Summa Theologiae, pars I, quaestio 27, art. 2
14
Molto nota è la versione in cui alla causa formale viene associata quella efficiente:
homo generat hominem et sol, tratta da Phys., II, 2 194b, 13. Viene inclusa nelle Auctoritates Aristotelis, testo imprescindibile quando si studino gli autori medievali. Cfr. J.
HAMESSE, Les Auctoritates Aristotelis. Un florilège médiéval. Etude historique et édition
critique. Publications Universitaires, Louvain-Paris 1974; p.145.
15
DENZINGER-SCHÖNMETZER, Enchiridion Symbolorum definitionum et Declarationum de
rebus fidei et morum, editio XXXVI, Herder Freiburg im Breisgau 1965; p. 39
13
Queste sono le modalità secondo le quali per san Tommaso avviene nella Trinità la generazione ab aeterno del Verbo dal Padre.
La questione è sottile e filosoficamente ricca di implicazioni
come sembra già suggerire un testo antico attribuito di solito a papa
San Damaso I oppure a San Girolamo, catalogata nell’ Enchiridion
Symbolorum16 come Formula “Fides Damasi” nuncupata (71), in
cui vengono accostate ma tenute ben distinte le possibili ‘produzioni’ divine, e cioè la creazione, l’emanazione e la generazione:
Pater Filium genuit, non voluntate, nec necessitate, sed
natura
Come si vede l’azione divina volta a ‘produrre’ qualcosa può essere di tre tipi: la prima prevede il ruolo prioritario della volontà ed
è facile immaginare che il riferimento sia alla creazione che è stata
in un dato momento originario voluta da Dio e quindi realizzata, la
seconda mossa da necessità è la cosiddetta emanazione di stampo
neoplatonico, e cioè quell’atto creativo da parte di Dio che però
non implica alcuna volontà da parte sua, poichè Egli sarebbe semplicemente necessitato in una simile opera. Infine troviamo la generazione, in cui il ruolo preminente spetta alla ‘natura’, che com’è
noto in ambiente latino è uno dei modi prediletti per rendere i termini greci ousia o eidos17.
La classificazione proposta è quindi riassuntiva di un certo percorso dell’analisi filosofica, ontologia e teologica sul ruolo originario del Dio biblico e sulle modalità da attribuirgli nei processi di
derivazione dell’altro da Sè. Processi che è necessario tenere distinti
dal momento che si differenziano in modo significativo quando si
voglia stabilire un coinvolgimento diretto dell’essenza divina nel
processo, come avviene nel caso della generazione del Figlio, oppure non lo si voglia, come nel caso della creazione.
Comunque sia, si rivela una precisazione di primaria impor-
16
Si veda ad esempio quanto scrive BOEZIO nel suo Contra Eutychen et Nestorium opera
del v secolo (III, 35).
17
“quod Graece ousia dicitur Latine dicatur essentia sive subsistentia sive natura“
La versione dalla quale citiamo è quella arricchita dal commento di Gilberto Porretano.
39
40
tanza quella che struttura il rapporto Padre-Figlio nella Santissima
Trinità in termini di filiazione secondo il principio di sinonimia stabilito e analizzato da Aristotele. Un esempio significativo, ci pare,
di come categorie non soltanto filosofiche, ma anche classiche e
pagane, abbiano avuto fortuna e abbiano trovato un largo impiego
a servizio della comprensione e dell’analisi dei punti cardine della
riflessione teologica cristiana.
Alle origini della soggettività:
l’impossibilità di un io senza un noi
Antonio Martino
È solo per mezzo dell’empatia che siamo in grado di conoscere
l’esistenza di una vita psichica diversa dalla nostra.
S. Freud (1926).
Una delle più antiche ed essenziali domande filosofiche è quella
che verte attorno all’identità dell’umano. Γνῶθι σεαυτόν, «Conosci te stesso», è il celebre motto iscritto sul tempio dell’Oracolo di
Delfi e rimane un’istanza imprescindibile anche in epoca post-moderna. Difatti, dopo Socrate, tutta la speculazione filosofico-razionale dell’Occidente è animata dal tentativo di determinare il criterio
veritativo da utilizzare per una giusta comprensione dell’essere proprio e dell’essere dell’ente: la storia della Metafisica Occidentale
sembra già tutta condensata nel celebre motto delfico.
Se a porre la domanda metafisica («Perché l’essere e non il
niente?») è l’individuo umano che, oltre la contingenza, anela ad un
senso ultimo e trascendente, allora, nella propria autenticità,
l’uomo, in quanto apertura al senso, deve poter accettare e contemplare anche l’assurdo dell’esistenza e la possibile mancanza del
senso assoluto. Il singolo soggetto umano è donatore di senso esistentivo ma, essenzialmente, tra il travaglio e la sofferenza dell’esistenza, ricerca il senso esistenziale dell’essere in quanto essere. Il
proprio dell’umanità è la donazione di un significato ontico e la ricerca del senso esistenziale.
A determinare l’eventuale significato (Bedeutung) ontico-esistentivo è la «rete di significati» nella quale il soggetto si trova immerso
sin dalla nascita. Di contro, il senso (der Sinn) ontologico-esistenziale è possibile unicamente nel puro atto contemplativo che trascende l’ente in vista dell’essere. Il palese riferimento heideggeriano
non può prescindere dalla fondamentale istanza husserliana che,
nell’auspicare un ritorno alla soggettività quale unica via che possa
condurre alla verità oggettiva e al «significato ultimo» del mondo, at-
41
42
tribuisce all’intenzionalità un valore costituente1 come fondamento
della possibilità stessa dell’istituirsi degli oggetti e non soltanto collegante la coscienza alle cose (intenzionalità intramondana).
Uno dei meriti assoluti della fenomenologia husserliana, di
fronte alla crisi della metafisica e della scienza positiva, in particolare nel campo delle scienze umane e delle scienze dello spirito, è
stato quello di rendere manifesto un legame che risulta essere non
casuale.
Husserl vede nella storia della filosofia e della scienza europea
l’occultamento di quella soggettività che la fenomenologia deve restituire a se stessa contro ogni possibile alienazione e proprio nel
porre la legge intenzionale ultima della storia, il suo fine, nel dispiegamento e nell’esplicitazione della razionalità ad essa immanente al di là di ogni suo irrigidimento in forme dogmatiche.
Ecco il senso dell’idealismo fenomenologico husserliano: indagine analitica della soggettività e conseguente emersione del modo
concreto con cui essa costituisce quel mondo della cultura e della
storia che è dato, validamente ed intuitivamente, solo al soggetto e
alla comunità dei soggetti. Altra peculiarità della fenomenologia
trascendentale, cui apre la riduzione fenomenologica, è l’avvenuto
abbandono dei presupposti naturalistici e sostanzialistici del vec-
1
La direzione significativa del giudizio conoscitivo di carattere ontico è quella di un giudizio possibile, evidente e senz’altro assuntivo (assumtiven), quindi, forse, di un giudizio valido: «È assolutamente giusto che ogni rappresentazione rappresenta
un’oggettualità determinata ad essa conveniente e nessun’altra. Ma ciò vuol dire che
alla sua essenza e, più esattamente alla sua essenza significazionale (bedeutungsmäßigen Wesen), appartiene una certa inversione assuntiva ed un certo modo del giudizio.
Ogni atto predicativo ha la sua essenza significativa (Bedeutungswesen) […] La posizione assuntiva è qui una riflessione ontica, ciò che ho già definito riflessione categoriale, e lo è precisamente per gli atti categoriali. È il desumere un’idea del pensato in
quanto tale (e che precede, naturalmente, la possibilità dell’evidenza) […] È in questo
senso che ogni atto ha un significato. Ogni atto può essere preso in questa posizione e
può essere reso base di giudizi assuntivi, i quali, a prescindere dal fatto che essi stiano
sotto assunzione, hanno la forma di giudizi su questi e questi categoriali.
Detto in termini correnti: il significato come oggetto categoriale presunto, da supporre
e da assumere, è qualcosa che appartiene ad ogni atto predicativo». Cfr. E. HUSSERL,
Vorlesungen Über Bedeutungslehre. Sommersemester 1908, Martius Nijhoff Publishers,
Dordrecht / Boston / Lancaster, 1987; trad. it. A. Caputo (a cura di), La teoria del significato, Bompiani, Milano, 2008, pp. 344-345. Bisogna sottolineare il fatto che l’assunzione (daß Assumtion) non coincide senz’altro con il giudizio ipotetico: questo tipo di
assunzione si avvicina molto ad «una specie di ideazione» (eine Art Ideation).
chio idealismo. Per Husserl la possibilità di trasformare la coscienza
stessa in «cosa», in statico oggetto da quantificare, era il maggior
pericolo del naturalismo e del positivismo delle scienze di fine Ottocento e inizio Novecento. D’altronde, il «vissuto vivente», lo spirituale e l’interiorità erano i nuclei riflessivi di pensatori quali
Brentano, Husserl, Dilthey, Bergson, James. In altri termini, la fenomenologia ha intrattenuto fin dalla sua nascita un dialogo vivace con
la psicologia sperimentale cercando di definirsi per contrasto rispetto
a essa, ma anche di accoglierne le sollecitazioni offerte.
L’attuale contesto filosofico, dopo l’affermazione delle scienze
neurocognitive, ha, invece, l’arduo compito di restituire all’esperienza vivente una dignità speculativa. D’altro canto, in nome dell’oggettività neurologica pare pertinente «naturalizzare» la
fenomenologia reinserendo nelle neuroscienze la profondità esistenziale e irriducibile della soggettività umana (si parla a tal proposito di esperienza in «prima persona»).
Ma, cosa si intende propriamente con il termine «naturalismo»?
Se lo scopo è il recupero del ruolo dell’intenzionalità nei processi
di significazione, il processo di naturalizzazione non sarà determinato dalle strutture fisiche ma dall’espressione vivente del tessuto
esperienziale umano.2
2
Rimando imprescindibile per una piena comprensione del nostro articolo è il volume
collettaneo a cura di M. CAPPUCCIO, Neurofenomenologia. Le scienze della mente e
la sfida dell’esperienza coscienze, Bruno Mondadori, Milano, 2006. Salvo diversa indicazione le citazioni del presente scritto sono tratte dal libro a cura di Cappuccio indicando nome dell’autore, titolo del contributo e numero di pagina. Testo denso,
complesso, stratificato ed ormai riferimento obbligato per gli studi di area fenomenologica e di filosofia della mente, in questa grande opera collettiva, autorevoli rappresentanti del mondo scientifico e filosofico tentano di definire l’eventuale fondamento
di possibilità, tanto nell’ambito delle scienze cognitive quanto in campo filosofico, di
uno degli orientamenti più innovativi dell’epistemologia contemporanea: la neurofenomenologia. Le sei sezioni di cui consta il testo esplorano altrettante ramificazioni sia
del nuovo orientamento metodologico che dei contenuti proposti: dal problema della
formalizzazione di modelli matematici per lo studio dell’esperienza (sezione I) alla valutazione del «corpo vivo» come nucleo di riferimento della neurofenomenologia (sezione II); da problemi di metodologia e di analisi (sezione III) ai temi più significativi di
questa proposta: l’intersoggettività (sezione IV), la naturalizzazione (sezione V), la temporalità e la coscienza (sezione VI).
La neurofenomenologia, come sottolinea lo stesso Cappuccio nell’Introduzione, è il
tentativo di dar seguito ad un progetto di Francisco J. Varela (Santiago del Cile, 7 settembre 1946 – Parigi, 28 maggio 2001) il quale, almeno dal 1991, dal fondamentale vo-
43
44
Eppure, in modo essenziale, come concepire i termini «natura»
e «esperienza soggettiva»? Sono «assoluti naturali» oppure essi
stessi dei «costituiti», noemi di una coscienza intenzionale?
Ad ogni modo, le dinamiche fenomenologiche devono confrontarsi con scoperte come quella dei Mirror Neurons3 che forniscono
una nuova possibilità di indagare, in maniera multidisciplinare, le
affini similitudini, le analogie e le relazioni tra gli esseri umani e
dunque l’antica e sempre nuova questione della soggettività e del-
lume miscellaneo di F. J. VARELA, E. THOMPSON, E. ROSCH, The Embodied Mind,
MIT Press, Cambridge, 1991 (trad. it. La via di mezzo della conoscenza, Feltrinelli, Milano, 1992), si è occupato di accordare i risultati delle scienze cognitive e della mente
con l’esperienza vissuta e con l’analisi in prima persona. «Con “essere” […] non intendo […] nient’altro che l’esperienza» sostiene Varela sin dagli Settanta (Cfr. F. J. VARELA, Not One, not Two, in «CoEvolution Quart», 12, 1976, pp. 62-67) e, d’altro canto,
la neurofenomenologia, pur considerando essenziale l’apporto delle neuroscienze, implica «che ogni bravo studente di scienza cognitiva, che sia anche interessato ai problemi a livello dell’esperienza mentale, deve inevitabilmente raggiungere un alto grado
di abilità nella ricerca fenomenologica, per poter lavorare seriamente con le analisi in
prima persona. Ma questo può verificarsi solo se l’intera comunità di ricercatori riesce
a modificarsi […] in modo tale che questa competenza aggiuntiva diventi una dimensione essenziale per un giovane ricercatore. Per l’inveterata tradizione della scienza oggettivista, tutto ciò suona come un anatema, e infatti lo è. Ma non si tratta di un
tradimento della scienza: è una sua necessaria estensione e integrazione» (F. J. VARELA,
Neurofenomenologia. Un rimedio metodologico al «problema difficile», cit., p. 89). La
novità dei neurofenomenologi è lo stabilire la «natura irriducibile dell’esperienza cosciente: l’esperienza vissuta è ciò da cui partiamo» (p. 70) e non iniziare l’indagine,
come i filosofi della mente angloamericani, dai «contenuti mentali» (questa la differenza essenziale rispetto alla neurofilosofia di David Chalmers). Il progetto di ricerca è
ovviamente interdisciplinare: dalla filosofia di Husserl e Merleau-Ponty alle neuroscienze; dagli approcci desunti da pratiche meditative di tradizione buddista (cfr., ad
esempio, F. BERTOSSA e R. FERRARI, Meditazione di presenza mentale per le scienze
cognitive. Pratica del corpo e metodo in prima persona, cit., pp. 271-291). Cfr. anche
J. PETITOT, La svolta naturalistica della fenomenologia: «bisogna dunque conquistare
una concezione unitaria dell’obiettività fisica e della manifestazione fenomenologica»,
cit., p. 100. Lo stesso prefisso “neuro” del termine neurofenomenologia sembra non
suggerisce uno stravolgimento dell’impostazione trascendentale, ma serve a precisare
il suo campo di applicazione tematica. La fenomenologia mostra alle scienze cognitive
come costruire le proprie conoscenze partendo dall’evidenza dell’esperienza vissuta,
della corporeità costitutiva, della temporalità e dell’intersoggettività senza considerare
la mente come un supplemento giustapposto a un corpo, ma come l’effetto delle sue
operazioni nel mondo.
3
Dalla ricerca neuroscientifica del gruppo dell’Università di Parma guidato da Giacomo
Rizzolatti, risulta il fatto che i neuroni specchio sono dotati di una straordinaria proprietà: quella di provocare una reazione speculare nel sistema neurale dell’osservatore
passivo di un’azione altrui, stabilendo dunque una condivisione e una comprensione
immediata, diretta, pre-logica e pre-linguistica, tra gli esseri umani.
l’intersoggettività. Ecco prospettarsi e riacquistare uno spessore,
perduto nel corso delle ricerche neurologiche, il grande tema dell’intersoggettività o dell’empatia.4
La complessità dell’indagine sull’esperienza cosciente o in
«prima persona» abbisogna inevitabilmente dell’aiuto delle recenti
scoperte su quella che, con qualche approssimazione, si può definire la matrice neurofisiologica dell’intersoggettività. Inevitabili, a tal
punto, sono i riferimenti a quelle implicazioni neurofisiologiche
che, nell’interpellare fortemente la filosofia tout court, provocano
una complessiva riconsiderazione epistemica dei risultati, oggi confermati e potenziati, ottenuti dall’analisi fenomenologica della coscienza intenzionale pura. In altri termini, alcuni importanti risultati
dell’indagine fenomenologica sulla costituzione dell’essere umano,
sulla soggettività e sull’intersoggettività sono adesso confermati su
base neurale.5
Questo, in estrema sintesi, il multiforme quadro generale entro
cui prende senso la proposta della neurofenomenologia, il cui metodo di analisi si richiama alla fenomenologia e alla sua particolare
metodologia analitica. Oltre la posizione storica del padre della fenomenologia, l’orientamento di ricerca neurofenomenologico sviluppa alcuni motivi specifici e recupera innanzitutto la nozione di
corpo vivo come perno di una nuova attenzione all’esperienza vivente o alla soggettività incarnata6 che dir si voglia.
4
5
6
Cfr. L. BOELLA, L’empatia nasce nel cervello? La comprensione degli altri tra meccanismi neuronali e riflessione filosofica, cit., pp. 327-339.
Perché compiere tale «ambizioso tentativo» di superamento del divario tra scienze
umane e scienze esatte attraverso il «dialogo fecondo tra sperimentazione scientifica ed
esperienza vissuta»? Lasciamo rispondere F. J. Varela, fondatore di questa nuova disciplina, la Neurofenomenologia, che si colloca al crocevia di una tendenza innovativa e
segnata da una forte interazione multidisciplinare (epistemologia genetica di stampo
costruttivista, teoria della complessità, etc.) nell’ambito della ricerca: «La scienza e
l’esperienza si vincolano e si modificano a vicenda, come in una danza. Ed è qui che
giace il potenziale per la trasformazione. E qui si trova anche la chiave degli ostacoli
che questa posizione ha trovato all’interno della comunità scientifica, poiché ci chiede
di abbandonare una certa idea di come si fa scienza, e di mettere in discussione uno
stile di addestramento scientifico che è una parte importante della costruzione della
nostra identità», F. J. VARELA, Neurofenomenologia. Un rimedio metodologico al «problema difficile», cit., p. 89.
Cfr. N. DEPRAZ, Mettere al lavoro il metodo fenomenologico nei protocolli sperimentali. «Passaggi generativi» tra l’empirico e il trascendentale, cit., pp. 249-270.
45
46
La natura è una realtà intersoggettiva, realtà non soltanto per me
e per gli altri uomini che sono casualmente con me, ma è per noi
tutti, per tutti coloro che devono poter intrattenere con noi un commercio e devono potersi intendere con noi a proposito di cose e di
uomini.
Resta aperta la possibilità che in questo contesto entrino sempre
nuovi spiriti: possono entrarvi però soltanto attraverso i corpi vivi,
che sono rappresentati nella nostra coscienza tramite manifestazioni possibili e nella loro da manifestazioni corrispondenti.7
Il corpo vivente, come sintesi di esperienza vissuta direttamente
e di dati cinestetici, ovvero di spazialità e movimento, è ben distinto dalla mera materialità del corpo fisico (il riferimento è al secondo libro delle Idee di Husserl e alla Fenomenologia della
percezione di Maurice Merleau-Ponty), ed è questo il motivo per
cui i neurofenomenologi muovono verso una generale «naturalizzazione» delle scienze della mente, intendendo con questo termine, piuttosto che un necessario fondamento neurofisiologico
delle direttrici esperienziali umane, un ritorno alle analisi in «prima
persona»: lo scopo è l’aggiramento dell’impersonale oggettività dei
risultati in «terza persona»,8 propria del cognitivismo, del funzionalismo e del riduttivismo, tanto che pare opportuna l’osservazione
di Gallese, secondo il quale è «molto più interessante fenomenologizzare le neuroscienze cognitive che naturalizzare la fenomenologia.
Utilizzare cioè vari aspetti della riflessione fenomenologica sul
corpo vivo e sul ruolo da esso giocato nella costruzione della no-
7
E. HUSSERL, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. Libro primo: Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, Martinus Nijhoff, Den Haag, 1950-1952; trad. it. di G. Alliney condotta sulla terza edizione di
Halle, 1928, integrata da E. Filippini sulla base dell’edizione dell’«Husserliana», volume III, W. Biemel (a cura di), Torino, 1965-1981. Libro secondo: Phänomenologische
Untersuchungen zur Konstitution, Martinus Nijhoff, Den Haag, «Husserliana», volume
IV, M. Biemel (a cura di); trad. it. di E. Filippini, Torino, 1965-1982. Libro terzo: Die
Phänomenologie und die Fundamente der Wissenschaften, Martinus Nijhoff, Den Haag,
«Husserliana», volume V, M. Biemel (a cura di); trad. it. di E. Filippini, Torino, 19651982. La citazione è presa dalla nuova edizione V. Costa (a cura di), Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Arnoldo Mondadori Editore,
Milano, 2008, p. 520.
8
È palese il richiamo alla fenomenologia come necessario completamento della «dinamica neuronale di un soggetto».
stra realtà, e in particolare nella costruzione della nostra realtà intersoggettiva».9
La questione epistemologicamente più rilevante è, chiaramente,
lo stabilire un procedimento di accordo tra il metodo «empirico» o
«sperimentale» e quello «trascendentale» (difatti le neuroscienze
parlano di piano «sub-personale» e «personale»). Si tratta di un
campo di ricerca pionieristico e fecondo, ancora tutto da esplorare
e sondare nei suoi esiti.
Rivolgere l’attenzione alla mente, agli stati mentali e di atteggiamento proposizionale (connessi alle cognitive sciences) fa presagire considerevoli mutamenti nel rapporto tra filosofia e scienza,
forse persino un mutamento di paradigma. Cerchiamo di chiarire
quanto finora esposto con qualche esempio fornito dalle scoperte
in ambito neurofisiologico.
Se fino a qualche tempo fa il sistema motorio veniva concepito
come un semplice controllore di movimenti, recenti risultati sperimentali neurofisiologici inducono a pensare che esso sia piuttosto
deputato al controllo delle azioni, cioè di atti motori finalizzati al
raggiungimento di uno scopo, e dunque di atti in qualche misura
cognitivi. Un gruppo di neuroni premotori, tradizionalmente considerati parte della via finale comune mediante la quale l’agente
«risponde» a stimoli esterni o autogenerati, si rivela ora connesso,
correlato con il livello più astratto di descrizione di un’azione: la
sua finalità, la sua intenzione.
È stato pertanto sottolineato con forza il ruolo attivo dell’azione
nella determinazione e nella costruzione del processo di significazione del mondo, già a livello neurofisiologico. Rispetto alla percezione esterna la fenomenologia husserliana parla di «coscienza
posizionale presuntiva» e stabilisce una originarietà antepredicativa dell’«altrimenti che così» dell’esperienza percettiva.10
Esperire percettivamente un oggetto e rendersi coscienti di una
9
V. GALLESE, Corpo vivo, simulazione incarnata e intersoggettività. Una prospettiva neurofenomenologica, cit., p. 294.
10
E. HUSSERL, Erfahrung und Urteil. Untersuchungen zur Genealogie der Logik, Klassen
Verlag, Hamburg, 1948; trad. it. F. Costa e L. Samonà (a cura di), Esperienza e Giudizio. Ricerche sulla genealogia della logica redatte ed edite da Ludwig Landgrebe, Bompiani, Milano, 1995. pp. 29-133.
47
48
situazione presuppone una pre-determinazione attiva di sistemazione del materiale empirico. Tale azione è passiva nel senso della
modificazione e attiva rispetto alla realtà coscienziale. Tutto ciò sarebbe inspiegabile per mezzo dei soli studi in ambito neurocognitivo anche soltanto per la mancanza di un linguaggio adeguato ad
esprimere la complessità della situazione percettivo-coscienziale.
Insomma, innegabile è il fatto che dal mondo delle scienze cognitive proviene una sempre più urgente richiesta di filosofia.
Ma quale filosofia? Se il computazionalismo arranca dietro alla
complessità dell’encefalo11 e il riduzionismo fisicalistico si infrange
contro i fenomeni di emergenza e di auto-organizzazione sistemica, mentre gli approcci linguistici e mentalistici si paralizzano di
fronte «all’eccezionale ricchezza» dell’esperienza «prelinguistica»
e «preriflessiva», la neurofenomenologia avanza con la forza di una
proposta che è radicale e, al tempo stesso, scientificamente attendibile.
11
Il cervello umano è tuttora considerato il migliore strumento di calcolo che si conosca.
Esso mostra proprietà meravigliose, come la capacità di organizzazione altamente complessa e di tipo gerarchico, l’integrazione di input, il calcolo parallelo, proprietà emergenti, adattamento funzionale e strutturale (cosiddetta plasticità cerebrale). Si ritiene
che sia proprio quest’ultimo fenomeno a costituire la base delle funzioni cerebrali superiori e, allo stesso tempo, ad essere danneggiato per primo in caso di malattie cerebrali. Ad oggi gli obiettivi della ricerca neurofisiologica tendono a chiarire i meccanismi
molecolari della neurotrasmissione e della plasticità sinaptica, dalle sinapsi individuali
ai circuiti sinaptici fino alle malattie cerebrali. La forza di una connessione tra due neuroni può essere o migliorata o depressa e questi cambiamenti possono richiedere un
tempo estremamente variabile, che va da qualche millisecondo a un periodo di anni.
Si ritiene che questi meccanismi siano alla base delle modifiche nel flusso e nell’elaborazione delle informazioni indotti da fattori epigenetici e che conducono infine all’apprendimento e alla memoria. È recentissima la scoperta di un gruppo di ricercatori
dell’Università Milano Bicocca, dell’Università di Milano e dell’Università Vita-Salute
San Raffaele, che, diretti dalla neurologa Costanza Papagno, è riuscito a chiarire il processo con cui memorizziamo i nomi propri e il perché è così facile dimenticarli. Diverse
aree del cervello lavorano in sintonia per far affiorare il ricordo e riprodurre il suono verbale del nome: «Usando varie aree del cervello prima riconosciamo un volto, poi lo associamo ai suoi particolari biografici e alle emozioni che ci suscita e solo alla fine ne
ritroviamo il nome, integrando queste informazioni nei lobi frontali. Arrivando per ultimo, il ricordo del nome è il più difficile da recuperare e il più facile da dimenticare,
da cui la sensazione di averlo sulla punta della lingua». Per svelare il meccanismo che
permette il compiersi del passaggio di riconoscimento, Papagno e colleghi hanno testato
la memoria di 44 persone affette da tumore all’emisfero sinistro del cervello: i pazienti
ai quali era stato asportato il fascicolo uncinato, un fascio di fibre nervose che collega
il lobo temporale al lobo frontale, perdevano la capacità di associare il nome al volto
noto. Insomma, il «nome» viaggia tra i due lobi, lungo il fascicolo uncinato sinistro.
Dal nostro punto di vista l’unione feconda tra la neurofisiologia
e la fenomenologia non può prescindere da un’attenta riflessione
sul concetto di temporalità12.
Se il tempo dei vissuti non è il tempo delle «oggettività intenzionali» nei vissuti, allora l’isolamento del vissuto temporale soggettivo è eminentemente correlato nel conferire e costituire la cosa
come oggetto esperibile e l’altro come soggetto di un’esperienza
comune (cooriginarietà della possibilità di donazione del significato ontico). Il riflesso di carattere esistenziale che deriva da tale impostazione dell’indagine sul soggetto e sull’intersoggettività è il
seguente: l’uomo comprende il proprio essere perchè è (esiste, vive)
insieme ad altri suoi simili. L’accesso intenzionale all’evento seminascosto della donazione di senso è la deformazione reale che il
possibile subisce dalla facoltà interpretativa umana.
Tali affermazioni mostrano come sia l’attività psichica che quella
percettiva siano immerse in una rete relazionale di possibilità di
senso e come, da tale intreccio, emerga la realtà dell’agire in
quanto modificazione concreta di uno status sia esistentivo che esistenziale.
Nel sostenere l’estrema relazionalità della coscienza umana e
dell’intera realtà lo stesso quesito «Chi sono io?» diventa sempre
più affine alle domande «Che cos’è umano?» e «Che cos’è interumano?»: si tratta di interrogativi non susseguenti, ma compresenti
perché intimamente intrecciati.
Tale compresenza è profonda, significativa e straordinariamente
feconda: l’analisi di ciò che è proprio (identità, ego, ipseità) e di
ciò che è più propriamente mio (unicità individuale, via individuationis, sé) – l’identità personale con tutto il suo carico di percezioni,
emozioni, sensazioni localizzate (corpo vivente e agente), intenzionalità (mente e coscienza), psiche, anima, etc., carico che interpella in prima istanza la filosofia – ma non solo – non può più
essere disgiunta dall’esame di ciò che è estraneo (alterità, alter-ego)
e di ciò che è condiviso (intersoggettività, comunità, noità) ossia
12
Interessanti, a tal proposito, le osservazioni sulla temporalità della coscienza, tra filosofia e neuroscienze, di M. MALDONATO, Coscienza della temporalità e temporalità
della coscienza, cit., pp. 383-396.
49
50
dalla riflessione sull’identità relazionale e sociale, che dovrebbe gettare una nuova luce sull’immediatamente simile, comune, analogo.
Ecco, allora, che il tema in oggetto sembra fornire un’interessante
opportunità di ricerca per sviluppare l’attuale convergenza tra filosofia fenomenologica e neurofisiologia circa l’identità personale e
relazionale.
Naturalmente, la nostra ipotesi di ricerca si basa su di un assunto
che riprende la definizione della natura (di ciò che appare e quindi
è, dell’essere e dell’essente) intesa come ambito di ricerca sia sull’oggettualità materiale esterna che sulla possibilità di pensare l’intimo se stesso relazionalmente congiunto all’alterità (materiale e
umana). Il tempo è qui pensato come temporalità inter-relazionale
tra l’oggetto-simbolo nominato, che la facoltà memorativa mantiene rapportativamente attivo, e la stessa processualità del divenire
nell’ambito del quale tutto avviene. Se da un lato sembra che le diverse modulazioni del periodo temporale, strutturandosi attorno alla
natura modulare del percepito secondo una determinata frequenza,
rendano il flusso fisico-quantitavo rappresentabile qualitativamente
e quindi umanamente conoscibile, dall’altro bisogna domandarsi:
che cosa produce, determina, sostiene ed avvalora tale tendenza?
Nell’indagine epistemica di tali aspetti della questione particolare
importanza ricopre la nozione husserliana di Leib (corporeità vivente) e l’analisi fenomenologica dell’Einfühlung (il vissuto empatico o «entropatico», che consente il riconoscimento del «tu» come
«alter-ego») nonché la prospettiva neuroscientifica dell’embodied
cognition o embodied simulation («cognitività incarnata», «simulazione incarnata»).
Già da queste prime considerazioni emerge l’orizzonte filosofico-antropologico nel quale si stagliano nozioni assai problematiche e per nulla scontate, quali corpo, mente, sistema cerebrale,
coscienza, autocoscienza, psiche, spirito, identità, ego, alter-ego,
intersoggettività, ma anche azione, intenzione, movimento, esecuzione, rappresentazione, emozione, sulle quali tanto la filosofia fenomenologica quanto le neuroscienze cognitive oggi si
confrontano con fecondità d’intenti e di risultati. Se osservare non
significa solo registrare passivamente movimenti, azioni e comportamenti, ma simularli a livello pre-conscio, simularli internamente,
che cos’è questa simulazione-somiglianza che sa tanto di vicinanza, prossimità, condivisione, e che cos’è questo interno?
In altri termini: quando, come e dove si conclude il ruolo passivo
dello spettatore ed inizia quello attivo e dinamico dell’attore? Quale
cor-relazione tra identità e alterità? Tra identità personale e relazionale? Quale il vero peso della «coazione a ripetere», che il simbolo- segno comporta, rispetto all’agire umano? Riteniamo
possibile, parafrasando la nota affermazione hegeliana, affermare:
ciò che è reale è relazionale e ciò che è relazionale è reale. Insomma: è la relazione che genera l’identità? È il due che dice l’uno?
Si tratta della discussione, non sempre lineare e pacifica, tra filosofia, antropologia, psicologia, clinica psichiatrica, psicoanalisi, fenomenologia, scienze cognitive, neuroscienze, neurofisiologia:
cioè tra le scienze cosiddette «umane» o dello «spirito» e le scienze
cosiddette «empiriche», «naturali» o «esatte». Tra i due tipi di
scienza il conflitto sembra tendenzialmente irreversibile ma, benché proceda con metodo empirico-sperimentale, la neurofisiologia, ulteriormente integrata con il metodo neurofenomenologico, è
e rimane una scienza umana.13
13
La ricerca svolta in ambito neurofenomenologico deve seguire un particolare parallelismo dell’agire e presupporre una sincronicità ovvero una connessione acausale che
esprima relazioni le quali non possano essere formulate in termini di causalità: questa
l’importanza delle scienze umane per le scienze sperimentali. Facciamo nostre le parole di Hegel: «Invece di penetrare nel contenuto immanente della Cosa, questo intelletto sorvola costantemente sul Tutto e si colloca al di sopra dell’esistenza singola di cui
parla, e ciò significa che non la vede affatto.
La conoscenza filosofica, invece, comporta il rimettersi alla vita dell’oggetto, vale a
dire: essa esige che ci si ponga dinanzi all’oggetto e se ne esprima la necessità interna.
Assorbita così profondamente nel proprio oggetto, la conoscenza dimentica quel sorvolare sul Tutto, quell’astratta visione d’insieme che è solo la riflessione del sapere entro
se stesso al di fuori del contenuto. Ma una volta immersa nella materia, e procedendo
secondo il movimento proprio di questa materia, la conoscenza filosofica ritorna entro
se stessa; e questo ritorno entro sé, comunque, non avviene prima che il riempimento
o contenuto si sia ripreso entro sé e sia divenuto determinatezza semplice, abbassandosi esso stesso a un unico lato della propria esistenza ed elevandosi quindi nella propria superiore verità. Allora il Tutto riabbraccia se stesso nella sua semplicità,
riemergendo proprio da quella ricchezza in cui la sua riflessione sembrava essersi smarrita». G. W. F. HEGEL, System der Wissenschaft - Erster Teil - Die Phänomenologie des
Geistes, bei Joseph Anton Goebhardt, Bamberg und Würzburg, 1807; trad. it. a cura di
V. Cicero, Fenomenologia dello Spirito, Bompiani, Milano, 2000, p. 115..
51
52
L’età del Figlio
Inizio e Logos in Schelling ed Origene
Vito Limone*
Ultima Cumaei venit jam carminis aetas;
magnus ab integro saeclorum nascitur ordo:
iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna;
jam nova progenies caelo demittitur alto.
Tu modo nascenti puero, quo ferrea primum
desinet ac toto surget gens aurea mundo,
casta fave Lucina: tuus jam regnat Apollo.
Virgilio, IV, 4-10.
En archê ên ho lógos
kaì ho lógos ên pròs tòn theón
kaì theós ên ho lógos
ôutos ên en archê pròs tòn theón
Gv 1, 1-2
L’interpretazione che Schelling svolge del Prologo di Giovanni
nella Philosophie der Offenbarung1 (XXVII-XXVIII) è, sostanzialmente, una ripresa di numerosissimi motivi neo-platonici, ed in particolare dell’esegesi che Origene d’Alessandria propone nel
Commento al Vangelo di Giovanni (I-II)2 che probabilmente è
*
1
2
Una versione di questo articolo è già apparso in Rivista Teologica di Lugano, 17 (2012),
pp.85-102
F. W. J. SCHELLING, Philosophie der Offenbarung, in Sämmtliche Werke, hrsg. Von K.
F. A. Schelling, XIV Bde.,Cotta, Stuttgart und Augsburg 1856-1861); F. W. J. SCHELLING,
Filosofia della Rivelazione (a cura di A. Bausola), Bompiani, Milano 2002; Philosophie
de la revelation. Traduction de la RCP Schellingiana sous la direction de J. F. Marquet et
J. F. Courtine: Livre I: Introduction à la philosophie de la révélation, Paris 1989; Livre II:
Première partie, Paris 1991; Livre III: Deuxiéme partie, Paris 1994.
E’ presumibile che Schelling abbia avuto un contatto con altri autori della tradizione
neoplatonica greca (la Chiesa e la patrologia greche) in particolare, anche se molte edizioni furono pubblicate in francese o solo agli inizi del sec.XIX, in particolare di Origene di Alessandria (185-254), in epoca moderna, la prima edizione del Commentarium
in in Evangelium Joannnis è P.D.HUET, Origenis in sacras Scripturas commentaria, quae-
53
54
l’opera più autentica che ce ne sia pervenuta, essendo stato il
grande trattato del De Principiis quasi del tutto rimaneggiato dal latino Rufino. Il presupposto comune sia di Schelling che di Origene
per la comprensione del mysterium Christi, ossia per lo svolgimento
del problema cristologico, è che l’ek-sistenza di Dio sia eternamente preceduta da un Inizio immemorabile.
Dio è puro essere, puramente-semplicemente Essente (bloße Seyende), aplôs on, ma in quanto eternamente si solleva al di sopra di
un Abisso (Ab-grund)3, ossia al di sopra di un Inizio immemorabile,
che è l’Onnicompossibile, ciò da cui emerge tutto e il contrario di
tutto. Se, tuttavia, Dio è l’eternamente ek-sistente dall’Inizio immemorabile, ossia dal puro Possest originario4, e se dal Possest originario emerge qualsiasi cosa, compresa la possibile negazione di
Dio stesso, l’unico modo con cui Dio possa salvare il proprio essere, difenderlo dalla possibile negazione di se stesso che l’Inizio
immemorabile custodisce ed attiva, è di abbraccia in se stesso il
negativo di se stesso, ossia di farsi esso stesso altro da sé; farsi esso
stesso il negativum sui, appunto “creare”, “generare”.
Dio eternamente è sospeso sull’Inizio immemorabile – se dunque, eternamente la sua esistenza è minacciata dall’altro di sé, allora eternamente Dio salva il proprio essere, facendosi altro da sé
in se stesso ed affidando il proprio essere a questo altro che, in realtà, è Dio stesso come altro.
En archê ên ho lógos – se Dio eternamente genera il negativo di
se stesso, allora il Figlio, che è l’altro di Dio in quanto Padre, è eternamente generato, ossia è generato en archê, “Im Anfang”5.
Eternamente Dio può liberarsi dalla necessità dell’Inizio solo affidando il proprio essere ad un altro, solo consegnando la propria
cumque graece reperiri potuerunt, Rothomagi, sumptibus Joannis Berthelini bibliopolae via Judeorum,MDCLXVIII; nel sec. XVIII, un’altra edizione significativa fu quella di
C. e C.V. De la Rue, Origenis opera omnia, I-IV, Parigi, 1738-59; seguirono, quella di
F.Oberthür,Würzburg,1781-1786, quella di C.H.Lommatzsch, Berlino, 1831-1848 – si
può presumere, quindi, che Schelling abbia avuto un contatto diretto con questo autore,
essendone stato pubblicato in tedesco il Commentarium in Joannis Evangelium proprio
in accademie frequentate dallo stesso Schelling, Würzburg, ma soprattutto Berlino
3
Philo.derOffen., VIII-XII.
4
InJoh., II, I, 7; II, II, 18.
5
Philo.derOffen.,XXVIII, 104.
ousía ad un altro6 – ma non essendoci, en archê, altro al di fuori
di Dio e dell’abissale Inizio da cui ek-siste, Dio non può che porre
da sé colui cui perché il proprio essere possa superare (yper-nikao,
supervincère), possa sopravvivere al negativum sui che emerge dall’abisso stesso – Dio non può generare, dall’eternità, il suo altro; e
l’altro di Dio, appunto, il Figlio, non può essere che Dio stesso in
quanto altro, in quanto fuori di sé. «In Principio [Im Anfang] (questa espressione va presa in senso rigoroso: essa significa: “senza che
una qualsiasi cosa precedesse” [irgend etwas vorausging]) era il
Logos [war der Logos]7» - la generazione del Figlio è co-eterna all’ek-sistenza stessa di Dio: se Dio, eternamente è sospeso sull’abisso ed eternamente ne è minacciato, allora eternamente affida
all’altro da sé, ossia al Figlio, il proprio essere – perché possa esserne salvato, custodito – ma il Figlio, che è altro di Dio, non è altro
che Dio stesso in quanto si è auto-posto fuori di se stesso, si è esteriorizzato – extra-divinizzato.
«Egli era, ed in modo che assolutamente proprio nulla lo precedesse [schlechterdings nichts ihm vorausging]; egli, anche prima
che Dio si rivelasse come tale [selbst ehe Gott als solcher offenda
wurde], che si mostrasse [sich zeigte], era simpliciter8» - se il Figlio
non è semplicemente l’auto-negazione di Dio stesso, ossia l’autoesteriorizzazione di Dio, ma è il negativo di Dio e se Dio stesso è
necessitato a porsi fuori di sé, ossia alla generatio, dalla possibilità
del negativo di sé che emerge dall’Ab-grund der Vergangenheit9,
6
Tra le interpretazioni principali del contatto di Schelling con il Prologo di Giovanni cfr:
C. DANZ, Im Anfang war das Wort. Zur Interpretation des Johannesprologes bei Schelling und Fichte. In: Fichte-Sctudien, VIII (1995), pp. 21-39; L. PROCESI XELLA, Der Prolog des Johannesevangelium in Schellings Philosophie der Offenbarung, in: Adolphi
/Jantzen 2004, pp. 337-353; W. A. SCHULZE, Das Johannesevangelium im deutschen
Idealismus, in: Zschr. F. philos. Forschung XI (1957), pp. 575 – 593; K. H. VOLKMANNschluck, Mythos und Logos. Interpretation zu Schellings Philosophie der Mythologie,
Berlin.
7
Philo.derOffen., XXVIII, 104.
8
Philo.derOffen., XXVIII, 104-5.
9
Cfr. X. TILIETTE. Schelling und das Problem der Metaphysik in Perspektiven der Philosophie, II (1976), pp. 123-143; J. B. AYRNOLD, Lehrbuch der Metaphysik. Nebst einem
Grundisse der Geschichte der Philosophie. Nach der Grundlage von Franz Anton
Nuesslein’s Vorlese – H. bearb. Durch J. B. Ayrnold, II: Geschichte der Philosphie, Augsburg; W. BECKER, Schellings Konstruktion des Christentums, in D. HEINRICH; H. WAGNER, Subjektivitaet und Metaphysik. Festschrift fuer W. Cramer, Frankfurt, pp. 1-20; H.
BECKERS, Ueber die Bedeutung der Schelling’schen Metaphysik. Ein Beitrag zum tief-
55
56
ossia dall’Abisso iniziale, allora il Figlio, quel negativo che necessita Dio stesso alla generazione, è co-originario a Dio e addirittura
precedente la stessa generazione (se la generazione non è altro che
la prima Offenbarung del Padre10).
Se il Figlio, che è eternamente generato da Dio, è Dio stesso in
quanto altro da sé, e se l’altro di Dio è anche quel negativo che
emerge dall’abisso dell’Inizio e che minaccia l’ek-sistere stesso di
Dio, allora il Figlio, in quanto altro di Dio, pre-esiste addirittura alla
sua stessa generazione. Dio, in tanto può eternamente generare il
negativo di sé, ossia il Figlio a partire da se stesso, solo in quanto
eternamente è minacciato da questo negativo di sé, che eternamente l’abisso dispiega co-originariamente all’ek-sistere di Dio
stesso.
Ebbene, il Figlio è l’altro di Dio, ovvero Dio in quanto altro, cui
Dio eternamente affida il proprio essere – se Dio è il semplicemente-puramente Essente (bloße Seyende), ossia l’actu Actus purissimus, allora il Figlio, ricevendone in consegna l’ousía non può
che essere actu Actus purissimus, appunto nothwendig Existierend,
l’Essente nella sua solarità - «egli era nel puro essere, cioè in quell’actus purissimus dell’essere divino stesso, ma appunto perciò non
come potenza o personalità particolare [nicht als besondere Potenz
oder Persönlichkeit]. Queste parole indicano dunque, con tutta precisione, il momento in cui noi pensiamo il Logos inizialmente nell’assoluto principio, ossia il momento in cui egli è il puramente
essente di Dio [das rein Seyendes Gottes ist]11». Il discorso schellinghiano a proposito della prima pr tasis, della prima Satz,è integralmente recuperato dall’interpretazione e dall’esegesi di Origene
del Prologo di Giovanni. L’inizialità del Logos, in quanto Figlio di
Dio, protptokos pases ktíseōs12, in quanto primum generatum, è cooriginaria all’inizialità dell’atto auto-distinguente-si di Dio - «Dopo
queste cose, il “principio” può essere inteso nel senso di “la causa
eren Verständiniß der Potenzen – oder Prinzipienlehre Schelling’s. Aus den Abhandlungen der k. Bayer. Akademie d. W. L, CI, IX, Bd. 11, Abth, München; C. ASMUTH, Anfang und Form der Philosophie. Überlegungen zu Fichte, Schelling und Hegel. In:
Asmuth /Vater 2000b, pp. 403-417.
10
Philo.derOffen., XXVIII, 105.
11
Philo.derOffen., XXVIII, 105.
12
InJoh., I, XVII, 105.
secondo cui”, ossia la forma [eîdos]: così se il primogenito di ogni
creatura è l’immagine del Dio invisibile [eikon toû theoû toû aorátou], il suo principio è il Padre [archè autoû hò pater]. Analogamente, anche Cristo è il principio di tutto ciò che sia stato fatto a
immagine di Dio.
Se infatti, gli uomini sono “a sua immagine” e se l’immagine è
conforme al Padre, il Padre, in quanto Inizio, è il per-sé del Figlio
[kath’hò toû Christoû hò pater archè], e Cristo è il per-sé degli uomini che siano stati fatti non a immagine di colui di cui l’immagine
è immagine, ma dell’immagine stessa: la frase “In principio era il
Logos” si può, dunque, applicare all’esemplare stesso13».
Se Dio eternamente genera il Figlio, ossia eternamente si autonega ponendosi come assolutamente altro, esteriorizzandosi, allora
il Figlio non può essere che eikon del Padre, che, a sua volta, è il kath’hò del Figlio, ossia il “per-sé”, il “ciò-rispetto-a-cui” il Figlio si determina, si riconosce.
La generazione del Figlio non è concepibile se non come autodifferenziazione di Dio rispetto a se medesimo, ossia come auto-distinzione di Dio rispetto a se stesso, come auto-mimesi,
auto-rappresentatività di Dio a sé - «l’espressione “ha eruttato” è
usata non invano: al posto di questa se ne potevano usare anche
altre: “il mio cuore ha emesso, ha detto … una buona parola” Come
l’eruttare è il venire fuori di aria nascosta in chi erutta [pneúmatós
tinos apokrúptou eis phaneròn próodos estin e erugè toú ereugoménou], e per così dire, manda in su aria che è dentro, allo stesso
modo il Padre, non contenendo i teoremi della verità, li erutta e ne
crea l’impronta nel Logos [tà tês aletheías theorémata ou synéchon
ho patèr ereugetai kaì poieîtòn typon autōn en tō lógō], che per questo è detto “immagine di Dio invisibile”. Questo, se si accetta il
presupposto dei molti che sia il Padre a dire ciò: “Il mio cuore ha
eruttato una buona parola”14».
Il Figlio, in quanto è l’altro di Dio, ne è la compiuta manifestazione, rivelazione, apparizione – ma una manifestazione che conserva sempre una irriducibile differenza rispetto al suo Revelatum:
13
14
InJoh., I, XVII, 104-105.
InJoh., I, XXXIX, 283-4.
57
58
Dio eternamente genera il Figlio, affidandogli il proprio essere e il
Figlio è Offenbarung, rivelazione-esteriorizzazione di Dio, che, tuttavia, rispetto al Figlio, è l’eternamente-passato. L’auto-negazione di
Dio, ossia la sua auto-posizione come altro, implica necessariamente l’eclissarsi di Dio, ossia il suo inabissarsi nell’Inizio (archè)
e il suo trasmettere il proprio essere al Figlio15: la generazione implica necessariamente una separazione, in cui il generante, generando un generato, è identico al generato – in quanto l’essere del
generato è il medesimo del generante – e, allo stesso tempo, ne è
irriducibilmente altro – infatti, se generante e generato fossero lo
stesso, non si avrebbe nessuna generazione.
Dio genera eternamente il Figlio ed eternamente Dio è non altro
dal Figlio, pur essendone altro, pur essendone l’eternamente-passato. Se la generazione del Figlio implica, da una parte, l’inabissamento di Dio, e dall’altra parte, la traduzione16 dell’essere del Padre
al Figlio, allora in quanto l’essere del Padre si conserva nel Figlio,
il Padre continua nel Figlio e in quanto il Padre non è il Figlio, il
Padre è il sui eternamente-passato. Perciò, il Figlio è rivelazione di
Dio, ossia manifesta il suo eternamente-passato, pur essendone irriducibilmente distinto: per quanto il Figlio possa dire Dio, che lo
genera eternamente, mai il Figlio potrà dirlo completamente, essendo Dio Padre necessariamente altro dal Figlio, appunto il suo
passato.
Il Figlio manifesta il Padre, pur dicendosi altro dal Padre, allo
15
Cfr. C. DANZ, De Vater ist nicht wirklich ohne den Sohn, Erwägungen zu Schellings
Auseinandersetzung mit Athanasius von Alexandrien. In: Adolphi / Jantzen 2004, pp.
465-482; Geschichte als fortschreitende Offenbarung Gottes, Überlegungen zu
Schellings Geschichtsphilosophie. In: Danz/ Diersmeier / Seysen 200 1b, pp. 69-82;
De Gedanke der Persönlichkeit Gottes in Schelling – Philosophie der Offenbarung, in :
Buchheim / Hermanni 2004, pp. 179-195 [Protokoll der Diskussion, pp. 270-275]; sulla
relazione tra lo gnosticismo e la filosofia della rivelazione di Schelling cfr. P.
KOSLOWWSKI, Philosophien der Offenbarung. Antiker Gnostizismus, Franz von Baader,
Schelling. Durchges. U. korr. Aufl., Paderborn /Muenchen /Wien; D. C. F. BAUR, Die
Schelling’sche Naturphilosophie. In: Die christliche Gnosis oder die christliche Religionphilosophie in ihrer geschichtlichen Entwicklung, Tübingen, pp. 611-626; K.
RUDOLPH, Gnosis und Gnostizisums, Darmstadt 1975; X. TILIETTE, Schelling between
gnosisand Philosophy. In: Filozopska Istrazivanja, Zagreb, XXIV (1988), pp. 61-71;
Schelling und die Gnosis, In: P. KOSLOWSKI, Gnosis und Mystik in der Geschichte der
Philosophie, Zürich /München, pp. 260-273; Schelling zwischen Gnosis und Philosophie, in: Synthesis Philosophica III (1988), pp. 209-221.
16
De Princip., I, II, 10
stesso modo in cui il Padre si dischiude nel Figlio, come suo eternamente-passato – il Padre si dischiude nel Figlio, pur dicendo la
sua irriducibile eccedenza ad esso. «’Unigenito, poi, è verità, in
quanto contiene le ragioni di tutte le cose, secondo la volontà del
Padre [Alétheia de ho monogenés esti pánta emperielephòs tòn peri
tòn olòn kata to boulema toû patròs], con assoluta chiarezza, e fa
che ogni essente, secondo il merito che gli compete, ne partecipi.
Qualcuno potrebbe domandarsi se il nostro Salvatore conosca
tutto ciò che è conosciuto dal Padre, secondo l’“abisso della sua
ricchezza, della sua sapienza e della sua conoscenza”, e nell’intenzione di glorificare il Padre, potrebbe immaginare che alcune
cose che sono conosciute dal Padre, non siano invece conosciute
dal Figlio, il quale giunge ad uguagliarsi alle rappresentazioni del
Dio ingenerato.
Sarebbe, inoltre, necessario convincerlo a partire dal fatto che il
nostro Salvatore sia verità, e argomentare che, se la verità abbraccia il Tutto, egli non ignori nulla di ciò che è vero, perché non si dia
una verità che manca delle cose che non conosce e che, secondo
questi, si troverebbero soltanto nel Padre [Kat’ekeinous tynchánousin en monō tō patrí, e deikuto tis óti estìn à ginoskómena tês
aletheías prosegorías ou tynchanonta alla yper auten ónta]. Altrimenti, bisognerebbe dimostrare che ci sono cose non conosciute,
ma che non cadono sotto il nome di verità, ma la oltrepassano»17.
Il Figlio, in quanto aletheia, è dis-velamento, ossia dice il Padre,
disdicendolo; rivela il Padre, pur dicendone la assoluta ed irriducibile trascendenza reciproca – se il Figlio e Dio che eternamente lo
genera fossero lo stesso, allora cadrebbe lo stesso concetto di generazione, di filiazione.
Kaì ho lógos ên pròs tòn theón – «il discorso passa subito però
oltre, giungendo, da questo momento dell’essere immemorabile,
laddove ciò che era in principio [was im Anfang war], dove questo
puro essere già posto ex actu puro, ipostatizzato, potenzializzato,
è fatto un Essente, è presso Dio [bei Gott]18»: l’auto-negazione di
17
18
InJoh., I, XXVII, 186-187.
Philo.derOffen., XXVIII, 195.
59
60
Dio, ossia la generazione come produzione del Figlio che non è
altro se non l’altro di Dio che è Dio stesso (appunto auto-differenziato), implicando l’attualizzazione del Figlio, ossia il suo farsi Essente (actu Actus purus), implica, in uno, la distinzione reale di
Padre e Figlio. Dio in quanto actu Actus purissumus, ossia semplicemente-puramente Essente, si nega come bloße Seyende, ritornando nell’abisso dell’Inizio, ossia potenzializzandosi – ma
l’auto-potenzializzazione19 del Deus-esse implica l’ek-sistentificazione del Figlio, ossia il farsi atto del Figlio, l’emergere del Figlio e
il suo porsi come Seyende, come Essente.
Fintantoché il Dio è il semplicemente-essente, il Figlio è mera
potenza, Möglichkeit – ma l’auto-negazione del Padre come atto,
ossia la sua potenzializzazione, implica l’autonegazione del Figlio
come potenza, ossia la sua attualizzazione. Il Figlio è l’altro di Dio
in atto. Ma in tanto il Figlio può essere in-atto solo in quanto Dio si
eclissa e lascia spazio al Figlio – solo in quanto Dio si nega come
atto ed affida il proprio essere al Figlio, ossia all’altro di se stesso
che genera da se stesso, cui dà esistenza a partire da se stesso.
L’essere del Figlio l’altro di Dio in-atto, ossia l’attualità del suo distinguersi dal Padre, non è altro che il suo essere bei Gott, ossia il
suo essere für-sich-seyn, il suo esser-per, il suo stare-presso, il suo
essere pros. La prossimità di Padre e Figlio non è altro che il loro trascendersi reciproco, il loro eccedersi: il Figlio, in quanto attualmente esistente, è l’altro di Dio che è generato da Dio stesso – è Dio
stesso in quanto assolutamente-totalmente altro da sé, e ciò che
dice questa necessaria differenza è esattamente la loro reciproca
prossimità, il loro esser-per.
«Qui c’è certamente un progresso [Fortschritt]. È il medesimo
eppure in certo modo già un diverso Logos [er ist derselb und doch
19
Cfr. A. FRANZ, Materie – Moeglichkeit – Wirklichkeit. Überlegungen zum hypostasierenden Charakter des Demkens Schellings anhand seines “Begriffes einer
eigentlichen Geisterwelt”, in: Perpektiven der Philosophie XVI (1990), pp. 46-73; J. F.
HERBART, Versucht einer Deurtheilung von Schelling’s Schrift: Über die Möglichkeit
einer Form der Philosophie überhaupt. 1796, in: J. F. HERBART’s kleinere philosophische Schriften und Abhandlungen, nebst dessen wissenschaftlichem Nachlasse, Hg. v. G.
Hartenstein. III, Leipzig, pp. 43-49; M. SCHRÖTER, Der Ausgangspunkt der Metaphysik
Schellings entwickelt aus seiner ersten philosophischen Abhandlung “Über die
Möglichkeit einer Form der Philosophie überhaupt”, Jena.
gewissermaßen schon ein anderer Logos], quello che era en archê,
e quello che è pros tòn theón, presso Dio, già distinto da Dio, potenza particolare. Ho theós, il Dio chiamato tale determinatamente,
con distinzione presso il quale è il Logos, è appunto colui nel dominio del quale sta l’altro essere distinto dal suo essere eterno [in
dessen Gewalt das andere von seinem ewigen Seyn verschiedene
Seyn steht]: ho theós è dunque colui che nel seguito si chiama
Padre20» - tra il primo momento (En archê ên ho lógos) ed il secondo
(Kaì ho lógos ên pròs tòn theón) c’è una differenza irriducibile, c’è
una processione, anche se, de facto, i tre momenti sussistono eternamente e simultaneamente: nel primo momento, Dio è actu
Actus purissimus, appunto bloße Seyende, ossia puramente Essente, e il Figlio, in quanto l’altro di Dio, è possibilità della negazione di Dio, ossia pura potenza che “giace” nell’abisso
dell’Inizio che Dio stesso custodisce dentro di sé; nel secondo
momento, Dio si ritrae in se stesso, si inabissa, ritorna al fondo di
se stesso, eclissandosi e potenzializzandosi, e il Figlio emerge dall’abissalità dell’Inizio che Dio custodisce in sé, attualizzandosi,
ponendosi come esser-per, ossia come nothwendig Existierend,
appunto necessariamente Essente.
Nel primo momento, Dio eternamente ek-siste dall’Inizio abissale e custodisce dentro di sé la possibilità eterna della sua negazione, ossia il Figlio – in questo senso, essendo il Figlio eternamente
la possibilità della negazione di Dio che è l’in-sé di Dio stesso, preesiste alla creazione-generazione medesima; nel secondo momento, invece, Dio eternamente si nega come actu Actus purus, ed
il Figlio, che è l’altro di Dio che è Dio stesso, eternamente ek-siste,
ossia si approssima al Padre21.
«Il soggetto è presso Dio anzitutto nella rappresentazione di Dio,
ancora prima della creazione, come potenza particolare distinta,
non ancora realmente, ma idealmente [noch nicht reell-, aber doch
ideell-], cioè nella rappresentazione divina22» - in realtà, i due momenti, ossia il primo della pre-esistenza del Logos alla creatio e il
20
Philo.derOffen., XXVIII, 105.
Philo.derOffen., XXV, 38-39.
22
Philo.derOffen., XXVIII, 105.
21
61
62
secondo della differenziazione attuale di Padre e Figlio (filiazione
appunto), non sono assolutamente distinti; se nel primo momento,
Dio, in quanto actu Actus purissimus, ri-corda l’Inizio abissale da
cui ek-siste e, quindi, custodisce in sé il Figlio, in quanto è la possibilità della negazione di Dio che emerge dall’abisso stesso – ma
se per poter liberarsi dalla necessità dell’Inizio e dalla negazione,
ossia dal Figlio che è il suo in-sé, Dio deve presupporre di custodire
in sé il Figlio, ossia l’altro di se stesso e deve presupporlo già in
quanto distinto da se stesso. Perciò, se già nel primo momento, l’eksistenza di Dio non può non presupporre non solo la pre-esistenza
del Figlio, ma anche al sua prossimità, il suo esser-per, ossia la sua
distinctio da Dio, allora il secondo momento è già nel primo –
anzi,è addirittura lo stesso che il primo.
Nessuna astratta separazione tra i primi due momenti. «Ma poi
egli è presso Dio anche nella creazione, in cui già agisce nella sua
particolarità (e invero come potenza demiurgica) e non più semplicemente nella rappresentazione di Dio, ma realmente distinto
da Dio [reell von Gott unterschieden], sebbene sia ancora presso di
lui23» - se nel primo momento, la distinzione tra Padre e Figlio è
meramente possibile (ideell-), in quanto il Figlio è la sola possibilità
della negazione del Padre, senza essere ancora attualizzata; nel secondo momento, l’attualizzazione del Figlio, ossia l’eclissarsi del
Padre e l’ek-sistere del Figlio, implica l’attualizzazione della distinzione tra Padre e Figlio (reell-).
Lo stesso Origene sviluppa rigorosamente in modo analogo questo motivo della co-originarietà della pre-esistenza del Figlio alla
creatio (primo momento) e della distinzione-approssimazione di
Padre e Figlio (secondo momento): «Il Logos viene però, presso gli
uomini che inizialmente non accolgono la venuta del Figlio di Dio,
che si fa Logos, in quanto è Logos. Egli non viene “presso Dio”,
come se prima non fosse presso di Lui, perché Egli è sempre con il
Padre [parà de tò aei syneînai tô patrì], e infatti si dice: “e il Logos
era presso Dio” e non piuttosto: “e il Logos venne presso Dio”.
E il medesimo verbo “era” si predica di entrambe le espressioni
“in principio era” e “presso Dio era”, e non può essere separato da
23
Philo.derOffen., XXVIII, 105-6.
Dio né allontanato dal Padre [chorizómenos oute toû patròs], e
inoltre non è venuto “nel principio” dal suo non-essere-nelprincipio, né è venuto “presso Dio” dal suo non-essere-presso-Dio:
infatti, prima di ogni tempo e di ogni eternità “in principio era il
Logos” e il “Logos era presso Dio”24».
L’attualizzazione della distinzione di Padre e Figlio (chorizómenos) è co-originaria all’attualizzazione del Figlio come distinto dal
Padre, ossia come semplicemente Essente, e alla potenzializzazione
del Padre, ossia al suo ritrarsi: in tanto è “reale” la distinzione di
Padre e Figlio solo in quanto il Figlio si attualizza e il Padre si potenzializza, si ritrae in sé. Ma se la posizione della distinzione di
Padre e Figlio è possibile solo a condizione che il Figlio e il Padre
non sia né simultaneamente potenze né simultaneamente lo stesso
actu Actus purussimus, allora la differenziazione di Padre e Figlio
non appartiene solo al secondo momento: in quanto nel primo momento il Figlio è potenza e il Padre è semplicemente Essente, la distinzione appare; in quanto nel secondo momento, il Figlio è il
semplicemente Essente ed il Padre si è ritratto in sé, si è potenzializzato, la distinzione continua ad esserci.
Perciò, l’eccedenza di Padre e Figlio, pur esteriorizzandosi nel
secondo momento, appartiene anche al primo, in quanto Dio, presupponendo l’altro di sé in se stesso, non può che presupporlo
come distinto. Sulla co-eternità25 del primo e del secondo momento
Schelling ed Origene sembrano essere assolutamente consonanti.
«Esiste un solo vero Dio, il Padre, e dopo di lui, molti altri dei che
sono diventati tali per partecipazione a Dio ed essi temono che la
gloria di Colui che supera ogni creatura sia simile a quella di tutti
gli altri “dei” – che sono tali sono nell’appellativo. E perciò, alla distinzione già fatta, per la quale abbiamo detto che il Logos che è
Dio sia ministro della divinità per gli altri dei, bisogna aggiungerne
un’altra. Infatti, il Logos che è in ciascuno degli essenti dotati di
24
25
InJoh., II, I, 8-9.
Sul problema del tempo nel Vangelo di Giovanni, appunto sul Zeitfrage cfr. O. HOLTZMANN, Das Johannesevangelium, Verlag von Johannes Waitz, Darmstadt 1887, pp.
48-79; sul problema del “tempo” in Origene, in particolare la successione eonica, cfr.
H- JONAS, Gnosis und Spätantiker Geist [Gnosi e spirito tardo-antico, Bompiani, Milano 2010, a cura di C. Bonaldi], II –Von der Mythologie zur mystichen Philosophie,
Göttingen 1993 – in particolare pp. 871-874.
63
64
logos possiede, rispetto al Logos che è Dio e che è “nel principio
presso Dio”, la stessa relazione che il Logos che è Dio ha verso
Dio. Il Padre, il Dio vero, il Dio-in-sé sta alla sua immagine e alle
immagini dell’immagine (e infatti, perciò, si dice che gli uomini
siano non “immagini”, ma “a immagine”), come il Logos-in-sé sta
a ciascuno degli essenti dotati di Logos. Entrambe svolgono la funzione di sorgente: il Padre della divinità, il Figlio del Logos. Come
ci sono molti dei, ma per noi esiste “un solo Dio-Padre”, e ci sono
molti signori, ma per noi esiste “un solo Signore, Gesù Cristo”, così
ci sono molti logoi, ma noi preghiamo che in noi abiti il Logos che
è “in principio” e “presso Dio”, ossia il Logos che è Dio26» - Dio,
in quanto semplicemente-Essente (Deus-esse appunto), custodisce,
comunque, dentro di sé l’abissalità dell’Inizio da cui ek-siste, e se
il Figlio non è altro che l’altro di Dio, ossia la negazione stessa del
Padre, allora custodendo l’Inizio abissale ed immemorabile, Dio
custodisce dentro di sé il Figlio come non-ancora Essente, ossia
come soltanto possibile, come nondum.
La distinzione di Padre e Figlio, che è posta dall’esistenza del Figlio come extra-divinizzazione di Dio, ossia come realtà esterna a
Dio che è generata da Dio stesso, è, dunque, presente già da sempre come possibile in Dio stesso – la pre-esistenza del Logos alla
creatio27, ossia la pre-esistenza del Figlio in Dio stesso, non è altro
che la pre-esistenza della distinzione di Padre e Figlio28 in Dio
stesso. «Questo Logos di Dio, detto “fedele”, è anche detto “verace” e giudica e si batte con giustizia, perché, trattandosi della giustizia in sé e del giudizio in sé, ha ricevuto da Dio la possibilità di
giudicare e di premiare secondo il merito ciascun uomo. Infatti,
26
InJoh., II, II, 19-22.
InJoh., II, II, 18.
28
Sulla dimensione creaturale del Figlio cfr. Filippo §105 «Di tutti coloro che posseggono
il Tutto, non necessariamente tutti conoscono se stessi. E in verità, quelli che non conoscono se stessi non gioiranno di ciò che essi posseggono, ma quelli che sono pervenuti alla conoscenza di se stessi ne gioiranno»; Tommaso §3: «Gesù disse: Se coloro che
vi guidano vi dicono: Ecco!.Il Regno è nel cielo” allora gli uccelli del cielo vi saranno
prima di voi. Se essi vi dicono: “Il Regno è nel mare!” allora i pesci vi saranno prima di
voi. Ma il Regno è dentro di voi ed è fuori di voi. Quando conoscerete voi stessi, sarete
conosciuti e saprete che siete Figli del Padre Vivente. Ma se non conoscerete voi stessi,
allora sarete nella privazione e sarete voi stessi privazione» (cfr. PSUEDO-IPPOLITO,
Philosophoumena, V, §6; Rm 9,26; I Cr 8, 2-3; I Cr 13, 12).
27
nessuno di coloro che partecipano alla giustizia e che hanno la possibilità di esprimere un giudizio sul popolo potrà mai imprimere
nella propria anima i modelli della giustizia e del giudizio, in modo
da non essere per nulla inferiore alla giustizia in sé e al giudizi in
sé, allo stesso modo in cui nemmeno il pittore è in grado di rappresentare tutta la cosa nella rappresentazione.
Mi sembra che questo sia lo stesso significato delle parole di
David: “Al tuo cospetto nessun vivente sarà giustificato”. Infatti, non
disse semplicemente “nessun uomo” o “nessun angelo”, bensì “nessun vivente”, perché nell’atto stesso in cui l’essente partecipa alla
vita e si tiene lontano dalla sua mortalità, neanche così potrebbe essere giustificato al tuo cospetto, analogamente a quanto avviene
per la vita: non è possibile che chi partecipa della vita e riceve la
denominazione di vivente sia esso stesso vita; né è possibile che
chi partecipa alla giustizia e può essere detto giusto possa essere
uguagliato completamente alla giustizia29» - Origene rileva come il
rapporto tra Padre e Figlio all’atto della generazione, ossia dell’autodifferenziazione del Padre in se stesso30, non sia altro se non metessi, ossia partecipativo – e, infatti, si conserva nella stessa
progressione del Logos superiore alla molteplicità dei “logoi” inferiori31.
La relazione che sussiste tra il Logos-Figlio e il Padre è rappresentazionale32: il Figlio dice il Padre, essendo il Padre stesso in
quanto altro da sé, ed il Padre si dice nel Figlio, pur disdicendosi –
infatti, è essenziale che sussista un’irriducibile differenza tra Padre
e Figlio, tra generante e generato33.
Kaì theós ên ho lógos – Origene non si sofferma, però, sul terzo
momento della progressione del Logos, o almeno non se ne sofferma tanto quanto faccia Schelling, anche se entrambe condividono l’idea che il terzo momento – come d’altronde, anche il
secondo ed il primo – sono momenti solo astrattamente distinti, ma
29
InJoh., II, VI, 50-53.
De Princip., I, II, 10.
31
InJoh., II, III, 19-32.
32
De Princip., II, I, 3.
33
De Princip., I, II, 4.
30
65
66
nella realtà eternamente co-originaria.
Non c’è nessuna precedenza né successione di un momento all’altro, ma tutti sono eternamente simultanei. Origene è convinto
che l’autentica sintesi dei momenti, ossia la proposizione di Giovanni che dica l’eterna simultaneità dei momenti precedenti, sia la
quarta: ôutos ên en archê pròs tòn theón (Gv 1, 2).
In questo emerge chiaramente la cesura tra Schelling ed Origene,
oltre al problema trinitario, sul quale le loro distanze cominciano
a rilevarsi già a partire dall’esegesi di Gv 1,1.
«A chi non esamina attentamente i vari elementi di questo enunciato potrà sembrare che l’evangelista si ripeta, in quanto le parole:
“Egli era nel principio presso Dio”non aggiungono nulla alle altre
parole: “Il Logos era presso Dio”.Bisogna osservare, tuttavia, che le
parole: “Il Logos era presso Dio”non ci spiegano né quando né in
chi [tò pote è en tíni] il Logos era “presso Dio”, come invece noi troviamo nella quarta proposizione.
Infatti, emergono qui quattro proposizioni – o come le chiamano
altri, “protasi” – di cui la quarta dice: “Egli era nel principio presso
Dio”, che non dice il medesimo di “il Logos era presso Dio”, perché non dice semplicemente che egli era presso Dio, ma anche
quando e in chi egli era presso Dio; dice infatti: “Egli era nel principio presso Dio”. Il pronome “egli”, sottratto dal contesto ai fini
della dimostrazione, può essere riferito da chi non è troppo meticoloso sia a “Logos” che a “Dio”, per trovare nell’uso di questo termine la ripetizione di due concetti precedenti, ossia di “Logos” e di
“Dio”, e poter così dimostrare l’unità di ciò che è separato solo formalmente.
E infatti, nella forma di “Logos” non è inclusa quella di “Dio”, né
in quella di “Dio” la forma di “Logos”. Forse però, la proposizione
“egli era nel principio presso Dio” è una ricapitolazione delle tre
proposizioni precedenti , in quanto la prima (“nel principio era il
Logos”) [En archê ên ho lógos] non ci informa che egli “era presso
Dio”, mentre nella seconda (“Il Logos era presso Dio”) [Kaì ho lógos
ên pròs tòn theón] non ci si informa chiaramente che egli “era
presso Dio nel principio”, e la terza infine (“il Logos era Dio”) [Kaì
theós ên ho lógos] non dice né che egli “era nel principio” né che
“era presso Dio”.
Invece, nella proposizione “egli era nel principio presso Dio”,
intendendo il pronome “egli” come riferito sia a “Logos” sia a
“Dio”, non manca più nessuno degli aspetti delle tre proposizioni
precedenti, qui sintetizzati e ricapitolati, in quanto sono aggiunti e
congiunti assieme i due elementi “nel principio” e “presso Dio”»34
- la proposizione: ôutos ên en archê pròs tòn theón non è altro che
conseguenza logica necessaria del contenuto delle proposizione
precedenti: se il Logos è in Dio en archê, in principio, e se il Logos
è prossimo a Dio, e, anzi è Dio stesso (Kaì theós ên ho lógos), allora l’identità assoluta di Dio e Logos è posta eternamente – appunto, ôutos ên en archê pròs tòn theón. Se il Logos, in quanto altro
di Dio è eternamente in Dio stesso, è la sua negazione che si conserva nell’abissalità dell’Inizio – che eternamente Dio stesso custodisce in sé, in quanto eternamente ek-sistente35 dall’Inizio stesso –
allora il Logos è eternamente in Dio stesso, è eternamente Dio
stesso36.
E se il Figlio eternamente “abita” nel Padre, come suo abisso, allora eternamente la stessa distinzione di Padre e Figlio eternamente
già si dispiega come possibile nel Padre stesso. L’ek-sistenza del Figlio è dunque, co-originaria all’ek-sistenza stessa del Padre –
l’eterna generazione37 del Figlio (Deus sive creatio continua) è cooriginaria alla eterna esistenza del Padre, al suo essere eternamente
enèrgeia. Schelling sottolinea la sinteticità e la completezza del
terzo momento, che risolve in sé i momenti precedenti ancor prima
di Gv 1, 2 - «questo medesimo soggetto era Dio[dasselbe Subjekt
war Gott], cioè lo era alla fine della creazione, in cui esso è proprio
34
InJoh., II, IX, 64-70.
Sul motivo dell’esistenzialità di Dio cfr. C. FOZZUOLO, Esperienza, esistenza e creazione nell’ultimo Schelling e in Spaventa, in: Pensiero XXXII (1992), pp. 111-138; D.
HEINRICH, La prova ontologica dell’esistenza di Dio, Tr. it. di S. Carboncini, Napoli
1983; N. INCARDONA, Rivelatività dell’irrelativo. Il tema della filosofia contemporanea, il penultimo Schelling ed “Esistenza e persona” di Luigi Pareyson, in: Giornale di
Metafisica IX (1987), pp. 153-191; B. MAJOLI, La filosofia dell’esistenza di F. G. Sschelling, in : Rivista di Filosofia Neoscolastica XLV (1953), pp. 389-433; M. MILLUCCI, La
Freiheitsschrift del 1809 come momento decisivo tra la filosofia dell’identità e il rilievo
dell’esistenza nel pensiero di Schelling, in: Rivista di Filosofia neoscolastica LXXXVIII
(1996), pp. 205-222; L. PAREYSON, Esistenza e persona, Genova 1950; G. STRUMMIELLO, Das, was das Seyende ist. L’Esistenza e l’essente nel tardo Schelling, in: C.
ESPOSITO /V. CARRAUD (a cura di), L’Esistenza. Atti del Colloquio Internazionale, Caen
23/25 gennaio 2003, Bari /Turnhout, pp. 229-264;
36
InJoh., X, XXXVII, 246-247
37
FILONE d’Alessandria, De opificio mundi, XXXII, 69-71; XXIV, 72-75; XXV, 78.
35
67
68
Signore dell’essere così come prima lo era solo il Padre, in possesso
della divinità che esso viceversa dapprima non ha come particolare, non per sé, non fuori del Padre (indipendentemente dal Padre),
ma solo nel Padre [in dem Vater]; perciò, esso è anche solo theós,
non solo ho theós, Dio stesso come lo è solo il Padre [es auch nur
theós, ist nicht ho theós, Gott selbst, welches nur der Vater ist]38».
Schelling parafrasa letteralmente Origene – la distinzione tra ho
theós e theós è tema comune: « Completamente intenzionale e
nient’affatto per ignoranza dell’uso corretto della lingua greca, è
anche il fatto che Giovanni ha talvolta messo e ha talvolta omesso
l’articolo: l’ha messo davanti alla parola “logos”, quando invece si
riferisce a Dio, talvolta l’ha messo e talvolta no. Infatti, usa l’articolo
quando l’espressione “Dio” si riferisce al Creatore ingenerato di
tutte le cose, lo omette quando “Dio” si riferisce a Logos.
Come dunque, vi è differenza tra l’espressione “Dio” con l’articolo [ho theós] e l’espressione “Dio” senza articolo [theós], così
forse c’è differenza tra “Logos” con articolo [ho logos] e “Logos”
senza articolo [logos]. Infatti, come il Dio dell’universo è “il
Dio”[ho theós] e non semplicemente un “dio”[theós], così la fonte
del Logos che è in ciascuno degli essenti dotati di logos [pegè toû
en ekastô tôn logikôn logoû] è “il Logos”, mentre non sarebbe esatto
chiamare e definire “il Logos” allo stesso modo quel logos che è in
ciascun essente dotato di logos.
Tramite queste differenziazioni, è possibile trovare una soluzione
ad una difficoltà che affligge molti, i quali vorrebbero preservare
l’amore in Dio, ma si guardano bene dall’affermare due dei, e per
questo, cadono in dottrine false ed empie: infatti, o negano al Figlio
una proprietà distinta [idioteta uioû eteran parà ten toû patrós] da
quella del Padre, pur ammettendo che sia Dio colui che, secondo
loro, soltanto di nome è chiamato “Figlio”; oppure negano al Figlio
la divinità [ten theóteta toû uioû], preservandone la proprietà e l’essenza [ten idioteta kai ten ousían], circoscritta, come distinta da
quella del Padre [eteran toû patros]. Bisogna, infatti, rispondere a
questi: Dio è Dio-in-sé [autótheos ho theós esti] e per questo anche
38
Philo.derOffen., XXVIII, 105-106.
il Salvatore dice, nella preghiera, al Padre: “Che ti conoscano come
unico vero Dio”.
All’infuori del Dio-in-sé tutti quelli che sono stati fatti Dio per
partecipazione alla sua divinità [metochê tes ekeinou theótetos],
dovrebbero più propriamente dirsi “Dio” [theós] e non “il Dio” [ho
theós]39». Dio, in quanto semplicemente-puramente Essente (bloße
Seyende), ossia eternamente ek-sistente dall’abissalità iniziale, è
Ho theós, ossia autótheos, l’in-sé di Dio stesso, il suo essere eternamente sospeso dinanzi alla possibilità del suo tramonto, dinanzi
alla possibilità del suo altro; il Figlio, ossia il bei Gott, in quanto è
l’altro di Dio che è Dio stesso in quanto altro da se stesso, non è ho
theós, ma semplicemente theós, ossia assolutamente distinto (chorismómenos) dal Padre (eteran toû patros).
Il Figlio, in quanto è l’altro di Dio – che, di fatto, è Dio stesso in
quanto si pone eternamente fuori di sé – ossia in quanto è colui cui
Dio eternamente affida e consegna il proprio essere, è della stessa
divinità del Padre (metochê tes ekeinou theótetos), pur essendo la
sua persona irriducibilmente distinta da quella del Padre.
Il Figlio è divino tanto quanto lo è il Padre, essendo il Padre
stesso: se il Figlio non è altro che la negazione del Padre che eternamente abita il Padre stesso e che il Padre eternamente pone fuoridi-sé, allora il Figlio non è altro che il Padre stesso in quanto
esteriorizzato. Il Padre si custodisce nel Figlio come eternamentepassato. Tramontando il Padre trasmette il proprio essere al Figlio,
ossia all’altro di se stesso che genera a partire da se stesso40 – e, che
quindi, è se stesso – e, tuttavia, il suo eclissarsi non significa il suo
separarsi astrattamente dal Figlio41: il Padre, negandosi e ponendosi
39
InJoh., II, II, XIII-XVII.
InJoh., XXXII, III, 32-35.
41
De Princip., II, I, 4: «Qui la materia è tanta e tale da essere sufficiente per tutti i corpi del
mondo che Dio ha voluto far esistere, e in tutto e per tutto è a disposizione del creatore
per qualunque forma e specie voglia creare, accogliendo in sé tutte le qualità che egli
le vuole imporre: tale materia non so come molti importanti filosofi abbiano ritenuto del
tutto increata, cioè non fatta dal creatore; ma hanno detto dovute al caso la sua facoltà
e la sua natura. E mi stupisce che costoro diano la colpa a coloro che negano l’esistenza
di un Dio creatore e della provvidenza che regola questo universo, e li accusino di essere empi perché credono che questa grande opera del mondo esista priva di creatore e
di regolatore, mentre essi stessi incorrono in simile colpa di empietà affermando increata
la materia e coeterna a Dio increato» - cfr. De Princip., II, II, 1-2; II, III, 2-3.
40
69
70
come altro da sé, ossia come Figlio, rimane come eternamente-passato rispetto al Figlio, ossia a se stesso. La differenza esegetica rispetto a Gv 1, 2 emerge fortemente, ma è di natura più
propriamente filologica, che teologica e speculativa: Origene concepisce ôutos ên en archê pròs tòn theón come la sintesi completa
dei tre momenti precedenti, come la sinossi finale; Schelling pone
ôutos ên en archê pròs tòn theón come semanticamente equivalente a kaì theós ên ho lógos, ossia al terzo momento: «nel testo di
Giovanni l’en archê deve essere ripetuto nei tre membri del versetto, ma ha in ognuno di essi un significato diverso: “In principio
era il Logos”.
Qui “in principio” significa semplicemente essere eterno. “In
principio egli era presso Dio”. Qui “in principio” significa “dall’eternità”. “In principio egli era presso Dio”. Qui “in principio” significa prima dell’ordine attuale, che è posto attraverso il
rovesciamento prima di questo mondo in cui il Logos divenne persona extra-divina»42.
Ovviamente, Schelling riduce, implicitamente, il quarto momento al terzo, essendo del tutto inessenziale la differenza tra i momenti: se i momenti del Prologo sono eternamente simultanei,
allora la loro successione cronologica è assolutamente inessenziale,
per cui la quarta è perfettamente riducibile al terza protasi, ossia,
più propriamente, tutte e quattro le protasi, di fatto, ne costituiscono
solo una (En archê ên ho logos). Inoltre, un altro elemento su cui
l’esegesi di Schelling e quella di Origene del Prologo convergono
è l’interpretazione stessa dell’en archê: per Schelling, l’“in principio” non esprime affatto (in ogni protasi in cui compare) un iniziante storicamente determinato, un Anfangender, ma piuttosto un
eterno iniziare, ewiges Anfangen, ossia un eterno distinguersi di Dio
in se stesso – un eterno negarsi di Dio stesso, ossia un atto che eternamente si compie.
Origene è esattamente sulla stessa linea di Schelling: «L’espressione “principio” può intendersi anche nel senso di “principio del
mondo”, per farci capire, con questa espressione appunto, che il
42
Philo.derOffen., XXVIII, 111-112.
Logos è anteriore a tutto ciò che segue dal principio [ho logos tôn
ap’archês genomenôn]. Se infatti, “in principio Dio creò il cielo e
la terra”43 e se l’asserzione “Era nel principio” si riferisce a qualcosa di anteriore a quanto fu creato nel principio, allora il Logos è
più originario [presbyterós esti ho lógos] non solo del firmamento
e dell’arida terra, ma anche del cielo e della terra stessa44» - se il
Figlio, in quanto altro di Dio, eternamente abita in Dio stesso, e se
la generazione è l’atto della ek-sistentificazione del Figlio, ossia
dell’auto-negazione di Dio, allora questo atto è eterno, ossia accade eternamente.
E l’eternità della generazione del Figlio, ossia dell’auto-negazione di Dio, è esattamente il motivo su cui si conclude l’esegesi
schellinghiana di Gv 1,1, in perfetta soluzione di continuità con
l’interpretazione origeniana45. «Nel passo che ci sta dinanzi, Giovanni non dice: Il Logos fu generato in principio, ma “Il Logos era
in principio”, era l’eterno essere del Figlio – e proprio l’essere semplice, non l’essere come Figlio, poiché ogni essere che sia con una
sua talità presuppone già un’esclusione, una distinzione, dunque
un atto […] l’unico modo possibile per cui si ponga un inizio nel
tempo – cosa di grande importanza – è appunto che qualcosa che
prima era non tempo sia posto come tempo [etwas, was zuvor Nichtzeit war, als Zeit], quindi come passato [demnach als Vergangenheit]. Si può pensare solo un inizio dinamico del tempo, non
uno meccanico.
Solo con la creazione inizia dunque anche una distinzione degli
eones o dei tempi [Erst mit der Schöpfung fängt also auch eine Unterscheidung der Aeonen oder Zeiten]. Si distinguono infatti: 1)
l’eternità pre-temporale [vorzeitliche Ewigkeit], la quale è posta, attraverso la creazione, come passato [Vergangenheit]; 2) il tempo
della creazione [die Zeit der Schöpfung] stessa, che è il presente
[Gegenwart]; 3) il tempo in cui, tutto attraverso la creazione, deve
essere raggiunto e che si pone come l’eternità futura [zukünftige
Ewigkeit]46».
43
Gn,1,1
InJoh., II, IV, 36-37.
45
De Princip., II, IX, 2.
46
Philo.derOffen., XXVIII, 118-119.
44
71
72
Dio, in quanto semplicemente-puramente Essente (rein Seyende), eternamente ek-siste dall’Inizio abissale47 – ma se l’unico
modo per cui Dio possa liberarsi dall’altro di se stesso che eternamente emerge dall’abisso, dall’Inizio, è che Dio stesso si faccia altro
da se stesso, allora eternamente Dio genera l’altro da sé, ossia eternamente genera il Figlio. Se eternamente Dio ek-siste dall’Inizio ed
eternamente il Figlio abita in Dio stesso48, allora eternamente Dio
pone il Figlio49, ossia eternamente si pone come assolutamentealtro da sé, si auto-distingue da se stesso50.
Dio, in quanto eternamente si fa altro da sé, ossia affida il proprio essere all’altro di sé, si eclissa, tramonta – è l’eternamente-passato (Vergangenheit); in quanto Dio si fa eternamente altro da sé,
ossia si fa Figlio, Logos51, il Figlio stesso, essendo Dio come eternamente auto-distinito da sé, è l’eternamente presente (Gegenwart);
e, infine, se il Figlio eternamente si separa dal Padre (peccato adamitico), allora eternamente può riconciliarsi, eternamente ritorna
al Padre (Zukünft). Schelling immagina l’eternità della cosmo teandria come articolata in differenti eternità: l’eternità del Padre, ossia
il Padre come l’eternamente passato rispetto al Figlio, ossia l’eternamente tramontato, il già da sempre trascorso rispetto al FiglioLogos (vorzeitliche Ewigkeit); l’eternità del Figlio, in quanto
eternamente generato dal Padre, ossia in quanto è l’altro di Dio
stesso che è Dio stesso in quanto altro, ed è l’eternamente presente
(die Zeit der Schöpfung); infine, l’eternità della riconciliazione,
ossia il Figlio come deus adveniens, ossia come colui che tende infinitamente alla riconciliazione col Padre.
«Il vero tempo, infatti, non è un tempo che sempre si ripete, ma
proprio una successione di tempi52.
47
Philo.derOffen., XXIV, 23-24.
Philo.derOffen., XXV, 37-38.
49
Philo.derOffen., XXIV, 28-29.
50
Philo.derOffen., XXV, 39-45.
51
PLOTINO, Enn. I, VIII, §15; III, VI, §3. Il concetto di “intermediario” è chiaramente di
origine platonica – deriva, ovviamente, dal metaxy in particolare cfr: Gorg. 467e. 468a.
505c ; Phaed. 58c. 71b; Thaet. 143c. 188a. 256d; Parm. 152c; Conv. 202a. 214e. 241e;
Pol. I, 336. III, 393b. IV, 433 e. VI, 498a. VI, 511d; Tim. 36a. 69e ; Lys. 220d; Legg. IX,
859b; Apol. 40b; Thaeg. 128e; Lys. 207a; Euthyd. 275e; Lach. 189c; Prot. 337e.
52
Weltalter (1815), I, VIII, 199-200.
48
E una successione di tempi, dunque, un vero tempo, reale, era
posto con la creazione – e solo con la creazione. Di conseguenza
l’azione attraverso la quale è posta la creazione è anche l’azione
che anzitutto pone il tempo. L’azione che pone anzitutto il tempo
è proprio pro panton aionon, “prima di tutti gli eoni”, in quanto
questa distinzione di tempi o
L’atto della creazione stessa è quello che pone innanzitutto gli
eones53» - la successione schellinghiana delle eternità non è altro
che la successione origeniana degli Eoni54. Dio eternamente genera
la creazione55, ossia il Figlio, il mondo, l’altro di se stesso che eternamente abita in Dio stesso – la infinita successione degli infiniti
Eoni che coesistono eternamente e simultaneamente, actu purissimo – e la creazione, ossia il Figlio, eternamente si separa dal
Padre, lo dimentica, lo oblia. Ma se in tanto la creazione può tornare al Padre, ossia negarsi in quanto creazione – decrearsi – solo
in quanto eternamente se ne separa, allora la creatura eternamente
si separa dal Padre ed eternamente ritorna al Padre.
Ma se il ritorno della creazione al Padre non è altro che la ricomposizione del Pleroma, ossia la ri-posizione di Dio pre-creaturale, del Deus-esse, di Dio come semplicemente-Essente (bloße
Seyende), di Dio come eternamente sospeso sull’abisso dell’Inizio,
allora di nuovo Dio è necessitato alla creazione.
Dio eternamente genera la creazione, il Figlio; il Figlio eternamente si separa dal Padre ed eternamente ritorna al Padre – ma il ritorno del Figlio al Padre, ossia il tornare ad esistere di Dio come
puro Essente, come ek-sistente dall’Abisso, necessita nuovamente
Dio alla generazione e così ad infinitum.
Dio eternamente crea il Figlio, il Figlio eternamente si separa dal
Padre ed eternamente ritorna nel Padre, per poi eternamente rimettere in moto la stessa generatio, la stessa creatio – la stessa cosmoteandria. Eternamente il Padre genera il Figlio – eternamente il Figlio
tradisce il Padre ed eternamente il Figlio stesso ritorna al Padre, perché il Padre, eternamente, possa ri-generare il Figlio ed il Figlio
possa, eternamente, ri-tradire e tornare al Padre, e così ad infinitium.
53
Philo.derOffen., XXVIII, 110.
H. CROUZEL, Op. cit., pp. 147-215.
55
FILONE d’Alessandria, De fuga et inventione, XXI, 113- 115.
54
73
74
L’apocatastasi «necessaria»
alla luce del Nuovo Testamento
Alessandro Pertosa
È apparsa infatti la grazia di Dio,
apportatrice di salvezza
per tutti gli uomini
(Tit 2, 11).
Nell’intero complesso scritturistico del Nuovo Testamento,
l’espressione ἀοκατάστασις άντων, intesa come chiara intenzione di significare il recupero universale della condizione originaria perduta col peccato originale, compare in modo
inequivocabile soltanto in Mt 17, 11 e in At 3, 211.
Quest’ultimo passo è sicuramente il più esplicito in ottica apocatastatica: ὃν δεῖ οὐρανὸν µὲν δέξασθαι ἄχρι χρόνων
ἀοκαταστάσεως άντων ὧν ἐλάλησεν ὁ θεὸς διὰ
στόµατος τῶν ἁγίων ἀ’ αἰῶνος αὐτοῦ ροφητῶν: «È necessario che egli stia in cielo fino al momento della restaurazione
di tutte le cose, di cui ha parlato Dio fin dai tempi antichi per bocca
dei suoi santi profeti»2.
La versione latina della Vulgata Clementina rende la locuzione
In Mt 17, 11 si dice che Gesù (Elia) ἀοκαταστήσει άντα: «ristabilirà tutte le cose»;
in At 3, 21 v’è il riferimento palese all’ οκαταστάσεως άντων, intesa come restaurazione di tutte le cose; infine in Eb 13, 19 si legge ἀοκατασταθῶ ὑµῖν, ma la
restituzione è lì intesa in un senso parzialmente diverso rispetto ai versetti di Matteo e
degli Atti.
2
Le citazioni in greco del Nuovo Testamento sono tratte dall’edizione di Nestle-Aland:
Novum Testamentum Graece, post Eberhard et Erwin Nestle editione vicesima eptima
revisa communiter ediderunt B. Aland – K. Aland – J. Karavidopulos – M. Blackl – C. M.
Martini – B. M. Metzger – A. Wikgren, Deutsche Bibelgesellschaft, Stuttgart 199927. La
traduzione latina a cui di tanto in tanto ci si riferisce è quella della Vulgata Clementina:
Bibliorum Sacrorum iuxta Vulgatam Clementinam Nova Editio Curavit Aloisius Gramatica, Typis Polyglottis Vaticanis, Civitatis Vaticanae (ristampa) 1959. La traduzione italiana tiene conto della versione edita ne La Bibbia Nuovissima versione dai testi originali
III: Nuovo Testamento, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1991, pur distanziandosi
da questa talvolta in modo sensibile.
1
75
76
ἀοκατάστασις άντων con restitutio omnium, che starebbe
a significare una reintegrazione o riabilitazione ontologica di tutte
le cose alla fine dei tempi. Restitutio, da restitu re, è un sostantivo
agente composto dalla particella re, che esplicita un movimento
inverso/contrario allo statu re, che significa fondare, edificare, ma
anche stabilire. La ἀοκατάστασις άντων è allora un fondare
di nuovo, è un ri-edificare, è un ri-stabilire la condizione originaria del tutto, condizione recuperata nella-e-dalla giustizia del Cristo che viene a colmare l’abisso spalancatosi con la caduta.
Gli approcci teologici classici più accreditati e la dottrina della
Chiesa mostrano da sempre una certa diffidenza, per non dire persino ostilità, nei confronti dell’opzione escatologica apocatastatica,
ritenuta il più delle volte in contrasto con la genuina predicazione
evangelica, da cui si fa derivare la tripartizione inferno/purgatorio/paradiso, nonché un codice morale – umano troppo umano –
che si pretende oltretutto di dichiarare cristiano. La predicazione
dell’ortodossia cristiana scaturisce dalla legge, dalla norma, dalla
regola scritta o elaborata dal potere ecclesiastico, al quale si attribuiscono surrettiziamente illuminazioni pseudospirituali.
Il compito che mi assumo in queste pagine si orienta invece in
un senso del tutto opposto, per certi versi rischioso, che consiste
nel provare – semmai sia possibile provare ad altri alcunché – come
la dannazione eterna si mostri contraddittoria con i presupposti
della fede, e sia vieppiù smentita dalla predicazione di Cristo. Sono
fermamente convinto che proporre l’idea di un Dio-giudice supremo che destina alcuni alla gloria del paradiso ed altri alle pene
eterne dell’inferno può forse essere utile per mantenere un dominio
sui singoli fedeli, ma non rende certo un gran servizio alla radicalità liberante e salvifica del messaggio cristiano, che manifesta invece il desiderio di un complessivo reintegro in Dio dell’intero
processo cosmico-creaturale. Perché se alla fine dei tempi anche
una sola essenza o una sola anima rimarrà in eterno lontana da
Dio, ciò vorrebbe dire che l’inferno, Lucifero, il male e il nulla (che
si oppone radicalmente al Dio-essere) vinceranno la loro battaglia
contro il bene e la luce. L’annientamento avrebbe così l’ultima parola sulla creazione e il cristianesimo diverrebbe l’ennesima variante del nichilismo. In questo senso, allora, la negazione
dell’apocatastasi diventa negazione radicale del cristianesimo, perché il disconoscimento della salvezza universale annulla in un solo
colpo la volontà amorevole di Dio e il valore dell’incarnazione redentrice di Cristo.
Tuttavia non bisogna essere particolarmente esperti di teologia
per notare come la lettura che propongo sia certamente eterodossa
rispetto alla dottrina elaborata dalle istituzioni ecclesiastiche cattoliche e protestanti. Al massimo, quando non apertamente in contrasto con l’idea di una rigenerazione finale, la tradizione teologica
intraecclesiale ha timidamente inteso il circolare percorso apocatastatico come una mera possibilità sul cui effettivo compimento si
può solo sperare, e niente più. In questo senso vanno lette le proposte elaborate da Origene fino a Balthasar, che pur nei differenti
approcci teoretici sottendonoal medesimo presupposto: la
ἀοκατάστασις άντων troverebbe giustificazione a partire
dall’infinita speranza cristiana nella smisurata bontà divina. Vale a
dire che secondo questa ipotesi non è contraddittorio sperare in
una salvezza universale proprio perché Dio è immensamente
buono, giusto e desideroso di attrarre tutti a sé. Il cristiano è quindi
autorizzato a sperare che l’inferno sia vuoto, prega affinché ciò avvenga, e pur tuttavia è costretto a sospendere qualunque tipo di giudizio sulla effettiva conclusione apocatastatica del ciclo cosmico,
facendo apparire la salvezza universale solo come una possibilità
fra le altre3.
Questo scritto intende invece mostrare la necessità4 implicita
3
4
Questa è per linee molto generali la proposta di Hans Urs Von Balthasar. Per un ulteriore approfondimento si veda l’interessantissimo H. U. VON BALTHASAR, Apocatastasi,
in ID. Sperare per tutti. Con l’aggiunta di un breve discorso sull’inferno, Jaca Book, Milano 1997, pp. 159-176.
La necessità teologica di cui si parla deve essere intesa come una necessità argomentativa per l’uomo che ragiona attorno al non-ragionabile (la fede), e non è certo necessità per Dio che è invece infinitamente libero e slegato da qualsiasi vincolo logico
razionale umano. I concetti di eterno-temporale o di Dio incarnato restano certo inconcepibili, tuttavia noi che predichiamo la verità-fede dei Vangeli che ci rivelano questa follia, siamo costretti a ragionare con connessioni logiche umane e necessarie. Cristo
col suo esempio ci invita a superare la logica umana, ci chiede qualcosa di in-naturale,
di eccedente rispetto alle nostre possibilità, eppure qualcosa del suo discorso rimane
comprensibile, affascina, conquista i cuori degli uomini. Di Dio non sappiamo nulla,
né siamo in grado di concepirlo, ma di Cristo abbiamo alcune nozioni, seppur confuse. Egli parla al cuore degli uomini e indirettamente alla ragione. Pertanto pur rimanendo nel caos dubitativo della fede, il cristiano opera alla sequela di Gesù cercando
di dare un senso alle sue azioni: e dare un senso al proprio operare vuol dire stabilire
una sequenza di atti performativi, nonché rendere necessarie le connessioni logiche
77
78
della salvezza universale giustificata a partire proprio dalla analisi
coerente dei vangeli, a cui si aggiungono l’esegesi di At 3, 21, nonché i riferimenti alle lettere e all’Apocalisse che indicano nell’apocatastasi – in modo più o meno esplicito – il simbolo necessario ed
eterno della vittoria di Dio sul male, o meglio la manifestazione
conclusiva della Sua gloria vivificante, senza la quale Dio non sarebbe il Dio del Cristo, il Dio incarnato della salvezza universale.
Mostrerò, in questo senso, la necessità del destino apocatastatico
non intesa in virtù di una determinata conseguenza scaturita da un
presupposto intellettuale, da una filosofia, da un’etica o da un dogmatismo ideologico surrettiziamente fondato sul principio-di-noncontraddizione, ma parlerò di una necessità che si struttura
all’interno del discorso teologico, proprio a partire dalla rivelazione
neotestamentaria, che di questo discorso è fondamento e causa pratica, cioè fattiva, esperienziale. È appunto nella rivelazione che il
dire fideistico della pretesa cristiana scorge la sua precondizione
operante nonché il proprio orizzonte, finanche logico, insuperabile. Il messaggio di Cristo è parola umana per umani, ed è quindi
soggetta alle interpretazioni, agli ascolti, alle esperienze libere di
ognuno, ai fatti quotidiani; e il fatto non è un oggetto di indagine
intellettuale, perché il fatto – ammesso che esista – è un semplice
fatto, nient’altro. E il fatto della fede cristiana scaturisce dalla croce
attraverso cui – è questa la mia convinzione – Dio recupera con
Cristo l’intera creazione. Non potrebbe essere altrimenti. Se non
fosse così nulla avrebbe senso. Certo non è detto che la vita debba
avere necessariamente un senso, né tanto meno che abbia senso la
rivelazione. Ma il punto, qui, non è lo sguardo assoluto, che ci sovrasta e non ci compete, ma la dinamica logica della fede. La rivelazione parla agli uomini, dice qualcosa di comprensibile –
che li regolamentano. Per questo d’ora in avanti si deve intendere la necessità di una
lettura apocatastatica del Nuovo Testamento solo nel senso di una necessità umana logico-razionale. Provo a chiarire ulteriormente: se riponiamo fede in un Dio che vuole
la salvezza di tutti, e in un Cristo che alla fine dei tempi ricondurrà tutti a Dio, è necessario (teologicamente, logicamente, razionalmente, umanamente) pensare che il
ciclo cosmico si concluderà con l’apocatastasi. Nessuno potrà mai dire se questo è indiscutibilmente il pensiero di Dio – Dio ha un pensiero? – tuttavia è certo che se accettiamo l’insegnamento di Cristo dobbiamo anche ammettere le conseguenze logiche
di quel messaggio.
nonostante la comprensione sia molto debole – e costringe tutti noi
a razionalizzare il messaggio. È per questo che l’apocatastasi si
rende logicamente necessaria, proprio per salvare la rivelazione
dalla distruzione, dall’annichilimento.
La prospettiva escatologica della teologia ortodossa5 presenta invece un Cristo rassegnato per sempre alla volontà del Padre, che
giudica gli uomini sulla base delle singole opere, attraverso una
rendicontazione normativa del bene e del male commesso da
ognuno. Ma un Dio siffatto mancherebbe alla promessa del Figlio
di una rigenerazione cosmica dovuta alla charis, rigenerazione che
conquista e riscatta persino il diavolo, l’acerrimo nemico da amare,
perché altrimenti, se il perdono non sarà – e non è già – totale, sarebbe Dio a non porgere l’altra guancia e a non perdonare settanta
volte sette.
La rivelazione evangelica annuncia principalmente tre eventi
straordinari: il perdono di Dio, l’immensità del sacrificio del Golgota, e la tensione salvifica universale che appare in tutta la sua
straordinaria grandezza a seguito della risurrezione. Il primo evento
implica gli altri due perché la morte e la risurrezione del Figlio trovano la loro giustificazione proprio nella misericordia paterna. E
così, a partire da questi presupposti di fede comunemente accettati
può essere forse opportuno chiedersi se non sia più corretto pensare
che nel rapporto fra Dio e l’uomo non esista nulla di irrimediabile,
considerato che con la morte in croce e con la risurrezione nel
terzo giorno Cristo ha rivelato l’impostura di Satana, riabilitando
per sempre le sue vittime dal peccato.
Il Dio incarnato ha distrutto il potere del male, ha liberato la
creazione dalle pesanti catene ed ha sconfitto Lucifero recuperandolo al bene. È questo l’elemento forse più irrazionale e ultraumano che emerge dalla rivelazione di Gesù. Dio perdona il suo
principale nemico – cosa che noi non riusciamo neppure lontanamente a concepire – e lo accoglie definitivamente in sé concludendo il processo apocatastatico con un atto di redenzione
universale. L’apocatastasi è allora splendore infinito ed eterno, è
5
Qui e altrove l’aggettivo ortodosso sta ad indicare esclusivamente la rigorosa fedeltà ai
principi di una religione, e non intende in alcun modo riferirsi alla sola confessione religiosa delle chiese cristiane d’oriente – graca e russa – separate da Roma.
79
80
l’incarnazione completa di Dio che si manifesta necessariamente in
ogni essere, perché al contrario, senza questo processo salvifico, la
redenzione cosmica dovrebbe dirsi miseramente fallita, e ciò che
pare più grave, la sofferenza di Cristo si rivelerebbe in quel caso
completamente inutile.
Ma noi sappiamo per fede che i fatti sono andati diversamente,
viviamo nell’eschaton di Gesù che rimane in eterno, perché ci ha
assicurato che, nonostante il permanere drammatico, nel tempo,
della libertà umana (si tratta, per intenderci, della libertà del viator), la storia della salvezza avrà comunque nel suo complesso un
esito positivo, anche in considerazione del fatto che «la gioia di
Dio è la salvezza della creazione»6. Il regno è allora vicino, e solo
quando l’uomo sarà rientrato di nuovo e per sempre in Dio ritroverà
certamente il momento ultimo e il culmine della sua esistenza. A
quel punto anche la sua intera storia verrà recuperata e risanata,
vale a dire compiuta con un atto di misericordia infinita. L’umanità
vive da sempre desiderosa di tornare a casa, al principio, per completarsi e ritrovare l’eternità perduta: questa è una tensione cosmica
che scuote tutti, credenti e non credenti, anche se solo i primi vivono la consapevolezza fedele – nel senso di fede – della gloria
promessa che si compirà alla fine dei tempi.
Ho parlato dei credenti in Cristo perché è proprio grazie al figlio
che veniamo messi al corrente dell’amore straordinario del Padre.
Dio – il Dio dal volto umano, il Dio incarnato – è allora per il fedele il fondamento della speranza in un amore smisurato con cui
siamo stati amati sin dalla fondazione del mondo. Cristo ha amato
tutto e continua ad amarci fintantoché non si compie la promessa
salvifica. «Il suo regno – per dirla con Benedetto XVI – non è un
alidà immaginario, posto in un futuro che non arriva mai; il suo
regno è presente là dove Egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge»7.
È quindi necessario tentare di comprendere in cosa consista questa signoria di Dio che egli esercita nel suo regno. La tradizione
evangelica presenta pagine molto chiare a tal proposito: la novità
6
7
ISACCO DI NINIVE, Discorsi ascetici, Edizioni Qiqajon, Magnano 2004, p. 97.
BENEDETTO XVI, Spe salvi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2007, n. 31, pp.
60-61.
della rivelazione cristiana consiste proprio in un fatto, l’incarnazione di Dio in Cristo, che dal momento in cui avviene modifica per
sempre il rapporto fra il Creatore e la creatura. La signoria di Dio irruppe nel mondo per mezzo del Figlio, e allora è proprio a partire
dal Figlio e dalla sua predicazione che bisogna cominciare se vogliamo dire qualcosa del senso in cui devono essere intesi il regno
di Dio e la sua signoria.
Nel Vangelo di Matteo l’espressione «il regno dei cieli»
(βασιλεία τῶν οὐρανῶν) ricorre spesso anche se non appare mai
in modo esplicito né una definizione, né una descrizione del suo
contenuto concettuale; il termine βασιλεία viene predicato talvolta
di Cristo (regno del Figlio dell’uomo), talaltra di Dio (regno del
Padre: βασιλεία τοῦ ατρός), ma può anche essere inteso come
il regno degli uomini, o meglio dei giudei, che sono appunto i figli
del regno (οἱ […] υἱοὶ τῆς βασιλείας), nonché eredi naturali delle
promesse divine. Nell’ottica evangelica il «regno dei cieli» rende il
senso del regnum Filii inteso come il luogo spirituale in cui si verifica il distacco dai tormenti e dalla disperazione, nonché l’ambito
in cui la salvezza libera dalla morte.
Tuttavia spesso la βασιλεία assume anche le caratteristiche del
Cristo incarnato: ἀὸ δὲ τῶν ἡµερῶν ᾿Ιωάννου τοῦ βατιστοῦ
ἕως ἄρτι ἡ βασιλεία τῶν οὐρανῶν βιάζεται, καὶ βιασταὶ
ἁράζουσιν αὐτήν. [...]. καὶ εἰ θέλετε δέξασθαι, αὐτός ἐστιν
᾿Ηλίας ὁ µέλλων ἔρχεσθαι: «Dal tempo di Giovanni il Battista
fino ad ora il regno dei cieli è oggetto di violenza, e i violenti vogliono impadronirsene. […]. E se volete capirlo, egli è l’Elia che
deve venire» (Mt 11, 12-14).
La predicazione del regno dei cieli non ancora giunto – e attraverso cui l’umanità redenta alla fine dei tempi rientrerà in Dio –
viene riportata di frequente nei vangeli. Un primo esempio in tal
senso può essere rintracciato in Mt 5,19: di fronte alle domande
poste dai discepoli su quale sia la novità che rivoluziona davvero
il mondo e in quale rapporto questa stia con la tradizione, Gesù
chiarisce di non essere venuto ad abolire la legge, ma a compierla.
«Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli
uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli» (Mt 5, 19).
81
82
In virtù del comportamento sulla terra, ci spiega Gesù, prima che
tutto sia compiuto (finché tutte le cose accadano – ἕως ἂν άντα
γένηται) ognuno sarà considerato minimo (ἐλάχιστος) o grande
(µέγας) nel regno dei cieli secondo ciò che ha fatto.
Ma cosa vuol dire essere «considerato minimo nel regno dei
cieli»? Tutto si gioca sull’esegesi del termine βασιλεία (regnum): la
βασιλεία è Cristo, quindi chi trasgredisce la legge verrà considerato
minimo in Cristo, o meglio Cristo lo considererà minimo. Si evince,
allora, che la trasgressione della legge non comporta la cacciata all’inferno, come se l’inferno fosse un luogo altro lontano da Dio,
perché tutto, alla fine dei tempi, tornerà per Cristo in Dio con una
differenza che potremmo definire qualitativa. Chi avrà operato con
giustizia sarà considerato µέγας, mentre l’ingiusto si fermerà ai
gradi minimi della visio Dei, perché considerato ἐλάχιστος. Qui
Gesù lascia intendere che alla fine dei tempi tutta la creazione si
posizionerà – o riposizionerà – in Dio (in regno caelorum) gerarchicamente senza perdere alcun pezzo nel fuoco eterno. Questa
lettura viene confermata in Mt 11,11: ἀµὴν λέγω ὑµῖν, οὐκ
ἐγήγερται ἐν γεννητοῖς γυναικῶν µείζων ᾿Ιωάννου τοῦ βατιστοῦ·
ὁ δὲ µικρότερος ἐν τῇ βασιλείᾳ τῶν οὐρανῶν µείζων αὐτοῦ ἐστιν:
«In verità vi dico: fra i nati di donna non è mai sorto uno più grande
di Giovanni il Battista. Ma il più piccolo nel regno dei cieli è più
grande di lui».
Se nella βασιλείᾳ τῶν οὐρανῶν c’è un µικρότερος (µικρός –
minor), deve esserci anche un µείζων (µέγας – maior)8 , ed entrambi sono inclusi nel regno dei cieli.
Questa lettura apocatastatica dei vangeli sembrerebbe contraddetta da Mt 5,20, quando Gesù rivolgendosi ai discepoli dice: λέγω
γὰρ ὑµῖν ὅτι ἐὰν µὴ ερισσεύσῃ ἡ δικαιοσύνη ὑµῶν λεῖον
τῶν γραµµατέων καὶ Φαρισαίων, οὐ µὴ εἰσέλθητε εἰς τὴν
βασιλείαν τῶν οὐρανῶν: «se la vostra giustizia non sorpasserà
quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli».
In realtà questo versetto rafforza e non indebolisce l’esegesi proposta, e il senso in cui devono essere intese queste parole viene
chiarito infatti poco dopo in Mt 5,25-26.
8
In relazione ai diversi gradi di perfezione presenti nel regno dei cieli si vedano anche
Mt 18, 1-3; Mt 19, 30; Lc 7, 28.
Lì Cristo invita l’uomo a riconciliarsi sempre con i fratelli, perché
un tale atteggiamento è più utile ai fini della salvezza: Ισθι εὐνοῶν
τῷ ἀντιδίκῳ σου ταχὺ ἓως ὅτου εἶ ἐν τῇ ὁδῷ µετ᾿ αὐτοῦ,
µήοτέ σε αραδῷ ὁ ἀντίδικος τῷ κριτῇ καὶ ὁ κριτὴς σε
αραδῷ τῷ ὑηρέτ , καὶ εἰς φυλακὴν βληθήσῃ· ἀµὴν λέγω σοι,
οὐ µὴ ἐξέλθῃς ἐκεῖθεν ἕως οὗ ἀοδῷς τὸν ἔσχατον κοδράντην:
«Mettiti d’accordo subito con il tuo avversario mentre sei per la via
con lui, affinché l’avversario non ti consegni al giudice, il giudice
al carceriere e tu sia gettato in prigione. In verità ti dico: non ne
uscirai finché non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo (κοδάντην
– quadrantem)».
La chiave di lettura del passo si cela nella congiunzione
(donec, finché): Gesù sta dicendo che la condanna, o meglio la
pena, viene scontata in un tempo, e precisamente finché il debitore non avrà pagato fino all’ultimo quadrante (ἕως οὗ ἀοδῷς
τὸν ἔσχατον κοδράντην). Il reo allora non entrerà nel regno dei
cieli fin quando non avrà scontato fino all’ultimo l’intera pena. E ciò
vale a dire che è possibile pensare ad un momentaneo allontanamento da Dio per tutto il tempo in cui si resta avvolti dal male fra
le fiamme dell’inferno: il reditus – il ritorno in Dio – subirebbe allora in questo caso solo un rallentamento provvisorio utile al colpevole – ἕως οὗ ἀοδῷς τὸν ἔσχατον κοδράντην – per
purificarsi dai peccati e poter così essere in condizione di rientrare
nella piena comunione ontologica ed esistenzale con Dio. L’idea
che vi sia un tempo destinato al pentimento, magari attraverso
l’azione purgante del fuoco, è abbastanza diffusa nella tradizione
neotestamentaria, tanto che in modo del tutto esplicito lo stesso
Pietro, nella sua seconda lettera, parla di un Signore che «non dilaziona la promessa, anche se alcuni parlano di lentezza: è invece
paziente con voi, non volendo che alcuno perisca ma che tutti giungano al pentimento» (2Pt 3, 9). Gesù tarda così la sua Parusia finale per consentire a tutti di rientrare in Dio.
La questione del rapporto tra il tempo escatologico e il giudizio
viene affrontata anche in Mt 12, 31-32. Διὰ τοῦτο λέγω ὑµῖν,
ᾶσα ἁµαρτία καὶ βλασφηµία ἀφεθήσεται τοῖς ἀνθρώοις, ἡ
δὲ τοῦ Πνεύµατος βλασφηµία οὐκ ἀφεθήσεται τοῖς
ἀνθρώοις· καὶ ὃς ὰν εἴῃ λόγον κατὰ τοῦ υἱοῦ τοῦ ἀνθρώο ,
ἀφεθήσεται αὐτῷ· ὃς δ᾿ ἂν εἴῃ κατὰ τοῦ Πνεύµατος τοῦ
῾Αγίο , οὐκ ἀφεθήσεται αὐτῷ οὔτε ἐν τούτῳ τῷ αἰῶνι οὔτε ἐν
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τῷ µέλλοντι: «Perciò vi dico, ogni peccato e bestemmia saranno rimessi agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà rimessa. Se uno dice una parola contro il Figlio dell’uomo, gli sarà
rimessa. Ma se la dice contro lo Spirito Santo non gliela si rimetterà
né in questo secolo, né in quello futuro».
A primo impatto i versetti Mt 12, 31-32 potrebbero sembrare la
pietra tombale sull’apocatastasi, tuttavia non è così. La non-remissione del peccato contro lo Spirito Santo, infatti, avviene all’interno
di un orizzonte temporale e non eterno: οὔτε ἐν τούτῳ τῷ αἰῶνι
οὔτε ἐν τῷ µέλλοντι, che significa letteralmente né in questo secolo, né in quello veniente. Cristo non fa qui riferimenti all’eternità, né al giudizio eterno di Dio, e pertanto la non-remissione del
peccato contro lo Spirito Santo di cui si parla non è eterna, ma
l’espiazione si produce nel tempo presente e si espanderà finanche
nel secolo µέλλοντι, che sta per venire9.
Un accenno di distinzione fra il regno messianico del figlio e il
regno eterno del Padre viene fornito in Mt 13, 36-43. I discepoli
chiedono a Gesù di chiarire in quale senso deve essere intesa la parabola della zizzania nel campo.
La parabola, come è noto, è un genere letterario che non risponde
al principio-di-non-contraddizione e quindi è per certi versi difficile
da spiegare in parole umane senza pagare il prezzo di un possibile
errore interpretativo.
La αραβολή è un accostamento, un confronto con qualcosa
che si vuol dire non nel modo in cui è, ma in un senso mitico (nel
senso proprio di µῦθος, cioè racconto, discorso, favola). Il che non
implica che la αραβολή sia falsa, proprio perché – nel senso in cui
questo scritto intende il vero – non è possibile inferire né la falsità
né la verità di un discorso mitico. Ai fini del nostro ragionamento è
tuttavia utile, però, rintracciare l’organizzazione e la coerenza interna della parabola che ci suggestiona e che assume per noi un significato definito e comunicabile.
Per tornare a Mt 13, 36-43, Gesù dice che il Figlio dell’uomo semina il buon seme, il campo è il mondo, il buon seme rappresenta
9
In questo stesso senso va inteso anche Lc 12, 10.
i figli del regno (da intendersi come regno messianico del Figlio) e
la zizzania è l’immagine dei figli del male. Da un lato, quindi, c’è
Cristo, dall’altro il diavolo seminatore d’iniquità: ὥσερ οὖν
συλλέγεται τὰ ζιζάνια καὶ υρὶ καίεται, οὕτως ἔσται ἐν τῇ
συντελείᾳ τοῦ αἰῶνος τούτου. ἀοστελεῖ ὁ υἱὸς τοῦ ἀνθρώου
τοὺς ἀγγέλους αὐτοῦ, καὶ συλλέξουσιν ἐκ τῆς βασιλείας αὐτοῦ
άντα τὰ σκάνδαλα καὶ τοὺς οιοῦντας τὴν ἀνοµίαν, καὶ
βαλοῦσιν αὐτοὺς εἰς τὴν κάµινον τοῦ υρός· ἐκεῖ ἔσται ὁ
κλαυθµὸς καὶ ὁ βρυγµὸς τῶν ὀδόντων. τότε οἱ δίκαιοι
ἐκλάµψουσιν ὡς ὁ ἥλιος ἐν τῇ βασιλείᾳ τοῦ ατρὸς αὐτῶν. ὁ
ἔχων ὦτα ἀκούειν ἀκουέτω: «Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia col (υρί) fuoco, così avverrà alla fine del mondo:
il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli a radunare dal suo regno
tutti gli scandali e tutti gli operatori d’iniquità, perché li gettino nella
fornace ardente. Là sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti
splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi
intenda» (Mt 13, 40-43).
Prima di proseguire nell’analisi testuale è necessario fermarsi un
attimo per chiarire un aspetto non secondario della traduzione del
versetto 40. La questione ruota tutta attorno alla resa del termine
υρί. La traduzione della CEI, «si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco», è a mio avviso fuorviante, perché l’uso della preposizione articolata nel rimanda ad un’area ben definita – area in
cui appunto la zizzania brucerebbe – che lascerebbe intendere l’effettiva esistenza di un luogo (magari chiamato inferno) in cui i malvagi bruciano. Il termine υρί può invece essere reso anche con la
preposizione articolata col, che indica così non più il luogo bensì
il mezzo usato per bruciare la zizzania. Per chiarire: se la parabola
evoca, persino visivamente, ciò che vuol significare, l’affermazione
«la zizzania brucia nel fuoco» farebbe propendere per una lettura
localistica, come se il fuoco stesse da una qualche parte in cui la
zizzania brucia. Invece dire che «la zizzania brucia col fuoco» significa ammettere che il fuoco è il mezzo usato per purificare il
campo e non certo lo spazio della perdizione eterna.
Dalle parole di Gesù si evince inoltre che la locuzione «alla fine
del mondo» rappresenta il tempo ultimo da vivere nel regno del Figlio dell’uomo. È questi infatti che manderà gli angeli a separare i
buoni dai cattivi che verranno gettati nella fornace. Ora fermiamoci
un attimo a riflettere su quest’ultimo aspetto. Cosa può significare
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la cacciata nella fornace ardente? Non mi sembra ipotizzabile che
Gesù voglia intendere – col bruciare – una riduzione in cenere, annullante del reo, anche perché al nulla non stridono i denti né
escono lacrime. È possibile, invece, supporre che Cristo stia parlando del fuoco che purifica: la zizzania viene purificata affinché
senza colpa possa giungere – in un secondo tempo, in un altro
tempo – alla visio Dei nel regno del Padre (ἐν τῇ βασιλείᾳ τοῦ
ατρός).
Per corroborare ulteriormente questa lettura si noti che il pianto
e lo stridore dei denti avvengono «là»: ἐκεῖ, cioè nel regno del Figlio. A distinguere i due regni interviene l’avverbio di tempo τότε:
allora. Vale a dire, nel regno del Figlio i malvagi verranno purificati
col fuoco e τότε – una volta – redenti torneranno a splendere coi
giusti nel regno del Padre loro. Questa distinzione temporale non è
l’unica, tanto che in Mt 17,11 si parla espressamente di Elia (Gesù)
che – «prima» dell’accesso all’eternità viene a ristabilire tutte le
cose. Registro qui un errore di valutazione paleografica compiuto
da Nestle-Aland (l’edizione è stata da me integrata con l’aggiunta
di una variante): ὁ δὲ ἀοκριθεὶς εἶεν,᾿Ηλίας µὲν ἔρχεται
<ρῶτον>10 καὶ ἀοκαταστήσει άντα·: «Egli rispose: certamente prima viene Elia e ristabilirà tutte le cose». Ancora una volta
si tratta di comprendere in che senso va inteso questo futuro
ἀοκαταστήσει (Vulg. restítuet); l’atto del restì tŭĕre consiste nel
rimettere le cose nella condizione precedente, ristabilire nello stato
primitivo. Cristo, allora, viene, restaura ogni cosa – vale a dire purifica la malvagità col fuoco – e riconduce infine tutto a Dio.
«Avete inteso che fu detto: Amerai il prossimo tuo e odierai il tuo
nemico. Io invece vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli
che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei
cieli, il quale fa sorgere il suo sole sui cattivi come sui buoni e fa
piovere sui giusti come sugli empi.
10
Come nota Piergiorgio Beretta – che però accetta a mio avviso colpevolmente l’espunzione del ρῶτον compiuta da Nestle-Aland – diversi manoscritti inseriscono l’avverbio ρῶτον (prima), la cui presenza nel passo evangelico è a mio avviso di
fondamentale importanza in una lettura apocatastatica. Per ulteriori chiarimenti si veda:
Nuovo Testamento interlineare Greco Latino Italiano, a cura di G. Beretta, San Paolo,
Torino 2005 (ora in avanti NTi), p. 155.
Qualora infatti amiate quelli che vi amano, che ricompensa avreste? Non fanno lo stesso anche i pubblicani? E se salutate solo i vostri fratelli, che fate di speciale? Non fanno lo stesso anche i gentili?
Voi dunque sarete perfetti, come perfetto è il Padre vostro che è nei
cieli» (Mt 5, 43-48).
La proposta cristiana enunciata in questi versetti si fa molto interessante in ottica apocatastatica. Gesù incita tutti all’amore incondizionato, indica l’orizzonte da seguire per oltrepassare i limiti umani
dell’egoismo, invita ognuno di noi ad amare i suoi nemici, perché
non può esserci alcun merito nel voler bene solo a chi ci ama. Egli
propone dei criteri chiaramente sovra-umani quando ci chiede di
amare come Dio ama chi gli si fa nemico (i cattivi e gli empi sui quali
fa comunque sorgere il sole) senza che da questi riceva nulla in cambio. Noi non ne siamo capaci, è chiaro, perché Dio è Colui che esercita la sua autorità (exousía) senza violenza né dominio, Dio è Colui
che attraverso Cristo supera l’etica dominante con il perdono che libera. Il Suo amore travolge, conquista e accoglie persino quell’angelo
ribelle che gli si oppone con il massimo della veemenza, nella vana
convinzione di potergli sottrarre delle anime.
Alla luce di quanto emerge dai vangeli è allora essenziale comprendere l’impossibilità, per noi, di questo amore. Tuttavia l’orizzonte è tracciato e se vogliamo davvero essere come Dio dobbiamo
tendere alla perfezione e amare fino in fondo come Lui ci ama, che
vuol dire donarsi completamente all’altro rispettandone l’alterità.
Per cogliere appieno la radicalità di questo atteggiamento amoroso,
come ho già rapidamente accennato, è necessario concludere che
Dio ama (e nell’amore è implicito il perdono) anche chi non lo
vuole, altrimenti ci verremmo a trovare nell’assurda situazione di un
Dio che ama tutti e al contempo abbandona i suoi nemici (chi non
lo ama) al loro destino.
Nel processo relazionale di recupero e restaurazione del bene fra
l’uomo e Dio interviene Cristo come mediatore di salvezza universale: οὐ γὰρ ἀέστειλεν ὁ Θεὸς τὸν υἱὸν εἰς τὸν κόσµον ἵνα
κρίνῃ τὸν κόσµον, ἀλλ᾿ ἵνα σωθῇ ὁ κόσµος δι᾿ αὐτοῦ: «Dio
non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma
perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17).
Il verbo aoristo passivo σωθῇ (σῴζω) riveste un ruolo di primaria importanza, perché mostra la passività dell’azione umana
che subisce la salvezza proprio attraverso l’azione santificante di
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Gesù. L’uomo non si salva da solo, ma viene salvato da Cristo. Pertanto chi crede nel Figlio di Dio οὐ κρίνεται, non viene giudicato,
mentre chi non crede in lui ἤδη κέκριται, è stato già giudicato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito. La traduzione italiana
approvata dalla Cei rende il verbo κρίνω (Vulg. i d c re) con «condannare». Questa opzione terminologica è, a mio avviso, inappropriata non tanto per la scelta del termine in sé – che comunque non
significherebbe condanna eterna, bensì solo purgante – quanto invece perché l’atto del giudicare è anteriore alla condanna stessa.
Giovanni ci sta qui semplicemente dicendo che i giusti non vengono giudicati (Gv 3,17), mentre gli ingiusti sono stati già giudicati
colpevoli e, aggiungo io, prima di rientrare in Dio dovranno sottomettersi al fuoco purgante.
Si aggiunga inoltre che κρίνω può essere inteso anche come
l’atto di distinguere i buoni dai meno buoni e allora il verso evangelico in questo senso avrebbe davvero una forza dirompente.
Secondo questa intenzione del lemma, Gesù ci starebbe qui dicendo che Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per distinguere
il mondo fra buoni e meno buoni, tanto che καὶ ἐάν τίς µου
ἀκούσῃ τῶν ρηµάτων καὶ µὴ ϕυλάξῃ, ἐγὼ οὐ κρίνω αὐτόν· οὐ
γὰρ ἦλθον ἵνα κρίνω τὸν κόσµον, ἀλλ᾿ ἵνα σώσω τὸν κόσµον:
«Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, io non lo
giudico. Non sono venuto a giudicare il mondo, ma a salvarlo»
(Gv 12, 47).
Gesù è qui molto chiaro, dice di essere stato mandato a salvare
il mondo non a giudicarlo separando i buoni dai cattivi. Se in un
certo senso si può parlare di un vero e proprio giudizio lo si deve
intendere come un fatto momentaneo e precedente al recupero
della creazione in Dio per mezzo del Cristo. Giudicare è dunque
constatare la miseria umana che verrebbe punita quando rimane
nell’oscurità, e quindi nella falsità. Chi invece opera la verità viene,
nasce o ri-nasce, alla luce.
La straordinaria portata salvifica del cristianesimo non sembra
essere stata colta appieno da Giovanni Battista quando parla ai suoi
discepoli di Gesù: «Chi viene dall’alto è al di sopra di tutti; ma chi
viene dalla terra, appartiene alla terra e parla della terra. Chi viene
dal cielo è al di sopra di tutti. Egli attesta ciò che ha visto e udito,
eppure nessuno accetta la sua testimonianza; chi però ne accetta la
testimonianza, certifica che Dio è veritiero. Infatti colui che Dio ha
mandato proferisce le parole di Dio e dà lo Spirito senza misura. Il
Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa. Chi crede nel
Figlio ha la vita eterna; chi non obbedisce al Figlio non vedrà la
vita, ma l’ira di Dio incombe su di lui» (Gv 3, 34-36). L’opzione
escatologica di Giovanni è ancora legata alla tradizione veterotestamentaria: egli è un ebreo che opera in un contesto temporalmente anteriore alla proposta cristiana. Per quanto possa essere
ispirato da Dio, la sua impostazione rimane quella del vecchio testamento, di un Dio giudice e autoritario che condanna il malfattore al buio eterno.
Nell’articolazione trinitaria, invece, il Figlio giudica in nome del
Padre e secondo la Sua volontà. «Il padre […] non giudica (κρίνει)
nessuno, ma ha dato al Figlio ogni giudizio, affinché tutti onorino
il Figlio come onorano il Padre. Colui che non onora il Figlio, non
onora il padre che l’ha mandato. In verità, in verità vi dico: chi
ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita
eterna e non va in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita. In
verità, in verità vi dico: viene un’ora, ed è adesso, in cui i morti
udranno la voce del Figlio di Dio e coloro che l’avranno ascoltata
vivranno. […]. Viene un’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri ascolteranno la sua voce e usciranno, coloro che hanno fatto il
bene per la risurrezione della vita, coloro che hanno praticato il
male per la risurrezione del giudizio» (Gv 5, 22-29).
Da questo passo evangelico si evince una distinzione tra la vita
eterna e il giudizio: καὶ ιστεύων τῷ έµψαντί µε ἔχει ζωὴν
αἰώνιον, καὶ εἰς κρίσιν οὐκ ἔρχεται: «chi crede a colui che mi ha
mandato ha la vita eterna e non va in giudizio» perché passa immediatamente dalla morte alla vita. Da queste parole sembrerebbe
che vi sia un passaggio immediato dei giusti dalla morte alla beatitudine eterna. Però subito dopo Gesù precisa ulteriormente le sue
parole mostrando invece che tra la morte e la resurrezione eterna
v’è soluzione di continuità: il tempo della morte, infatti, termina
quando i morti ascolteranno la voce del Figlio di Dio e usciranno
allora dai sepolcri: chi ha fatto il bene si orienterà εἰς ἀνάστασιν
ζωῆς (alla risurrezione della vita), chi ha fatto il male εἰς
ἀνάστασιν κρίσεως (alla risurrezione del giudizio). I buoni, allora, dopo la morte non risorgono immediatamente, ma attendono
la chiamata del Figlio di Dio. I malvagi, invece, che non ascoltano
la voce di Cristo verranno giudicati, nel senso che dovranno scon-
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tare una pena purgante per eliminare alla radice ogni ulteriore possibilità di giudizio: «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per
giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di
lui» (Gv 3, 17).
Una conferma della corretta esegesi di questi versetti giunge da
Gv 6, 38-39. Gesù spiega ancora una volta di essere venuto a fare
fino in fondo la volontà del Padre per risuscitare tutti alla vita eterna:
τοῦτο δέ ἐστι τὸ θέληµα τοῦ έµψαντός µε ατρός, ἵνα ᾶν ὃ
δέδωκέ µοι µὴ ἀολέσω ἐξ αὐτοῦ, ἀλλὰ ἀναστήσω αὐτὸ ἐν τῇ
ἐσχάτῃ ἡµέρᾳ: «Questa ora è la volontà di chi mi ha mandato: che
nulla vada perduto di ciò che mi ha dato, ma io lo risusciti nell’ultimo giorno». Il sintagma ἐν τῇ ἐσχάτῃ ἡµέρᾳ (nell’ultimo giorno)
deve essere inteso come ultimo giorno del tempo della morte e non
invece come si potrebbe immediatamente pensare il limite estremo
della nostra vita terrena. In questo senso, allora, la morte assume un
valore linguistico equivoco, perché significa in un senso più comune il confine fra il tempo della vita e quello della morte, ma può
anche rappresentare il tempo della morte compreso fra la morte terrena e la chiamata definitiva del Figlio del’Uomo. Su questa stessa
linea si pone Gv 12, 48-49: «Chi mi respinge e non accoglie le mie
parole ha chi lo giudica: la parola che ho annunziato lo giudicherà
nell’ultimo giorno. Perché io non ho parlato da me, ma il padre che
mi ha mandato, egli stesso mi ha ordinato che cosa devo dire e annunziare». L’ultimo giorno è qui l’ultimo giorno prima del definitivo
ritorno della creazione in Dio, che giudicherà tutto come eternamente recuperato.
La bontà di questa lettura viene confermata poco dopo da Gv
16, 33. Cristo è certamente consapevole che la morte esercita sull’animo umano un terrore e un’inquietudine di ampia portata, provocati dalla innata – e in questo caso sarebbe forse opportuno dire
persino naturale – convinzione umana di sapersi (credersi) in bilico fra l’essere e il nulla. Più che la pena per la cacciata all’inferno,
è infatti il rischio di scomparire dalla memoria a preoccupare la coscienza dei singoli, che non vogliono perdersi nel pelago oscuro
del nulla. Proprio per questo motivo Cristo rende conto dell’amore
universale e invita gli uomini ad abbandonarsi con convinzione
alla garanzia della salvezza: «In questo mondo avete tribolazioni,
ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo» (Gv 16, 33).
Questa affermazione chiarisce definitivamente il senso dell’in-
tera predicazione evangelica: se Cristo ha vinto il mondo con la
sua gloria, alla fine dei tempi tutto tornerà in Dio come restaurato.
Le tenebre quindi sono già ora illusorie, sono già state vinte dalla
resurrezione e tutto sarà ricondotto eternamente a Dio. Persino Lucifero, creatura angelica, non può restare estraneo alla vittoria finale
del bene, perché se anche un solo angelo – per quanto ribelle – rimarrà al di fuori della luminosità di Dio, la luce glorificante del
Creatore non sarà piena, mancherà di un essere che per quanto insignificante è pur sempre una creatura divina, la cui ombra rabbuierà in eterno lo splendore della creazione parzialmente
recuperata. E allora, se Cristo ha davvero vinto il male, e quindi se
il male è pienamente battuto, Lucifero prima del compimento finale tornerà necessariamente nella sua condizione originaria in
Dio, e solo quando il diavolo assumerà in eterno la condizione di
perdonato, la sconfitta delle tenebre verrà sancita inequivocabimente anche ai nostri occhi. Con la risurrezione Cristo ha vinto per
sempre il male, ci ha annunciato la salvezza universale per liberarci dal nostro timore di scomparire nel nulla, tuttavia noi viatori
non siamo ancora in grado di abitare la gloria santificante. Noi che
siamo nel tempo e continuiamo a combattere la nostra battaglia
quotidiana contro il male attendiamo con fiducia la manifestazione
della pienezza che ci è stata rivelata e che non possiamo smentire,
se non vogliamo ridurre la predicazione evangelica ad un insieme
di ipotesi assurde e sconclusionate. Questo è l’amore che supera la
ragione: con la sua morte e risurrezione Cristo ha vinto il mondo e
ha dato la sua vita per la salvezza di tutti.
Certamente per il fedele porsi alla sequela di Cristo è complicato e il percorso non è certo privo di ostacoli. Tuttavia è importante conservare la fiducia in un processo salvifico universale,
perché Dio non può essere soltanto il Signore di una piccola élite
predestinata, né può tantomeno compiacersi di un esiguo gruppo
di fedeli e di entusiasti seguaci, come se il Regno promesso sia il destino di alcuni; al contrario, lo abbiamo visto, egli ha a cuore tutti
e di tutti vuole la salvezza. Per cogliere a pieno il messaggio evangelico dobbiamo allora lasciarci guidare dalla certezza che Dio ha
amato il suo popolo e che lo salverà alla fine dei tempi, perché il
compimento della creazione non avviene col giudizio, bensì con la
redenzione universale dell’essere decaduto che, nella gloria eterna,
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recupera la sua condizione ontologica originaria. La via per la salvezza è comunque tortuosa e irta di ostacoli. «Entrate per la porta
stretta – dice Gesù – poiché spaziosa è la porta e larga la via che
conduce alla perdizione; e molti sono quelli che vi si incamminano. Quanto stretta è la porta ed angusta la via che conduce alla
vita. E pochi sono quelli che la trovano» (Mt 7, 13-14).
Questo passo è stato spesso interpretato come una chiara chiusura di Cristo alla salvezza universale. Tuttavia le cose non stanno
affatto in questo modo: Gesù sta qui dicendo semplicemente che la
via della dissoluzione – che affascina e ammalia chi percorre la via
larga – in verità non fa altro che allontanare il singolo dalla luce e
dal bene. Ma la semplice possibilità della perdizione nel tempo
non implica (né logicamente, né tanto meno fideisticamente) la
reale condannabilità eterna del reo.
In Mt 7, 21-27 il tono non cambia. Alcuni entreranno nel regno
dei cieli, dice il Signore, altri invece no, anche se di questi altri non
aggiunge che verranno dannati per l’eternità, ma solo che a causa
della loro malvagità cadrà su di essi una grande rovina. Si noti che
anche qui tra il non entrare nel regno dei cieli e il finire eternamente all’inferno continua a rimanere una marcata differenza.
Dello stesso tenore è Mt 10, 32-33: «Chi dunque mi riconoscerà
davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio
che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli». Qui Gesù
sta semplicemente dicendo che si riserverà un doppio atteggiamento nei confronti degli uomini. Il senso profondo di quest’affermazione ruota attorno alla corretta lettura di ὁµολογήσει, tempo
futuro del verbo ὁµολογέω (Vulg. confitébitur) e di ἀρνήσητα , aoristo di ἀρνέοµαι (Vulg. negáverit). Tenendo conto del contesto,
vale a dire di ciò che avviene prima e dopo questi due versi, è lecito pensare che Gesù stia semplicemente affermando che se noi lo
riconosceremo in questa terra, anche lui – che già in questo momento si trova davanti al Padre – ci riconoscerà, mentre se lo rinnegheremo, anche lui ci rinnegherà. Il tenore del versetto è
chiaramente ipotetico.
Credo sia utile precisare ulteriormente il ragionamento: Cristo
sostiene che se l’uomo Alessandro domani lo riconoscerà, allora
anch’Egli domani stesso riconoscerà Alessandro dinanzi a Dio. Se,
invece, domani Alessandro rinnegherà l’amicizia, allo stesso modo
farà Lui dinanzi a Dio. Gesù sta allora solo presentando un’ipotesi
teorica, le sue parole hanno uno scopo principalmente pedagogico,
e i tempi dei verbi denunciano proprio questa tensione educativodidattica: «se studierete vi promuoverò; se non studierete, vi boccerò». Tutto avviene in questa vita, fintantoché il viator non è ancora
posto dinanzi a Dio, e la proposta evangelica tende qui solo ad evitare all’anima di finire a lungo fra le fiamme purganti dell’inferno.
Il messaggio di Cristo non ha quindi una tensione esclusiva ma
inclusiva, nonostante altri dubbi potrebbero presentarsi in Mc 10,
45, che viene spesso letto in opposizione all’opzione apocatastatica. Il Figlio dell’uomo, si dice lì, non è venuto per essere servito,
ma per servire e dare la propria vita ἀντὶ ολλῶν (Vulg. pro multis), reso in italiano con «per molti», che escluderebbe il «tutti»,
nonché l’ipotesi di remissione universale del peccato. Tuttavia ἀντὶ
ολλῶν – da ολύς, ολλή, ολύ – significa certamente per
molti, ma anche per la moltitudine, per il popolo. Pertanto, riletto
a partire da queste considerazioni, Mc 10, 45 si inserisce perfettamente nell’ottica apocatastatica in cui Cristo dà la vita per il Suo popolo, vale a dire per la moltitudine delle genti.
La stessa considerazione va fatta in Mc 14, 24, quando Gesù dice:
τοῦτό ἐστιν τὸ αἷµά µου τῆς διαθήκης τὸ ἐκχυννόµενον ὐὲρ
ολλῶν: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per la moltitudine (ἀντὶ ολλῶν)».
E ancora più esplicito è Lc 22, 20: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, versato per voi (ὑὲρ ὑµῶν ἐκχυνόµενον)»,
dove il termine ὑµεῖς – voi – rivela l’apertura universale alla salvezza,
di cui non si può dubitare senza vanificare del tutto il significato del
sacrificio di Cristo. Questa lettura in senso universale dell’ ντὶ
ολλῶν viene sostenuta anche dalla risoluzione conciliare di
Quierzy (anno 853), in cui si legge che la Chiesa, seguendo gli Apostoli11, insegna che Cristo è morto per tutti senza alcuna eccezione
perché non vi è, non vi è stato, non vi sarà alcun uomo per il quale
Cristo non abbia sofferto12.
11
Si veda, a tal proposito, 2Cor 5, 15: «e morì per tutti affinché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per Colui che è morto e risuscitato per loro».
12
Per ulteriori approfondimenti si rimanda al Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria
Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1999, n. 605, p. 182.
93
94
Potrebbe sembrare eccessiva o provocatoria l’affermazione «Dio
vuole l’apocatastasi», sia perché è sempre umanamente impossibile stabilire – anche alla luce dei vangeli – cosa voglia davvero
Dio, sia perché una tale impostazione sembrerebbe un’implicita
destructio della escatologia cristiana tradizionale. Tuttavia alla luce
della proposta evangelica – nonostante io, come d’altronde ogni
creatura, sia costretto a riconoscere l’infinita eccedenza del messaggio divino – l’apocatastasi si presenta come l’approdo logiconecessario che rende conto coerentemente della parola rivelata.
Ora è chiaro, non tutto ciò che sembra razionale all’uomo deve necessariamente risultare tale anche allo sguardo assoluto, ma il limite della ragione – ovvero la pretesa di presentare le ragioni delle
proprie idee – costringe l’uomo a valutare la proposta evangelica
secondo le proprie capacità percettive.
Nessuno può dire con evidenza immediata, e quindi con ambizione veritativa, come debba essere intesa la parola di Dio. Pertanto
l’unico atteggiamento possibile – e condivisibile – è di mettersi alla
sequela di Cristo con libertà e amore, perché «il Signore è lo Spirito,
e dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà» (2 Cor 3, 17).
Ad ogni buon conto, se assumiamo per fede la verità dei Vangeli
e la proposta ivi contenuta, è anche necessario – dal nostro punto
di vista limitato e creaturale, quindi fallibile – concludere che «Dio
vuole l’apocatastasi». Le ragioni – razionali e umane da considerare
alla stregua di giustificazioni logiche che potrebbero certo essere
smentite dallo sguardo assoluto di Dio – di questa asserzione sono
rintracciabili in diversi luoghi neotestamentari di cui è bene dare
conto.
PARABOLA DELLA PECORA SMARRITA: Con una certa chiarezza si
esprime Gesù in Mt 18,11 allorché afferma che <ἦλθεν γὰρ ὁ υἱὸς
τοῦ ἀνθρώου ζητῆσαι καὶ σῶσαι τὸ ἀολωλός>13: «Il figlio
dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».
Il racconto evangelico prosegue con la parabola della pecorella
smarrita, trasposizione mitica del comportamento tenuto da Dio
13
La versione di Nestle-Aland omette il verso 11, che è invece molto importante nell’ottica di una lettura apocatastatica del Vangelo di Matteo. Cfr. NTi, p. 163.
tutte le volte in cui si perde anche un solo uomo: οὕτως οὐκ ἔστιν
θέληµα ἔµροσθεν τοῦ ατρὸς ὑµῶν τοῦ ἐν οὐρανοῖς ἵνα
ἀόληται ἓν τῶν µικρῶν τούτων: «Proprio questo è il volere del
Padre vostro che è nei cieli: che neanche uno di questi piccoli si
perda» (Mt 18,14)14.
Verrebbe da chiedersi a questo punto cos’altro sia necessario per
affermare – dal nostro (nel senso di umano) punto di vista – che
Dio vuole la salvezza universale, e quindi che l’apocatastasi sia un
dato di fatto, una realtà. Per esprimere il senso della volizione divina, Matteo usa il termine θέληµα (Vulg. voluntas), e la frase può
essere resa letteralmente così: il Padre non vuole (οὐκ ἔστιν
θέληµα) che si perda anche uno solo di voi.
Ora si dovrebbe cercare di ragionare proprio su questo: se Dio
vuole che nessuno si danni, è possibile che qualcuno si danni? Se
si rispondesse in modo affermativo si dovrebbero poi accettare alcune conclusioni particolarmente problematiche che potremmo
riassumere in tre punti:
Se il volere di Dio non è ultimativo – cioè non è vincolante per
la creatura che può volontariamente dannarsi, nonostante il Creatore voglia vincere il male col bene – allora è possibile che l’essere
creato – «il ciò che è» nel tempo – non sia stato voluto da Dio così
come è. Perché Dio potrebbe averlo voluto in principio diversamente, e poi magari, dopo il contrasto con la volizione creaturale,
quest’ultima potrebbe aver orientato in un altro senso la creazione,
che sarebbe quindi sfuggita di mano a Dio stesso.
Se il volere di Dio non è ultimativo, in che senso possiamo predicarGli l’onnipotenza? Come può definirsi onnipotente un Essere
che non è in grado di dare seguito alla sua volontà?
Dio vuole che tutti si salvino, ma siccome l’uomo è libero, la responsabilità della dannazione è tutta sua. Tuttavia una considerazione di questo tipo implica la sconfitta di Dio, perché la volontà
umana sarebbe addirittura in grado di agire in competizione con
quella divina, e – ciò che è più assurdo – nel caso di una effettiva
dannazione potrebbe alla fine persino vincere. Per chiarire: se Dio
non vuole che Alessandro si perda, ma in virtù della libera volontà
14
Cfr. Lc 15, 1-7.
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Alessandro pecca e si perde, allora è necessario concludere che
nella perdizione di Alessandro ha contato più la volontà di Alessandro che quella del Creatore.
Pertanto chi nega la necessità implicita dell’apocatastasi – necessità, lo ripeto, logico-razionale – deve ammettere la sconfitta di
Dio. Perché se la perdizione eterna diventasse una possibilità reale
anche per una sola anima abbandonata fra le braccia di Lucifero,
l’angelo ribelle trionferebbe su Dio, e nella lotta fra il bene e il male
la creatura verrebbe glorificata a danno del Creatore.
A chi ritiene che l’apocatastasi sia tendenzialmente eretica vorrei replicare domandando se non è più eretico pensare ad un Dio
battuto dalla libertà umana o dalla volontà del demonio, che è comunque anch’egli una creatura divina, e quindi nella scala dell’essere infinitamente inferiore a Dio. È pensabile che nella lotta fra
Dio – creatore – e Lucifero – creatura – il secondo vinca sul primo?È
minimamente concepibile l’idea di un Dio che perde contro un’entità ontologicamente inferiore? E se sì, in che senso la sconfitta di
Dio può commutarsi in una condanna eterna del reo emessa da
Dio stesso? Cristo non ci ha forse detto che dobbiamo amare il nemico a prescindere da ogni considerazione? E se Cristo ha amato in
modo così folle l’umanità intera, è immaginabile che Dio – il Padre
che l’ha mandato – abbandoni anche una sola creatura al suo peccato? È pensabile che Dio ami meno di Cristo e non perdoni una
creatura che Gli si fa nemica?
sbattuto in galera ἕως οὗ ἀοδῷ ᾶν τὸ ὀφειλόµενον. Οὕτω καὶ
ὁ ατήρ µου ὁ οὐράνιος οιήσει ὑµῖν, ἐὰν µὴ ἀφῆτε ἕκαστος
τῷ ἀδελφῷ αὐτοῦ ἀὸ τῶν καρδιῶν ὑµῶν: «finché non gli
PARABOLA DEL SERVO SPIETATO:
Il servo spietato viene denunciato e
avesse restituito tutto ciò che gli doveva. Proprio così il padre mio
celeste tratterà voi, qualora non rimettiate di cuore a ciascuno al
proprio fratello». Gesù dice quindi che il re (Dio) abbandona il
servo (uomo peccatore) nelle mani degli aguzzini fino a quando
non gli avrà restituito il dovuto. Questo aspetto è di capitale importanza, perché il re-Dio non uccide il servo-uomo peccatore, non
lo condanna all’ignominia eterna, ma stabilisce un tempo di redenzione. Egli è paziente, è pronto a riaccogliere quel servo solo
dopo aver ricevuto da lui il denaro che gli aveva prestato: fuori di
metafora, Dio getterà nel fuoco dell’inferno il peccatore fin quando
non avrà espiato per intero il suo peccato, e solo quando sarà completamente purificato gli consentirà di rientrare in Lui per mezzo del
Figlio.
IL GIUDIZIO DELLE NAZIONI. PROBLEMI E SOLUZIONI: Alcuni ritengono
che la lettura apocatastatica del Nuovo Testamento venga clamorosamente smentita dai versetti di Mt 25, 31-46 in cui Cristo parla
del giudizio finale e della condanna eterna inflitta al demonio e
agli ingiusti. In realtà si tratta di una falsa difficoltà di ordine ermeneutico dovuta ad una scorretta traduzione del termine αἰώνιος
(Vulg. aeternus), reso in italiano con «eterno», che è sì uno dei possibili sensi in cui possiamo leggere αἰών, ma non l’unico.
Αἰών significa eterno, ma anche tempo, durata, vita, così come
d’altronde l’aeternus latino si traduce con eterno, ma anche con
perpetuo, duraturo e immortale; αἰών indica allora uno spazio di
tempo che puo essere limitato, o illimitato, quindi duraturo o
eterno15.
A ciò si aggiungà che anche quando il termine neotestamentario significa eternità, questa stessa eternità non è certamente intesa
nel modo in cui la concepisce la filosofia greca, né tanto meno il
pensiero contemporaneo occidentale. Il cristianesimo delle origini
si rifaceva alla concezione giudaica dell’eternità che consisteva nel
pensare non all’eternità come alla assenza del tempo, bensì alla
eternità come tempo infinito, ad un prae ed ad un post infiniti connessi fra loro. Questa processione illimitata del tempo risulta impensabile dal nostro punto di vista creaturale, ed è semmai
precariamente dicibile, perché si pone come una successione illimitata – quindi fuori dal nostro controllo – di epoche limitate che
appaiono in un orizzonte infinito dominato soltanto da Dio.
Se per un greco – come per buona parte del pensiero occidentale contemporaneo, d’altronde – il tempo è irriducibile all’eternità,
15
Come nota Oscar Cullmann, nel Nuovo Testamento i concetti che chiariscono con maggior evidenza la concezione neotestamentaria del tempo sono il καιρός e l’αἰών. Il
καιρός designa un momento del tempo che si inscrive all’interno di un piano divino
della salvezza. L’αἰών indica invece più una durata, uno spazio di tempo che può essere sia limitato, sia illimitato. A tal proposito si veda O. CULLMANN, Cristo e il tempo.
La concezione del tempo e della storia nel Cristianesimo primitivo, EDB, Bologna 2005,
pp. 59-73.
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per il Nuovo Testamento il tempo e l’eternità non sono affatto contrapposti. Se il nostro tempo è limitato, pensano i primi cristiani,
l’eternità è invece un tempo privo di limiti, è il tempo di Dio16.
E l’aiòn divino non è altro che una porzione, de-limitata da Dio,
di questo stesso tempo infinito di Dio. Per il pensiero protocristiano,
allora, l’eternità consiste in una successione continua e infinita
degli αἰῶνες che sono comunque tempo nel tempo. A questo
punto è chiaro che una esegesi corretta dei versetti neotestamentari
può essere compiuta solo previa considerazione del fatto che il
«tempo» e l’«eternità» sono qui entrambi concetti temporali, tanto
da essere ricompresi dall’aiòn.
Queste precisazioni si rendono necessarie dal momento che
troppo spesso, anche in ambito teologico, gli esegeti del Nuovo Testamento e i dogmatici sembrano dimenticare che il cristianesimo
delle origini non contempla un Dio fuori del tempo, proprio perché
Egli è «colui che è, che era e che viene» (Ap. 1, 4, così come in Ap.
1, 8), e persiste quindi in un tempo infinito.
Potrebbe essere certo utile, ma questo è un tema che esula dal
presente lavoro, studiare il modo in cui la successiva dottrina teologico-dogmatica, nonché morale, sull’inferno si è sviluppata a partire
dalla riflessione sui passi neotestamentari, e varrebbe la pena considerare oltretutto se gli esegeti nel corso dei secoli, e – per ciò che
riguarda la Chiesa – dei concili, abbiano tenuto nel giusto conto
questo aspetto lessicale non secondario dell’aiòn, inteso come contenitore del tempo finito e infinito. L’impressione – ma appunto l’indagine andrebbe approfondita – è che i diversi concetti di eternità
espressi dalla filosofia greca e dal pensiero protocristiano siano stati
giustapposti dagli esegeti medievali, moderni e contemporanei, i
quali non hanno tenuto minimamente conto della radicale irriducibilità dell’uno – l’eternità greca – all’altro – l’eternità cristiana.
In ogni caso, per tornare al discorso che ci interessa più da vicino, possiamo dire per un verso che l’αἰών eterno è il tempo illi-
16
Condivido in pieno la lettura proposta da Cullmann su questo tema quando afferma
che «nel Nuovo Testamento non si ha dunque contrapposizione fra tempo ed eternità,
ma fra tempo limitato e tempo illimitato, infinito. Il Nuovo Testamento pensa sempre in
categorie temporali, anche quando si parla di questo tempo illimitato. Esso non è un
tempo diverso dal nostro. La differenza consiste univocamente nell’assenza di limiti»
(CULLMANN, Cristo e il tempo. cit, p. 69).
mitato di Dio, mentre per l’altro l’αἰών significa il tempo de-finito
che ci compete e che siamo in grado di concepire. Chiarito questo
aspetto, si può ben comprendere in che senso il discorso sul giudizio delle nazioni non rappresenti più un problema per una lettura
apocatastatica del Nuovo Testamento. In quella parabola Gesù dice
che alla fine dei tempi il Figlio dell’uomo verrà nella sua maestà, si
siederà sul trono della gloria e da lì dividerà i giusti dagli ingiusti.
Ai primi dirà: δεῦτε οἱ εὐλογηµένοι τοῦ ατρός µου,
κληρονοµήσατε τὴν ἡτοιµασµένην ὑµῖν βασιλείαν ἀὸ
καταβολῆς κόσµου: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in
eredità il regno preparato per voi sin dalla fondazione del mondo»
(Mt 25, 34). Invece agli ingiusti, posti alla sinistra del trono, annuncerà la necessità della purificazione: Πορεύεσθε ἀ᾿ ἐµοῦ [οἱ]
κατηραµένοι εἰς τὸ ῦρ τὸ αἰώνιον τὸ ἡτοιµασµένον τῷ
διαβόλῳ καὶ τοῖς ἀγγέλοις αὐτοῦ: «Andatevene da me, maledetti, nel fuoco che dura in un tempo (αἰώνιον) preparato per il
diavolo e i suoi seguaci» (Mt 25, 41). E così se il fuoco dura in un
tempo de-finito è anche destinato a spegnersi, e ciò avverrà nel momento in cui tutti, dopo essere stati purificati, rientreranno nel
tempo illimitato di Dio per mezzo di Cristo.
In un quadro esegetico di questo tipo Mt 25, 46 riveste un interesse del tutto particolare: καὶ ἀελεύσονται οὗτοι εἰς κόλασιν
αἰώνιον, οἱ δὲ δίκαιοι εἰς ζωὴν αἰώνιον: «E questi andranno al
castigo duraturo, i giusti alla vita duratura». La radicalità della lettura che propongo apre ad una questione interessante: se αἰώνιος
è da intendersi come «perpetuo» e non come «eterno», anche i giusti che se ne vanno alla vita beata si trovano ancora in una condizione temporale.
Si può parlare, allora, di una prima e di una seconda morte.
Nella prima si persiste nella forma di beato (in attesa della piena
visio Dei) e nella forma di castigato (in attesa di una completa purificazione), il tutto in funzione della vera fine, cioè del definitivo
abbandono del tempo alla piena beatitudine eterna. E quindi a Mt
25, 46 – καὶ ἀελεύσονται οὗτοι εἰς κόλασιν αἰώ νιον, οἱ δὲ
δίκαιοι εἰς ζωὴν αἰώνιον: «E questi se ne andranno al castigo duraturo, i giusti alla vita duratura» – si dovrebbe aggiungere «fino
alla definitiva venuta del Cristo, che ricondurrà tutti a Dio». Solo da
quel momento in poi – ma parlare di «momento» è del tutto improprio – αἰώνιος sta a significare l’eterno.
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La medesima traduzione non propriamente felice del termine
αἰών si ripresenta anche in Mc 3, 28-29 dove si parla del peccato
contro lo Spirito Santo.
Gesù dice che ai figli degli uomini verranno rimessi tutti i peccati, ma la bestemmia contro lo Spirito οὐκ ἔχει ἄφεσιν εἰς τὸν
αἰῶνα, ἀλλὰ ἔνοχός ἐστιν αἰωνίου ἀµαρτήµατος: «non viene
perdonata nel tempo che perdura (αἰῶνα), ma è colpevole di peccato duraturo (αἰωνίου)». Ancora una volta, proprio perché tra il
tempo e l’eternità non c’è alcuna corresponsione, dire che una
colpa non viene perdonata nel tempo lungo (duraturo) non comporta l’impossibilità della sua remissione eterna.
È fin troppo scontata l’ammissione che a Dio è possibile tutto,
anche se su Dio sarebbe più opportuno tacere. Tuttavia proprio a
partire dalla predicazione evangelica il credente matura una fede
che determina delle implicazioni teologiche di cui si deve tener
conto se si vuol testimoniare qualcosa di umanamente sensato. Se
Dio può tutto, Egli è onnipotente al massimo grado, e la Sua onnipotenza implica una necessità performativa creante attraverso atti
di volontà assoluti che non contemplano alcuna mancanza. Può
essere utile ribadirlo: la necessità viene qui intesa non dal punto di
vista di Dio, ma è dedotta a partire dallo sguardo umano che prova
a posarsi nell’assoluto senza esserne capace.
Il rapporto tra il potere salvifico (la volontà salvifica) di Dio e la
salvezza universale sembra però messo in crisi dalla parabola del
giovane ricco. L’obiezione è nota: se è più facile pensare che un
cammello passi per la cruna di un ago piuttosto che un ricco entri
nel regno di Dio, allora nessuno è in grado di salvarsi per proprio
conto. Cristo risponde senza alcuna esitazione: αρὰ ἀνθρώοις
τοῦτο ἀδύνατον ἐστιν, αρὰ δὲ Θεῷ· άντα δυνατά: «Presso
gli uomini questa cosa è impossibile, ma presso Dio tutto è possibile» (Mt 19, 26). Dio è allora l’onnipotente e in questo senso Mt
18, 14 può essere letto in una luce nuova: οὕτως οὐκ ἔστιν
θέληµα ἔµροσθεν τοῦ ατρὸς ὑµῶν τοῦ ἐν οὐρανοῖς ἵνα
ἀόληται ἓν τῶν µικρῶν τούτων («Proprio questo è il volere del
Padre vostro che è nei cieli: che neanche uno di questi piccoli si
perda»).
In ultima istanza queste considerazioni stanno a significare che
il Creatore dell’universo sarà alla fine «tutto in tutti» (1 Cor 15, 28)
altrimenti la creazione sarebbe, almeno dal nostro punto di vista,
incomprensibile. Se Dio non vuole che nessuno si perda è chiaro
che l’approdo apocatastatico si rivela necessario. A ciò si aggiunga
che il recupero escatologico universale trova la sua ulteriore giustificazione proprio nella fede in un Dio unico, perché altrimenti se
il punto da cui la creazione prende il via e in cui ritorna non fosse
unico dovremmo contemplare due divinità, una che crea e l’altra
che redime. Al contrario se Dio è uno solo, la creazione e la redenzione devono appartenere alla sua infinita unità e non possono
essere scisse in alcun modo. In questo senso la parola fine sta a significare che tutto appartiene al Creatore, che ogni cosa deriva dall’unico Dio e a lui tutto ritorna.
A questo punto è bene anche riflettere sulla necessità che l’essere
redento sia un essere pienamente recuperato. Questa affermazione
rivela la sua forza travolgente proprio in considerazione del perdono che Dio concede all’uomo, perché questo atto non consiste
certo in un mero condono di un’offesa, ma deve rappresentare
qualcosa di più. Non è sufficiente allora che Dio ci dica che pur rimanendo peccatori non gli siamo più debitori, ma è invece indispensabile che qualcosa avvenga ontologicamente nel senso della
restitutio omnium, affinché Dio si compiaccia dell’essere redento.
Ragion per cui alla fine del tempo, ἄχρι καιροῦ, tutti, e persino il
diavolo, torneranno per mezzo di Cristo al principio completamente recuperati.
L’evangelista Luca chiude il racconto delle tentazioni di Gesù
con un’affermazione particolarmente interessante per il nostro ragionamento. Καὶ συντελέσας άντα ειρασµὸν ὁ διάβολος
ἀέστη ἀ᾿ αὐτοῦ ἄχρι καιροῦ: «Ed avendo terminato ogni
prova il diavolo si allontanò da lui fino al tempo opportuno» (Lc 4,
13). La traduzione CEI lascia aperto un problema di ordine esegetico proprio alla fine del versetto: l’avverbio ἄχρι significa «fino a
che», ed esprime una tensione temporale; καιροῦ rende il senso
della misura giusta, conveniente, opportuna, ma anche «il tempo
opportuno», «la buona occasione», «il tempo giusto».
Il καιρός è allora «il tempo designato nello scopo di Dio», o «il
tempo in cui Dio agisce» (Mc 1, 15), e può persino valere la pena
lasciarsi anche suggestionare dal retaggio aristotelico di tale termine: per lo Stagirita, il καιρός è un momento del tempo in cui si
dovrà affrontare la prova.
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Da queste considerazioni mi sembra opportuno concludere che,
nel senso di Lc 4, 13, ἄχρι καιροῦ può significare anche fino a che
<c’è> ancora un momento del tempo, e quindi l’intenzione sembrerebbe lì orientare l’allontanamento del demonio da Cristo – con
successivo ritorno – in un tempo precedente al giudizio eterno (appunto non si accenna per niente all’αἰών – che può significare
anche eterno – ma solo al καιρός, un momento nel tempo). I kairoi sono dunque dei momenti scelti da Dio in vista della realizzazione piena della salvezza, e si riferiscono a delle tappe future non
ancora realizzate, che consentiranno al Redentore di apparire «nei
kairoi opportuni» (1 Tim. 6, 15) per compiere la creazione: «Gesù
Cristo – infatti – ha dato se stesso in riscatto per tutti, quale testimonianza per i karoi propri (ἰδίοις)» (1 Tim. 2, 6).
Letto in questa prospettiva il versetto lucano assume un’importanza colossale nell’ottica apocatastatica, perché qui l’evangelista
starebbe dicendo che il diavolo percorrerà anch’egli il ciclo cosmico, in un progressivo allontanamento da Gesù per ritornare
(ἄχρι – Vulg. usque) in Lui e con Lui in un tempo opportuno: perciò ὁ διάβολος che torna καιροῦ è un Lucifero pienamente recuperato da Dio che attrae tutti a sé.
Certo si potrebbe obiettare che nei vangeli si parla in maniera
esplicita della Geenna e quindi non si capirebbe con quale diritto
si possa realmente ipotizzare l’effettiva realtà del processo apocatastatico. La risposta al rilievo può esser data a partire dalla contestualizzazione del termine.
La Geenna, situata alle porte di Gerusalemme, è una valle in cui
si celebrava anticamente il culto del dio Moloch, al quale venivano
offerti sacrifici umani.
Col passare del tempo, in questo luogo divenuto un immondezzaio ardeva spesso il fuoco. Probabilmente è per questo motivo che
nel linguaggio neotestamentario la γέεννα ha assunto il senso di
luogo di tortura, di grande dannazione o di atroci sofferenze. In
modo del tutto improprio, il termine Geenna viene spesso tradotto
con inferno, ed inteso quale luogo di espiazione eterna della colpa.
Tuttavia il termine γέεννα rimanda alla terra, a qualcosa che avviene nel tempo, e venire gettati nella Geenna significa espiare con
grandi sacrifici su questa terra le proprie colpe: perciò il fuoco – la cui
figurazione simbolica emerge dal senso che indicavo prima – è il
mezzo attraverso il quale il reo espia in un tempo perpetuo la sua pena.
E allora in Lc 12, 4-7 Cristo mette in guardia i suoi discepoli dal
temere chi può forse uccidere il corpo, ma non può poi fare più
nulla. L’unico da temere invece è colui che µετὰ τὸ ἀοκτεῖναι
ἔχοντα ἐξουσίαν ἐµβαλεῖν εἰς τὴν γέενναν: «dopo la morte, vi
può gettare nella Geenna». E lo si deve temere non certo perché
condanna l’anima al fuoco eterno, ma semplicemente perché
l’espiazione della colpa – nella durata, quindi in un tempo definito
– è comunque dolorosa. In questo senso lo slancio pedagogico cristiano assume un valore profondo: Cristo non dice che qualcuno si
dannerà in eterno, ma ammonisce l’uomo affinché tema il dolore
che deriva dall’allontanamento da Dio, perché nella Geenna appunto – in attesa della completa purificazione dal peccato – vi sarà
pianto e stridore di denti.
Si noti inoltre che simbolicamente il fuoco non ha solo una funzione purgante, ma è anche il mezzo attraverso cui il fedele viene
battezzato: il battesimo di fuoco è infatti superiore al battesimo
d’acqua. E in questo senso Gesù stesso dice Πῦρ ἦλθον βαλεῖν ἐὶ
τὴν γῆν, καὶ τί θέλω εἰ ἤδη ἀνήφθη: «Sono venuto a gettare sulla
terra il fuoco, e desidererei che sia già acceso». La Vulgata Clementina rende con l’accusativo ignem il termine greco ῦρ, che significa fuoco, ma anche splendore, folgore, lampo. E allora Cristo
si rammarica perché lo splendore della luce, nella sua pienezza,
non è ancora scesa sulla terra: «Ho un battesimo da ricevere e
grande è la mia angoscia finché non l’avrò ricevuto» (Lc 12, 50).
L’ipotesi del recupero universale in Dio alla fine dei tempi viene
talvolta smentita anche a partire dalle suggestioni della parabola
evangelica del ricco e di Lazzaro. «C’era un uomo ricco, che vestiva
di porpora e di bisso e faceva festa ogni giorno splendidamente.
Un povero, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta coperto di piaghe, e bramoso di sfamarsi con ciò che cadeva dalla mensa del
ricco. Perfino i cani venivano a leccargli le piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Poi morì
anche il ricco e fu sepolto. Finito nell’Ade tra i tormenti, alzando gli
occhi vide da lontano Abramo e Lazzaro che era con lui. Allora
gridò e disse: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a
intingere nell’acqua la punta del dito per rinfrescare la mia lingua,
perché sono tormentato in questa fiamma. Ma Abramo rispose: Figlio, ricorda che in vita hai ricevuto i tuoi beni, e parimenti Lazzaro
i suoi mali. Ma ora qui è consolato, tu invece sei tormentato.
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E in tutto ciò, tra noi e voi è stato posto un grande abisso, così
che chi da qui vuole passare da voi non può, né da lì può venire da
noi. E quello: Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio
padre. Ho cinque fratelli e vorrei che li ammonisse perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento. Abramo rispose: hanno
Mosè e i profeti: li ascoltino! E lui: No, padre Abramo; ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno. Abramo disse: se
non ascoltano Mosè e i profeti, non si lasceranno convincere neppure se qualcuno risorgesse dai morti» (Lc 16, 19-31).
Questa parabola è stata spesso considerata nei termini di una
verità escatologica classica, che – in chiara antitesi con una lettura
apocatastatica dei Vangeli – prevede una condanna e una salvezza
eterne. La lettura qui proposta è però il frutto di un errore prospettico dovuto principalmente ad una inesatta resa terminologica di
ᾅδης: «Ade», ed alla con-fusione dei piani temporali con l’orizzonte eterno in Dio e di Dio. L’errore consiste nell’aver reso il
lemma ᾅδης – che va tradotto semplicemente «Ade» – con inferno.
L’inferno nel senso cristiano non ha un vero e proprio corrispettivo linguistico greco, anche perché è un concetto del tutto innovativo rispetto alla tradizione religiosa della cultura ellenica.
È risaputo che ogni traduzione è un tra-dire il senso originario del
detto, ed è anche nota la consuetudine teologico-scientifica con la
quale si traduce ᾅδης con inferno. Ma la questione non è tanto terminologica quanto al contrario teoretica. Nella visione escatologica classica l’inferno è il luogo-non-luogo in cui dovrebbero finire
in eterno solo i dannati: per gli altri, infatti, si aprirebbero le porte
del purgatorio o del paradiso, in virtù del diverso livello di santificazione personale.
A differenza dell’inferno cristiano, l’Ade è invece lo spazio in
cui «soggiornano i morti», e si presenta allora come un vero e proprio luogo fisico, al quale si può persino accedere in terra da alcune regioni impervie difficilmente raggiungibili o comunque
segrete e inaccessibili ai comuni mortali. E solo nel senso di un
luogo che compete unicamente ai mortali si giustifica il dialogo tra
il ricco e Abramo, entrambi defunti: infatti, se Abramo fosse un
qualsiasi uomo ancora vivente sulla terra o risorto nella gloria di
Dio, gli sarebbe precluso qualsiasi contatto con l’Ade; ma egli è
morto e per questo può interloquire con il ricco. Nell’intenzione di
Gesù mediata dall’evangelista Luca c’è quindi la volontà di mo-
strare che il ricco si trova fra le fiamme dove soggiornano i morti per
espiare la sua pena, che nulla ha a che vedere con la dannazione
eterna che a quanto si evince risulta cristianamente – vale a dire
nell’ottica dell’economia veritativa evangelica – impossibile. Noto,
infine, che gli autori della Vulgata Clementina, consapevoli dei problemi semantici nascosti dietro al termine ᾅδης, ne omettono la
traduzione: καὶ ἐν τῷ [ᾅδῃ] ἐάρας τοὺς ὀφθαλµοὺς αὐτοῦ,
ὑάρχων ἐν βασάνοις, ὁρᾷ ᾿Αβραὰµ ἀὸ µακρόθεν…: elevans
autem oculos suos, cum esset in tormentis, vidit Abraham a longe…:
«Ma alzando i suoi occhi al cielo, trovandosi fra i tormenti, vide da
lontano Abramo…».
È certamente vero – nel senso di corrispondente alla interpretazione logica del testo – che Lazzaro viene elevato mentre il ricco
finisce nell’Ade, ma ciò avviene nel corso del tempo e in un momento quindi precedente alla resurrezione dei corpi. Che anche
Abramo e Lazzaro siano ancora fra i morti – seppure fra i morti che
non patiscono i tormenti – e non fra gli eternamente risorti in Dio
lo si evince dalla risposta che lo stesso Abramo dà al ricco. Questi,
disperato per la condotta dissoluta dei suoi fratelli, chiede al patriarca di mandare Lazzaro a casa sua ad avvisarli del pericolo, e il
dialogo che segue assume un’importanza capitale nell’economia
logico-argomentativa di questo scritto.
Abramo dice che ogni tentativo di avvisare, o ammonire, i fratelli
del ricco nel senso in cui questi indicava è del tutto inutile, perché
i vivi hanno già Mosè e i profeti, e quindi se vogliono davvero salvarsi è sufficiente che ascoltino loro. Di rimando il ricco obietta
che «se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno». Egli
chiede quindi di inviare Lazzaro dai suoi fratelli affinché siano
messi in grado di ravvedersi per il tempo che è rimasto loro ancora
da vivere. Ma se Lazzaro è un «qualcuno dai morti» che dovrebbe
essere mandato ai fratelli del ricco, ciò significa che lo status ontologico di Lazzaro è quello di non-ancora-risorto in Dio.
Il quadro è ormai chiaro e la parabola de «Il ricco e Lazzaro»
completa la lettura apocatastatica del Nuovo Testamento. Dopo la
creazione, l’uomo vive il tempo della vita che anticipa quello della
morte. Quest’ultimo – vale a dire il tempus mortis – rappresenta
l’epoca della pazienza in cui i santi e i peccatori attendono di rientrare in Dio, ed è anche il tempo in cui i peccatori vengono purificati dalle fiamme, che consentono ai rei di consumare gli ultimi
105
106
residui del peccato. Alla fine dei tempi – cioè quando il tempo non
sarà più tale – avverrà l’apocatastasi e tutto sarà ricondotto a Dio
per mezzo di Cristo, «venuto a cercare e salvare ciò che era perduto» (Lc 19, 10).
L’idea di un tempo intermedio fra la morte e la resurrezione
eterna è stata messa più volte in discussione dai sostenitori dell’escatologia classica, perché a loro dire si oppone alla salvezza
immediata che Gesù promette al ladrone poco prima di morire: «In
verità ti dico: oggi sarai con me in paradiso» (Lc 23, 43). Si tratta
però di un’obiezione del tutto inconsistente, che non tiene conto di
alcuni aspetti fondamentali dei quali si è già parlato, e che riprendo
qui brevemente. I sostenitori dell’escatologica classica dimenticano
la distinzione tra il regno del Figlio e il regno del Padre. Nei versetti
precedenti a Lc 23, 43 infatti il ladrone pentito redarguisce prima
l’altro malfattore – «riceviamo la giusta pena per le nostre azioni,
lui invece non ha fatto nulla di male» (Lc 23, 41) – e poi si rivolge
a Gesù dicendo: «Ricordati di me quando andrai verso il tuo
regno». Si è già chiarito il motivo per cui è necessario ritenere il
regno del Figlio distinto dal regno del Padre, e pertanto non ci tornerò. Il peccatore pentito chiede a Cristo la grazia di poter accedere
al regno promesso, al regno del Figlio dell’uomo. Il paradiso di cui
parla Gesù è allora il paradiso del giusto che, in attesa di rientrare
in Dio, non deve più sottoporsi nel frattempo al fuoco purgante dell’inferno, perché è già stato purificato: nel caso specifico del ladrone pentito, l’azione purgante è avvenuta in vita attraverso la
morte in croce e l’atto di affidamento a Gesù che gli promette di accoglierlo in quello stesso giorno nel suo regno.
Per concludere, semmai sia possibile concludere qualcosa, fintantoché c’è il tempo – cioè prima della seconda Parusia – il paradiso temporale dei giusti non si sovrappone in alcun modo al
paradiso eterno dei beati. Anche il buon ladrone, quindi, in una
condizione di pre-beatitudine, attende come tutti gli altri santi e i
non-ancora-redenti la vittoria finale di Cristo.
L’idea di un recupero universale della creazione è ben presente
anche negli Atti degli Apostoli, così come nell’intero corpus delle
Lettere di Paolo, di Giacomo e nell’Apocalisse. Il teologo tedesco
Hans Urs von Balthasar ha notato a più riprese che le espressioni
neotestamentarie più minacciose, volte a far supporre una possi-
bile dannazione eterna del peccatore, appartengono prevalentemente al Gesù prepasquale, mentre le affermazioni tese a proporre
la salvezza universale, soprattutto nelle testimonianze di Paolo e
dell’evangelista Giovanni, cadono in genere dopo la redenzione
compiuta attraverso il sacrifico della croce17.
Questo scritto, come penso sia ormai chiaro, smentisce parzialmente la summenzionata teoria, perché pretende al contrario mostrare come una certa tensione alla salvezza universale emerga in
maniera chiara anche dai racconti evangelici prepasquali. Tuttavia
è fuori discussione che negli Atti, nelle Lettere e nel libro dell’Apocalisse l’idea di una speranza universale sembra comparire a
più riprese e con grande forza, come quando si legge, tanto per fare
qualche rapido esempio, che Cristo ha dato se stesso per riscattare
tutti (1Tm 2, 1-6), oppure che la grazia santificante di Cristo sovrabbonda sulla colpa di Adamo (Rm 5, 12-21), o che Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza per usare a tutti misericordia (Rm
11, 32), o ancora per finire questa breve carrellata che Cristo consegna il Regno al Padre dopo aver annientato non soltanto in sé,
ma in questo stesso Regno terreno il suo ultimo nemico, la morte,
e ciò è possibile perché ha posto sotto i suoi piedi ogni cosa (1Cor
15, 26-27).
Affermazioni così esplicite in ottica apocatastatica sono certamente meno frequenti nei vangeli, e in questo senso Balthasar può
avere una qualche ragione quando distingue i testi prepasquali da
quelli postpasquali, tuttavia il Gesù non-ancora-risorto pur se in
modo più sfumato predica comunque l’amore universale di Dio
che avvolge l’intera creazione. È chiaro che l’affermazione Dio è
tutto in tutto si può comprendere meglio a resurrezione avvenuta,
e in questo senso forse si può comprendere anche il motivo per cui
Cristo, durante la sua predicazione, eviti di parlare in maniera esplicita della restitutio omnium. Sta di fatto, però, che il senso del suo
magistero è comunque volto a preparare una sorta di mappa concettuale, basata ovviamente sulla fede nel Dio rivelato, che consentirà ai discepoli di leggere la resurrezione di Cristo come il
17
Si veda a tal proposito H. U. VON BALTHASAR, Sperare per tutti. Con l’aggiunta di un
breve discorso sull’inferno, Jaca Book, 1997, pp. 16-17, 19-21, 29-30.
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compimento del disegno che il Creatore ha non solo su ogni uomo,
ma persino su ogni creatura animata e inanimata. Tutto allora è Dio
ed esiste in Dio come recuperato. L’apocatastasi non è altro che la
realizzazione definitiva dell’eterna vittoria di Dio sul terribile potere
del nulla e del male, non è altro che la restaurazione di tutte le cose
nella loro integrità ontologica saldata sul bene che illumina irrevocabilmente l’intera creazione. Alla fine dei tempi ogni cosa apparira come manifestazione di Dio, e nell’ottica escatologica il
panteismo trova la sua piena realizzazione.
Ad ogni buon conto è bene notare che il panteismo di cui si
parla è affatto particolare, nel senso che manifesta la sua piena verità solo escatologicamente. Un tale panteismo infatti non si dà nel
tempo corrente ma solo dopo la restitutio omnium, quando cioè
tutte le creature e l’intera natura liberate dalla corruzione rientreranno finalmente in Dio e manifesteranno in Lui il compimento
della promessa universale.
I discorsi apostolici contenuti nel Nuovo Testamento sono spesso
un invito al pentimento, come si evince ad esempio dalle parole di
Pietro riportate in At 2, 38-39: «Pentitevi e ciascuno di voi si faccia
battezzare nel nome di Gesù Cristo per il perdono dei vostri peccati: e riceverete il dono dello Spirito santo. Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti coloro che sono lontano, quanti
il Signore Dio nostro chiamerà». Il riferimento alla salvezza è qui
«per tutti coloro che sono lontano (µακράν)», cioè per quelli che
stanno distanti. E in questo senso il distante può essere sia il non
credente, sia colui che da fedele si trova tuttavia nella condizione
di peccato. Come si è già accennato all’inizio di questo scritto, gli
Atti assumono una posizione chiarissima sulla possibilità di un recupero complessivo della creazione alla fine dei tempi;
µετανοήσατε οὖν καὶ ἐιστρέψατε εἰς τὸ ἐξαλειφθῆναι ὑµῶν τὰς
ἁµαρτίας, ὅως ἂν ἔλθωσι καιροὶ ἀναψύξεως ἀὸ ροσώου
τοῦ Κυρίου καὶ ἀοστείλῃ τὸν ροκεχειρισµένον ὑµῖν Χριστὸν
᾿Ιησοῦν, ὃν δεῖ οὐρανὸν µὲν δέξασθαι ἄχρι χρόνων
ἀοκαταστάσεως άντων ὧν ἐλάλησεν ὁ θεὸς διὰ στόµατος
τῶν ἁγίων ἀ’ αἰῶνος αὐτοῦ ροφητῶν: «Pentitevi dunque e
convertitevi, perché siano cancellati i vostri peccati, cosicché venga
il tempo del refrigerio da parte del Signore ed egli mandi quel Gesù
che è stato costituito vostro Messia.
È necessario che egli stia in cielo fino al momento della restau-
razione di tutte le cose, di cui Dio ha parlato fin dai tempi antichi
per bocca dei suoi santi profeti (At 3, 19-21). Il Signore manderà allora Gesù, il Messia, che alla fine dei tempi – dopo aver ristabilito
tutte le cose – verrà accolto in cielo, cioè tornerà a Dio, al Padre.
Cristo, la parola nel mondo, dopo aver cambiato e redento il
mondo tornerà nel principio da cui era partito.
Nella Lettera ai romani Paolo sostiene che l’universalità del peccato è garanzia dell’universalità della redenzione, e quando spiega
in che senso debba essere intesa la giustizia di Dio dice che «tutti
peccarono e sono privi della gloria di Dio, giustificati gratuitamente
per la sua grazia mediante la redenzione che è in Gesù Cristo» (Rm
3, 23-24). Quest’amore gratuito e infinito smaschera qualsiasi pretesa
umana di autosufficienza nella redenzione: le nostre opere sono inutili, infruttuose, perché «non esiste giusto, neppure uno, non c’è chi
comprenda, chi cerchi Dio; tutti furono fuorviati, tutti si sono corrotti; non c’è chi fa il bene, nemmeno uno» (Rm 3,10-12).
E che l’uomo non possa fare molto per salvarsi con le sue proprie forze, Paolo lo ribadisce più avanti quando afferma: «Beati
quelli le cui iniquità furono rimesse e i peccati ricoperti; beato
l’uomo del cui peccato il Signore non tiene conto» (Rm 4, 7-8)18.
Il beato, allora, non è colui che sa comportarsi bene, o colui che
si fa santo, quasi come che la beatitudine fosse una possibile acquisizione umana, un obiettivo raggiungibile, un traguardo alla nostra portata. Niente di tutto ciò: la beatitudine è una condizione
passiva per l’uomo. L’uomo non è – non diventa beato – per proprio
merito, ma diventa beato solo grazie ad un atto libero e gratuito del
Signore che decide di perdonarlo sorvolando sui peccati commessi.
Alla luce di quanto detto sin qui, l’apostolo non sembra nutrire
dubbi sulla speranza nella salvezza. «Infatti, quando eravamo ancora infermi, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito. Ora, a
stento, uno è disposto a morire per un giusto; per un buono forse
uno osa anche morire. Ma Dio dimostra il suo amore per noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo morì per noi. A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira
18
Cfr. Sal 32, 1-2: «Beato l’uomo a cui è rimessa la colpa, e perdonato il peccato. Beato
l’uomo a cui Dio non imputa alcun male e nel cui spirito non è inganno».
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per mezzo di lui. Se infatti, da nemici, siamo stati riconciliati con
Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo
riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita» (Rm 5, 6-10). L’idea
di Cristo mediatore di salvezza è quindi espressa con forza: Gesù
ha gettato il suo sangue per salvare l’umanità peccatrice. Dopo il
suo sacrificio, che non può passare invano, tutti saranno salvati e
protetti dall’ira del giudice.
Il Figlio dell’uomo è venuto a riparare il danno di Adamo, e così
«come per la colpa di uno solo si ebbe in tutti gli uomini una condanna, così anche per l’atto di giustizia di uno solo si ha in tutti gli
uomini la giustificazione di vita. Come infatti per la disobbedienza
di un solo uomo i molti furono costituiti peccatori, così anche per
l’obbedienza di uno solo i molti saranno costituiti giusti» (Rm 5,
18-19). Il sacrificio di Cristo conduce tutti verso la vita, e se intesa
nel senso della restitutio omnium è lecito supporre che Paolo stia
qui pensando al Cristo che ri-conduce tutti a Dio. Il giudizio c’è
finché c’è la legge, ma la legge, la norma, la prescrizione è stata
eternamente vinta da un infinito gesto d’amore. La legge subentrò
affinché si moltiplicasse la colpa, «ma dove abbondò il peccato,
sovrabbondò la grazia» (Rm 5,20).
Paolo è certamente convinto della risurrezione universale che significa salvezza universale, tanto da proporre spesso questa lettura
escatologica. «Se non si dà risurrezione dei morti, neanche Cristo
è risorto. Ma se Cristo non è risorto, è vana la nostra predicazione,
vana la vostra fede. […]. Se infatti i morti non risorgono, neanche
Cristo è risorto, ma se Cristo non è risorto, è inutile la vostra fede e
voi siete ancora nei vostri peccati. E anche quelli che sono morti in
Cristo sono perduti. Se abbiamo avuto speranza in Cristo solo per
questa vita siamo i più miserabili degli uomini. Ma invece Cristo è
stato risuscitato dai morti, primizia di quelli che sono morti» (1Cor
15,13-20).
E a questo punto la liberazione cosmica dal male diventa chiara
e lampante, «poiché se per un uomo venne la morte, per un uomo
c’è anche la risurrezione dei morti; e come tutti muoiono in Adamo,
così tutti saranno vivificati in Cristo. Ma ciascuno al suo posto:
prima Cristo, la primizia; poi, alla sua venuta, quelli di Cristo;
quindi la fine, quando consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver
annientato ogni principio, potestà e potenza. Egli infatti deve regnare finché abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo ne-
mico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto
sotto i suoi piedi. Ma quando dice che ogni cosa è stata sottoposta,
è chiaro che si eccettua colui che gli ha sottomesso ogni cosa.
E quando tutto gli sarà sottomesso, anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, affinché Dio sia
tutto in tutti» (1Cor 15, 21-28).
Questo passo è di una incisività disarmante. Tutti saranno sottomessi a Dio per mezzo di Cristo, e nel tutti è chiaro si deve comprendere anche Lucifero. La morte, infatti – che è il male, il buio,
le tenebre –, viene annullata e vinta definitivamente con l’amore
della croce. La sottomissione di tutti significa la riconciliazione cosmica con Dio che implica la salvezza dell’intero creato. E che il
tutti qui debba essere inteso nel senso più ampio lo dimostra l’universalità della morte in Adamo. Così come universalmente Adamo
ha introdotto la morte fra gli uomini (o in senso più radicale, nella
natura), così Cristo riconduce tutti al principio. E la salvezza universale avverrà quando tutto sarà stato sottomesso a Dio, quando
tutto il male sarà annientato, vale a dire quando Lucifero convertito
tornerà in Dio.
E che Paolo pensi realmente alla conversione universale, e quindi
anche alla redenzione di Lucifero, lo si evince da Rm 8, 38-39:
«Sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né futuro, né potenze, né altezze, né profondità,
né qualunque altra cosa creata potrà mai separarci dall’amore che
Dio ha per noi in Cristo Gesù nostro Signore».
Paolo dice chiaramente che né gli angeli, né qualunque altra
cosa creata potrà mai separare l’uomo dall’amore di Dio. Lucifero,
che è una creatura angelica, pur combattendo contro Dio non potrà
sconfiggerlo. Pertanto se Dio è l’invincibile, come si può pensare
che il demonio riesca a sottrarre a Dio anche una sola anima?
Dio salva! Dio vuole! Se ragioniamo in termini di salvezza universale l’uomo può solo tentare di uniformare la propria volontà
determinata e razionale alla volontà divina, assoluta, indeterminata
e ultrarazionale testimoniata dai vangeli. «Farò misericordia a chi
voglio fare misericordia, avrò pietà di chi voglio avere pietà.
Dunque l’iniziativa non è dell’uomo che vuole o che corre, ma
di Dio che usa misericordia» (Rm 9, 15-16). In questo senso è
chiaro che se la salvezza non dipende dalla volontà dell’uomo, non
111
112
può dipendere dalla volontà dell’uomo neppure la sua condanna19,
perché se non mi salvo in virtù dei miei meriti personali, per quale
motivo dovrei dannarmi a causa del mio demerito? A questa considerazione si aggiunga l’invito di Paolo a riflettere sull’immensa
distanza ontologica e pratico-operativa tra l’uomo e Dio.
Nell’orizzonte eterno il volere e l’amore di Dio sono travolgenti,
eccedono ogni nostro desiderio, e pertanto se nel corso del tempo,
vinto magari dall’abbrutimento e dal dolore, volessi dannarmi con
tutto me stesso non ci riuscirei comunque, perché l’amore di Dio
vincerebbe ogni cosa, ogni resistenza, ogni limite. La mia libertà
di compiere operativamente il male – ammesso ma non concesso
che sia davvero libero l’uomo che compie il male – si esplica in un
contesto temporale. Vale a dire che solo in questo mondo io sono
realmente in grado di compiere un’azione e il suo opposto, quindi
anche di commettere il male.
La colpa che graverà sulla mia coscienza determinerà il tempo
di permanenza fra le fiamme dell’inferno fintantoché l’ultimo residuo di male non sia stato estirpato. Alla fine dei tempi, quando si
passerà da un piano temporale ad uno eterno, la libertà del singolo
diventerà inutile oltre che inefficace: l’uomo, completamente libero
dal male, dopo la purificazione verrà recuperato in Dio che dal
principio vuole salvare tutti usando a tutti misericordia. È misericordiosa infatti l’attesa temporanea di Dio fra la morte dell’uomo (la
prima morte) e la fine dei tempi (la seconda morte che apre alla
vita eterna) in cui il Padre consentirà ad ognuno di tornare a Lui
come recuperato attraverso il fuoco dell’inferno.
Un’idea simile viene espressa anche nel libro dell’Apocalisse
dove si dice che il Dio rivelatosi con Cristo è il primo e l’ultimo.
Primo perché creatore, e ultimo perché a Lui Cristo rimetterà l’universo redento riconducendo il gregge al padre. «Io sono il Primo e
l’Ultimo e il Vivente. Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi» (Ap 1, 17-18).
Cristo, che morì in croce, alla fine dei tempi tornerà nella vita e
19
Ammesso e non concesso che si dia una condanna eterna: si è mostrato ampiamente
in questo scritto il motivo per cui nell’ottica cristiana sarebbe contraddittorio pensare
all’infinito amore di Dio e contestualmente alla condanna eterna.
sconfiggerà la morte e gli inferi, e a quel punto splenderà il regno
del paradiso infinito ed eterno in atto. Questo ritorno al principio
avviene dopo un processo catartico compreso fra la prima e la seconda morte. «Essi ripresero vita e regnarono con Cristo per mille
anni; gli altri morti invece non tornarono in vita fino al compimento
dei mille anni.
Questa è la prima risurrezione. Beati e santi coloro che prendono parte alla prima risurrezione. Su di loro non ha potere la seconda morte, ma saranno sacerdoti di Dio e del Cristo e regneranno
con lui per mille anni» (Ap 20, 4-6).
Chi risorge allora non è soggetto al potere della seconda morte.
Ma è chiaro che se esiste la seconda morte deve ovviamente esistere anche la prima. Le due morti delimitano il tempo della purificazione, pertanto l’anima che abbandona il peccato e consuma fra
le fiamme i suoi residui di male risorge e vince la seconda morte.
In questo senso va ancora inteso il passo successivo di Ap 20, 1315: «Il mare restituì i morti che esso custodiva e la morte e gli inferi resero i morti da loro custoditi e ciascuno venne giudicato
secondo le sue opere. Poi la morte e gli inferi furono gettati nello
stagno di fuoco. Questa è la seconda morte, lo stagno di fuoco. E
chi non era scritto nel libro della vita fu gettato nello stagno di
fuoco».
A primo impatto quest’ultima affermazione sembrerebbe proporre l’ipotesi di una dannazione anche dopo la seconda morte,
tuttavia non appare alcun rimando all’eternità e lo stagno di fuoco
simbolizza un luogo di ulteriore purificazione.
L’intera creazione viene allora salvata da Dio in virtù della Sua
grazia santificante. Chi cade, è questo il centro del messaggio, non
cade per sempre (Rm 11, 11), perché la pazienza amorevole di Dio
consente il recupero di chi ha precedentemente disobbedito. Ma
anche la disobbedienza stessa sembra essere in qualche modo funzionale al recupero finale: «Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza per usare a tutti misericordia» (Rm 11, 32). Paolo è quindi
convinto di un recupero complessivo, egli non distingue mai fra
dannati e salvati, ma parla soltanto dei salvati, dei perdonati, di coloro che tramite Cristo tornano al Padre finalmente redenti.
Alla fine dei tempi, scrive l’apostolo, tutti si presenteranno dinanzi al tribunale di Dio «poiché è stato scritto: Io vivo, dice il Signore: davanti a me si piegherà ogni ginocchio e ogni lingua
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114
renderà lode a Dio. Quindi ciascuno di noi renderà conto di sé
stesso a Dio» (Rm 14, 11-12). Il ginocchio che si piega è indice di
sottomissione: tutti si genufletteranno davanti a Dio e saranno recuperati eternamente in Dio. E questa sottomissione è un atto che
diremmo dovuto, non voluto (nel senso in cui si è soliti definire gli
ambiti temporali della volontà umana). L’uomo non può volere noninginocchiarsi perché è Dio che gli piega le ginocchia, e soprattutto perché nei pressi dell’eterno non c’è più il tempo della scelta.
Quand’anche la creatura beata – o dannata se si trova fra le
fiamme dell’inferno – volesse il contrario di ciò che è bene, vale a
dire che se anche il beato quando vede Dio faccia a faccia sceglie
di non sceglierlo, l’amore infinito di Dio vincerà comunque alla
fine ogni resistenza20. E così, grazie al perdono di Dio che deve ancora oggi completarsi e che tuttavia è già stato ottenuto per mezzo
di Cristo – questa almeno è la promessa –, il mondo tornerà a risplendere pienamente nel principio.
Così come d’altronde ho già notato nel mio precedente commento ai vangeli, anche qui il tempo della morte e il ruolo giocato
dal fuoco purgante assumono un’importanza capitale nell’economia del processo apocatastatico. In 1Cor 3, 15 si legge che la salvezza è un passaggio «come attraverso il fuoco», e dello stesso
tenore è 1 Cor 5,5: «Questo individuo sia dato in balia di Satana per
la rovina della sua carne, affinché il suo spirito possa ottenere la
salvezza nel giorno del Signore». Satana e il suo fuoco diventano
dunque funzionali alla salvezza, perché le fiamme purificano il
peccato consumando il corpo e liberando l’anima dai legacci della
mortalità terrena. In questo contesto l’inferno viene nuovamente
presentato come il luogo in cui l’anima si purifica dal male in un
tempo definito e non invece come lo spazio destinato ai condannati senza più appello.
Paolo riafferma questa sua idea anche nella prima lettera a Timoteo, quando invita il confratello a combattere la buona battaglia
e a conservare la fede, ammonendolo a non comportarsi come Imenèo e Alessandro «che ho consegnato a Satana perché imparino a
20
Dello stesso tenore è Fil 2, 10-11. Dio ha esaltato il figlio «affinché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami, che Gesù Cristo è Signore a gloria di Dio Padre».
non bestemmiare» (1Tm 1, 20).
Come è facile intuire, nelle intenzioni di Paolo non c’è alcun desiderio di condanna ma solo di correzione, e la punizione a cui si
riferisce ha una funzione esclusivamente pedagogica. Egli infatti
non dice – come potrebbe d’altronde? – di aver mandato Imenèo e
Alessandro all’inferno per sempre, ma precisa di averli consegnati
a Satana affinché imparino – quindi solo per il tempo necessario
ad apprendere, perché si impara qualcosa in un tempo determinato
– a non bestemmiare. La punizione infernale ha così qui, ancora
una volta, una funzione terapeutica e pedagogica. Se Paolo avesse
voluto intendere, invece, una condanna eterna non avrebbe certo
utilizzato il termine «imparare», perché da una condanna eterna
senza appello non si torna indietro e non si può imparare nulla. Il
fuoco quindi purifica il corpo dalle malvagità e dalle bassezze, lo
libera dai peccati e lo rende all’altezza di una restitutio omnium ad
opera di Dio.
Ma, sia chiaro, il processo apocastatico non è immediato: dopo
essere passato per il fuoco, infatti, il nostro misero corpo viene trasfigurato da Cristo che lo conforma al suo corpo glorioso, «in virtù
del potere che ha di sottomettere a sé tutte le cose» (Fil 3, 21). Gesù
è «il capo del corpo, cioè della Chiesa; egli è principio primogenito
dei risuscitati, così da primeggiare in tutto, poiché piacque a tutta
la pienezza di risiedere in lui e di riconciliare (ἀοκαταλλάξαι),
per suo mezzo, tutte le cose, pacificando con il sangue della sua
croce gli esseri della terra e quelli del cielo» (Col 1, 18-20).
L’idea del Cristo come mediatore di pace e ricapitolatore del
tutto ricorre continuamente nelle Lettere: «È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le
loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione» (2 Cor
5, 19). Tutti sono stati redenti da Cristo mediante il suo sangue, il sacrificio è servito al perdono universale dei peccati che è avvenuto
secondo la ricchezza della sua grazia, che si è riversata su ognuno
di noi con sapienza e intelligenza. «Egli – dice Paolo – ci ha manifestato il mistero della sua volontà secondo il suo benevolo disegno
che aveva in lui formato, per realizzarlo nella pienezza dei tempi,
per ricapitolare tutte le cose in Cristo, quelle dei cieli e quelle della
terra» (Ef 1, 9-10).
Cristo torna ancora una volta al centro del discorso come mediatore di salvezza cosmica, come redentore del cielo e della terra.
115
116
Dio è il nostro salvatore, Dio vuole che nessuno si perda affinché
tutti giungano alla conoscenza della verità, che è la vera vita. E uno
dei modi per giungere alla verità vitale consiste nel riconoscere
l’unicità di Dio attraverso la predicazione di Cristo: «Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti, quale
testimonianza per i tempi stabiliti» (1 Tm 2, 5-6), che giungeranno
quando «non vi sarà più ó » (Ap. 10, 6).
Il chrònos neotestamentario – come d’altronde anche anche le
espressioni aiòn e kairos – non è il tempo astratto, nel senso in cui
è stato sempre inteso dal pensiero greco che lo usava per indicare
il tempo in sé. Qui invece chrònos è concettualmente legato alla
storia della salvezza e sta a rappresentare il tempo determinato.
Il versetto dell’Apocalisse 10, 6 deve essere letto e interpretato allora non nel senso di una Parusia che annulla e sopprime il tempo,
ma soltanto nel senso di un recupero dell’originaria condizione
eterna – nel tempo infinito – di Dio. E quando Cristo tornerà non si
avrà più «un tempo determinato» (Ap. 10, 6), vale a dire non vi saranno più chrònos, kairos e aiòn de-finiti, ma soltanto l’aiòn infinito
e illimitato di Dio.
Duns Scoto e Giovanni Damasceno
sullla processione dello Spirito Santo
La questione sul fondamento dell’autorità
Hernán Guerrero Troncoso*
Quanto più grande è lo sforzo che deve svolgere il nostro intelletto per riconoscere la presenza di qualcosa e per capire ciò che
esso è mediante le sue diverse manifestazioni, tanto più diventa evidente il carattere complesso della conoscenza della verità. Tale
complessità non riguarda soltanto la difficoltà che possiamo avere
per conoscere ciò che qualcosa è in quanto tale e il suo rapporto
con tutto ciò che gli è proprio, ma anche i diversi modi in cui il nostro intelletto può intendere quella verità una volta appresa. Ciò
vuol dire che la conoscenza della verità non si riduce alla semplice
apprensione passiva della manifestazione di qualcosa e alla determinazione posteriore dei diversi legami, sia con se stesso o con
qualcos’altro, che costituiscono quel oggetto come ciò che è.
Oltre tale conoscenza, la verità spetta anche il modo in cui l’intelletto intende il proprio rapporto con la presenza dell’oggetto, a
seconda di ciò che conosce, della possibilità di agire sull’oggetto e
del rapporto con la falsità. Secondo Aristotele, vi sono cinque modi
in cui l’intelletto può dire il vero, l’arte, la scienza, la prudenza, la
sapienza e l’apprensione intellettiva (intelletto in senso stretto:
νοῦς), mentre il sospetto e l’opinione possono essere anche falsi1.
In effetti, noi riteniamo conoscenza vera quella di un’affermazione che riguarda il vino, nella misura in cui corrisponde con i diversi modi in cui esso si rende manifesto. In questo senso, non
possiamo dire che conosciamo veramente il vino soltanto se affer-
*
1
Vorrei ringraziare la Fraternità dei Francescani di Köln per la loro ospitalità nei giorni
della 37. Kölner Mediaevistentagung (13-17 settembre, 2010), che costituì l’occasione
per questo articolo, la dott.ssa Paola Bressan e p. Girolamo Pica, FI, per la revisione del
testo e per i loro validissimi suggerimenti.
Cf. ARISTOTELE, Eth. Nic. Z, c. 3, 1139b 15-18, translatio R. Grosstestae, textus purus,
ed. R. A. Gauthier, Aristoteles Latinus 263, ***: “Sunt utique quibus verum dicit anima
affirmando vel negando quinque secundum numerum. Haec autem sunt ars, scientia,
prudentia, sapientia, intellectus. Suspicione enim et opinione contingit falsum dicere”.
117
118
miamo che proviene dall’uva o che è una bevanda alcoolica, oppure se attribuiamo ad esso diverse sensazioni che si manifestano
contemporaneamente, un certo odore, colore, sapore. La verità rispetto il vino Possiamo dire che la verità riguarda innanzitutto le
attività che compie l’intelletto riguardo ciò che apprende (in questo caso, il vino e le sue determinazioni). In effetti, è in virtù di tali
attività che si trova la verità in senso stretto, nella misura in cui
quello che l’intelletto afferma o nega di ciò che apprende corrisponde o meno con ciò a cui fa riferimento2.
Se intendiamo la verità secondo la concezione tradizionale,
ossia in quanto essa costituisce l’adeguazione fra la cosa e l’intelletto, la nozione di adeguazione può significare sia il rapporto che
si dà fra il producente e ciò che viene prodotto, sia quello fra il conoscente e ciò che viene conosciuto, sia infine quello fra la misura
e ciò che viene misurato. Inoltre però, se intendiamo la verità principalmente come il risultato delle operazioni dell’intelletto (anzi,
ciò in cui la conoscenza delle cose nella sua individualità e in relazione con le altre cose trova la sua realizzazione, nella misura in
cui la cosa e l’intelletto compaiono l’una davanti all’altro in quanto
diversi), il rapporto fra entrambi ha bisogno di una constatazione
che va oltre la semplice corrispondenza o adeguazione fra di loro.
In questo senso, per l’intelletto non è sufficiente sapere che cinque
più sette fa dodici, che il gatto è un mammifero quadrupede che
miagola o che il concetto più perfetto che possiamo avere di Dio è
quello di un essere infinito in atto, ma deve anche avere la certezza
che la sua conoscenza è vera.
La necessità di una constatazione della verità oltre la semplice
2
Cf. ARISTOTELE, Metaph. , c. 10, 1051b 2-9, translatio G. de Moerbeka, ed. G. GuilleminDiem, Aristoteles Latinus 253.2, 193: “Hoc autem [scilicet verum et falsum] est in rebus
aut componi aut dividi, unde verus est divisim putans dividi et compositum componi,
mentitur autem e contrario habens res quandocumque est aut non est. Quare quod
verum dicitur aut falsum, hoc perscrutandum quid dicimus. Non enim propter nos
existimare te vere album esse es tu albus, sed propter te esse album nos hoc dicentes
verum dicimus”; AVICENNA, Metaph. I, c. 8, ed. S. van Riet, Avicenna Latinus 3, 55-56:
“Veritas autem intelligitur et esse absolute in singularibus, et intelligitur esse aeternum,
et intelligitur dispositio dictionis vel intellectus qui significat dispositionem in re
exteriore cum est ei aequalis. Dicimus enim: «haec dictio est vera» et «haec sententia
est vera» […]. Veritas autem quae adaequatur rei, illa est certa, sed est certa, ut puto,
respectu suae comparationis ad rem, et est veritas respectu comparationis rei ad ipsam”.
adeguazione fra l’intelletto e la cosa diventa evidente quando la
presenza di quest’ultima non viene confermata da nessuno dei
modi secondo i quali l’intelletto può essere sicuro della sua operazione. Così, se ciò che cerchiamo di conoscere non è un principio
noto da sé al nostro intelletto né si può concludere necessariamente
a partire da principi più noti, né può rendersi manifesto nell’esperienza, pur essendo vero in realtà, tutto ciò che possiamo affermare
della cosa (nella misura in cui i nostri giudizi in effetti corrispondono con ciò che essa è), ne risulta che il nostro intelletto non può
essere sicuro di questa verità, perché non ha la certezza della corrispondenza dei suoi giudizi con la cosa che gli è manifesta, in
quanto non vi è un’adeguazione tra l’oggetto e le condizioni secondo le quali il nostro intelletto è in grado di conoscere.
In questo senso, il fatto di affermare l’esistenza attuale di Dio, di
esaminare ciò che gli è proprio in quanto essere necessario,
sommo, infinito, e soprattutto di cercare di capire ciò che nemmeno
si può concludere necessariamente a partire da un principio anteriore perché contingente (per esempio, che Dio abbia creato il
mondo, che si sia incarnato o che in Lui vi siano tre persone), tutto
ciò sembra essere privo di fondamento, poiché il loro contrario è
ugualmente possibile. Ora, poiché non vi è niente nei termini di
queste affermazioni che muova il nostro intelletto ad accettare queste piuttosto che il contrario, diventa necessaria una constatazione
ulteriore della loro verità (ossia, della loro concordanza con la cosa
che pretende conoscere, nella misura in cui essa gli è manifesta)
oltre la conoscenza che abbiamo dei termini di quelle affermazioni.
Tale constatazione dev’essere da una parte fondata sulla cosa, nella
misura in cui essa è manifesta al nostro intelletto, mentre dall’altra
parte dev’essere in grado di muovere il nostro intelletto ad apprenderla e ad accettarla come prova della verità dell’affermazione e
della falsità del suo contrario, dunque come fondamento del nostro assenso a quell’affermazione.
È per tale motivo che per la nostra ragione le affermazioni che riguardano la Teologia non hanno un carattere necessario, perché
non sono in grado di muovere il nostro intelletto ad accettarle come
vere a partire da qualcosa che sia incluso nei loro termini né possono comparire nell’esperienza, in modo tale che possiedono soltanto un carattere persuasivo, nella misura in cui partono da
premesse che si fondano sulla fede e che possono dunque essere ri-
119
120
fiutate come valide. Ma anche accettando le premesse sulle quali
si fonda la Teologia cristiana (ossia credendo nell’esistenza del Dio
tradito nella Sacra Scrittura, e innanzitutto considerando la Sacra
Scrittura una dottrina rivelata da Dio stesso), rimane per la nostra ragione il problema del carattere probabile di tale dottrina. A questo
punto diventa evidente che la certezza che il nostro intelletto può
avere della verità delle sue affermazioni su tutto ciò che riguarda
l’oggetto della Teologia, partendo dalla certezza che può avere della
validità della Sacra Scrittura come testo fondamentale della Teologia, si deve constatare in virtù di una autorità, l’autorità appunto
della Chiesa. In altre parole, possiamo dire che se crediamo nella
Sacra Scrittura e in ciò che dicono i teologi è perché la Chiesa così
sostiene.
Nella misura in cui però l’autorità della Chiesa viene a confermare la validità di una dottrina (che si presuppone rivelata o almeno ispirata da Dio stesso), possiamo vedere che essa non
consiste in un’ulteriore dottrina che si aggiunga alla Sacra Scrittura
o alle diverse interpretazioni che ne hanno fatto i teologi più noti,
anzi, quell’autorità si fonda sulla Sacra Scrittura, mediante essa si
spiega e viene persino stabilita in virtù di essa, e trova negli scritti
dei teologi un approfondimento e un chiarimento che riguarda le
questioni di fede e che cerca di dare una soluzione ai problemi che
man mano sono apparsi lungo la storia della Chiesa. In questo
senso, la dottrina della Sacra Scrittura e dei teologi che sono diventati autorità, considerati soltanto come testo e come interpretazione, possiedono in sé una validità nonostante si tratti di argomenti
ai quali la ragione non arriverebbe mai partendo dai principi a lei
noti (come per esempio, il luogo degli angeli, la possibilità che la
Beata Vergine sia stata concepita senza il peccato originale o la presenza del corpo di Cristo nell’Eucaristia).
Tale validità però appartiene soltanto all’ambito dell’argomentazione, e in quanto tale può essere probabile. L’autorità della
Chiesa invece, nella misura in cui afferma la realtà delle premesse
di quelle dottrine che si fondano sulla fede, cerca di muovere il nostro intelletto ad accettarne anche le conclusioni come valide, non
di tutte le dottrine però, ma soltanto di quelle che non vanno contro le prime verità della nostra Teologia. Ora, se quest’ultimo aspetto
è già problematico per una ragione che esamina e cerca di capire
gli argomenti della Teologia, ma che non accetta né la verità di una
dottrina rivelata né l’autorità della Chiesa come fondamento della
validità delle affermazioni e che per decidere la verità o falsità di
una dottrina – che invece si dichiara appunto cristiana – dal suo
esame ne risulta qualcosa che va contro ciò che la Chiesa considera
vero e valido, ne consegue che tale scontro può condurre alla sua
condanna e persino ad un’accusa d’eresia, in modo tale che il rapporto con l’autorità è per essa una questione di somma importanza.
Il problema è ancora più difficile da risolvere quando si dà uno
scontro fra due autorità che si reputa abbiano le stesse premesse
per quanto riguarda la determinazione delle verità di fede e il potere di validare una dottrina, perché un esame della questione di
fondo (che non può avere una soluzione soddisfacente, poiché non
può essere risolta dalla nostra ragione) può essere trascurato e persino diventare impossibile, nella misura in cui in quel momento di
crisi sembra più importante una riaffermazione della propria autorità anziché la ricerca della verità. Tale è stato il caso della polemica
riguardante la processione dello Spirito Santo, considerata uno dei
motivi fondamentali per cui si è diviso per la prima volta il Cristianesimo in una Chiesa greca e un’altra latina. Le accuse reciproche
d’eresia, partendo dalla mutua scomunica fra il papa Leone IX e il
patriarca Michele I Cerulario, e l’insistenza di ogni Chiesa sulla propria dottrina, resero da allora in poi impossibile qualsiasi dialogo fra
entrambe le posizioni3.
Nonostante il tono acido delle polemiche, sin dall’inizio del XII
secolo vi era una posizione all’interno della Chiesa latina più aperta
al dialogo con quella greca, che possiamo riscontrare già nell’esposizione che fa Pietro Lombardo di questo problema nel primo
libro delle Sentenze4, e che come vedremo riprenderà poi il beato
Giovanni Duns Scoto, seguendo principalmente la scia del vescovo
3
4
Per una visione sistematica del problema della processione dello Spirito Santo e la sua
origine, cf. M. JUGIE, Origines de la controverse sur l’addition du “Filioque” au Symbole,
in Revue des Sciences Philosophiques et Theologiques, 28 (1939), 369-385; B. OBERDORFER, Filioque. Geschichte und Theologie eines ökumenischen Problems, Forschungen
zur systematischen und ökumenischen Theologie 96, Göttingen, 2001; P. GEMEINHARDT,
Die Filioque-Kontroverse zwischen Ost- und Westkirche im Frühmittelalter, Arbeiten zur
Kirchengeschichte 82, Berlin–New York, 2002.
Cf. PIETRO LOMBARDO, Sententiae in IV libris distinctae I, d. 11 c. 2, Spicilegium
Bonaventurianum 4, Quaracchi, 1971, 116-117.
121
122
di Lincoln, Roberto Grossatesta5. Infatti, il Dottore Sottile arriva ad
affermare che la disputa sulla processione dello Spirito Santo non
è di tipo reale, ma soltanto verbale, in modo tale che tutta la polemica venga ridotta ad un semplice fraintendimento fra le Chiese.
Ma dalle parole di Scoto possiamo anche prendere spunto per
esaminare il fondamento dell’autorità, che riguarda sia la potestà
della Chiesa di affermare la verità di una determinata dottrina e di
validarla, sia la dottrina dei teologi. In effetti, come egli stesso dichiara in una delle versioni del suo esame del problema della processione dello Spirito Santo, quando il nostro Dottore cerca di
salvare l’autorità di uno dei più importanti maestri greci, Giovanni
Damasceno, riafferma e dà le fondamenta della posizione latina6.
Egli tuttavia non esclude quella greca, anzi, le riconosce un certo
livello di verità e di validità. Da questo, che potrebbe sembrare contraddittorio, poiché Scoto difende due dottrine apparentemente inconciliabili, possiamo prendere spunto per esaminare il ruolo e il
fondamento dell’autorità della Chiesa e il suo rapporto con le dottrine dei teologi.
Il nostro lavoro dunque sarà diviso in tre parti. Nella prima faremo un confronto delle diverse versioni della questione di Scoto
sulla processione dello Spirito Santo, per esaminare il modo in cui
il Dottore Sottile presenta ogni volta in modo più conciliante la differenza fra la dottrina greca e latina. Nella seconda, affinché sia più
chiaro il senso in cui il problema dell’autorità è collegato a quello
della verità, analizzeremo le questioni relative alla verità nel commento di Scoto sulla Metafisica di Aristotele e nell’Ordinatio.
5
6
Cf. G. BASETTI-SANI, Essenzialmente amore. Saggio di cristologia francescana, Padova,
1993, 66: “Il fatto che ritroviamo nella chiesa d’Inghilterra degli elementi teologici dell’Oriente siriaco dovrà spiegarsi con la presenza, sino dagli inizi, di arcivescovi di Canterbury di origine orientale”; ibid., 67: “In questo ambiente di Oxford, il b. Duns Scoto
ha subito l’influsso della patrologia antiochena, accettandone il linguaggio più concreto, più vicino al modo di esprimersi dei Vangeli sinottici e di san Paolo”; cf. anche
D. E. SHARP, Franciscan philosophy at Oxford in the thirteenth century, Oxford, 1930.
Cf. DUNS SCOTO, Lectura I, d. 11 n. 16, ed. Vaticana 17, 132: “Item, Damascenus potest
salvari in prima auctoritate, sicut etiam dicitur in principio Passionis beati Andreae,
quod ‘Spiritus Sanctus est a Patre procedens et in Filio permanens’. Unde dico quod
voluntas, quae est amor, est a Patre, et requiescit in Filio ut productiva est, quia non
ulterius communicatur tamquam principium productivum (sic enim non est in Filio); et
ideo non loquitur de amore spirato, sed de voluntate quae realiter est amor”.
Per concludere, sulla base della dottrina scotista vedremo in
quale modo il rapporto fra verità e autorità serve per capire il fondamento e i limiti di quest’ultima.
I. “Si duo sapientes, unus graecus et alius latinus, non amatores
propiae dictionis sed divini zeli...”
La domanda di Scoto sulla processione dello Spirito Santo si
trova in tutte le versioni delle sue questioni sul primo libro delle
Sentenze di Pietro Lombardo, ossia nella Lectura, nella Reportatio
e nell’Ordinatio7. Come già noto, la Lectura e la Reportatio sono
prodotto del suo insegnamento ad Oxford e a Parigi, in quanto testo
da leggere a lezione (nel caso della Lectura) o appunti presi dagli
studenti e poi riveduti dal nostro Dottore (come accade con la Reportatio). L’Ordinatio invece è il testo che Scoto preparava per la
pubblicazione, il quale, anche se possiamo dire che in genere contiene la sua dottrina più matura, poiché tiene in considerazione
anche gli altri due commenti alle Sentenze, non possiamo supporre
senz’altro che sia sempre così, dato lo stato di costante revisione a
cui esso è stato sottoposto, persino negli ultimi giorni della sua vita8.
Comunque sia, e come diventerà chiaro dal nostro esame, nell’Ordinatio troviamo l’ultima versione di questo problema, in modo
tale che quello sarà il nostro testo base in questa sezione.
La questione inizia con la domanda se lo Spirito Santo procede
dal Padre e dal Figlio9, alla quale Scoto dà una risposta negativa.
A modo di fondamento di questa risposta segue in primo luogo
una breve esposizione della dottrina greca sulla processione dello
Spirito Santo, che trova in S. Giovanni Damasceno l’autorità più
importante.
7
8
9
Lect. I, d. 11 q. 1, ed. Vaticana 17, 127-133; Reportatio I-A, d. 11 q. 1, ed. Wolter – Bychkov 1, 407-412; Ordinatio I, d. 11 q. 1, , ed. Vaticana 5, 1-8.
Per una descrizione del rapporto fra la Lectura e le Reportationes in quanto base dell’Ordinatio e del carattere incompiuto di quest’ultimo scritto, cf. COMMISSIO SCOTISTA, De
Ordinatione I. Duns Scoti disquisitio historico-critica II, ed. Vaticana 1, 157*-161*; A. B.
WOLTER, Reflections on the Life and Works of Scoto, in ID., Scoto and Ockham. Selected Essays, St. Bonaventure, NY, 2003, 9; The Early Works of Scoto, in ibid., 35-52.
Cf. Ord. I, d. 11 n. 1, ed. Vaticana 5, 1; Rep. I-A, d. 11 n. 1, ed. Wolter - Bychkov 1,
407; Lect. I, d. 11 n. 1, ed. Vaticana 17, 127): “An de facto Spiritus Sanctus procedat a
Patre et Filio”.
123
124
I primi tre argomenti della posizione negativa provengono dai
suoi scritti, sia dal De fide orthodoxa e dal De hymno trisagio. In
quest’ultimo testo in particolare il Damasceno afferma che lo Spirito Santo “viene detto che procede dal Padre e che riposa nel Figlio” e inoltre, che Egli ‘dal Padre’ ma non ‘dal Figlio’ viene detto10.
Un altro argomento riguarda il modo in cui i greci intendono
l’autorità della Sacra Scrittura in materia di fede, poiché per loro
non si può sostenere come articolo di fede niente che non sia contenuto nella Sacra Scrittura11. Infine, gli ultimi tre argomenti negano
la processione dal Padre e dal Figlio prendendo come base il modo
in cui i latini interpretano il rapporto fra le persone divine secondo
la relazione fra le potenze dell’anima, sia perché la dilezione non
avviene in noi tramite la parola, sia perché la volontà è prodotto e
non producente, sia infine perché la spirazione passiva appartiene
a una sola delle persone divine. Pertanto, anche la spirazione attiva
deve appartenere soltanto a una delle persone divine12.
La risposta che dà Scoto alla questione viene preceduta da un
breve accenno alla disputa fra la Chiesa latina e la Chiesa greca,
che a sua volta rimanda ad un’annotazione di Roberto Grossatesta13.
Ma il nostro Dottore non esamina in dettaglio questa controversia, anzi, addirittura chiude la discussione riaffermando la dottrina
dei latini sulla base dell’autorità della Chiesa latina, nella misura in
cui si tratta di una materia di fede14. Il nostro Dottore poi dà nella
soluzione il fondamento di questa dottrina, il quale costituisce il
suo contributo originale alla soluzione del problema15.
Qua non troviamo un accenno all’autorità. Anzi, l’unico accenno che fa Scoto nella sua soluzione a una dottrina altrui, a
10
Cf. Ord. I, d. 11 n. 1-3, ed. Vaticana 5, 1; Rep. I-A, d. 11 n. 1. 3-4, ed. Wolter – Bychkov
1, 407; Lect. I, d. 11 n. 1-2, ed. Vaticana 17, 127.
11
Cf. Ord. I, d. 11 n. 4 (V, 1); Rep. I-A, d. 11 n. 5 (I, 407); Lect. I, d. 11 n. 3 (XVII, 127).
12
Cf. Ord. I, d. 11 n. 5-7 (V, 2); Rep. I-A, d. 11 n. 7-8 (I, 407); Lect. I, d. 11 n. 4-5 (XVII,
127-128).
13
Cf. Ord. I, d. 11 n. 9 (V, 2-3); Rep. I-A, d. 11 n. 10 (V, 408); Lect. I, d. 11 n. 7 (XVII, 128).
14
Ord. I, d. 11 n. 10 (V, 4): “Quicquid sit de eis, ex quo Ecclesia catholica declaravit hoc
esse tenendum sicut de substantia fidei (sicut patet Extra, ‘De summa Trinitate et fide
catholica’: “Firmiter credimus”), firmiter tenendum est quod Spiritus Sanctus procedit
“ab utroque””; Cf. Rep. I-A, d. 11 n. 10 (I, 408); Lect. I, d. 11 n. 8 (XVII, 128).
15
Cf. Ord. I, d. 11 n. 11-18 (V, 4-7); Rep. I-A, d. 11 n. 11-15 (I, 408-410); Lect. I, d. 11 n.
8-14 (XVII, 128-132).
quella di Enrico di Gand, ha il solo scopo di far capire meglio il
rapporto fra l’intelletto e la volontà come fondamento per spiegare
la processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio16.
Dopo che Scoto ha chiarito fino a che punto la processione dello
Spirito Santo dal Padre e dal Figlio sia probabile, risponde agli argomenti in contrario. Ora, il modo in cui egli risponde agli argomenti del Damasceno non è di assoluto rifiuto.
Al contrario, il nostro Dottore, seguendo la nota di Grossatesta,
cerca d’interpretare le affermazioni del Damasceno in una maniera
tale che esse non contraddicano la dottrina della Chiesa latina, intendendole relative non tanto allo Spirito Santo in particolare, ma
piuttosto alla volontà in generale, anche se, come fa comunque notare il nostro Dottore, il Damasceno si riferisce alla persona stessa
dello Spirito Santo17.
Ora, se facciamo un confronto fra le tre versioni della questione,
è evidente che la dimostrazione della processione dello Spirito
Santo dal Padre e dal Figlio, per quanto riguarda la dottrina, rimane
sempre la stessa, e soltanto l’esposizione diventa ogni volta più
chiara e puntuale dalla Lectura fino all’Ordinatio.
L’accenno però alla disputa fra le Chiese latina e greca è diverso
in ogni versione. In effetti, pur seguendo esplicitamente la posizione latina, il modo in cui Scoto presenta quella disputa è ogni
volta più conciliatore e più aperto rispetto alla posizione greca, arrivando ad affermare nell’Ordinatio che non si tratterebbe di una disputa reale, ma soltanto verbale.
Così, nella Lectura, Scoto inizia la soluzione con queste parole:
“Su tale argomento discordano i greci in diversi modi dai latini, perché alcuni greci dissero che lo Spirito Santo procede dal Padre e
16
Cf. Ord. I, d. 11 n. 14-18, ed. Vaticana 5, 5-7; Rep. I-A, d. 11 n. 12-14, ed. Wolter – Bychkov 1, 408-410; Lect. I, d. 11 n. 13-14, ed. Vaticana 17, 131-132.
17
Ord. I, d. 11 n. 19, ed. Vaticana 5, 7: “Ad auctoritates Damasceni videtur posse
responderi per notulam illam domini Lincolniensis, de qua dictum est. Prima tamen
auctoritas eius posset exponi, si loquatur de voluntate et non de Spiritu Sancto: quia tunc
posset dici quod voluntas, quae est principium spirandi, ipsa est ‘a Patre in Filium’, quia
Pater communicat eam Filio; et ‘quiescit in Filio’, hoc est non ulterius communicatur sub
ratione principi fecundi, licet eadem voluntas communicetur Spiritui Sancto, in se. Sed
littera Damasceni ibidem videtur loqui de persona Spiritus Sancti, et non de voluntate
qua spiratur”. Cf. Rep. I-A, d. 11 n. 16-17, ed. Wolter – Bychkov 1, 410; Lect. I, d. 11
n. 15-16, ed. Vaticana 17, 132.
125
126
dal Figlio, come dice il Maestro [ossia, Pietro Lombardo], e alcuni
che soltanto dal Padre”18. Richiama l’attenzione il fatto che il nostro
Dottore non dia nessun giudizio esplicito sulla validità della dottrina greca, ma che esponga soltanto il fatto che anche fra i greci vi
fosse stata una disputa sulla processione dello Spirito Santo, poi ripresa da Scoto alla fine del paragrafo, quando dice: “Perciò, anche
se i primi greci in effetti, quasi in dubbio e prima che fosse stabilito
dalla Chiesa, dissero che lo Spirito Santo è dal Figlio e cose simili,
nonostante ciò i posteriori asserirono piuttosto che non è dal Figlio,
perché «un piccolo errore nei principi», ecc.”19.
Possiamo intravedere chiaramente che il suo giudizio sulla dottrina greca ne è appunto contrario, ma non di condanna.
In effetti, Scoto aveva già escluso in quel paragrafo la possibilità
di una condanna della dottrina greca quando aveva menzionato la
nota di Roberto Grossatesta. Dice il nostro Dottore: “Perciò il Lincolniense, alla fine della lettera del Damasceno, appone una notula: «Se due saggi, amanti di una verità e non delle loro parole»,
ecc. Perciò dice lì che non si deve credere che questi santi dottori
greci (che sono canonici, come è evidente nella distinzione 15 e 16
nelle Decretali) furono eretici, e neppure un tanto grande dottore,
quale è il Damasceno, e altri; neanche si deve pensare che noi cristiani, che sosteniamo questo, siamo eretici. E quindi il Lincolniense
espone che si può dire bene che lo Spirito Santo è del Figlio e dal
Figlio, com’è evidente lì a chi lo comprende”20.
Una condanna esplicita di una delle due posizioni riguardanti la
processione dello Spirito Santo non ne significherebbe soltanto il rifiuto, ma ancor più implicherebbe l’accusa di eresia. In questo
18
Lect. I, d. 11 n. 7, ed. Vaticana 17, 128: “In hac quaestione discordant graeci vario
modo a latinis, nam aliqui dixerunt quod Spiritus Sanctus procedit a Patre et Filio, sicut
dicit Magister, et aliqui quod tantum a Patre”.
19
Lect. I, d. 11 n. 7, ed. Vaticana 17, 128: “Unde licet graeci priores sic, quasi sub dubio
et ante statutum Ecclesiae, dixerunt quod Spiritus Sanctus est Filii et talia, tamen
posteriores magis asserunt quod non sit a Filio, quia «parvus error in principiis» etc.”.
20
Lect. I, d. 11 n. 7, ed. Vaticana 17, 128: “Unde Lincolniensis in fine epistolae Damasceni
ponit unam notulam: ‘Si duo sapientes, unius veritatis et non propriae dictionis
amatores’, etc. Unde dicit ibi quod non est credendum quod ipsi sancti doctores graeci
(qui canonici sunt, ut patet distinctione 15 et 16 in Decretis) fuerunt haeretici, nec tantus
doctor, quantus est Damascenus, et alii; nec etiam putandum est quod nos christiani,
qui hoc tenemus, simus haeretici. Et ideo dominus Lincolniensis exponit quod bene
potest dici Spiritum Sanctum esse Filii et a Filio, sicut ibi patet intuenti ipsum”.
senso, Scoto cerca di evitare l’accusa di eresia contro una delle posizioni e contro gli autori che la sostengono, valendosi dell’autorità
di Grossatesta, ma non solo, perché dall’accenno alla disputa fra diversi autori greci e dal fatto che fosse un momento in cui la Chiesa
non aveva ancora affermato la verità e validità di una delle posizioni, possiamo concludere che non ci sia stata da parte di quelli
che si opponevano alla dottrina latina un’intenzione di contraddire
l’autorità della Chiesa, ma, anzi, che siano stati mossi da un desiderio di trovare la verità a partire da ciò che ci è stato rivelato nella
Sacra Scrittura.
Ora, nelle sue lezioni fatte a Parigi, il cui testo è pervenuto a noi
negli appunti dei suoi studenti, Scoto espone in modo diverso la disputa con i greci rispetto a quello della Lectura, aggiungendovi una
piccola precisazione. Dice il nostro Dottore: “Su tale questione discordano i greci dai latini. Ho trovato ciononostante una notula del
Lincolniense sull’epistola De trisagio, [nella quale si dice] che alla
fine non discordano realmente i greci dai latini, perché il giudizio
dei greci è che lo Spirito Santo procede dal Padre per il Figlio” 21.
Ciò che si può avvertire immediatamente in questo passo è che,
rispetto a quello corrispondente della Lectura, non c’è più l’accenno alla disputa fra i greci, ma semplicemente fra greci e latini.
Ma l’affermazione (già nella nota di Grossatesta, taciuta però nella
Lectura) secondo cui la disputa non sarebbe in effetti reale, dà a
questo accenno un carattere del tutto diverso a quello della Lectura. In effetti, che il nostro Dottore dica che non vi è una disputa
reale tra greci e latini sulla processione dello Spirito Santo equivale
a sostenere che non vi è un fondamento per affermare che vi sia
una disputa, e questo va evidentemente contro il parere della maggioranza dei maestri e dottori di quell’epoca22.
21
Rep. I-A, d. 11 n. 10 (I, 408): “In quaestione ista discordant graeci a latinis. Inveni tamen
notulam Lincolniensis super epistolam De trisagio in fine, quod non discordant realiter
graeci a latinis, quia sententia graecorum est quod Spiritus Sanctus procedit a Patre per
Filium”.
22
Cf. per esempio BONAVENTURA, Commentaria in I librum Sententiarum, d. 11 q. 1 ad 9,
ed. Quaracchi 1, 213b: “Unde non est in hoc sustinendus [scilicet doctrinam
Damasceni], quia simpliciter fuit Graecus, tamen ipse caute loquitur. Unde non dicit,
quod Spiritus ‘non sit’ a Filio, sed dicit ‘non dicimus a Filio’, quia Graeci non
confitebantur, nec tamen negabant; sed modo eorum maledicta progenies addidit ad
paternam dementiam et dicit, quod non procedit a Filio nisi temporaliter. Et ideo
127
128
Scoto spiega il senso in cui dobbiamo intendere che il carattere
della disputa fra greci e latini non è reale quando cita la notula di
Grossatesta. Dice il nostro Dottore: “In questo modo dunque, se
due saggi, l’uno greco e l’altro latino, che non sono amanti di ciò
che ognuno dice, ma dello zelo divino, forse non troveranno una
discordia reale ma verbale: altrimenti o i latini o i greci sarebbero
eretici”23. Il rischio dell’accusa di eresia viene ancora una volta segnalato, ma questa volta all’eresia spetta il carattere reale della disputa fra le Chiese, che sia a sua volta reale o meno.
Sorge spontaneo il dubbio se la disputa sia appunto reale, o i
greci o i latini contraddicono la verità della processione dello Spirito Santo e con quello indirettamente la verità rivelata, in modo
tale che una delle due posizioni sia da condannare e da rifiutare assolutamente, così come i loro sostenitori, almeno per quanto riguarda quell’argomento. Ma il senso in cui dobbiamo intendere il
carattere reale o semplicemente verbale di una discussione non è
però abbastanza chiaro.
In fine, nell’Ordinatio, che sembra di essere l’ultima versione del
pensiero del Sottile su questo argomento, l’intenzione di salvare
l’autorità degli autori greci, specialmente quella del Damasceno, è
tamquam haereticos et schismaticos eos damnat Romana Ecclesia”; GOFFREDO DI
FONTAINES, Quodlibet IX, q. 18, ed. J. Hoffmanns, Les Philosophes Belges 4, 269: “Utrum
Graecorum error de Spiritu Sancto sit peior inobedientia eorum vel e converso”;
RICCARDO DI MEDIAVILLA, In I Sententiarum, d. 11 q. 1 ad 1, Venetiis 1507, f. 39vb-40rb:
“Ad primum in oppositum, cum dicitur quod ex Filio Spiritum non dicimus, etc., dico
quod auctoritas sua [scilicet Damasceni] in hoc non recipitur; ipse enim fuit graecus.
Vel potest dici quod non negat Spiritum Sanctum ex Filio, sed negat hoc dici, quia
graeci hoc non confitentur”; EGIDIO ROMANO, In I Sententiarum, d. 11 q. 1 ad 1, Venetiis
1521, f. 64rc-vl: “Ad primum dicendum quod Damascenus non est recipiendus in ista
materia, quia graecus. Vel dicendum quod ut dicitur ad concilium in quo fuit expressus
iste articulus graeci vocati non fuerunt, et ideo indignati noluerunt ipsum recipere, licet
crederent quod latini credebant. Vel dicere possumus et melius quod graeci non negant
Spiritum Sanctum procedere per Filium, sed ex Filio, quia ex principalitatem denotat,
et a Patre dicitur procedere principaliter, non a Filio, quia Filius hoc habet a Patre, non
Pater a Filio, ut ostendit Augustinus XV De trinitate cap. 26. Unde Damascenus, cum
dicit Spiritum non procedere ex Filio, addidit quod Filius eum tradidit, et per Filius est
manifestatus, nam sicut ex sole est radius et splendor, et splendor per radius participatur,
sic secundum eum a Patre est Filius et Spiritus Sanctus et Spiritus per Filium traditur et
emanat”.
23
Rep. I-A, d. 11 n. 10, ed. Wolter – Bychkov 1, 408: “Sic ergo duo sapientes, unus
graecus et alius latinus, non amatores propiae dictionis sed divini zeli, non invenirent
forte discordiam realem sed vocalem: alias vel latini vel graeci essent haeretici”.
ancora più evidente, nella misura in cui Scoto cerca di mostrare
che non vi è una contraddizione tra le dottrine di entrambe le
Chiese. Dice il nostro Dottore:
Su tale argomento dicono che i greci discordano dai latini,
così come sembra che suonino le autorità del Damasceno.
Ma su questa discordia dice il Lincolniense (in una sua notula verso la fine della epistola De trisagio) che: “Il giudizio
dei greci è che lo Spirito Santo è lo Spirito del Figlio, ma
che non procede dal Figlio, ma solo dal Padre, attraverso
però il Figlio; e sembra che questo giudizio fosse contrario
al nostro, secondo il quale diciamo che lo Spirito Santo
procede dal Padre e dal Figlio. Ma forse, se due saggi –
l’uno greco e l’altro latino –, essendo ciascuno un vero
amante della verità e non delle sue parole, in quanto sue,
discutessero su questa contrarietà che abbiamo visto, sarebbe chiaro alla fine che questa contrarietà non è verosimilmente reale, quanto è verbale; altrimenti o i greci
oppure noi latini saremmo veramente eretici. Ma chi oserebbe dire che questo autore, cioè Giovanni Damasceno,
e i beati Basilio, Gregorio Teologo e Gregorio Niceno, Cirillo, e altri padri greci simili, siano eretici? E poi chi direbbe che dall’altra parte sono eretici i beati Girolamo,
Agostino e Ilario, e i loro simili latini? Dunque è verosimile
che non vi sia ai già detti verbi contrari una sentenza dei
santi contrari: poiché in molte maniere si dice (come questo ‘di questo’, così ‘da questo’ o ‘[da] quello’, o ‘a partire
da quello’), per la cui molteplicità, forse più sottilmente intesa e distinta, sarebbe chiaro che non vi è una sentenza discorde alle parole contrarie”24.
24
Ord. I, d. 11 n. 9, ed. Vaticana 5, 2-3: “In ista quaestione dicuntur graeci discordare a
latinis, sicut videntur auctoritates Damasceni sonare. Sed de ista discordantia dicit
Lincolniensis (in notula quadam super finem epistulae De trisagio) quod «sententia
graecorum est quod Spiritus Sanctus est Spiritus Filii, sed non procedens a Filio sed a
solo Patre, per Filium tamen; et videtur haec sententia contraria nostrae, qua dicimus
Spiritum Sanctum a Patre et Filio procedere. Sed forte, si duo sapientes –unus graecus
et alius latinus– uterque verus amator veritatis et non propriae dictionis, unde propria
est, de hac visa contrarietate disquirerent, pateret utrique tandem ipsam contrarietatem
non esse veraciter realem, sicut est vocalis; alioquin vel ipsi graeci vel nos latini vere
sumus haeretici. Sed quis audet hunc auctorem, scilicet Ioannem Damascenum, et
129
130
Al contrario di quanto disse nella Lectura e nella Reportatio, nell’Ordinatio Scoto afferma sin dall’inizio che secondo lui non vi sarebbe una disputa reale sulla processione dello Spirito Santo, nella
misura in cui non vi è una discordanza di fondo sull’argomento;
tale discordanza, se mai, sarebbe soltanto apparente. Anche qui la
pretesa si fonda sull’autorità di Grossatesta, ma questa volta il nostro Dottore ne cita tutto il passo, e pertanto non sono le sue, bensì
le parole del Lincolniense il fondamento per difendere l’autorità
degli autori greci in generale e soprattutto per validare l’utilizzo
delle loro dottrine anche su questo argomento, poiché non vanno
contro il fatto stesso della processione dello Spirito Santo, ma riguardano soltanto il modo in cui dobbiamo intendere come essa è
accaduta, ovvero come dobbiamo interpretare questa dottrina rivelata in particolare.
Tutto ciò nonostante, la disputa viene comunque risolta a favore
della posizione latina, sulla base dell’autorità della Chiesa25. Tale risposta potrebbe sembrare in contraddizione con ciò che ha segnalato Scoto rispetto al carattere semplicemente verbale della
differenza fra la dottrina greca e latina, soprattutto perché sembra
come se il nostro Dottore cercasse soltanto di mettere la posizione
greca in consonanza con la dottrina latina anziché iniziare un dialogo con i greci. Da tempo però il dialogo era diventato impossibile,
con dure accuse d’eresia da entrambe le parti26, in modo tale che
beatos Basilium, Gregorium Theologum et Gregorium Nyssenum, Cyrillum, et
consimiles Patres graecos, haereticos arguere? Quis utique arguet haereticum iterum
beatos Hieronymum, Augustinum et Hilarium, et consimiles latinos? Verisimile ergo est
quod non subest dictis verbis contrariis contrariorum sanctorum sententia: multipliciter
enim dicitur (sicut hic ‘huius’, ita hic ‘ex hoc’ vel ‘illo’, vel ‘ab illo’), qua multiplicitate
forte subtilius intellecta et distincta, pateret contrariorum verborum non discors
sententia»”.
25
Cf. ibid., n. 10, ed. Vaticana 5, 4: “Quidquid sit de eis, ex quo Ecclesia catholica
declaravit hoc esse tenendum sicut de substantia fidei (sicut patet Extra, ‘De summa
Trinitate et fide catholica’: «Firmiter credimus»), firmiter tenendum est quod Spiritus
Sanctus procedit «ab utroque»”; Rep. I-A, d. 11 n. 10, ed. Wolter – Bychkov 1, 408:
“Tenendum igitur est hoc quod Spiritus Sanctus procedit a Patre et Filio, quia Ecclesia
dicit hoc”; Lect. I, d. 11 n. 10, ed. Vaticana 17, 128: “Quidquid ipsi dicunt, tenendum
26
Cf. A. FRANCHI, Il «filioque» al Concilio II di Lione (1274) e il Pensiero di Giovanni Duns
Scoto, in COMMISSIO SCOTISTA (ed.), De doctrina Ioannis Duns Scoti. Acta Congressus
Scotistici Internationalis Oxonii et Edimburgi 11-17 sept. 1966 celebrati, Roma 1968,
vol. 3, 777-785, specialmente p. 777: “Il tono polemico delle rapidi domande (fatte dai
teologi greci), come quello delle insoddisfacenti risposte (da parte dai latini), prova che
possiamo dire che più che negarsi di accettare una validità probabile degli argomenti dei greci, Scoto riconosce ad essi un grado di
verità che sino allora non gli era stato concesso da parte dei latini.
Continueremo adesso con l’esame dei diversi sensi in cui il Dottore Sottile intende il concetto di verità, per approfondire sino a che
punto la verità degli argomenti greci (in quanto argomenti probabili)
non contraddica la validità dell’autorità della Chiesa latina, per poi
vedere sino a che punto questo argomento ci permette di esaminare il fondamento dell’autorità.
II. La verità negli scritti di Scoto.
Un’esposizione della dottrina sulla verità del Dottore Sottile diventa molto complessa, sia per lo stato in cui le sue opere sono
state composte e trasmesse sino ai nostri giorni, sia perché egli
non dedicò un’opera o una questione a questo argomento in particolare.
Nonostante ciò, è possibile trovare un esame approfondito del
concetto di verità in una delle questioni di Scoto sulla Metafisica di
Aristotele27, che riguarda il problema se la verità può essere oggetto
della Metafisica28, e altrettanto troviamo in una delle questioni sul
il metodo scelto per la risoluzione della questione sulla processione dello Spirito Santo,
non era certamente il più adatto. L’episodio unionistico di Nicea-Nimphaion terminò
difatti con una reciproca accusa di eresia: «Vos haeretici et excommunicati... Et ipsis
[Graecis] acclamantibus post [Latinos]: Immo vos estis haeretici»”.
27
Come riconoscono gli stessi editori, questa è un’opera la cui datazione è difficile, poiché, avendola scritta nei primi anni del suo insegnamento e molto probabilmente per i
frati dello studium francescano ad Oxford, Scoto la rivide sino a tardi nella sua vita,
forse addirittura dopo aver scritto parte dell’Ordinatio. Cf. S. D. DUMONT, The Question
on Individuation in Scoto’s «Quaestiones super Metaphysicam», in: L. SILEO (ed.), Via
Scoti. Methodologica ad Mentem Iohannis Duns Scoti. Atti del Congresso Scotistico Internazionale. Roma 9-11 marzo 1993, Roma, 1995, vol. 1, 193-227; T. B. NOONE, Scoto’s Critique of the Thomistic Theory of Individuation and the Dating of the «Quaestiones
in Libros Metaphysicorum», VII q. 13, in L. SILEO (ed.), ibid., vol. 2, 391-406; L. MODRI ,
L’edizione critica delle ‘Quaestiones super Metaphysicam’ del B. G. Duns Scoto. Alcune
precisazioni, in Antonianum 73 (1998), 581-592; G. PINI, Univocity in Scoto’ Quaestiones super Metaphysicam: The Solution to a Riddle, in Medioevo 30 (2005), 69-110;
ID., Scoto on Doing Metaphysics in statu isto, in M. B. INGHAM – O. BYCHKOV (eds.), John
Duns Scoto, Philosopher, Archa Verbi, Subsidia 3, Münster, 2010, 29-55.
28
DUNS SCOTO, Quaestiones super libros Metaphysicorum Aristotelis VI, q. 3, Opera Philosophica 4, 57-84; H. GUERRERO T., «Si duo sapientes, unius veritatis et non propriae dictionis amatores...» Duns Scoto e la dottrina di s. Giovanni Damasceno sulla processione
dello Spirito Santo, in Porphyra 132 (2009), 35-54.
131
132
primo libro delle Sentenze (sia nella Lectura che nell’Ordinatio29),
nella quale il Dottore Sottile esamina la dottrina dell’illuminazione
divina, e dove abbiamo un ulteriore sviluppo della sua comprensione della verità.
Inizieremo il nostro esame partendo dalle Quaestiones in Metaphysicam, che ci dà una visione più generale del concetto di verità.
Ora, lo stile di questo scritto (forse dovuto al fatto che, come abbiamo detto, era destinato all’insegnamento) è molto conciso e
schematico, e ciò rende difficile per noi interpreti determinare il
fondamento di alcuni argomenti che Scoto dà per supposti, anche
se sappiamo che aveva sott’occhio gli scritti di Tommaso e Enrico
di Gand sulla verità30. Perciò, poiché uno studio più dettagliato oltrepassa i limiti di questo lavoro, cercheremo di esporre la dottrina
del nostro Dottore lasciando in sospeso ciò che egli non chiarifica
espressamente.
L’esame del concetto di verità inizia partendo dalla base che essa
si trova sia nelle cose sia nell’intelletto31. Così, la verità nelle cose
può essere intesa come il rapporto che si ha tra il producente e il
suo prodotto, o tra il conoscente e ciò che viene conosciuto. In effetti, nella misura in cui rappresenta una concordanza del producente con il suo prodotto, la verità può essere intesa in un modo
assoluto (come concordanza assoluta tra producente e prodotto, in
quanto entrambi sono la stessa cosa) o determinato. In questo ultimo senso, la verità può consistere nell’adeguazione tra producente e prodotto (come nelle persone divine è proprio del Figlio) o
in una semplice imitazione (come accade nelle creature)32.
D’altra parte, per quanto riguarda il rapporto tra conoscente e
ciò che viene conosciuto, la cosa vera può anche essere intesa
come vera in tre modi, sia nella misura in cui la cosa si rende manifesta in quanto tale ad un intelletto che sia in grado di accogliere
tale manifestazione, sia poi in quanto permette la somiglianza da
29
Ord. I, d. 3 p. 1 q. 4 (III, 123-172); Lect. I, d. 3 p. 1 q. 3 (XVI, 281-309).
Cf. TOMMASO D’AQUINO, De veritate, q. 1 (XXII, 3-36); ENRICO DI GAND, Summa (Quaestiones ordinariae), a. 34, ed. R. Macken, in Henrici de Gandavo Opera omnia, Ancient and Mediaeval Philosophy Series 2, 27, Leuven, 1991, 163-247.
31
Cf. DUNS SCOTO, Metaph. VI, q. 3 n. 22, Opera Philosophica 4, 65: “Est enim veritas in
rebus et veritas in intellectu”.
32
Cf. ibid., n. 24-25, Opera Philosophica 4, 65-66.
30
parte di un intelletto che le può somigliare, sia infine in quanto la
cosa si trova nell’intelletto come conosciuta33.
Così, è evidente che la verità in senso reale è un concetto equivoco, diviso prima secondo il rapporto diverso che la cosa ha con
quello che l’ha prodotta e quello che la conosce, pur essendo entrambi rapporti nello stesso soggetto. Infatti, si può pensare al caso
impossibile che Dio abbia creato il mondo, ma che non sia in grado
di conoscerlo, o viceversa, che Dio conosca il mondo senza averlo
mai creato34.
Ora, il senso reale della verità (e ciò vuol dire della verità delle
cose in quanto tali, con indipendenza dell’intelletto) viene ulteriormente chiarito quando Scoto spiega il modo in cui si dà il rapporto fra la cosa e l’intelletto. In effetti, il nostro Dottore fa notare
per primo che, anche se non esistesse nessun intelletto, la cosa sarebbe comunque in grado di manifestare la sua essenza, in maggior
o minor grado sulla base di ciò che è. Poi, segue che né all’essenza
delle cose né alla loro manifestazione è proprio un ordine con l’intelletto, anche se è proprio la loro manifestazione ciò che rende
possibile che l’intelletto si adegui alla cosa, essendo dunque poi in
grado di conoscerla.
Che la cosa però sia nell’intelletto in quanto conosciuta (il terzo
senso della verità nell’intelletto che individua Scoto) non ne segue
necessariamente che tale adeguazione sia possibile fra la cosa e
l’intelletto, ma soltanto in modo accidentale35.
Una volta che Scoto ha esaminato la verità nelle cose, senza ulteriori spiegazioni continua con il concetto della verità nell’intelletto. Anche qui il nostro Dottore dimostra che la verità si può
intendere in due sensi, secondo le due attività dell’intelletto, ovvero l’apprendimento dei termini semplici e la composizione e la
divisione di quei termini36.
33
Cf. ibid., n. 26, Opera Philosophica, 66.
Cf. ibid., n. 27, Opera Philosophica 4, 66.
35
Cf. ibid., n. 28-30, Opera Philosophica 4, 66-67.
36
Cf. J. HAMESSE (ed.), Les Auctoritates Aristotelis. Un Florilège Médiéval, Philosophes Médiévaux 17, 187: “Duplex est operatio intellectus: una quae dicitur simplicium
terminorum apprehensio; alia simplicium terminorum apprehensorum compositio et
divisio”; TOMMASO D’AQUINO, Sententia libri De anima III, c. 5, ed. Leonina 451, 224226; ARISTOTELE, De anima , c. 6, 430a 26-28, (testo latino in TOMMASO D’AQUINO, ibid.,
34
133
134
Infatti egli afferma esplicitamente che a queste due attività appartiene una conformità con l’oggetto, come quella che vi è fra la
misura e ciò che viene misurato37. Così, pur essendo i concetti e i
giudizi rispettivamente il prodotto di ognuna delle operazioni dell’intelletto, le quali non riguardano essenzialmente la cosa, dipendono comunque da essa per essere veri.
La verità di queste attività è in ogni caso diversa, come segnala
Scoto. La prima differenza riguarda il rapporto della verità con il
suo contrario. In questo senso, alla verità dei concetti non si oppone la falsità, ma soltanto l’ignoranza, poiché l’intelletto coglie
sempre in modo giusto ciò che la cosa è, altrimenti non la coglierebbe in assoluto, e questo riguarda in particolare i concetti semplicemente semplici (conceptus simpliciter simplices)38.
La verità dei giudizi invece è opposta sia alla falsità che all’ignoranza, in quanto quest’ultima priva il giudizio della possibilità di essere vero, mentre nel caso della falsità la contraddizione si
dà in quanto il giudizio collega quello che nella cosa è separato e
separa invece ciò che in essa è collegato39. La seconda differenza
riguarda il senso in cui essi vengono detti veri. In effetti, pur essendo il concetto e il giudizio formalmente veri (in quanto la concordanza fra l’intelletto e la cosa viene realizzata in entrambi),
soltanto il giudizio è anche oggettivamente vero. Ora, una verità si
trova in modo oggettivo nell’intelletto nella misura in cui l’intelletto
riflette sulla sua attività (in questo caso, sul giudizio) e lo confronta
con il suo oggetto, per così constatarne la concordanza.
ed. Leonina 451, 224: “Indivisibilium quidem igitur intelligentia in hiis est circa quae
non est falsum, in quibus autem et falsum iam et verum est, compositio quaedam iam
intellectuum est, sicut eorum quae unum sunt”.
37
Cf. DUNS SCOTO, Metaph. VI, q. 3 n. 31, Opera Philosophica 4, 67-68: “Verum autem
in intellectu duplex est secundum duplicem eius operationem, secundum quarum
utramque natus est conformari obiecto ut mensuratum mensurae”.
38
Cf. ibid., n. 32, Opera Philosophica 4, 68: “Est autem inter istas veritates differentia.
Una quod primae falsitas non opponitur, sed ignorantia tantum. Et sic intelligitur illud,
De anima, quod intellectus circa ‘quod quid est’ semper est verus, sicut sensus circa
proprium sensibile. Et hoc est intelligendum praecise circa conceptum simpliciter
simplicem”.
39
Cf. ibid., n. 35, Opera Philosophica 4, 69: “Secundae autem veritati opponitur
ignorantia privative et falsitas contrarie, quando scilicet uniuntur quae in re non sunt
unita”.
Questa constatazione però non si aggiunge al giudizio, perché
non riguarda in assoluto l’oggetto che concorda o meno con l’intelletto, ma soltanto l’attività di quest’ultimo, nella misura in cui
esso collega ciò che nell’oggetto è collegato e separa ciò che vi è
separato40.
Ma poiché il carattere oggettivo riguarda soltanto la corrispondenza fra il giudizio e i termini già presenti nell’intelletto, vi sono
molti giudizi ai quali manca questa constatazione, nonostante corrispondano realmente al loro oggetto, perché nella notizia dei termini non viene inclusa tale corrispondenza reale. Pertanto, pur
essendo in sé formalmente veri, la loro verità oggettiva è per noi
indifferente. Il contrario accade con i principi dell’intelletto, in
quanto il nostro intelletto è in concordanza immediatamente con
loro, perché è evidente che l’intelletto li possiede e che la sua attività e conforme a loro. La constatazione (ossia, la loro verità oggettiva) è contemporanea al loro apprendimento, mentre nel caso
dei sillogismi la verità oggettiva diventa evidente nel tempo41.
Una volta che Scoto ha esaminato i modi in cui possiamo intendere la verità, si interroga sul carattere che è proprio ad ogni attività dell’intelletto. Così, in quanto la prima attività corrisponde al
semplice apprendimento dell’oggetto, il suo rapporto con l’oggetto
è reale, come il rapporto tra ciò che viene misurato e la sua misura.
Per quanto riguarda la seconda attività, anche se ad essa corrisponde lo stesso rapporto formale della prima, poiché riguarda la
composizione e la divisione dei concetti semplici, essa non ha un
rapporto reale con il suo oggetto, ma soltanto di ragione, la quale
viene segnalata con la parola “è”42.
Nonostante ciò, il rapporto di ragione è comunque in conformità alla cosa, nella misura in cui nel giudizio viene contenuto ciò
che si trova virtualmente nella cosa presente nell’intelletto, sia per-
40
Cf. ibid., n. 36, Opera Philosophica 4, 69: “Licet enim sit in utraque operatione [scilicet
intellectus] veritas propria formaliter, non tamen obiective, sed tantum in secunda. Nam
neutra veritas est in intellectu obiective nisi reflectente se super actum suum,
comparando illum ad obiectum, quae reflexio in cognoscendo, scilicet quod actus talis
est similis vel dissimilis, non est sine compositione et divisione”.
41
Cf. ibid., n. 37-39, Opera Philosophica 4, 69-70.
42
Cf. ibid., n. 65, Opera Philosophica 4, 79-80.
135
136
ché costituisce appunto quella nozione che la cosa può produrre di
sé nell’intelletto, sia perché costituisce un segno che esprime ciò
che la cosa è, non essendo necessariamente simile ad essa43.
Da questo potrebbe sembrare che la verità del semplice apprendimento, nella misura in cui ha un rapporto reale con l’oggetto,
avrebbe per il nostro intelletto una certezza maggiore rispetto a
quella dei giudizi, con cui ha soltanto un rapporto di ragione.
Nonostante ciò, poiché soltanto nel giudizio ha luogo la verità
in senso oggettivo in quanto riflesso (perché riguarda sia la concordanza fra sé e il suo oggetto, sia del modo in cui si realizza la
sua attività), l’oggetto si manifesta nel modo più adatto e certo al
nostro intelletto nel giudizio, perché la verità del giudizio non dipende dal rapporto che esso ha con la cosa oltre l’intelletto, ma in
primo luogo dalle condizioni proprie dell’intelletto e poi dalla comparazione con ciò che si trova virtualmente nella cosa in quanto
manifesta all’intelletto. In questo senso, la verità del giudizio, in
quanto esprime ciò che la cosa è, si fonda sul rapporto fra l’intelletto e la cosa, nella misura in cui essa è nota a quello. Pertanto, tale
verità è innanzitutto prodotto dell’intelletto; è lì dove si trova il fondamento immediato della sua certezza44.
L’esame del carattere oggettivo della verità, ossia della certezza
che il nostro intelletto può avere dell’adeguazione ovvero commisurazione dei suoi giudizi alla cosa a lui manifesta, viene ripreso da
Scoto in una delle questioni sul primo libro delle Sentenze, quando
cerca di determinare se il nostro intelletto può conoscere naturalmente in questa vita delle verità certe e pure senza l’aiuto dell’illuminazione speciale della luce increata. In altre parole, come spiega
Scoto brevemente nella Lectura, si tratta di vedere se Dio è la ragione
per cui il nostro intelletto può intendere tutto ciò che intende45.
43
Cf. ibid., n. 66, Opera Philosophica 4, 80.
Cf. ibid., n. 68, Opera Philosophica 4, 81: “Et ita illa habitudo, quae dicitur compositio
expressa per ‘est’, vera est immediate, et mediante illa verus est actus comparativus,
comparans secundum illam habitudinem. Et sic videretur, cum fundamentum immediatum
istius veritatis sit habitudo rationis, quod ipsā multo esset imperfectior relatio rationis”.
45
Cf. Lect. I, d. 3 n. 144, ed. Vaticana 16, 281: “Utrum intellectus alicuius viatoris possit
naturaliter intelligere aliquam certam veritatem et sinceram absque speciali influentia
a Deo, sicut ignis potest comburere stuppam generali influentia Dei, absque alia speciali
influentia: et hoc est quaerere an Deus sit ratio intelligendi omnia quae intelliguntur ab
intellecto nostro”.
44
Ora, tale questione viene strutturata sulla base di una critica al
modo in cui Enrico di Gand interpreta la dottrina dell’illuminazione
divina di Sant’Agostino, poiché Scoto rifiuta tale interpretazione,
ma allo stesso tempo fa vedere in quale maniera la dottrina dell’illuminazione è comunque valida. Così, dopo l’esposizione della
questione e degli argomenti secondo i quali si potrebbe sostenere
che il nostro intelletto in questa vita può fare a meno dell’illuminazione per conoscere la verità delle cose a lui manifeste46, il nostro Dottore riporta l’interpretazione che fa Enrico di tale dottrina,
secondo la quale la conoscenza certa e la verità infallibile, per
quanto l’uomo sia in grado di conoscerla, non viene appresa dall’osservazione dell’esemplare creato che viene accolto attraverso i
sensi (nonostante sia depurato dall’imperfezione e reso universale),
ma c’è bisogno dell’osservazione dell’esemplare increato. In questo senso, Dio è l’esemplare increato, ma una verità non è certa
perché abbiamo una conoscenza di Dio né nella misura in cui noi
Lo contempliamo; al contrario, Dio costituisce la ragione della nostra conoscenza in quanto è l’esemplare nudo e la ragione propria
dell’essenza creata47. A questo poi, come accenna Scoto, si aggiunge il fatto che per Enrico la notizia perfetta della verità si dà
quando le due specie esemplari concorrono nella mente, la specie
creata, la quale è inerente, e la specie increata, che viene infusa al
nostro intelletto48.
Poiché, secondo la posizione di Enrico, la conoscenza naturale
46
Cf. Ord. I, d. 3 n. 202-206, ed. Vaticana 3, 123-125; Lect. I, d. 3 n. 144-150, ed. Vaticana 16, 281-283.
47
Cf. Ord. I, d. 3 n. 214, ed. Vaticana 3, 130: “Ex istis concluditur quod certam scientiam
et infallibilem veritatem si contingat hominem cognoscere, hoc non contigit ei
aspiciendo ad exemplar a re per sensus acceptum, quantumcumque sit depuratum et
universale factum, sed requiritur quod respiciat ad exemplar increatum. Et tunc modus
ponendi est iste: Deus non ut cognitum habet rationem exemplaris, ad quod aspiciendo
cognoscitur sincera veritas (est enim ‘cognitum’ in generali attributo), sed est ratio
cognoscendi ut nudum exemplar et propria ratio essentiae creatae”. Cf. ENRICO DI GAND,
Summa, a. 1 q. 2 in corp., ed. G. A. Wilson, Ancient and Medieval Philosophy Series
2, 21, 45-46. 50.
48
Cf. Ord. I, d. 3 n. 217, ed. Vaticana 3, 131-132: “Ultimo additur quod perfecta notitia
veritatis est quando duae species exemplares concurrunt in mente: una inhaerens,
scilicet creata, alia illapsa, scilicet non creata – et sic contingimus verbum perfectae
veritatis”; Lect. I, d. 3 n. 161, ed. Vaticana 16, 289; ENRICO DI GAND, Summa, a. 1, q. 3
in corp., Ancient and Medieval Philosophy Series 2, 21, 83-85.
137
138
non sarebbe né certa né vera, Scoto rifiuta questa opinione, e lo fa
attraverso l’esame della possibilità di una certezza infallibile naturale (ossia, che si fondi soltanto sul rapporto fra l’oggetto e l’intelletto nostro, senza il concorso diretto di un’illuminazione divina)
nei diversi modi in cui conosciamo.
Questo può darsi sia nel modo in cui i principi e le conclusioni
vengono riconosciuti, sia nella conoscenza che abbiamo per esperienza, sia infine nei nostri atti e in ciò che conosciamo in quanto
attualmente presenti tramite i sensi49.
Per quanto riguarda la certezza dei principi, essa si fonda sull’identità dei loro termini. In questo senso, i principi noti da sé sono
certi nella misura in cui è evidente il fatto che un termine include
necessariamente l’altro. L’intelletto, dunque, non solo apprende i
termini, ma anche il rapporto di conformità che vi è fra di essi, e
questo simultaneamente. Perciò, dice Scoto, “non può darsi nell’intelletto un apprendimento dei termini né una composizione di
essi, e che non si dia una conformità fra la loro composizione e i
termini, così come non può darsi che vi sia qualcosa di bianco accanto ad altro bianco e che non si dia una similitudine”50.
Tale conformità, come dice Scoto, non è altro che la verità della
composizione, ossia l’evidenza del fatto che uno dei termini include necessariamente in sé all’altro. Di conseguenza, non solo i
principi sono da sé veri, ma anche il nostro intelletto percepisce
immediatamente sia la verità in essi, sia la propria percezione di
tale verità51.Dalla verità certa dei principi, inoltre, risulta chiaro il
modo in cui si dà la certezza delle conclusioni che dipendono da
loro, certezza che si fonda ulteriormente sull’evidenza della forma
del sillogismo perfetto.
49
Cf. Ord. I, d. 3 n. 230-245, ed. Vaticana 3, 138-148; Lect. I, d. 3 n. 173-181, ed. Vaticana 16, 292-297.
50
Ord. I, d. 3 n. 230, ed. Vaticana 3, 139: “Igitur non potest in intellectu apprehensio esse
terminorum et compositio eorum quin stet conformitas illius compositionis ad terminus,
sicut stare non potest album et album quin stet similitudo”; Lect. I, d. 3 n. 173, ed. Vaticana 16, 292-293.
51
Ord. I, d. 3 n. 230 (ibid.): “Haec autem conformitas compositionis ad terminos est
veritas compositionis, ergo non potest stare compositio talium terminorum quin sit vera,
et ita non potest stare perceptio illius compositionis et perceptio terminorum quin stet
perceptio conformitatis compositionis ad terminos, et ita perceptio veritatis, quia prima
percepta evidenter includunt perceptionem istius veritatis”.
La certezza delle conclusioni proviene, pertanto, sia dalla certezza dei principi, che dall’evidenza dei collegamenti fra i suoi termini52.
Per quanto riguarda, invece, la certezza della verità di ciò che
conosciamo nell’esperienza, tale certezza ha un carattere diverso a
quella dei principi e delle conclusioni. Innanzitutto, perché non
possiamo conoscere il comportamento di ogni singola cosa sempre
e in ogni momento, nonostante l’esperto conosca in genere i termini secondo i quali si può predire il comportamento di una determinata quantità di cose il più delle volte. L’esperto applica in
questo caso il principio di causalità alle manifestazioni che gli forniscono i sensi; così, benché i sensi mostrino ogni cosa sotto diverse manifestazioni, a volte contraddittorie, la loro continuità e
stabilità viene assicurata dal principio di causalità. Un’altra differenza fra la certezza dell’esperienza e quella dei principi e le conclusioni spetta il fatto che noi procediamo partendo dagli effetti,
che sono a noi manifesti tramite i sensi, per arrivare alle cause.
Queste non sono sempre necessarie, ma talvolta o hanno un carattere casuale (perché di solito producono degli effetti contrari, oppure perché in sé non hanno un vincolo necessario con un
determinato effetto), oppure non libero (perché producono lo stesso
effetto, a prescindere della diversità degli accidenti che possono
trovarsi in una natura che causi un effetto determinato)53.
Inoltre, ciò che ci dà l’esperienza può essere considerato una
conclusione, della quale poi si può cercare la causa dividendo
l’esperienza fino ad arrivare a dei principi noti da sé, la cui verità è
anche evidente da sé, come Scoto aveva già accennato prima54.
In ogni caso, quando l’esperienza riguarda il principio (nel senso
che non si può arrivare ad un principio che sia noto da sé né si può
trovare un termine medio anteriore a quel principio a partire dal
quale quest’ultimo possa essere dimostrato), nonostante il legame
fra questo principio e i suoi effetti segua il principio di causalità,
costituisce l’ultimo livello della conoscenza scientifica e perciò non
52
Cf. ibid., n. 233, ed. Vaticana 3, 140.
Cf. ibid., n. 235, ed. Vaticana 3, 141-143; Lect. I, d. 3 n. 177, ed. Vaticana 16, 294-295.
54
Cf. Ord. I, d. 3 n. 236, ed. Vaticana 3, 143; Lect. I, d. 3 n. 178, ed. Vaticana 16, 295.
53
139
140
abbiamo una conoscenza attuale dell’unione dei termini, ma tale
unione si può soltanto postulare55.
Infine, la certezza dei nostri atti in molti casi è simile a quella che
abbiamo dei primi principi, nella misura in cui, pur essendo questi
atti contingenti, la loro certezza è nota da sé e immediatamente.
Così, la certezza della nostra visione o del nostro capire non riguarda per primo l’oggetto che viene visto o capito, ma il nostro
vedere o capire, la nostra attività che si realizza, pur se vede qualcosa che non è lì o se erra nel capire56. Su questa certezza poi si
basa quella della verità degli oggetti che ci vengono dati dai sensi.
Per trovarne un fondamento, Scoto distingue tra gli oggetti che
appaiono ai sensi sotto diversi aspetti ma come la stessa cosa, e
quelli che invece appaiono in modi contrari ai sensi, come accade
per esempio con un bastone che sembra rompersi quando messo
nell’acqua. Nel primo caso, la certezza viene data dall’accordo fra
i sensi, che vengono colpiti da un oggetto che provoca in loro lo
stesso effetto, pur manifestato in modi diversi secondo l’azione propria ad ogni senso. Nel secondo caso, invece, la verità si deve cercare appunto nell’intelletto, perché si riporta ad una proposizione
che sia più nota e certa, e che possa spiegare la contraddizione
nella sensazione. In effetti, ciò che viene considerato un errore dei
sensi non è causato da una notizia che si trovi in essi, ma dalla
comparazione fra una notizia occasionata dai sensi, che verrebbe
percepita comunque come vera anche se tutti i sensi errassero, e
un’altra notizia che si dà come vera il più delle volte57.
Ora, prima di risolvere la questione dell’illuminazione divina e
ancora in risposta alla posizione di Enrico di Gand, Scoto fa un riassunto dei sensi in cui possiamo intendere la verità, per far vedere
che in ogni caso possiamo averne una conoscenza certa e pura.
Così, se la verità viene intesa come infallibile, ossia senza dubbio
né errore, dall’esame precedente è chiaro che essa è possibile per
noi sulla base delle nostre capacità naturali. Se intesa poi in quanto
55
Cf. Ord. I, d. 3 n. 237, ed. Vaticana 3, 143-144; Lect. I, d. 3 n. 180, ed. Vaticana 16, 295296.
56
Cf. Ord. I, d. 3 n. 238-239, ed. Vaticana 3, 144-146; Lect. I, d. 3 n. 181, ed. Vaticana
16, 296-297.
57
Cf. Ord. I, n. 240-245, ed. Vaticana 3, 146-148.
corrispondente all’essere, siccome siamo in grado di capire naturalmente l’essere, anche la verità è convertibile con esso.
Se intesa infine come conformità all’esemplare, è evidente che
si può capire se si tratta dell’esemplare creato, e se si tratta invece
di quello increato, bisognerebbe conoscere Dio per conoscere le
altre cose58.
In questo senso, il nostro Dottore non fa altro che sottolineare il
fatto che la verità è comunque un concetto equivoco e che, pur riguardando nell’accezione più ristretta principalmente l’intelletto,
non possiamo dimenticare che vi è sempre un rimando all’oggetto,
ossia alla cosa nella misura in cui si rende manifesta all’intelletto.
Questo rimando è ancora più chiaro nella soluzione a questa
questione, in quanto Scoto interpreta le parole di Sant’Agostino,
che le verità infallibili vengono viste nelle regole eterne, prendendo
la particola ‘in’ oggettivamente in quattro sensi: sia nell’oggetto
prossimo, sia come ciò che contiene l’oggetto prossimo, sia come
ciò in virtù del quale l’oggetto prossimo muove l’intelletto, sia infine come nell’oggetto remoto59. Così, Scoto intende le verità eterne
viste nell’oggetto prossimo in quanto corrispondono a tutto ciò che
è intelligibile in atto all’intelletto divino, che perciò ha un ‘essere intelligibile’, in cui splende la propria verità e in virtù di cui viene intesa la loro verità necessaria. In questo senso, perché in quanto tali
sono oggetti secondari dell’intelletto divino ma conformi ad esso,
sono ‘verità’, e perché manifesti, immutabili e necessari, sono
‘luce’; sono anche ‘eterni’, ma non per la loro essenza, ma soltanto
accidentalmente, perché presenti in un intelletto eterno, come
quello divino60.
58
Cf. ibid., n. 258, ed. Vaticana 3, 156-157; Lect. I, d. 3 n. 187, ed. Vaticana 16, 299-300.
Cf. Ord. I, n. 261, ed. Vaticana 3, 160; AGOSTINO, De Trinitate XIV, c. 15 n. 21, ed. W.
J. Mountain – Fr. Glorie, Corpus Christianorum Series Latina 50a, 450-451. Nella Lectura invece, Scoto considera l’illuminazione divina in due modi (sia effettiva che oggettivamente) e nel primo senso la sua soluzione è più vicina all’opinione di Enrico.
Infatti, il nostro Dottore afferma che Dio, ovvero la luce divina, poiché ha in sé una
perfezione eminente, coopera con l’intelletto agente in un modo effettivo, ossia esercitando un influsso su quest’ultimo nella conoscenza della verità. In senso oggettivo, invece, Scoto afferma che la verità si vede nella luce divina formalmente, in quanto ciò
che contiene l’oggetto e in quanto è l’oggetto conosciuto; cf. Lect. I, d. 3 n. 189-196,
ed. Vaticana 16, 301-305.
60
Cf. Ord. I, d. 3 n. 262, ed. Vaticana 3, 160.
59
141
142
Poi, nel secondo modo il Dottore Sottile intende che il nostro intelletto vede le verità nella luce eterna in quanto l’intelletto divino
contiene in sé queste verità quasi come un libro, e noi le possiamo
vedere pur non vedendo il libro61.
Il terzo modo riguarda il modo in cui l’intelletto divino è causa
delle verità eterne, poiché esse non sono se non in relazione a quell’intelletto che le contiene. Così, la luce increata è causa prossima
della conoscenza che possiamo avere di queste verità, perché
muove il nostro intelletto a conoscerle62. In questo senso poi riconosciamo le verità eterne in quanto prodotte come oggetti dell’intelletto e in quanto tali rese intelligibili (ossia, in grado di muovere
il nostro intelletto a conoscerle) dall’intelletto divino, in un modo
simile a quello del nostro intelletto agente. In altre parole, la vera
luce increata che è l’intelletto divino ha una doppia causalità rispetto alle verità eterne, perché da una parte produce questi oggetti
secondari nel suo ‘essere intelligibile’, mentre dall’altra costituisce
ciò in virtù di cui questi oggetti secondari possono muovere il nostro intelletto63. Da questo risulta evidente sino a che punto non è
necessaria un’illuminazione speciale per vedere la verità nelle regole eterne, poiché in esse non vediamo niente che non sia vero necessariamente in virtù dei suoi termini, dunque del modo a noi più
naturale e adeguato64.
Finalmente, il quarto senso in cui possiamo intendere che vediamo le verità eterne nella luce increata come in un oggetto remoto consiste nel fatto che, poiché quella luce è il primo principio
degli esseri concepibili e l’ultimo fine delle cose pratiche, da essa
provengono tutti i principi, sia speculativi che pratici, in modo tale
che la conoscenza degli esseri presa dalla luce eterna è più perfetta e pura che quella che possiamo avere a partire dai principi di
ogni genere di cose. In effetti, come dice il nostro Dottore, conoscere che è proprio del triangolo avere tre lati e angoli o che bisogna vivere in un modo moderato in rapporto a Dio (ossia, sapere
che nella misura in cui il triangolo partecipa della perfezione divina
61
Cf. ibid., n. 263, ed. Vaticana 3, 160-161.
Cf. ibid., n. 265, ed. Vaticana 3, 162.
63
Cf. ibid., n. 266-267, ed. Vaticana 3, 162-163.
64
Cf. ibid., n. 269, ed. Vaticana 3, 164-165.
62
ne è un’ulteriore manifestazione, oppure che quel modo di vita ci
permette di conseguire la beatitudine ultima, che è raggiungere l’essenza di Dio) è più nobile che conoscere le loro ragioni in sé65.
Ma soprattutto, in quest’ultimo senso troviamo il fondamento del
carattere supremo della Teologia rispetto le altre scienze. Dice infatti Scoto:
E in questo modo, la conoscenza di tutte le cose appartiene al teologo, come già detto in quella questione sul soggetto della Teologia, ed è più eminente di qualsiasi altra.
In questo modo si dice che si conosce una verità pura perché per quello si conosce ciò che è verità soltanto, che non
ha niente che sia mischiato con la non-verità, perché per il
primo essere, dal quale una volta conosciuto vengono presi
i principi per conoscere in quel modo; qualsiasi altro essere
invece, dal quale si prendono i principi per conoscere in
genere, è ‘vero’ in un modo incompiuto. In questo modo
Dio soltanto conosce tutto in maniera pura, perché, come
abbiamo detto nella questione sul soggetto della Teologia,
Egli solo conosce tutto in modo preciso per sua essenza;
ogni altro intelletto può essere mosso per un altro oggetto
per conoscere alcuna verità in virtù di quello66.
Poiché non soltanto la verità di tutti gli esseri si trova in Dio, ma
innanzitutto poiché Dio è la verità pura, libera d’ogni falsità, nella
misura in cui contempliamo Lui arriviamo alla conoscenza della
verità nel senso più alto. Ora, siccome l’intelletto divino è l’unico
adatto alla contemplazione dell’essenza divina, dunque l’unico in
grado di accoglierne in modo adeguato la manifestazione, il nostro
intelletto (pur capace di contemplare l’essenza di Dio) può averne
65
66
Cf. ibid., n. 277, ed. Vaticana 3, 169-170.
Ibid.: “Et hoc modo cognitio omnium pertinet ad theologum, sicut dictum est in
quaestione illa de subiecto theologiae, et est eminentior alia quacumque. – Hoc modo
sincera veritas cognosci dicitur, quia per illud cognoscitur quod est tantum veritas, non
habens aliquid permixtum non-veritatis, quia per primum ens, a quo cognito sumuntur
principia sic cognoscendi; aliud autem quodcumque, quo sumuntur principia
cognoscendi in genere, est ‘verum’ defectivum. Hoc modo solus Deus cognoscit omnia
tantum sincere, quia, ut dictum est in quaestione de subiecto theologiae, solus ipse
novit omnia praecise per essentiam suam; omnis alius intellectus moveri potest ab
obiecto alio, ad cognoscendum veritatem aliquam virtute eius”.
143
144
soltanto una conoscenza imperfetta e attraverso qualcos’altro che
lo muove all’apprendimento di tale verità67.
Ma la conoscenza della verità che noi in questa vita possiamo
raggiungere ha comunque un limite, disposto, come dice Scoto,
dalla volontà di Dio che si rivela, che riguarda tanto il fatto che vi
sono molti esseri che non possiamo conoscere in particolare in questa vita, quanto l’imperfezione della nostra teologia, poiché essa
non è compatibile con la conoscenza naturale, di modo tale che
non possiamo avere una rivelazione di ciò che ci è noto in maniera
naturale68.
A questo punto diventa evidente che, pur essendo la verità un
concetto equivoco che ha diversi sensi a seconda che si trovi nella
cosa o nell’intelletto (ma che riguarda principalmente quest’ultimo,
in quanto è il fondamento dell’intellezione69), essa è in ogni caso
essenzialmente un rapporto, un legame, in virtù del quale si può
compiere la manifestazione della cosa e che si rende anch’esso manifesto nell’apprendimento di quella presenza.
Ora, se la manifestazione riguarda principalmente i rapporti (sia
all’interno che rispetto altri) della cosa in quanto presente (non attualmente presente, ma anche possibile), l’evidenza sia dell’apprendimento di tali rapporti, sia del legame fra il conoscente e la
cosa conosciuta, riguarda la capacità dell’intelletto di rendersi
conto della propria attività, ovvero del modo in cui accoglie in sé
la manifestazione della presenza della cosa. L’evidenza del legame
con la cosa in quanto presente nell’intelletto, ovvero in quanto oggetto, è il fondamento della validità della verità nell’intelletto, dunque della certezza della conoscenza. Siccome però l’evidenza che
ha il nostro intelletto in questa vita di ciò che riguarda Dio (sia necessario, sia contingente) proviene da una dottrina rivelata, pertanto
da un discorso, ovvero da una serie di giudizi, e poiché nei termini
di tale dottrina non vi è nulla che da sé sia in grado di muovere il
nostro intelletto a riconoscerne la validità, bisogna andare oltre l’at-
67
Cf. Ord. prol., n. 200, ed. Vaticana 1, 135-136.
Cf. ibid., n. 204-205, ed. Vaticana 1, 137-138.
69
Cf. Ord. I, d. 3 n. 494, ed. Vaticana 3, 292: “Si ergo nec anima sola nec obiectum solum
sit causa totalis intellectionis actualis – et illa sola videntur requiri ad intellectionem –
sequitur quod ista duo sunt una causa integra respectu notitiae genitae”.
68
tività dell’intelletto per dare l’assenso a questa dottrina, ossia per
credere nella verità delle affermazioni della Rivelazione70.
Nella misura in cui la Chiesa afferma la validità di quella dottrina, dobbiamo credere nella validità della sua testimonianza, ovvero nella sua autorità. Torniamo dunque alla questione che era
rimasta in sospeso, la possibilità di affermare allo stesso tempo la
verità della dottrina degli autori greci sulla processione dello Spirito
Santo e la validità della dottrina latina sulla base dell’autorità della
Chiesa, sostenendo che fra entrambe le dottrine non vi è una differenza reale ma soltanto verbale.
III. La questione sul fondamento dell’autorità.
Partendo dalla base che in questa vita il primo oggetto adeguato
al nostro intelletto non è né Dio né la sostanza, ma l’essere, e che
nello stato in cui siamo in questa vita ciò che muove il nostro intelletto a conoscere è l’essenza delle cose sensibili71, qualsiasi conoscenza che possiamo avere di Dio dev’essere mediata da un
oggetto che sia in grado di muovere il nostro intelletto in modo adeguato. In questo senso, il concetto più perfetto che abbiamo di Dio
è, secondo Scoto, quello di essere infinito72.
A partire da tale concetto però, pur essendo il fondamento on-
70
Cf. ANSELMUS, Proslogion, ed. F. S. Schmitt 1, 101: “Ergo, domine, qui das fidei
intellectum, da mihi, ut quantum scis expedire intelligam, quia es sicut credimus, et
hoc es quod credimus”.
71
Cf. Ord. I, n. 137-151 (III, 85-94); ibid., n. 185-188 (III, 112-115); L. HONNEFELDER, Ens
inquantum ens. Der Begriff des Seienden als solchen als Gegenstand der Metaphysik
nach der Lehre des Johannes Duns Scotus, Beiträge zur Geschichte der Philosophie und
Theologie des Mittelalters (Neue Folge) 16, Münster, 1979, 55-98; J. I. ALCORTA, De ente
ut primo cognito secundum Scotum, in COMMISSIO SCOTISTA (ed.), De doctrina Ioannis
Duns Scoti. Acta Congressus Scotistici Internationalis Oxonii et Edimburgi 11–17 sept.
1966 celebrati, Studia Scholastico-Scotistica 2, Roma 1968, vol. 2, 93-103.
72
Cf. Ord. prol., n. 168, ed. Vaticana 1, 110-111: “Theologia nostra est habitus non habens
evidentiam ex obiecto; et etiam illa quae est in nobis de theologicis necessariis non
magis ut in nobis habet evidentiam ex obiecto cognito quam illa quae est de
contingentibus; igitur theologiae nostrae ut nostra est non oportet dare nisi obiectum
primum notum, de quo immediate cognoscantur primae veritates. Illud primum est ens
infinitum, quia iste est conceptus perfectissimus quem possumus habere de illo quod
est in se primum subiectum, quod tamen neutram praedictam condicionem habet, quia
non continet virtualiter habitum nostrum in se, nec multo magis ut nobis notum continet
ipsum habitum”; Ord. I, d. 2 n. 147, ed. Vaticana 2, 214-215; ibid., d. 3 n. 58-60, ed.
Vaticana 3, 40-42.
145
146
tologico di quanto possiamo concludere (e ciò vuol dire anche conoscere) in generale di Dio, non si possono trarre conclusioni riguardanti le Sue verità contingenti73. In effetti, la conoscenza della
Trinità, dell’incarnazione di Dio e persino della creazione, in
quanto contingenti, le dobbiamo apprendere da qualcuno che ce le
renda note, ovvero che ce le riveli, e innanzitutto dobbiamo riconoscere la validità di ciò che ci viene rivelato, poiché il nostro intelletto non è in grado di apprenderlo da solo. Così, il problema
della necessità di una dottrina rivelata rimane comunque senza una
soluzione definitiva per uno che non crede, perché non se ne può
dimostrare la necessità in modo assoluto, nella misura in cui una
delle sue premesse si fonda nella fede74.
Il problema dell’autorità dunque riguarda il fatto che il nostro intelletto in questa vita e in modo naturale non è in grado di avere certezza della corrispondenza della dottrina rivelata con l’oggetto che
viene rivelato, ossia non avverte il legame fra ciò che può pensare
riguardante Dio e Dio stesso, perché Egli non si rende manifesto
(oppure, non si vuole rendere manifesto) come Colui che è l’oggetto adeguato del nostro intelletto75.
Questa mancanza di evidenza permette al nostro intelletto di
73
Cf. Ord. prol., n. 169, ed. Vaticana 1, 112-113: “Et quoad istas [scil. veritates theologicas
contingentes] dico quod nullum subiectum continet nisi veritates necessarias de ipso
[scil. Deo], quia ad contingentes de ipso aequaliter se habet ex se et ad oppositas
[scilicet intellectus noster]”; cf. ibid., n. 170-171, ed. Vaticana 1, 113-114.
74
Cf. ibid., n. 12, ed. Vaticana 1, 9: “Nota, nullum supernaturale potest ratione naturali
ostendi inesse viatori, nec necessario requiri ad perfectionem eius; nec etiam haben
potest cognoscere illud sibi inesse. Igitur impossibile est hic contra Aristotelem uti
ratione naturali: si arguatur ex creditis, non est ratio contra philosophum, quia
praemissam creditam non concedet. Unde istae rationes hic factae contra ipsum alteram
praemissam habent creditam vel probatam ex credito; ideo non sunt nisi persuasiones
theologicae, ex creditis ad creditum”.
75
Cf. Lect. I, d. 3 n. 44, ed. Vaticana 16, 241-242: “Ideo dico quod de facto Deus non
cognoscitur ab intellectu nostro in particulari, sed tantum in universali; sed non est
defectus ex parte potentiae, quia intellectus noster manens eadem potentia habebit
ipsum pro obiecto. Non enim habet nunc tale primum obiectum cui repugnat Deus; et
etiam, nullo addito aut remoto ex parte potentiae, videbit ipsum; ideo nunc non habet
aliquid ex parte potentiae cui repugnet videre Deum. Unde dico propter hoc quod
causa tota istius facti, quare potentia intellectiva nunc non videt Deum, non est alia
quam voluntas Dei, quia Deus non vult”; ibid., n. 45, ibid., 242: “Et si dicas quod non
videt Deum modo quia non illuminatur, quaeram a te quare non illuminatur? Certe non
est alia causa nisi quia non dat [scil. Deus] lumen; huius autem causa non est ex parte
potentiae; unde non est alia causa nisi quia Deus non vult illuminare: Deus enim est
obiectum voluntarium”; Ord. I, d. 3 n. 187-188, ed. Vaticana 3, 113-115.
pensare, dimostrare ed affermare il contrario della dottrina rivelata,
persino di negarla, perché non vi è contraddizione nei termini se
pensiamo, per esempio, che Dio non si sia incarnato o che vi siano
più o meno di tre persone divine. In questo senso, anche se i teologi (il cui compito consiste in enunciare la verità divina e confutare ciò che le è contrario76) possono dimostrare che è più probabile
che la Beata Vergine sia stata concepita senza peccato originale o
che vi siano tre persone divine che il loro contrario, in ogni caso,
come abbiamo detto, le loro dottrine rimangono comunque come
delle persuasioni possibili.
Ora, l’autorità della Chiesa viene a fornire l’evidenza della verità
del legame fra la dottrina rivelata e Dio che si rivela, non soltanto
attraverso la dimostrazione della maggiore probabilità dei suoi argomenti, ma principalmente mediante la fede.
In effetti, anziché essere contrapposta all’intelletto, la fede viene
a supplire ciò che esso non è in grado di raggiungere da solo in
questa vita (perché oltrepassa le sue capacità), ma che comunque
è in grado di accogliere in sé77. Ancora di più, per quanto riguarda
la validità della Sacra Scrittura, è la Chiesa a stabilirla, di modo tale
che, parafrasando le parole di Sant’Agostino, chi crede nella Sacra
Scrittura lo fa perché viene mosso dall’autorità della Chiesa78.
Una cosa è però l’affermazione di una verità di fede, come per
76
Cf. TOMMASO D’AQUINO, Summa contra gentiles I, c. 1, ed. Leonina 13, 4: “Convenienter
ergo ex ore Sapientiae duplex sapientis officium in verbis propositis demonstratur:
scilicet veritatem divinam, quae antonomasice est veritas, meditatam eloqui, quod tangit
cum dicit ‘Veritatem meditabitur guttur meum’; et errorem contra veritatem impugnare,
quod tangit cum dicit, ‘et labia mea detestabuntur impium’, per quod falsitas contra
divinam veritatem designatur, quae religioni contraria est, quae etiam ‘pietas’ nominatur,
unde et falsitas contraria ei ‘impietas’ sibi nomen assumit”.
77
Cf. Ord. prol., n. 75, ed. Vaticana 1, 46: “Nunc autem illam [scilicet felicitas, quae in
speculatione suprema consistit] concedo posse haberi naturaliter, et ultra, dico aliam
eminentiorem posse recipi naturaliter. Igitur in hoc magis dignificatur natura, quam si
suprema sibi possibilis poneretur illa naturalis; nec est mirum quod ad maiorem
perfectionem sit capacitas passiva in aliqua natura quam eius causalitas activa se
extendat”; ibid., n. 57-65, ed. Vaticana 1, 35-40.
78
Cf. AGOSTINO, Contra epistulam quam vocant fundamenti, c. 5, ed. I. Zycha, Corpus
Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum 25.1, 197: “Si ergo invenires aliquem, qui
Evangelio nondum credit, quid faceres dicenti tibi: non credo? Ego vero Evangelio non
crederem, nisi me catholicae Ecclesiae commoveret auctoritas”.
147
148
esempio che Dio sia uno solo e allo stesso tempo tre persone o che
una delle persone divine produca l’altra e ambedue la terza, e
un’altra è il modo in cui possiamo intendere e interpretare tali affermazioni. In questo senso, l’autorità della Chiesa sostiene tali verità, ma allo stesso tempo non considera come valida una
dimostrazione in particolare a discapito di altre.
Dice appunto Scoto:
In effetti, intorno a questo [ossia, alle verità di fede] non
è lecito opinare in un modo diverso. Ma se le persone si
costituiscono per relazioni o per modi di essere, nella misura in cui però vengano salvate le [verità di fede] accennate, non è illecito opinare in un altro modo, anzi, è lecito
esercitarsi su quelle, perché per fede non si reputa come
vero nessuno di questi [modi di costituirsi]79.
Proprio nella questione sulla processione dello Spirito Santo il
nostro Dottore dimostra la maggiore probabilità della posizione latina non rifiutando quella greca (o almeno, come fa nella Reportatio, cerca di evitare l’accusa di eresia contro di loro80), ma
criticando la verità di uno dei presupposti dei dottori latini nella
loro dimostrazione, che la processione dal Padre e dal Figlio è il
fondamento della distinzione fra quest’ultimo e lo Spirito Santo81.
Infatti, la distinzione fra le persone si può dimostrare sia perché
79
Lect. I, d. 2 n. 164, ed. Vaticana 16, 167: “Circa hoc autem non est licitum varie opinari.
Sed utrum personae constituantur per relationes vel per modos essendi, dummodo
tamen salvantur praedicta, non est illicitum varie opinari, sed licitum est circa illa
exerceri, quia non teneor ex fide ad quodcumque verum”.
80
Cf. Rep. I-A, d. 11 n. 35-46, ed. Wolter – Bychkov 1, 415-419; in particolare n. 46,
ibid., 418-419: “Unde non video istam consequentiam [scilicet quod spiratio activa
non est de ratione Filii nec Patris per se; ergo non est condicio essentialis Eorum; ergo
nec per eam distinguitur Filius vel Pater per se ab aliquo, cf. n. 41, ibid., 417] esse
necessariam nisi ratione materiae, quia si ratione formae teneret consequentia, graeci
moderni essent haeretici, quia plane inferretur contra eos negatio Trinitatis”.
81
Cf. Ord. I, d. 11 n. 35-38, ed. Vaticana 5, 14-15; TOMMASO D’AQUINO, Summa
Theologiae I, q. 36 a. 2 in corp., ed. Leonina 4, 377a): “Si enim non esset [scil. Spiritus
Sanctus] ab eo [scil. Filio], nullo modo posset ab eo personaliter distingui”; EGIDIO
ROMANO, Sent. I, d. 11 princ. 1 q. 2-3, 64va-65va; Quodl. I, q. 6, Bononiae 1481, f. 4rv; ENRICO DI GAND, Quodl. V, q. 9 arg. in opp. et ad 1, ed. Badius 1, 167P. 167X-168X;
Summa, a. 54 q. 6 in corp., ed. Badius 2, f. 92H; GOFFREDO DI FONTAINES, Quodl. VII, q.
4, ed. M. De Wulf – J. Hoffmanns, Les Philosophes Belges 3, 287-299; TOMMASO DI
SUTTON, Quaestiones ordinariae, q. 9, ed. J. Schneider, Bayerische Akademie der
Wissenschaften 3, 269-295.
la ragione per cui ogni essere si costituisce formalmente in quanto
ciò che è, è anche la ragione per cui si differenza degli altri esseri,
sia a partire della differenza formale che vi è fra la generazione e
la spirazione. Così, da una parte, poiché il Figlio è tale per la filiazione e lo Spirito per la spirazione, soltanto perciò sono diversi
l’uno dell’altro , e dall’altra, anche se il Figlio non fosse causa attiva
della spirazione dello Spirito, rimane in ogni caso la differenza nel
principio della generazione e della spirazione83.
In questo senso, neppure quando dimostra la processione dal
Padre e dal Figlio il nostro Dottore rifiuta la dottrina greca (anzi,
critica le ragioni di Enrico di Gand perché insufficienti per spiegare
l’ordine fra l’intelletto e la volontà84) e parte da un presupposto considerato come vero anche dai greci, che il Figlio ha una volontà
perfetta. In effetti, dato che ciò che possiede un principio produttivo
che viene inteso anche prima che vi sia il prodotto, il quale è così
perfetto che non dipende da un altro per produrre né la sua produzione può essere impedita da nessun altro, nella misura in cui può
produrre, appunto produce.
Ora, poiché il Figlio ha in sé una volontà perfetta (che è principio produttivo dell’amore adeguato) e tale volontà viene intesa in
Lui prima che vi sia il suo prodotto adeguato (ovvero, lo Spirito
Santo), può produrre in virtù di essa, e dunque lo fa85.
Forse questa è la prova più concreta che dà Scoto per capire sino
82
Cf. Ord. I, d. 11 n. 40, ed. Vaticana 5, 16-17: “Quocumque formaliter aliquid
constituitur in esse, eodem distinguitur, quia eodem est aliquid ens et unum (unitate
conveniente tali entitati), et si unum, igitur in se indistinctum et ab aliis distinctum; sed
Filius constituitur in ‘esse personali’ filiatione, ergo et ea formaliter distiguitur ab omni
alia persona; ergo per impossibile vel per incompossibile circumscripto quocumque
alio, et maxime ‘posteriore’ filiatione, remanebit Filius filiatione distinctus personaliter
a quacumque persona”; ibid., n. 41-45, ed. Vaticana 5, 17-19; Lect. I, d. 11 n. 34-38,
ed. Vaticana 17, 140-143.
83
Cf. Ord. I, d. 11 n. 46, ed. Vaticana 5, 19-20: “Generatio distinguitur a spiratione, et hoc
circumscripto per impossibile omni alio a ratione generationis et spirationis, aut saltem
circumscripto hoc quod spiratio-actio esset a Filio, dum tamen staret distinctio
principiorum generandi et spirandi; igitur et quolibet tali circumscripto staret distinctio
Filii et Spiritus Sanctus”; ibid., n. 47-48, ed. Vaticana 5, 20-21; Lect. I, d. 11 n. 39-47,
ed. Vaticana 17, 143-145.
84
Cf. Ord. I, d. 11 n. 14-18, ed. Vaticana 5, 5-7; Lect. I, d. 11 n. 13-14, ed. Vaticana 17,
131-132.
85
Cf. Ord. I, d. 11 n. 11, ed. Vaticana 5, 4: “Habens principium perfectum productivum
prius quam intelligatur habere productum, potest illo principio producere, quando
149
150
a che punto è possibile un dialogo e un accordo fra greci e latini sul
problema della processione dello Spirito Santo (e ciò vuol dire, su
una delle questioni che determinò la prima grande divisione del
Cristianesimo), riaffermando comunque la validità della dottrina
occidentale, basata innanzitutto sull’autorità della Chiesa latina.
Tale possibilità di dialogo non proviene però da un senso di ecumenismo come quello dei nostri tempi, estraneo o persino contrario all’atteggiamento che avevano allora i latini verso la Chiesa
greca, ma dal modo in cui il nostro Dottore intende la verità. In effetti, poiché la verità oggettiva (ossia la certezza che l’intelletto ha
dell’adeguazione fra i suoi giudizi e la cosa) non riguarda la cosa
in quanto tale, ma soltanto in quanto oggetto (ovvero in quanto appresa e presente nell’intelletto), nel momento in cui non si trova nei
termini dell’oggetto o nei principi dell’intelletto nulla che possa assicurare da sé la verità di un’affermazione e la falsità del suo contrario, qualsiasi conclusione che si possa trarre da tale affermazione,
per quanto possa essere logicamente giusta, avrà sempre per l’intelletto un carattere soltanto probabile. In questo senso, l’autorità
della Chiesa viene a supplire la notizia che manca nei termini (sia
perché l’oggetto non vuole manifestare ciò che gli è proprio, sia
perché il nostro intelletto non è in grado di apprendere tale notizia),
dunque sostiene la validità di una delle affermazioni contrarie su
cui il nostro intelletto è in dubbio.
Ora, purché nell’ulteriore dimostrazione che si può fare per spiegare le fondamenta e le conseguenze di tale affermazione non si
concluda qualcosa che vada contro essa, una dottrina sarà comunque valida, anche se può essere contestata o approfondita da
un’altra per rendere più comprensibile la verità che si cerca di manifestare.
Questo lavoro d’interpretazione della Rivelazione, in virtù del
quale si accresce l’evidenza della verità, si svolge, come dice Scoto,
lungo il percorso che da sempre hanno seguito, seguono e segui-
scilicet principium est ita perfectum quod non dependet a passivo, nec potest per aliquid
impediri; Filius habet voluntatem, quae est principium productivum amoris adaequati,
et habet eam ut praeintelligitur ‘producto actu voluntatis’; ergo potest ea producere,
ergo et ea producit”; Rep. I-A, d. 11 n. 11, ed. Wolter – Bychkov 1, 408; Lect. I, d. 11
n. 8, ed. Vaticana 17, 128-129.
ranno gli uomini di generazione in generazione86. Perciò, specialmente in questo caso, in cui la verità della processione dello Spirito Santo fu stabilita dopo lunghe discussioni, non si può supporre
che vi sia stata l’intenzione da parte dei dottori greci di contraddire
ciò che è convalidato dall’autorità della Chiesa latina, neppure che
una dottrina che cerca proprio di rendere manifesto ciò che è considerato sin dall’inizio fra le fondamenta del Cristianesimo, la Trinità, sia dal tutto errata. In questo senso, anche se nei confronti
della posizione greca, Scoto sostiene comunque quella latina, e rispetto all’autorità della Chiesa latina il suo atteggiamento è di umile
obbedienza, in virtù della sua comprensione della verità e della sua
apertura verso ciò che può essere d’aiuto per capire meglio la verità, possiamo intravedere le fondamenta dell’autorità della Chiesa
e il ruolo che svolge tale autorità, ma soprattutto avanzare verso un
punto d’incontro fra i cristiani.
86
Cf. Ord. IV, d. 1 n. 256, ed. Vaticana 11, 86: “In processu generationis humanae semper
crevit notitia veritatis”.
151
152
ESSERE E VISIONE IN NICOLA CUSANO
SPUNTI PER UNA ONTOLOGIA TRINITARIA
Leonardo Spataro
Provare a indicare i termini di una ontologia cusaniana è come
pretendere la fissità di una barca in mare aperto. Eppure la concezione veterotestamentaria, su questo, dovrebbe offrire uno stabile
appiglio in Esodo 3,14: «Ego sum qui sum».
Dio stesso, coincidendo con l’Essere, pare porsi come principio
«ontoteologico»1, rivelando, così, l’essenza stessa della propria natura onnipotente e creatrice.
1. Pensabilità e parlabilità di Dio
Nicola Cusano nel «Deus est esse» potrebbe fondare una riflessione ontologica, rimanendo tranquillamente nell’alveo dell’ortodossia biblica, ma una mossa del genere ridurrebbe l’infinità divina
alle categorie finite del discorso umano. Pretendere con la nominazione di determinare l’essenza di Dio, significa considerarlo al
massimo la più importante delle cose ma pur sempre una cosa:
CRISTIANO. So che tutto ciò che conosco non è Dio, e tutto ciò che concepisco non è simile a lui, ma che egli ne
è al di sopra.
GENTILE. Dunque Dio è nulla.
CRISTIANO. Non è nulla, perché questo stesso nulla ha il nome di nulla.
GENTILE. Se non è nulla, è dunque qualche cosa.
CRISTIANO. Nemmeno qualche cosa. Infatti il qualche cosa non è ogni
cosa(nec aliquid est. Nam aliquid non est omne).
Ma Dio non è qualche cosa a preferenza di ogni cosa.
GENTILE. Dici cose strane, che nessuna ragione riesce a capire: Dio che
adori non è né il nulla, né un qualche cosa.
CRISTIANO. Dio è al di sopra del nulla e del qualche cosa, poiché il nulla
gli obbedisce per divenire qualche cosa.
E questa è la sua onnipotenza per la quale egli è superiore a tutto ciò che
è o non è, cosicché gli obbedisca ciò che non è come ciò che è. Egli, infatti, fa che il non-essere(non-esse) passi all’essere e l’essere al non-essere.
1
Cfr. W. Beierwaltes, Platonismo e Idealismo, trad. it., il Mulino, Bologna 1987, p. 15.
153
154
Perciò
non è nessuna di quelle cose che stanno al di sotto di lui, precedute dalla
sua onnipotenza. E quindi non si può dire
che egli sia questa cosa piuttosto che quella, poiché tutte le cose sono da lui.
GENTILE. Può essere nominato?
CRISTIANO. Piccola cosa è ciò che ha nome. Ma colui la cui grandezza
è tale, da non poter essere concepita, resta
ineffabile.
GENTILE. È quindi ineffabile?
CRISTIANO. Non è ineffabile, ma nominabile sopra tutte le cose, perché
è causa di tutte le cose nominabili. Come
può essere senza nome, colui che dà il nome a tutte le altre cose?
GENTILE. Dunque è dicibile e indicibile.
CRISTIANO. Neppure questo. Infatti Dio non è la radice della contraddizione, ma è la stessa semplicità prima
d’ogni radice. Perciò non si deve dire neppure che sia dicibile e indicibile.
GENTILE. Che cosa dunque dirai di lui?
CRISTIANO. Dirò che né viene nominato né non nominato, e neppure
che viene nominato e non nominato insieme; ma tutte le cose che si possono dire disgiuntamente e congiuntamente, per concordanza o per contraddizione, a lui non convengono, data la superiorità della sua infinità(sibi
non conveniunt propter excellentiam infinitatis eius), cosicché egli è principio uno, anteriore a ogni pensiero che si possa formulare su di lui.
GENTILE. In tal modo, dunque, a Dio non converrebbe l’essere(sic igitur
deo non conveniret esse).
CRISTIANO. Dici bene2.
L’abissale scarto che Cusano istituisce tra Dio e le cose anticipa
potentemente le questioni heideggeriane sulla riduzione dell’essere
alla dimensione meramente ontica3.
La parlabilità e prima ancora la pensabilità di Dio, appaiono ne-
2
Dialogus de deo abscondito in N. Cusano, Scritti filosofici, a cura di G. Santinello, vol.
II, Zanichelli, Bologna 1980, pp. 59-61.
3
Cfr. W. Beierwaltes, Platonismo nel Cristianesimo, trad. it., Vita e Pensiero, Milano 2000,
p.162: «Un’attenta riflessione su queste concezioni neoplatoniche e cusaniane avrebbe
potuto trattenere Martin Heidegger dal formulare la sua tesi, dalle vaste implicazioni, e
che comunque solo in apparenza riesce a dar ragione di se stessa, secondo cui la metafisica occidentale nel suo complesso de facto non avrebbe riflettuto sulla “differenza
ontologica” tra essere e essere dell’ente, o, addirittura, per via della struttura propria del
suo pensiero, non avrebbe proprio potuto pensarla e, con ciò, avrebbe sistematicamente “obliato” l’essere in favore dell’ente». Per un approfondimento del debito contratto da Heidegger con la razionalità neoplatonica si veda, sempre di Beierwaltes,
Identità e Differenza, trad. it., Vita e Pensiero, Milano 1989, pp.365-378.
cessarie ma insituabili, a tal punto che la ricerca del ti estì aristotelico è secondaria rispetto a un movimento ancora più originario
che fa fuori le fondamenta della logica classica, dal principio di
identità e non-contraddizione a quello del terzo escluso:
GENTILE. Dunque egli è nulla.
CRISTIANO. Non è vero che sia il nulla, né è vero che non lo sia; e neppure lo è e non lo è insieme, ma è fonte ed origine di tutti i principi dell’essere e del non-essere(sed est fons et origo omnium principiorum essendi
et non-essendi).
GENTILE. È Dio la fonte dei principi dell’essere e del non-essere?
CRISTIANO. No.
GENTILE. Ma questo l’hai appena detto.
CRISTIANO. Ho detto il vero quando lo dissi, ed anche ora, che lo nego,
dico pure il vero(verum dixi, quando dixi, et nunc verum dico, quando
nego). Infatti, se vi sono certi principi dell’essere e del non-essere, Dio
viene prima di essi4.
L’apparente contraddittorietà di Cusano, piuttosto che far cadere
la razionalità del discorso, la tiene in piedi in quella dinamica paradossale che è la coincidentia oppositorum in Dio, finis infinitus:
Tu, o Dio, sei termine di te stesso, perché sei tutto ciò che hai. Se hai termine sei termine. Sei dunque termine infinito, perché termine di te stesso,
perché il tuo termine è la tua stessa essenza. L’essenza del termine non termina, non finisce in altra cosa dal termine, ma in sé. Perciò il termine, che
è termine di se stesso, è infinito; ed ogni termine, che non sia termine di
se stesso,è termine finito. Tu, Signore, che sei termine che termina ogni
cosa, sei anche il termine di cui non c’è termine; e perciò termine senza
termine, ossia infinito(et sic finis sine fine seu infinitus); il che sfugge ad
ogni ragione(quod aufugit omnem rationem), perché implica contraddizione (implicat enim contradictionem)5.
L’inadeguatezza della definizione di stampo aristotelico a questionare di/su Dio, costringe il discorso cusaniano ad avvalersi di un
linguaggio capace di superare la dialettica affermazione-negazione.
4
5
Dialogus de deo abscondito, cit., pp.61-63.
De visione Dei in N. Cusano, Scritti filosofici, cit., pp.312-313. Sulla fecondità razionale
della contraddizione in Cusano, si veda M. Maurizi, La nostalgia del totalmente non
altro. Cusano e la genesi della modernità, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007,
p.182:«Non è certo possibile inseguire la contraddizione e portarla ad espressione senza
farsene imbrigliare e senza far rovinare tutto l’edificio della ragione sotto il proprio peso,
giacché, occorre ricordarlo, per Cusano si tratta sempre di antinomie, cioè contraddizioni razionalmente necessarie».
155
156
Appare chiaro a Cusano che l’unica pianta su cui innestare un simile tentativo è la secolare tradizione neoplatonica, in primis il Proclo della Theologia Platonis e del Commentario al Parmenide e
soprattutto il «divinus Dionisius»6. Nel Parmenide, caro all’indagine procliana, Platone mostra come la predicazione negativa sia
più propria dell’Uno di qualunque attributo gli si voglia conferire.
Negare, addirittura, l’essere dell’Uno, non significa escludere da
lui la vita presente ma al contrario, riconoscendolo non soggetto a
perdita o acquisto, sottrarlo alla dinamica essere-non essere a cui
sono sottoposti tutti gli enti. In tal modo il discorso non rischia di
cosificare il Principio, salvaguardando l’infinita differenza con tutto
ciò che è fuori di Lui:
«Dunque diciamo, se l’Uno non è, che conseguenze gliene vengono?».
«Sì».
«Quando diciamo che non è, forse significhiamo qualcosa d’altro se non
l’assenza d’Essere di ciò che diciamo Che non è?».
«Null’altro».
«Forse che quando diciamo che qualcosa non è, diciamo che in un certo
senso non è, in un altro che senso è?
Oppure questa espressione “che non è” significa in senso assoluto che ciò
che non è in nessun modo e in nessun senso è e da nessun punto di vista
può partecipare all’Essere?».
«In modo assoluto».
«Allora, ciò che non è non potrà essere né potrà partecipare in nessun
altro modo dell’Essere».
«No, infatti».
«Il nascere e il perire non sono altro che il cogliere e il perdere l’Essere».
«Nient’altro».
«Ma ciò che non ha nulla dell’Essere, non può né coglierlo né perderlo».
«Come infatti potrebbe?».
«L’Uno allora, poiché non è affatto, non potrà né avere né perdere né patecipare in nessun modo dell’Essere».
«È verosimile».
«Allora, l’Uno-che-non-è né perisce, né nasce, visto che non partecipa in
nessun modo dell’Essere»(163 b-d)7.
6
7
Questo appellativo così ossequioso che equipara lo Pseudo-Dionigi a Platone è contenuto nella lettera che il 14 settembre 1453, Cusano indirizza ai monaci di Tegernsee(E.
Vansteenberghe, Le cardinal Nicolas de Cues(1401-1464). L’action-la pensée, rist. Minerva GMBH, Frankfurt am Main 1963, pp.113ss..
Per la traduzione dei testi platonici, mi riferisco a Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1991.
2. L’ipernominazione come logos necessario
Avvalersi della terminologia negativa non è un punto d’arrivo ma
il transito necessario per poter balbettare alcunché su ciò che è
causa della totalità del reale. Dire di questa causa che è Uno non
vuol dire pretendere di nominarla ma semplicemente contemplare
l’effetto della sua azione, una signoria che non viene mai meno,
documentata da una «forza unitiva»8 che tiene coesa la realtà tutta
intera, dalle pietre agli organismi, dal cielo fino alla trama unitaria
che ordina la molteplicità delle parole.
Se l’Uno non è, come potrà muoversi il discorso senza pietrificarsi nel silenzio? Come sarà possibile, ancora, il filosofare?
Ciò di cui cogliamo solo la positività di bene con cui governa il
tutto in modo potente e sicuro(tanto che nessuna cosa si agita in
un arbitrio caotico), sfugge a ogni nominazione, sia essa affermativa
o negativa in quanto le ingloba e le sopravanza tutte. Di conseguenza, dalla «dimensione ossimorica» è necessario ancorarsi
all’«ipernominazione»9, ossia a quella terminologia superlativa
inaugurata dalla potente rivelazione del sesto libro della Repubblica in cui Platone fa dire a Socrate che il Sole è solo l’immagine
del Figlio del Bene e che il vero Bene è epekeina tés ousias, cioè «al
di sopra dell’essere», un Bene infinitamente al di là, di come si
possa umanamente concepirlo:
«E così anche ai conoscibili dirai che proviene dal Bene non solo l’essere
conosciuti, ma anche l’essere e l’essenza provengono loro da questo, pur
non essendo il Bene essere(ouk ousias ontos tou agathou), ma ancora al
di sopra dell’essere, superiore ad esso in dignità e potere».
E Glaucone, molto comicamente: «Apollo! - esclamò - Che divina superiorità!(daimonias yperbol s)»(509 b-c).
Il fiume della teologia negativa sfocia, così, nell’oceano di quella
superlativa e Cusano può immergersi in queste acque e incontrare
la corrente procliana e dionisiaca.
Nel Commentario al Parmenide, comprende la superiorità della
8
9
Sulla possibilità di pensare il Principio a partire dall’effetto di una coesività che tiene
unito il reale, rinvio a G. Dalmasso, La verità in effetti. La salvezza dell’esperienza nel
neo-platonismo, Jaca Book, Milano 1996, passim.
Su questa strategia tutta neoplatonica mi permetto di rinviare al mio, Il linguaggio della
libertà in Enneadi VI 8, in «Verifiche», Anno XXIII, n. 3-4 Luglio-Dicembre 1994, pp.
348-370.
157
158
negazione sull’affermazione, inevitabile quando si accenna a ciò
che non è riducibile a “qualcosa”.
Su questo punto è esplicito il giudizio di Werner Beierwaltes:
«Nella misura in cui la negazione si esprime riguardo a quel nulla
che sta al di là dell’essere (to mé on o estin epekeina tou ontos)10,
essa è superiore all’affermazione; essa è un enunciato “più appropriato”, nonostante nessun enunciato, né l’affermazione né la negazione, dica qualcosa in senso proprio riguardo all’Uno-che-non-è
in senso cioè da renderne direttamente l’essenza»11.
Nel mentre Proclo giustifica la necessità di una nominazione negativa, contestualmente ne decreta il superamento, indicando un
tertium12 più efficace che Cusano intravede soprattutto nel De divinis nominibus di Dionigi, definito dallo stesso «Theologorum maximus»13. Da qui la nozione cusaniana di non-altro(non aliud) nasce
come esigenza di mostrare che Dio è il superamento di ogni opposizione dialettica(oppositio oppositorum est oppositio sine oppositione)14, in quanto abissalmente altro da ogni altro e uguale solo
a se stesso:
NICOLA. Definisci dunque il no-altro.
FERDINANDO. Vedo che il non-altro è niente altro che il non-altro. E questo nessuno lo negherà.
NICOLA. Bene. Ora non vedi con chiarezza certissima che il non-altro de-
10
In Platonis Parmenidem, 1073, 11.
W. Beierwaltes, Proclo. I fondamenti della sua metafisica, trad. it., Vita e Pensiero, Milano 1990(II ed.), p.374.
12
Su Dionigi come punto di sintesi tra affermazione e negazione nella forma mentis medievale, si veda la riflessione di Étienne Gilson: «Conviene dunque applicare dapprima
a Dio tutti i nomi che gli dà la Scrittura(teologia affermativa), ma conviene successivamente negarli tutti(teologia negativa). Questi due atteggiamenti possono d’altronde conciliarsi in un terzo, che consiste nel dire che dio merita ciascuno di questi nomi in un
senso inconcepibile per la ragione umana, perché egli è un “iper-essere”, una “iperbontà”,una “iper-vita” e così via(teologia superlativa)»(La filosofia nel Medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo, trad. it., La Nuova Italia, Scandicci 1973, p.95).
Dover dire intorno a Colui che è «negatio negationis», porta, quindi, il logos dionisiaco
a diventare inesprimibile fuori dal yper in quanto Egli è «pant n epekeina» ossia «al di
là di tutto(De divinis nominibus, IX)». Cfr. W. Beierwaltes, Sophia und Logos in der philosophischen Theologie des Dionysius Areopagita, in «Rivista di Filosofia Neoscolastica»,
Anno CIII, Aprile-Giugno 2011, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, p.220.
13
Directio speculantis seu de non aliud, XIV. Per la traduzione mi avvalgo di quella presente in N. Cusano, Opere filosofiche, a cura di G. Federici-Vescovini, UTET, Torino
1972.
14
De visione Dei, XIII.
11
finisce se stesso, non potendo essere definito da altro?15
Per parlare di Dio, non funziona il linguaggio dell’analogia;
quale somiglianza può colmare lo scarto tra finito e infinito? Perciò
per com-prendere il termine non- aliud occorre andare oltre tutti
gli altri termini che sono posteriori e inferiori a questo16. Sulla scorta
del lavoro di Dionigi, Cusano gioca la carta della terminologia superlativa, in tal modo può dire, non dicendo e non dicendo, argutamente dice:
NICOLA. […] Ciò che la mente si sforza di vedere con questo termine poiché esso è anteriore a tutte le cose che possono essere dette e pensate, in
che altro modo si può dire? Tutti i teologi hanno visto che Dio è qualcosa
di più grande di ciò che si può concepire e perciò lo dissero supersostanziale, al di là di ogni nome e simili. […] La stessa cosa è, infatti, essere sostanza supersostanziale e sostanza senza sostanza, sostanza insostanziale,
sostanza non sostanziale e sostanza prima della sostanza 17.
Questo modo di ragionare che mette continuamente insieme termini contraddittori, ci mostra una razionalità che si configura come
un continuo e persistente ossimoro che proclama l’irriducibile alterità del non-altro che è sopra ogni cosa ma ogni cosa non è a Lui
estranea. Ogni cosa è in qualche modo da Lui e in vista di Lui:
NICOLA. […] Allo stesso modo considera l’ente. Sebbene si vede chiaramente risplendere in esso il non-altro, in quanto l’essere delle cose che
sono non sembra altro da alcunché, il non-altro tuttavia lo precede. Lo
stesso vale del vero, che non è ugualmente negato di nessun ente, e del
bene, anche se non c’è nulla privo di bene. […] Così il non-altro è prima
di questi, e gli altri non sono dopo di esso, ma per esso18.
Egli, in altre parole, fa essere tutte le cose, pur precedendo eziologicamente l’essere stesso.
15
16
17
18
Directio speculantis…, I.
Cfr. Idem, IV.
Ibidem.
Ibidem.
159
160
3. I cromosomi paterni di Cusano
Il debito di riconoscenza contratto con Proclo e Dionigi, depositari del platonismo più genuino, Cusano avrebbe dovuto saldarlo
oltre che con questi, anche con un “terzo uomo” che solo alla fine
del Quattrocento, con le traduzioni latine di Marsilio Ficino, troverà la giusta collocazione nello sviluppo della dorsale neoplatonica: Plotino19.
In sostanza, Cusano è un figlio che al di là della propria consapevolezza, porta in sé i cromosomi paterni. Egli è stato formato da
alcuni padri putativi ma la paternità biologica va attribuita a Plotino,
senza il quale, l’ontologia platonica non avrebbe superato l’alveo
dei Dialoghi.
Non a caso il registro argomentativo del Dialogus de deo abscondito è lo stesso della chiusura di Enneadi V 3,12:
Egli invece è Uno senza il “qualcosa”(to de estin aneu tou «ti» hen), perché se fosse “qualcosa di unitario” non sarebbe Uno in sé, poiché l’”in sé”
è prima del “qualcosa”.
Più avanti, nel diciassettesimo capitolo del trattato enneadico,
afferma che l’Uno è causa dell’essere pur non essendo Egli stesso
essere. Plotino, ancor prima di Proclo e dello Pseudo-Dionigi, si riconnette all’epekeina platonico conferendo i connotati ontologici
solo al «Figlio del Bene» e a ciò che viene dopo di lui. Infatti, la processione dall’Uno che genera il Nous(«Intelligenza»), poi la Psyché
fino alla corporeità, è gerarchicamente nell’essere ma L’Uno-causa
è oltre infinitamente. La differenza che prospetta Plotino è analoga
a quella tra l’Uno-Bene e l’idea del Bene del sesto libro della Re-
19
Senza pretendere di sciogliere un nodo del genere, rinvio agli intenti programmatici di
Beierwaltes in un corso di lezioni tenuto nell’Università Cattolica di Milano nel 1993:
«Nei miei lavori sulla filosofia nel Neoplatonismo ho cercato di mettere in luce, sotto
molteplici prospettive, il persistente significato che Plotino – anche nel contesto e attraverso la mediazione di successive concezioni neoplatoniche – ha avuto per lo sviluppo della filosofia e della teologia nel primo e nel tardo Medioevo, nel
Rinascimento(ad esempio in Nicola Cusano, Marsilio Ficino, Giordano Bruno), nell’Idealismo tedesco, e per l’emergere di determinate questioni metafisiche nel pensiero
contemporaneo»(Plotino. Un cammino di liberazione verso l’interiorità, lo Spirito e
l’Uno, trad. it., Vita e Pensiero, Milano 1993, p.69). Dello stesso autore Cfr. Platonismo
nel Cristianesimo, cit., p.203 e il fondamentale Pensare l’Uno. Studi sulla filosofia neoplatonica e sulla storia dei suoi influssi, trad. it., Vita e Pensiero, Milano 1992(II ed.).
pubblica in cui il “Padre” è detto «superiore alla sostanza(yperechontos)»(509 b):
Cos’è dunque quest’Uno di cui l’Intelligenza partecipa e che porta all’esistenza lei e insieme tutti gli altri esseri? Ma se l’Uno fa esistere ciascun essere, e se per la presenza dell’Uno, la molteplicità che appartiene
all’Intelligenza e l’Intelligenza stessa sono autosufficienti, è evidente che
Egli sia il Principio generatore dell’essenza (poè tikon ousias) e dell’autosufficienza, anche se Egli stesso non è essenza, ma al di là dell’essenza e
al di là dell’autosufficienza(all’ epekeina tautès kai epekeina autarkeias)20.
La dialettica affermazione-negazione e il suo superamento nella
teologia superlativa, trova il pieno e trionfale dispiegamento in Enneadi VI 8, il trattato incentrato sulla Volontà e libertà dell’Uno.
Dopo aver tentato di descrivere iconicamente il permanere(menein)
dell’Uno nella sua ab-soluta perfezione di Bene21, Plotino attraverso
un «coefficient d’approximation»22 afferma che «per così dire»(oion)
gli attribuiamo l’esistenza(VI 8, 7) ma poi precisa che anche questa
cautela rischia di appiattire la differenza qualitativa con ciò che è
dopo di Lui. Perciò, Plotino abbandona ogni pretesa affermativa in
quanto portatrice di una differenza meramente quantitativa:
È necessario infatti negare che Egli abbia un qualsiasi rapporto con esse,
poiché Egli è quello che è anche prima di esse. Gli togliamo infatti anche
il termine «è»(to «estin» aphairoumen) e, con esso, qualsiasi rapporto con
gli esseri(VI 8, 8).
Avanti nel trattato, il tono è ancora più perentorio, tanto che di-
20
Per i testi originali e per la traduzione mi riferisco al lavoro curato da Giuseppe Faggin
in Plotino, Enneadi, Rusconi, Milano 1992.
21
«[…] È ancora più assurdo privare il Bene della libertà proprio perché è Bene e perché
sussiste in se stesso senza aver bisogno di muoversi verso un altro – mentre gli altri esseri si muovono verso di Lui – e senza aver bisogno di alcunché »(VI, 8, 7). Sull’esegesi
di Enneadi VI 8 mi avvalgo del mio, Il linguaggio della libertà…, cit., pp. 352-373.
22
P. Henry, Le problème de la liberté chez Plotin, in «Revue Neoscolastique de Philosophie», 33, 1931, pp.330-331. Sulla valenza semantica e teoretica dell’avverbio oion
mi permetto un’autocitazione: « In oion è evidente la funzione ossimorica del linguaggio plotiniano, cioè quell’impotenza della parola che con una strategia del pensiero, diviene in qualche modo capace di significare e quindi anche potente»(Il linguaggio della
libertà…, cit., p.352, n.87). Lo stesso Plotino giustifica l’uso di oion evidenziando come
il «per così dire» permetta di oltrepassare una sorta di stallo del pensiero: «Dobbiamo
essere perdonati se, parlando di Lui e per poterci spiegare, siamo costretti a servirci di
quei certi termini che sul piano critico non permettiamo: perciò si adoperi per ciascuno
di essi un “per così dire”»(VI 8, 13).
161
162
scorrendo dell’Uno, appaiono svuotate di «validità ontologica»23
le stesse categorie aristoteliche:
E poi, è necessario pensare che ogni indagine riguarda o l’essenza, o la
qualità, o la causa o l’essere. Il suo essere - nel senso in cui diciamo che è
- lo ricaviamo dalle cose che sono dopo di Lui; cercarne la causa significa
cercare un altro principio: ma del Principio universale non esiste principio,
cercarne la qualità vuol dire cercare gli accidenti di un essere che non ha
accidenti; quanto all’essenza, essa mostra piuttosto che è necessario non
indagare più nulla su di Lui; questo solo, se ci è possibile, abbiamo imparato: che non ci è permesso attribuirgli alcun predicato(VI 8, 11).
La scarnificazione del logos plotiniano giunge fino a un disarmo
disarmante, in cui anche il dove dell’Uno è dicibile come «posteriore»(ysteron) a ciò che lo ha originato. Egli è l’unico termine di paragone con se stesso, tanto che con Plotino possiamo solo dire che
«Egli è come è, dicendo che “è” per la necessità del discorso»(Ibid.).
Dalla «necessità» di una ragione disarmata di dotarsi di nuovi
strumenti, di chiodi, funi e scarponi per la grande inerpicata, prende
le mosse la teologia negativa che con e da Plotino segnerà la mistica medievale, nonché la metodologia d’indagine di Cusano.
E ancora il capitolo 11 di Enneadi VI 8 che chiarisce questo espediente della ragione:
Che cosa possono dire le parole «gli accade di essere così»? Come potremo pronunciarle, quando anche le altre che si dicono di Lui, consistono in una negazione(aphairesei)? Perciò è più giusto affermare che «non
gli accade di essere così» piuttosto che «gli accade di essere così» poiché
l’«accadere» non gli appartiene affatto.
4. La bontà dell’immagine
Secondo la modalità dell’aphairesis che sorprendiamo nella scrittura cusaniana, Plotino senza mezzi termini e in barba all’ontologia aristotelica dice che «Egli non ha essenza»(auto ouk echon
ousian).
Il testo enneadico marca l’infinita distanza con ciò che è altro da
Lui ma mostra il permanere di un legame inspiegabile che ci fa sospettare una non-estraneità dal legante. Infatti, l’Uno, pur non possedendo l’essenza, «rende libera l’essenza e per natura è
23
Cfr. G. Reale, Storia della filosofia antica, vol. V, Vita e Pensiero, Milano 1989, p.47.
evidentemente liberatore ed è detto perciò “creatore della libertà”(eleutheropoion)»(VI 8, 12).
Gli enti nella loro consistenza non si sfilacciano, non tanto per
un esercizio della volontà ma per un legame tra l’origine e ciò che
è originato rappresentabile come immagine, in linea con la concezione platonica del tempo «immagine mobile dell’eternità»(Timeo
37 d). Su questo, VI 8, 13 è inequivocabile:
Possiamo anche aggiungere che gli altri esseri non possono avere, ciascuno nella sua essenza, una ragione per compiacersi di se stessi: un essere può anche essere scontento di se stesso.
Ma nell’esistenza del Bene è compreso necessariamente l’atto di scegliere
e di volere se stesso: altrimenti, non ci sarebbe alcun essere che si compiacerebbe di se stesso, poiché gli esseri si compiacciono di se stessi solo
perché partecipano del Bene (metousía agathou) o perché ne sono un’immagine(phantasía).
Gli uomini possono godere del Bene come riflesso di un godimento che li precede, come possono sperimentare la libertà se
colui da cui sono stati generati è esso stesso libero.
Come l’immagine vive fintanto che un soggetto sosta davanti allo
specchio, allo stesso modo, l’umano vive fintanto che l’Uno permane nella sua natura.
Essere, «per così dire», immagine dell’Uno non significa ridurre
lo scarto incolmabile tra generante e generato ma affermare la presenza di un orizzonte di salvezza che fa da perimetro a tutte le vicende in cui l’umano si barcamena.
Anche la Luna piena è immagine del Sole di mezzogiorno, ma
se conoscessimo solo la notte come potremmo concepire l’enorme
differenza che sussiste tra la luce lunare e quella solare? La Luna è
un’immagine atrocemente distante dalla luminosità del Sole ma di
questo ne porta pur sempre la luce come il vestito della Festa. Di
più, la luce della Luna, nella sua pochezza, è l’effetto che testimonia la presenza attiva del Sole.
Attardandoci ancora su questa metafora in bilico tra il poeta e
l’astronomo, Cusano ci offre nella sua scrittura, un affresco che mirabilmente esalta la bellezza, la bontà e la forza di ciò che è solo
un’immagine:
Quando l’occhio nostro cerca di vedere la luce del Sole, che è quasi il
volto del Sole, prima di tutto la vede in maniera velata nelle stelle, nei colori ed in tutte le cose che partecipano alla luce; poi, quando cerca di intuirla senza veli, deve trascendere ogni luce visibile, perché essa è minore
163
164
di quella luce che egli cerca24.
Il ricorso al linguaggio analogico ed evocativo del parlare per
immagini è una costante del filosofare platonico e plotiniano, come
evidenzia la figura del padre, ancor più sorgiva di quella del Basileus, in quanto il potere dell’Uno è conseguenza della sua natura
di Bene25:
Se dunque nessuna delle cose che portano in sé la loro causa esiste a caso
o per fortuna o per accidente( e la portano in sé tutte le cose che provengono da Lui), allora il Bene che è padre della forma, della causa e dell’essenza causale – le quali peraltro, sono ben lontano dal caso - ,è il
principio e, diciamo pure, l’esemplare di tutto ciò che non ha niente in comune con il caso(VI 8, 14).
La paternità dell’Uno-Bene governa dentro e fuori di sé, secondo
un dinamismo che il verbo plotiniano nel suo vertice esprime mediante l’ipernominazione:
Egli è immune dal caso, dalla fortuna e dall’accidentalità, è la prima e
vera causa di sé ed esiste in sé e per sé, nel suo essere; Egli è il Primo e al
di sopra dell’essere(Ibid.).
Dire che il Principio è Super-Essere(yperontòs) non significa gonfiarlo quantitativamente a dismisura ma riconoscere che se «per
così dire» dobbiamo attribuirgli l’essere, questo è in una dimensione umanamente inconcepibile. Proprio come il confronto tra la
luce della Luna e quella del Sole: sempre di luce trattasi ma se,
come i ragazzi della città sotterranea di Ember26, non avessimo mai
presa visione del Sole, non ci sarebbe discorso capace di farci intuire la differenza tra il giorno e la notte. Se qualcuno ci raccontasse
dell’esistenza del Sole, non potremmo che immaginarlo come una
grande, immensa lampada, ma lo penseremmo all’interno di uno
scarto quantitativo e non qualitativo. Proprio come capita ai prota-
24
De visione Dei, VI, 23.
Cfr. U. Bonanate, Orme ed enigmi della filosofia di Plotino, Franco Angeli, Milano 1985,
pp.131-132.
26
Cfr. J. DuPrau, La città di Ember, trad. it., Fabbri Editori, Milano 2003. Nell’idea di
fondo, la scrittrice, oltre che al mito della Caverna, si è ispirata a una geniale intuizione
narrativa di C. S. Lewis, riportata ne La sedia d’argento, il sesto romanzo del fortunato
ciclo de Le cronache di Narnia(Mondadori, Milano 2005). Infatti nel decimo capitolo
intitolato Il lungo viaggio nel mondo senza sole, si trovano alcune delle suggestioni metaforiche sopra presentate.
25
gonisti del romanzo che, usciti finalmente fuori dal mondo sotterraneo, restano delusi nel vedere per la prima volta la Luna splendere nell’alto cielo. È bella, grande ma non toglie il buio: è una
grande lampada. Niente di più.
Solo quando un cerchio di fuoco salendo sempre più in alto, colora d’azzurro tutto ciò che sta sopra, i ragazzi vedono la differenza.
Se i ragazzi volessero tornare indietro, come l’abitatore di una ben
più famosa caverna, per avvisare i concittadini dell’esistenza del
Sole, come potrebbero descriverne la potenza di luce? Forse potrebbero dire che è una Lampada, infinitamente più luminosa di
qualunque lampada. Una Super-Lampada!
Questo racconto, spero sia stato funzionale non tanto a una promozione editoriale ma al riconoscimento della ragionevolezza
della ragione neoplatonica quando tenta di conoscere un oggetto
di indagine che presenta delle analogie con il Sole di Ember, un oggetto che non è un oggetto, che muove l’interesse di tutta la metafisica occidentale e agita gli uomini di sempre.
5. Dalla ragione discorsiva alla ragione visiva
La nominazione superlativa, in definitiva, è un invito persistente
alla visione, ad abbandonare la ragione discorsiva connotata dalla
successione delle parole, nel tempo, per inserirsi nella simultaneità
dello sguardo di una ragione visiva. Non pensare Dio ma pensare,
meglio, guardare con gli occhi di Dio, è questo il grande desiderio
del neoplatonico. Riuscire a intuire, meglio, a dare un’occhiata a
questo «Super-Pensiero»(ypernoésis), a questa «meta-coscienza»27
non è possibile secondo il prima e il poi delle parole ma solo nell’accadere del lampo della visione.
Plotino, ancora una volta, ci viene in soccorso e ci indica il metodo per parlare di Lui: occorre un logos visivo, come l’immagine
della «veglia»(egrégorsis) suggerisce:
Ora, se questo atto non è nato ma esiste eternamente, se esso assomiglia a
una veglia - e non è affatto diverso da chi veglia -, se è come una veglia o
come un Super-Pensiero eterno, Egli esiste secondo il modo di colui che veglia. Questa veglia è al di là dell’Essere (Ede egrégorsis estin epekeina ou-
27
Cfr. M. L. Gatti, Plotino e la metafisica della contemplazione, CUSL, Milano 1982, p.18.
165
166
sias), dell’Intelligenza e della Vita razionale(VI 8, 16).
Il vegliare è anche un sorvegliare, un vigilare, un non prendere
mai sonno, un incessante volgere l’attenzione. Di contro, la nostra
coscienza di quasi dormienti28 può intravedere la plausibilità di un
funzionamento inspiegabile con la logica del discorso.
La ricerca filosofica, da Plotino in poi, almeno nel grande fiume
neoplatonico, non si arrovella sulla spiegazione ma tenta per approssimazioni successive di mettere a fuoco lo stesso oggetto di
sempre. Cusano è consapevole dell’imprendibilità concettuale di
Dio, poiché «né in questo mondo, né in tutto ciò che l’uomo concepisce, v’è qualcosa di simile a Dio».
La sua natura non permette di incasellarlo in un discorso, e «lo
stesso nome “theós” non è il nome di Dio, che è superiore ad ogni
concetto. Infatti ciò che non può esser concepito resta indicibile.
[…] Perciò “theós” è il nome di Dio, soltanto per l’uomo che lo ricerca in questo mondo. […] “Theós” viene da “theorô”, che significa vedo e corro. Chi ricerca deve dunque correre mediante la
vista, per potersi protendere fino all’onniveggente “theón”»29.
Occorre, quindi, la velocità dello sguardo per tentare di vedere
ciò che non può essere concettualizzato. È una strada diversa da
percorrere che ci prospetta Cusano: colui che vede tutto, chiede innanzitutto di essere guardato.
Come un bel dipinto che non possiamo pretendere di gradire,
avvalendoci delle mille discettazioni dei critici, ma che ci chiede di
guardarlo, prima di ogni esaltazione o stroncatura.
La «ricerca di Dio», può non deragliare, solo in questa prospettiva metodologica:
La visione contiene un’immagine della via, per la quale deve incamminarsi
colui che ricerca. Bisogna dunque che spieghiamo, innanzi all’occhio
della visione intellettuale, la natura della visione sensibile, e che con essa
ci fabbrichiamo una scala per la nostra ascesa30.
La possibilità di costruire questa «scala», ossia che accada la
28
29
30
Cfr. III 6, 6.
De quaerendo deum, I, 18-19 in Scritti filosofici, cit., p.69.
Ibidem.
Visione non è totalmente in mano al ricercatore, perché questa
azione implica «il concorso di due lumi»(lumen duplex concorri)31,
l’occhio umano e la luce esterna:
Nell’ombra e nella tenebra il visibile non ha l’attitudine ad esser visto.
Esso viene reso atto alla vista dal lume che lo illumina. Quindi, siccome
il visibile non è atto ad essere visto se non quando è posto alla luce, poiché per se stesso non ha la capacità d’introdursi nell’occhio, esso ha bisogno di essere illuminato dalla luce, la cui natura è tale che di per sé si
introduce nell’occhio32.
Due libertà, quella di Dio di illuminare e quella dell’uomo di
volgersi verso l’illuminato:
Ci è ormai chiaro che al Dio ignoto siamo attratti dal movimento promosso dal lume della sua grazia; egli, infatti, non può esser colto altrimenti, se non è lui stesso che manifesta se medesimo. E vuole esser
cercato (Et quaeri vult)33.
Questo modo di vedere il vedere è totalmente inserito nell’orchestrazione teoretica che Cusano allestisce nel De visione Dei,
scritto a Bressanone tra il 14 settembre e il 23 ottobre del 1453, per
i monaci del monastero benedettino di Tegernsee, nell’attuale Baviera meridionale, vicino al confine austriaco34.
Cusano, nelle prime battute del trattato, avverte i benedettini di
Tegernsee che è sua intenzione condurli «al di sopra di ogni visione
sensibile, razionale e intellettuale […] nella santissima tenebra(in
sacratissimam obscuritatem manuducere)»(§ 1).
31
Idem, II, 33.
Ibidem.
33
Idem, III, 39. Vale la pena, su queste due libertà in gioco, riportare un efficace passo
del De dato patris luminum(I, 94): «La creatura ragionevole possiede il lume del discernimento razionale, ma è come un occhio di un gufo, molto debole e ottenebrato da
molte ombre in questo corpo sensibile. Essa viene attuata dunque dall’azione dello spirito del verbo divino, e le sue tenebre ne sono illuminate. Lo scolaro viene illuminato
dalla parola del maestro, che penetra nella sua mente mediante lo spirito delle parole.
Ma l’illuminazione che attua ogni cosa, ed è dono che viene dall’alto, discende dal
padre di tutti i doni, doni che sono lumi o teofanie. »
34
Per le informazioni biografiche del «periodo bressanonese» del vescovo Cusano, mi riferisco a G. Santinello, Introduzione a Niccolò Cusano, Editori Laterza, Bari 1987,
pp.87-94; si veda anche, a proposito del contesto storico che fa da cornice al De visione
Dei, A. Fiamma, Commento al De visione Dei di Nicola Cusano, in «Rivista di Ascetica
e Mistica», Anno XXXV, n. 1, Gennaio-Marzo 2010, Nerbini, Firenze, pp.35-82.
32
167
168
L’ipernominazione e l’uso dell’ossimoro, rivelano subito l’approccio metodologico di Plotino. Così come il mettere a fuoco lo
stesso oggetto, rappresenta una costante del ragionamento cusaniano:
Quando vi sarete giunti, avvertirete la presenza d’una luce inaccessibile,
e ciascuno di voi tenterà, nel modo come Dio glielo concede, di avvicinarsi
sempre di più ad essa e di pregustare, in un soavissimo assaggio, la cena
della felicità eterna, alla quale siamo chiamati dalla parola di vita del vangelo di Cristo sempre benedetto(Ibid.).
Cusano chiede ai monaci di guardare il quadro di un’«immagine
dell’onniveggente»(immagine omnia videntis), per meglio immedesimarsi in un logos eminentemente visivo:
Lo appenderete in qualche luogo, per esempio al muro settentrionale del
convento, e voi fratelli vi porrete attorno ad esso, a poca distanza, e lo
guarderete. Ciascuno di voi proverà che, da qualunque luogo egli lo
guardi, quel volto sembrerà aver gli occhi rivolti soltanto su di lui; al fratello situato ad oriente, sembrerà che il volto guardi in direzione orientale;
a chi sta a mezzogiorno, in direzione meridionale; ed a chi sta ad occidente, in direzione occidentale.
Prima di tutto, dunque, resterete meravigliati, come possa avvenire che il
volto guardi, insieme, a tutti e a ciascuno. […] E poiché sa che l’immagine
è fissa ed immobile, si meraviglierà del mutamento avvenuto in uno
sguardo che è immutabile(§§ 2-3).
Unità-molteplicità, quiete-movimento, gli opposti concettuali vivono simultaneamente nella stessa realtà che si offre allo sguardo.
Se il logos discorsivo, dovesse, da solo, rendere ragione di questa
coincidentia oppositorum, non potrebbe che rappresentarla nella
successione delle parole, vanificando la comprensione dell’oggetto.
La parola stupita, si ferma e lascia che lo sguardo registri ciò che
accade. Che gli opposti vivano nel medesimo tempo, nel medesimo spazio, nel medesimo oggetto(l’immagine onniveggente), è
un fatto sperimentabile, universalmente e necessariamente condivisibile, utilizzando la razionalità della visione che ci fa cogliere
ciò che nel reale non è inquadrabile nello schema della logica aristotelica. Come questa coincidenza avvenga, non è spiegabile verbalmente ma la ragione discorsiva può lealmente prendere atto
della registrazione visiva.
Se la nostra «vista contratta»(visus contractus) ha questa capacità
di visione, lo deve a quella «vista assoluta(absolutum visum), dalla
quale proviene la vista di tutti i vedenti(II, § 2):
La vista contratta non può esistere senza la vista assoluta(Sine enim absoluto visu non potest esse visus contractus). E questa abbraccia in sé tutti
i modi del vedere(Complectitur autem in se omnes videndi modos), li abbraccia tutti tanto quanto ciascuno singolarmente, e pur rimane del tutto
sciolto da ogni loro varietà. […]
Perciò la visione assoluta sta in ogni vista, perché ogni visione contratta
esiste in virtù di essa e senza di essa
Non può affatto esistere(III, § 8).
Questa Super-Visione che «abbraccia in sé tutti i modi del vedere», nel tempo e nello spazio, fuori dal tempo e dallo spazio,
non è un accidente di Dio ma, costitutivamente, è Egli stesso. La Visione di Dio è talmente connaturata a Dio stesso, da coincidere con
l’esperienza che gli uomini hanno di Lui.
Rappresenta l’effetto della sua presenza. Egli è, «Provvidenza»,
ossia Colui che ci guarda e non smette mai di guardarci. Lui che ci
ha guardati per primo, non distoglie mai il suo sguardo da noi. In
maniera contratta, l’immagine onniveggente ci fa fare esperienza di
uno sguardo che ci precede e che continua a guardarci anche
quando distogliamo il nostro(Cfr. IV, § 10).
Il guardare di Dio, a differenza del mio, non è un astratto e distante considerare gli oggetti ma un rendersi presente, di più, un
sostenere, un accompagnare, indispensabile perché io non mi
smarrisca:
Signore, in questa tua immagine ho l’intuizione della tua provvidenza che
avverto in una certa esperienza sensibile. Se non abbandoni me, che sono
l’uomo più vile di tutti, non mancherai mai a nessuno(Ibid.).
Colui che chiamiamo «Dio», non è definibile secondo connotati
ontologici, ma guardando, dona l’essere e continuando a guardare,
potenzia l’essere delle sue creature:
Ed invero sei presente in tutti e in ciascuno, come a tutti ed a ciascuno è
presente l’essere, senza del quale non potrebbero esistere. E tu, essere assoluto di tutte le cose, sei presente in ciascuno di tutti noi, come se tu non
dovessi aver cura di nessun altro. […] Tu guardi, Signore, ad un ente qualsiasi in maniera tale, che tutti gli enti non possono non pensare che tu non
abbia altra cura se non per quell’ente, che, cioè, egli abbia ad essere nel
modo migliore possibile, e che tutti gli altri enti non esistano che per servire a questo scopo, che cioè quell’ente, al quale tu guardi, esista nel modo
migliore(Ibid.).
Questo sentirsi guardati in modo esclusivo dall’immagine del
169
170
quadro, è quello che ci accade, quando percepiamo la predilezione
di Dio. Guardandoci, Dio ci fa essere ma il volgere lo sguardo su
di noi accade simultaneamente alla sua volontà d’amore. L’uomo
prima vede l’oggetto, poi, forse, lo amerà; Dio, invece, ci vede perché ci ama, più precisamente, guardandoci, ci ama. Non c’è successione di momenti, ma tutto avviene secondo quella sincronia,
possibile solo nella visione:
Non mi permetti d’immaginare in nessun modo, Signore, che tu ami più
di me altra cosa da me, poiché me soltanto il tuo sguardo non abbandona.
Se l’occhio è rivolto là dove è volto l’amore35, allora io sento che tu mi
ami, poiché i tuoi occhi stanno attentissimi sopra di me tuo povero servo.
Signore, il tuo vedere è amare (videre tuum est amare); come il tuo
sguardo mi guarda con tanta attenzione, che non si distoglie mai da me,
così è anche il tuo amore. E poiché il tuo amore è sempre con me, e
l’amor tuo non è altro che te, che mi ami (non est aliud amor tuus, domine, quam tu ipse qui amas me), tu sei dunque sempre con me, Signore(IV, § 11).
È questo sguardo d’amore che crea l’essere, come Cusano, insistentemente, afferma mediante una filosofia dell’essere che si presenta come una ontologia della visione:
Il tuo essere, Signore, non abbandona l’essere mio. Infatti intanto io sono,
in quanto tu sei con me. Il tuo vedere è il tuo essere (cum videre tuum sit
esse tuum), e perciò io sono perché tu mi guardi (ideo ego sum quia tu me
respicis). E se distogliessi da me il tuo volto, io non potrei sussistere affatto
(Ibid.).
Il mio stesso io è creato è ricreato da uno sguardo che è solo per
me, che vedo solo su di me, con la gratitudine e la fierezza dell’amato che si compiace dello sguardo libero e gratuito dell’amata36.
6. La Trinità, luogo dell’essere
L’Amore che è Dio-che-mi-guarda è «per così dire» il luogo da
cui si è esplicata la creazione; esso vien prima del dispiegarsi del-
35
36
Cfr. Gb 31,7: «Il mio cuore ha seguito i miei occhi».
«All’interno di una simile impostazione la libertà, nel suo essenziale rinvio alla figura
della singolarità, dimostra la sua più profonda natura ontologica facendo virare la riflessione relativa alla Visione Dei dall’unicità di Dio all’unicità del singolo uomo»(S. Petrosino, Piccola metafisica della luce, Jaca Book, Milano 2004,p.130.
l’onnipotenza, prima della molteplicità del tempo. Cusano approda
a un punto d’arrivo che è anche all’inizio di tutto: l’infinita comunione d’Amore dell’Unitrinus.
Se Dio, fosse rigidamente monistico, per poter amare un “tu”,
avrebbe necessariamente dovuto portare all’esistenza la creazione,
ma essendo, invece, da sempre relazione d’amore, da sempre ha
avuto l’amato da guardare; questi guardandolo ugualmente dall’eternità, vive un legame vivente, in cui il dare e il ricevere
Amore(ossia Sé a se medesimo) è contestuale e perfettamente corrispondente alla natura di Dio. Questa misteriosa e originaria dinamica relazionale, ci dice che Egli non ha sperimentato la solitudine37,
poiché ab aeterno vive della/nella compagnia di se stesso:
Ti manifestasti, Signore, così amabile da non poter essere più amabile. Sei
amabile infinitamente, Dio mio.
Nessuno, a meno che non sia un amante infinito, può amarti tanto quanto
tu sei amabile. Se non vi fosse un amante infinito, tu non saresti infinitamente amabile. La tua amabilità, che è un poter essere amato all’infinito,
esiste perché vi è un poter amare all’infinito. Dal poter amare all’infinito
e dal poter essere amato all’infinito sorge il nesso d’amore infinito tra l’infinito amante e l’infinito amabile. Ma l’infinito non è moltiplicabile.
Dunque tu, Dio mio, che sei amore, sei l’amore amante, l’amore amabile
ed il nesso dell’amore amante ed amabile(XVII, § 82).
L’amore trinitario essendo l’unico «amore perfetto», attua simultaneamente i tre momenti dell’amare che nella successione triadica
delle cose finite, accadono, spesso in modo separato e molteplice:
«l’amante, l’amabile ed il nesso dell’uno e dell’altro»(Id., § 83). Se
anche tra gli uomini si manifesta un barlume dell’Amore-che-è-Dio,
questo è possibile perché siamo immagine della Trinità e quindi stabilmente attaccati al suo cordone ombelicale. Tanto che in forza di
questo legame, anche nell’«amore contratto» può compiersi la presenza contemporanea, di «amante, amabile e nesso d’entrambi»:
Ciò che appartiene all’essenza dell’amore contratto perfetto(perfecti amoris contracti) non può mancare all’amore assoluto, dal quale l’amore contratto riceve quanto di perfezione esso possiede(a quo habet contractus
amor quicquid perfectionis habet) (Ibid.).
37
Non lo stesso si può dire dell’uomo fino a quando non trovò nella donna, una creatura della sua stessa natura : «Poi il Signore Dio disse: “Non è bene che l’uomo sia solo:
gli voglio fare un aiuto che gli sia simile»(Gen 2,18).
171
172
Vedere la Trinità all’opera nella realtà contratta è il «centuplo
evangelico», un avvenimento che prima di accadere fuori di me,
può inverarsi nelle maglie della mia soggettività. È ancora l’incontro tra due libertà, quella di Dio e la mia. Appare evidente lo spirito antiaccademico del trattato, il suo essere orazione e
testimonianza.
Cusano fa vedere ai benedettini di Tegernsee e di riflesso anche
a noi, dove vive l’imago trinitatis, umanamente più sorprendente: il
cuore della persona, il cuore di Cusano:
Ma non posso distogliermi dalla soavità di questa visione e non riferire in
qualche modo a me stesso, quanto mi viene rivelato circa la distinzione
fra amante, amabile e nesso. La dolcezza della visione appare in qualche
modo pregustata in una sua raffigurazione che trovo in me. Mi fai vedere
in me l’amore, Signore, perché vedo che io sono amante. E poiché vedo
che io amo me stesso, vedo che sono amabile, e vedo d’essere il nesso
quanto mai naturale d’entrambi. Io sono amante; io sono amabile; io sono
nesso. Uno è dunque l’amore, senza del quale nessuna delle tre cose potrebbe sussistere. Io amante sono uno; e sono quello stesso io che è amabile; e quello stesso io che è nesso sorgente dall’amore col quale mi amo.
Io sono uno, e non tre (Id., § 88).
L’uomo è per natura trinitario ma se non desidera diventare ciò
che è, da immagine diventa caricatura, come tanti individualismi e
soggettivismi contemporanei, testimoniano. L’itinerario, qui proposto, vuole essere un piccolo contributo alla discussione su ciò e su
chi costituisce l’umano. Non pretende di spiegare ma di sostenere
il desiderio di sbirciare oltre «il muro del paradiso»(Cfr. IX § 42). La
teologia superlativa e ossimorica è questo tentativo di oltrepassamento «della coincidenza dei contraddittori»(ultra igitur coincidentiam contradictoriorum videri poteris) (Ibid.).
Nella soggettività cusaniana non è decisivo il chi o il che cosa
ma lo è il dove; infatti l’occhio umano deve, sì, porsi in attesa vigilante ma potrà vedere solo se Qualcuno vorrà illuminare. Non a
caso il De Visione Dei si chiude con il dono di luce, umanamente
più inaspettato e improbabile: l’Incarnazione del Figlio(Cfr. XIXXXV). Tutto si compie dentro l’amore trinitario.
Proprio per questo il luogo dell’essere degli enti e del soggetto è
il medesimo, il grembo della Trinità che dalla complicatio della propria mente, fa uscire, liberamente, la totalità.
Ogni cosa porta la sua impronta genetica e più di tutte, l’uomo,
come ben documenta Cusano nel quinto capitolo della Cribatio Al-
korani, composta a Roma tra il 1460 e il 1461:
E donde il mondo deriva questo suo essere necessariamente sia trino che
uno se non dal Creatore? Se, dunque, senza questa trinità il mondo non
avrebbe la sua natura, né la sua naturale perfezione, né la benedizione di
Dio, la quale risplende trinitariamente nell’unità dell’essenza, come possiamo dire che il Creatore manchi di quella perfezione naturale che egli
ha donato a tutte [le creature], affinché esistano nel miglior modo possibile? Quindi, come il creato è unitrino, così lo è anche il Creatore, giacché
l’essere creato non è nulla di per se stesso, ma tutto ciò che esso è consiste nell’essere l’immagine e la somiglianza del Creatore. La trinità che si
scorge nella creatura, deriva, quindi, dalla Trinità increata, come la copia
dal modello e il causato dalla causa. Pertanto, Dio, che ha creato il mondo
unitrino a sua immagine e somiglianza, è unitrino38.
38
Per la traduzione della Cribatio Alkorani mi avvalgo di quella curata da M.R. Matrella
in N.Cusano, Lettura dialettica del Corano, Città Nuova, Roma 2011, p.131.
173
174
Récits fondateurs et identité chrétienne de l’Europe
Luca PARISOLI
La notion de mythe fondateur est fort suggestive en ce qui
concerne le rôle joué par le christianisme dans la formation de
l’identité européenne. En effet, la présence active du christianisme
dans l’espace public européen, en tant que religio latine ou selon
une terminologie judéo-chrétienne en tant que «théologie politique»1 relève bien, selon moi, d’un mythe fondateur. On ajoutera
que la dimension de dévotion populaire liée au christianisme
échappe par son caractère sauvage à la rationalisation classique du
discours savant du religieux, selon l’opposition catégorielle de
Claude Levi-Strauss « savant – sauvage»2.
Je me borne dans mon texte à étudier le discours des théologiens
et des juristes. Mais les contributions au colloque nous ont rappelé
que les chantres du mythe sont aussi les poètes. Le mythe n’est pas
l’objet exclusif de telle ou telle technique argumentative. Il a aussi
à voir avec le discours humain en lui-même et est donc affaire de
civilisation. C’est pourquoi les mythes de fondation ont leur place
dans la philosophie, voire rendent possible l’argumentation philosophique, comme le montre aux sources de la pensée classique la
stratégie philosophique de Platon.
Le récit fondateur est constitutif du sujet humain et j’assume la
thèse selon laquelle sans une constitution du sujet humain le discours ne reste qu’exclusivement langagier, sans ancrage dans le
réel. En refusant cette thèse, à mon avis, le sujet devient alors volatile comme le self de David Hume qui a réduit le sujet humain à
un simple faisceau de sensations dépourvu de toute continuité temporelle.
1
2
Je songe particulièrement à J. TAUBES, La théologie politique de Saint Paul, Seuil, Paris
1999. Tout usage de la pensée de Carl Schmitt de la part de l’historien de la pensée médiévale doit être, à mon avis, opéré grâce à la médiation de la conscience critique de
J. Taubes.
C. LEVI-STRAUSS, La pensée sauvage, Plon, Paris, 1962. Je n’utilise pas ce couplet conceptuel dans la perspective matérialiste réductionniste de C. Lévi-Strauss ou encore de J.
Ries (Les chemins du sacré dans l’histoire, Paris, Aubier, 1992), M. Mauss, R. Girard ou
C. Tarot.
175
176
S’interrogeant sur le moment de l’émergence d’une identité européenne, il convient de partir de Michel Rouche, qui a montré
l’opposition profonde existant entre l’anthropologie des sociétés
germaniques et celle des sociétés chrétiennes3. Mais il a aussi expliqué que la christianisation n’est pas un processus dichotomique,
rejoignant ainsi par une autre voie les thèses de Pierre Legendre.
Ce processus reposerait sur une stratification de croyances antérieures païennes et de croyances chrétiennes4. S’il y a christianisation par dichotomie, elle ne concerne que la définition rationnelle
du patrimoine de la foi, géré par la triade Texte sacré, Magistère,
Tradition, aboutissant à la production d’une identité dogmatique,
donc normative et déontique ; une identité qui ne peut être exprimée à travers une manifestation langagière ou emblématique que
par ceux qui participent de cette identité elle-même.
Mais il convient aussi de préciser que j’assume ici la validité philosophique des analyses de Ludwig Wittgenstein relatives à l’idée
de « suivre une règle », à savoir que l’observation empirique et extérieure ne permet pas de dire que la règle est ressentie comme
obligatoire pour les participants à un jeu5. Il s’agit là d’une impossibilité gnoséologique et ontologique d’identifier par quelque observation la règle qui façonne une « identité normative », à savoir
une identité qui n’est pas apprendée dans la nature, mais constituée par un ensemble de normes se manifestant de la pensée humaine du groupe. Remarquons qu’il ne s’agit pas ici d’affirmer
l’impossibilité de passer d’un ensemble de propositions non-déon-
3
4
5
M. ROUCHE, Les racines de l’Europe. Les sociétés du Haut Moyen Age (568-888), Paris,
Fayard, 2003.
L’anthropologie comparée a montré l’existence d’une stratification des actes de piété populaire. Le récit fondateur du vol des épouses à l’origine de Rome - finement analysé
par l’un de mes collègues intervenants - nous parle de l’inconscient dans une civilisation païenne tandis que le vol du saint - une ville s’empare de la statue d’un saint d’une
ville voisinante dans un cadre rituel - dans les pratiques catholiques de la Méditerranée
nous parle du même inconscient dans une civilisation chrétienne (cf. A. RICCI, « Sogni,
racconti, itinerari religiosi nel Marchesato di Crotone » in L. M. LOMBARDI SATRIANI, a cura
di, Madonne, pellegrini e santi. Itinerari antropologico-religiosi nella Calabria di fine millennio, Rome, Meltemi, 2000, pp. 89-111). Le fait même d’aborder ce sujet en termes
de doctrine savante est une erreur produisant une systématique de l’équivoque, à savoir
une confusion de niveaux de discours différents.
L. WITTGENSTEIN, Recherches philosophiques, Paris, Gallimard, 2005.
tiques ou empiriques à des propositions déontiques - ce qui reviendrait à surmonter la Grande Division (selon la formule de David
Hume au XVIIIe siècle) ou dépasser tout sophisme naturaliste (selon
la formule de George E. Moore au XXe siècle). Il s’agit seulement
de soutenir la thèse plus restreinte de l’impossibilité de fixer une
« identité normative » - à savoir un ensemble de propositions déontiques censées fixer un récit fondateur - à partir de l’observation
empirique des comportements des membres de la communauté
dogmatique.
Le discours de l’identité est un discours d’appartenance, soit un
mélange de discours sauvage et de discours savant qui ne peuvent
pas se confondre ou s’opposer de façon exclusive car l’un et l’autre sont des éléments nécessaires à tout discours religieux6. L’identité et l’appartenance renvoient à l’origine et l’origine est une
stratification d’éléments essentiels du discours sauvage soumis luimême à la rationalisation du discours savant. Ainsi, la construction
juridique romaine passe du fas (le droit sacré du discours sauvage)
au ius (le droit de la rationalité juridique) ; elle passe du discours
presque magique (ou formaliste rigide) à celui de la procédure romaniste analysée par l’école scandinave réductionniste et anti-métaphysique de Axel Hägerström au début du XXe siècle7. Tout récit
fondateur est ouvert ainsi à sa négation8 tout en la refusant, comme
6
7
8
C’est là une de mes convictions les plus profondes : la débâcle de la théologie naturelle
en tant que support de la pratique de la foi religieuse est une évidence historique pour
la Modernité européenne alors que les confessions religieuses, considérées en termes
de piété populaire, montrent leur vitalité dans la dynamique sociale.
A. HÄGERSTRÖM, Der römische Obligationsbegriff im Lichte der allgemeinen römischen
Rechtsanschauung, I-II. Über die Verbalobligation, Uppsala-Leipzig, Almqvist & Wissel,
1927-1941. La notoriété de A. HÄGERSTRÖM dans le monde anglo-saxon est liée à la traduction de son ouvrage intitulé Inquiries into the nature of law and morals, Uppsala,
Almqvist & Wissel, 1953.
Les partisans (médiévaux ou contemporains) de la tradition romaine peuvent s’installer
dans la thèse de l’impossibilité de la négation de cette tradition juridique, faisant de
l’identité dogmatique romaine (pré-chrétienne) un donné immuable. Cette attitude s’oppose à la nouvelle identité dogmatique constituée par la nouvelle tradition canoniste,
dont les partisans (médiévaux ou contemporains) peuvent s’installer dans la thèse de la
possibilité de la répétition du moment fondateur de la tradition juridique romaine en
elle-même par le moyen de renaissance dans le droit canon et sa nouvelle culture chrétienne. Ainsi, P. LEGENDRE, dans « Le droit romain, modèle et langage. De la significa-
177
178
le meurtre entre frères fondateurs ouvre la possibilité à un autre
meurtre fondateur d’une autre civilisation, tout en fondant la notion de civilisation éternelle. C’est la même fonction dans le jeu
chrétien de l’Incarnation et de la Passion9, éléments d’une Révélation qui se veut nouvelle tout en étant unique - une deuxième Révélation étant une sortie de l’identité chrétienne. Mais il ne peut
accepter ni sa mort historique, ni l’accomplissement de son eschatologie. Le récit fondateur ne peut obéir au principe de contradiction, en dépit du fait qu’il s’appuie sur un Texte à interpréter, car il
est nouveauté absolue ne pouvant qu’être régie par les refus de toute
règle autorisant la répétition d’une pareille nouveauté radicale. Il y
a des logiques non-classiques, notamment la logique paraconsistante, qui ont cherché à déterminer la forme de rationalité10 de tout
discours du fondement et elles l’ont fait par la limitation de la validité universelle du principe de contradiction. Je partage en grande
partie ces approches, mais concernant les mythes de fondation il
s’agit d’une question non centrale.
tion de l’«Utrumque ius» » in Études d’histoire du droit canonique dédiées à Gabriel Le
Bras, I-II, Sirey, Paris 1965, II, p. 925, affirme à propos des partisans du droit romain :
« le droit romain se veut plus qu’un modèle ; il absorbe, contient le droit canon. On
comprendra sans peine que cette dogmatique de négation, rarement exprimée dans ses
conséquences juridiques, fondées sur de vénérables identifications politiques, faisait
du Corpus un bloc imperméable, inapte à provoquer ces comparaisons ou constructions
doctrinales dont l’ensemble devait conduire les canonistes à imaginer l’Utrumque ius.
Le système romain ne pouvait se détruire lui-même de l’intérieur, dissoudre ses prétentions».
9
Ce jeu, produisant la fin de la Révélation par le discours dogmatique du Siège apostolique, amène Joachim de Flore à la fin du XIIe siècle à suggérer l’idée d’une ouverture
infinie de l’histoire par des nouvelles Révélations dogmatiques au péril de la dissolution
l’identité chrétienne.
10
En ce qui concerne l’analyse paraconsistante du paradoxe de Ross relativement à la
norme fondamentale de la Constitution italienne, on peut lire N. GRANA, Logica deontica paraconsistente, Napoli, Liguori, 1990, pp. 79-87 et mes analyses dans L. PARISOLI,
« Le dépassement de la logique classique et les paradoxes des normes fondamentales »
in L’architecture du droit. Mélanges en l’honneur de Michel Troper, Paris, Economica,
2006, pp. 763-773. Pour une réflexion sur l’ontologie déontique du choix paraconsistant avec des référence à P. SUBER, The Paradox of Self-Amendement. A Study of Logic,
Law, Omnipotence and Change, New York, Peter Lang, 1990 (en ligne à l’adresse
http://www.earlham.edu/~peters/writing/psa/index.htm), je renvoie à L. PARISOLI, Oggetti e norme : ontologia e volontà nella lettura paraconsistente di Giovanni Duns Scoto
in M. CARBAJO, a cura di, Giovanni Duns Scoto. Studi e ricerche nel VII Centenario della
sua morte, I-II, Antonianum, Roma 2008, I, pp. 395-427, notamment pp. 415-426.
Car la visée du mythe de fondation n’est pas la constitution d’un
modèle de rationalité selon le jargon des philosophes ; cette visée
est la constitution d’une identité dogmatique. Le récit fondateur est
emblème et symbole ; il est censé dire l’indicible, et l’indicible par
définition viole le principe de contradiction, car il ne tolère pas la
traduction de son discours dans le schéma de la logique de l’Organon aristotélicienne ; en quoi il n’y a pas ici manifestation d’une
erreur mais au contraire manifestation d’une fécondité originaire. La
coïncidence des opposés est la matière même du récit fondateur. Il
essaie cependant de constituer l’identité de l’homme et d’un groupe
humain même s’il n’y a pas d’identité dogmatique pouvant dire
l’humain.
Tout en sachant qu’une fois énoncé le discours dogmatique
échappe à la dichotomie faits-normes, car il est à son tour objet
d’interprétation - ainsi le fait du commentaire, la glose, est à son
tour norme et le lien texte lexical-interprétation sémantique s’affirme en tant que circulaire, le cercle herméneutique où texte de
la norme et interprétation de la norme tendent à s’identifier - l’interprète (appelons-le « interne ») qui se reconnaît dans « ce-discours-dogmatique-là » (le rabbin lisant le Talmud ou l’exégète
catholique lisant la Bible) produit à son tour des propositions
conformes à l’identité dogmatique. Ou bien il produit des propositions mettant en scène sa sortie de l’identité dogmatique, comme
c’est le cas de la différence identitaire entre catholiques et protestants, les premiers refusant l’accès personnel aux Ecritures - à savoir l’interprétation sans processus d’uniformisation déontique -,
les deuxièmes acceptant cette sort d’accès et donc refusant l’autorité déontique du Siège apostolique, produisant ainsi une pluralité d’identités dogmatiques toujours plus restreintes à des groupes
humains limités. À l’opposé, l’interprète (appelons-le « extérieur »)
ne se reconnaissant pas dans l’identité dogmatique qui est l’objet
de son analyse, ne produit que des propositions appartenant à un
niveau méta-linguistique, ne touchant pas à la sphère ontologique
de l’identité elle-même.
Or, le patrimoine de la foi (du chamanisme au christianisme) ne
concerne que le discours savant du religieux, étant sa référence
dogmatique. Le discours sauvage, par définition précédant une re-
179
180
construction rationnelle, est lié par l’exercice de l’obéissance11 à la
possibilité de se reconnaître dans l’identité dogmatique fondée par
le Texte dogmatique et son interprétation. Mais, en soi, le discours
sauvage n’est pas une rationalité dogmatique, il suppose stratification et co-présence de croyances apparemment contradictoires, sa
cohérence n’étant pas gérée par le principe de contradiction. Nous
avons là une caractéristique non-classique du discours sauvage religieux, créé par une stratification et non pas par une harmonisation
formelle. Le passage au discours savant manifeste l’émergence d’un
catholicisme prévoyant un organisme centralisateur chargé de l’uniformisation des croyances contre les formes centrifuges de christianisme ainsi que le montre la critique des hérésies par Saint
Hilaire de Poitiers au IVe siècle12. L’hérésie est certainement un
objet pouvant être cerné comme élément doctrinaire (en tant que
différent de la doctrine du Siège apostolique), mais c’est aussi un
objet juridique dégagé par la tradition romaniste qui identifie l’hérésie avec la désobéissance réitérée trois fois contre l’ordre du supérieur hiérarchique. Parfois l’historiographie a opposé la voie de
Jérusalem (judéo-chrétienne) à la voie d’Athènes (hellénique) quand
à la connaissance du monde: si la voie de Jérusalem exagère la
coïncidence des opposés - nature humaine et nature divine dans
une seule personne, par exemple - , on peut avancer que le droit se
trouve à l’aise dans ce contexte, car la contradiction est souvent
produite par la législation. Comme dans l’iconographie des juristes
du XIIe siècle, Martinus et Bulgarus, icônes de l’interprétation philopontificale et de l’interprétation philo-impériale13, le droit se situe
dans la continuité de la culture romaine mais non dans celle de la
civilisation païenne ; ce qui a abouti à la construction du monu-
11
Il s’agit là d’une vertu originaire précédant les autres dans une certaine tradition catholique faisant l’apologie de l’obéissance -(Saint Anselme d’Aoste ou Saint Bonaventure de Bagnorea), façonnant la forme originaire du pouvoir, le pouvoir d’obéir, mais au
moins nécessaire dans tout contexte culturel sous la forme de l’obligation politique de
la légitimité afin de définir l’inclusion ou l’exclusion en rapport à l’identité dogmatique.
A défaut d’une norme imposant d’obéir au loi, toute identité dogmatique est continuellement en doute.
12
Notamment dans son célèbre De Trinitate.
13
E. CORTESE, Il diritto nella storia medievale, I-II, Il Cigno, Roma 1995, II. Il basso Medioevo, p. 76-84.
ment romano-canonique dont le but est de dire l’indicible. Le droit
canon règle l’appartenance à la société chrétienne du XIIe siècle,
car il assume l’origine dogmatique du groupe humain. Le ius du
Decretum de Gratien, ayant la vocation à l’éternité par l’évacuation des contradictions apparentes (le véritable titre de l’ouvrage de
Gratien se réfère à la tâche de réaliser la conformité de normes apparemment opposées, à savoir l’élimination de contradictions apparentes ) évolue dans la législation de la lex des Decretales, ayant
vocation à se modifier pour permettre la mise en oeuvre de l’identité dogmatique constitué par le ius.
La forme de la légitimité politique qui en découle est plurielle,
et non pas monolithique. Tout en étant favorable à la monocratie
au sommet de toute hiérarchie politique, ecclésiastique ou mondaine - avant les analyses de Jacques Maritain et le Concile Vatican
II, entendu comme élément de discontinuité14 -, le monisme politique justifie une conception de la légitimité (ou de l’obligation politique) opposée à celle du gnosticisme politique, à savoir le schéma
de Charles le Grand contre le schéma de Frédéric II, le premier s’associant à l’action du Siège apostolique, le deuxième la refusant. Le
monisme conçoit la légitimité comme une typologie ternaire, à trois
acteurs - Dieu, l’Eglise, le Souverain - et non binaire, à deux acteurs
- Dieu, le Souverain - des formes de régimes politiques. S’il y a présence d‘un Tiers médiateur, il y a monisme politique, selon la terminologie de Giorgio Agamben. Il reste, qu’historiquement, le
monisme politique, en unissant la position du pape Gélase I (à la fin
du Ve siècle) favorable à la séparation et à la différenciation du pouvoir religieux et du pouvoir séculier, à l’équilibre dynamique (surtout pas statique) entre les deux manifesté par le récit fondateur de
la proclamation impériale de Charles le Grand la nuit de Noël de
l’année 80015, ne se peut figer dans une forme monolithique, sous
peine de retrouver la légitimité binaire du gnosticisme politique.
14
L’idée que Vatican II doit être interprété selon une stratégie de la discontinuité est niée
de façon explicite par l’actuel pape Benoît XVI.
15
Dans les récits de source pontificale et de source impériale, la participation nécessaire
du Pape et de l’Empereur est établie, mais tandis que les intellectuels de la curie impériale soulignent le rôle d’aide à la constitution de la légitimité par l’intervention du Pape,
181
182
L’un de problème essentiel pour une identité dogmatique est la
possibilité d’avoir des relations avec des sujets extérieurs à sa propre identité. L’analyse par Peter Haidu de la Chanson de Roland montre que l’ennemi islamique, qui incarne l’ennemi intérieur,
manifeste l’impossibilité de la communication entre l’anthropologie d’un univers chrétien féodal et celle de l’empire islamique16.
Selon Roger Bacon, dont le rêve de Chrétienté n’est en aucun cas
lié au primat « à la manière médiévale » du Siège apostolique17, on
pouvait avoir confiance en la conversion des Tartares, et non pas
en celle des Sarrazins (Cf. la représentation du soldat islamique
comme pion du dessein géopolitique de l’Empire islamique18).
L’iconographie de l’ennemi islamique est aussi marquant que même
la mentalité baconienne qui se rapproche plus de la tolérance active moderne que de la tolérance passive - endurance - médiévale
n’arrive pas à imaginer une compénétration d’identités. E. Gilson,
qui appréciait le refus de la dialectique ami-ennemi dans la conception de la chrétienté du franciscain Bacon, glissait dans les dossiers
de l’archéologie historique la théologie politique médiévale, étant
en échange incessant avec le pouvoir mondain dans le discours de
la légitimité et de l’obligation politique. Dans cette stratégie intellectuelle, É. Gilson montre l’importante différence entre le sujet politique de l’Empire islamique, sujet d’un empire géopolitique voué
à l’expansion universelle, et le sujet musulman, sujet d’une identité dogmatique religieuse. L’islamiste est pour É. Gilson un ennemi
(musulman) de la chrétienté au même titre qu’un christeros mexi-
les intellectuels de la curie pontificale soulignent à l’inverse le rôle principale assuré par
le Pape dans la constitution de la légitimité.
16
Cfr. L. PARISOLI, L’emersione del soggetto di diritto dalla Chanson de Roland alla teologia politica francescana, in L. PARISOLI, a cura di, Il soggetto e la sua identità. Mente e
norma - Medioevo e Modernità, Palermo, Officina di Studi Medievali, 2010.
17
E. GILSON, Les métamorphoses de la Cité de Dieu, Vrin, Paris 2005. É. Gilson ne pouvait pas borner l’identité européenne au christianisme car il voyait dans la Chrétienté
un idéal à poursuivre ; celui d’une communauté universelle dépassant toutes les bornes
géopolitique et géo-culturelle. Mais au plan de l’histoire des idées, il lui faut reconnaître que l’idéal médiéval est toute autre chose. Il repose sur une théologie politique que
Gilson, homme du XXe siècle, ne souhaite plus réaffirmer pour fonder le catholicisme
à venir.
18
C. CHEHATA, « La religion et les fondements du droit en Islam » in Archives de philosophie du droit 18 (1973), pp. 17-25.
cain (catholique), car ils mélangent ce qui n’est pas censé être mélangé, à savoir foi et politique. Mais comme historien des idées,
sans pour autant s’inscrire dans la lignée de pensée de Carl Schmitt,
je dirais que c’est justement cette théologie politique qui a participé à la création du mythe fondateur de l’Europe latine19.
Cet univers chrétien commence à s’appeler Europe à partir du
rêve impérial de Charlemagne imposant le monisme politique
contre l’héritage mérovingien du gnosticisme politique, comme l’a
montré Giorgio Agamben20 tirant les conséquences des thèses historiques d’Eric Voegelin21. Le monisme suppose un schéma ternaire
de la légitimité ; le Siège apostolique étant le medium – le médiateur – indispensable assurant la communication entre Dieu et l’organe monocratique. Le gnosticisme implique un schéma dual,
légitimant l’organe monocratique par la communication directe
avec Dieu. Il y a là une théologie politique chrétienne qui est tou-
19
J’aime utiliser une métaphore pour expliquer le travail du « jurislateur ». Il s’agit du
boulanger qui pétrit la pâte, matière de la loi (flatus vocis pour certains, réalité ontologique pour d’autres sans compter les nombreuses positions médianes entre les deux
extrêmes). Le boulanger peut se nettoyer les mains après avoir pétri et obtenu un mélange ; il y a là une métaphore du monisme politique, car la séparation des fonctions
lui donne la possibilité de ne pas confondre des niveaux d’action différents. Mais dans
toute civilisation qui a abandonné la séparation des pouvoirs séculaires et spirituels
énoncée par le pape Gélase I et ne fournit pas un modèle alternatif de laïcité ayant une
fonctionnalité similaire, il n’y a pas de nettoyage possible, car la « jurislation » est la
sueur du boulanger et du souverain qui peut se démarquer d’un domaine de son action
exclusivement par l’irresponsabilité. L’adage affirmant que le droit sort de la poitrine
de l’Empereur ou du Pape (à l’opposé de tout volontarisme juridique) tend à assimiler
le droit à la sueur du « jurislateur », donc à produire la confusion des pouvoir dans une
seule personne. C’est aussi le cas du Califat qui n’a pas connu le contrepoids d’un Gélase I musulman.
Le recours aux Lumières a supposé un déni des sources chrétiennes de l’Europe. Il
convient de souligner que si la civilisation de l’interprétation fait du droit canon le
mythe fondateur d’une Europe chrétienne, le rationalisme du droit canon peut devenir
aussi le mythe fondateur d’une Europe déchristianisée ; cela en dépit des intentions de
Jean d’André ou d’Henry de Suse. Pierre Legendre a donné de nombreux arguments en
faveur de cette thèse. Ces arguments sont résumés par l’idée d’un « Théâtre de la Raison » où les ficelles actionnant les pantins sont les techniques du droit. Ce n’est l’idéal
ni de Bacon, ni de Gilson. Mais cela fait l’objet d’un débat juridique et politique à la
fin XXe siècle.
20
G. AGAMBEN, Il Regno e la Gloria, Vicenza, Neri Pozza, 2007 ; tr. Française, Paris,
Seuil, 2008.
21
E. VOEGELIN, History of Political Ideas, II-III, in The Collected Works of Eric Voegelin, vol.
20-21, University of Missouri, Columbia Mo. 1997-1998.
183
184
jours agissant pour façonner la légitimité du pouvoir public, depuis
la victoire intellectuelle d’Eusèbe de Césarée contre la conception
proto-quietiste de l’école chrétienne d’Alexandrie incarnée par Origène, maître d’Eusèbe. Or, il est malaisé proposer de reconnaître
dans une certaine Croisade ou une certaine bataille le mythe fondateur de l’Europe chrétienne. L’Europe n’est pas une entité nationale parmi d’autres entités nationales. La bataille de Covadonga est
le mythe fondateur de la Reconquista espagnole, mais pas de l’Europe chrétienne. La bataille de Clavjio est le mythe fondateur de la
téléologie divine de la reconquête du territoire occupé par l’armée
islamique - dont l’apothéose est Santiago matamoros -, mais cela
n’empêche point d’autres nations européennes d’avoir une tout
autre attitude à l’égard de l’Empire islamique. La légende noire entourant Vlad III22 montre au moins l’entrelacement, les noeuds existant, entre la première opposition - territoires chrétiens vs Empire
Islamique - et la deuxième opposition (largement soulignée par Carl
Schmitt) - empire de la mer protestant vs empire de la terre catholique.
Le christianisme est au coeur de l’identité européenne, mais ce
problème ne saurait être d’ordre géo-culturel, comme le pense E.
Gilson qui se pose les questions suivantes : le christianisme peut-il
avoir une vocation géo-culturelle ? Peut-on réduire l’identité européenne au seul élément chrétien ? C’est un problème d’identité
dogmatique : y a t-il une identité dogmatique européenne? É. Gilson a raison de répondre non aux deux questions qu’il se pose.
Mais il ne convient pas de nier l’existence d’une identité dogmatique européenne.
En réalité, la stratification d’éléments appartenant à d’autres civilisations non chrétiennes dans l’identité européenne ne signifie
pas l’absence d’une identité dogmatique chrétienne façonnée par
le christianisme. Cette stratification tend à exclure une identité dogmatique européenne en tant que telle (notion géographique) si nous
22
M. CAZACU, Dracula, Paris, Tallandier, 2004 ; M. CAZACU, L’histoire du Prince Dracula en
Europe Centrale et Orientale (XVe siècle), Genève-Paris, Droz-Champion, 2006.
acceptons la thèse (à mon avis non convaincante) que la pluralité
hétérogène exclut l’unité dogmatique. Il convient de remarquer que
quand nous parlons d’une identité dogmatique qui emprunte des
éléments de codes dogmatiques différents, nous parlons d’un code
dogmatique intégrant des normes issues de plusieurs identités dogmatiques, et finalement l’identité résultant de ces emprunts est la
n+1ème identité, les identités ayant emprunté au moins une norme
de chaque identité parmi les n en question, et le processus à partir
de n identités produisant la n+1ème identité. Le mélange dogmatique est une nouvelle identité, et le mélange qui n’est plus dogmatique n’est point une nouvelle identité. Ce que je n’accepte pas,
à l’instar de l’anthropologie dogmatique, c’est la thèse que l’identité collective puisse être une entité non dogmatique. Il s’agit d’une
question anthropologique, mais dans l’histoire des idées le débat
autour de l’identité personnelle - notamment je songe à des auteurs
comme Thomas Reid ou David Hume - montre que la réduction de
l’identité personnelle à sa seule dimension spatio-temporelle mène
à la dissolution de l’identité personnelle du sujet. Finalement, selon
mon argumentation, il n’y a pas de communauté qui serait différente de la simple somme de ses membres individuels, et finalement la communauté n’est pas là. De plus, sans identité
dogmatique il n’existerait même pas l’individu pour dire et pour
être dit.
Or, la contribution du christianisme à légitimer une certaine idée
unitaire d’Europe23 ne parvient jamais a s’imposer sur une société
homogène dans sa composition car cette société présente toujours
- sous l’habillage d’une conversion généralisée au christianisme des éléments anthropologiques foncièrement pré-chrétiens. Finalement, le mythe fondateur de l’Europe chrétienne n’est pas un récit
de faits historiques24, car la facticité chrétienne est l’universalité des
23
L’idée unitaire d’Europe du monde féodal est trop liée au code de la vengeance et ainsi
condamné par le mouvement de la pax Dei ; finalement il s’agit d’un monde étranger
à la possibilité de l’imperium romain et à sa légitimité juridique verticale.
24
En revanche, le mythe de fondation est souvent une description de faits concrets, même
quand notre approche moderne lui nie son historicité. Pour la notion de factuel, on
peut lire les analyses d’Alain JOLLES, Formes simples, Paris, Seuil, 1972.
185
186
Évangiles et les priorités géopolitiques du Siège apostolique se nourrissent de la laïcité conçue par le pape Gélase I afin de contenir
dans un discours universel tout en dialoguant avec des institutions
politiques particulières au niveau local. Nous pouvons retrouver le
mythe fondateur chrétien de l’Europe dans la civilisation de l’interprétation - normative et dogmatique25- qui, depuis Charles le Grand
se donne pour but de proposer une liturgie politique catholique au
pouvoir séculier par le biais du droit romain médiéval ; cela tout
d’abord comme rêve de résurrection de l’imperium (à savoir, de la
légitimité d’un règne universel non-féodal), ensuite comme projet
de christianisation du droit romain pensé dès la fin du XIe siècle,
rendu médiéval tout d’abord, ensuite transformé en droit canonique
pour neutraliser une légitimité politique hostile au Siège apostolique - s’autorisant d’une lecture du droit romain autorisant la nécessité de se passer de la médiation normative du Siège apostolique
(c’est la forme de la légitimité mérovingienne, le gnosticisme politique, c’est la forme souhaitée par les régimes normands dans l’Italie méridionale). Il faut rendre hommage à l’approche de Pierre
Legendre, sans pour autant assumer l’intégralité de ses analyses :
«l’Utrumque Ius est une symétrie en trompe-l’oeil»26 d’où se dé-
25
Le grand historien et philologue C. LEONARDI a parlé d’une « civilisation de l’interprétation » - cultura ermeneutica - dans L’intellettuale nell’Alto Medioevo (1980) et ensuite
dans le recueil Medioevo latino. La cultura dell’Europa cristiana, Firenze, SISMEL, 2004,
pp. 17-19. Parmi les nombreux ouvrages consacrés à l’histoire de la pensée juridique
dont celle de certains auteurs classiques tels que Bruno Paradisi ou Andrea Padovani, il
convient de se référer à l’édition critique de S. CAPRIOLI concernant la théorie de l’interprétation. S. CAPRIOLI, après avoir évoqué les analyses de C. Leonardi, affirme : les juristes n’accepteront pas facilement l’épistémologie scientifique de Galilée et de Lord
Bacon, préférant une épistémologie des propositions déontiques - « ovvio che tra i giuristi quest’epistemologia durerà tanto quanto il vigore del diritto comune: tarderanno a
riconoscersi come fondamento del sapere le sensate esperienze e le dimostrazioni necessarie ». S. Caprioli oppose donc une épistémologie normativiste et déontique à l’épistémologie empiriste et positiviste de la Modernité au XVIIe siècle. Cf. S. CAPRIOLI, Modi
arguendi. Testi per lo studio della retorica nel sistema del diritto comune, Spoleto, Centro italiano di studi sull’Alto medioevo, 2006, p. 4.
Même s’il ne faut pas s’imaginer que cette théorie de l’interprétation est aussi développée que celle de la tradition juive, - Rabbi ben Nachman ou de Moyse Maïmonide -,
les textes édités par S. Caprioli sont la preuve de l’existence d’une véritable civilisation
de l’interprétation. Ainsi, le Modus arguendi de Jean-Baptiste de Saint Sévère (pp. 157197) énumère 133 arguments différents, tous exemplifiés par le droit en vigueur.
26
P. LEGENDRE, « Le droit romain, modèle et langage, de la signification de l’utrumque
jus » in Études d’histoire canonique dédiées à G. Le Bras, Paris, Sirey, t. 2, p. 929.
gage d’une manière saisissante la transformation du droit romain
dans l’Occident chrétien : « au droit canonique, la compilation justinienne offrit un type autoritaire d’idéal, un arsenal de règles techniques, un langage. Mais, au travers des oeuvres des docteurs,
énigmatiques au sociologue, se discernent diverses représentations
du conflit de la société médiévale et l’histoire du droit romain y apparaît clairement celle d’une acculturation. Peu à peu, ceux qui servent aujourd’hui les deux droits seront conduits à de tels examens
de signification. L’exercice est périlleux, car les mythes sont peutêtre proches. Le sens de la solidarité entre les disciplines, si souvent rappelée par M. Le Bras et sans laquelle l’explication historique
est devenue inconcevable, devrait les aider à se préserver de l’erreur »27.
En ce sens, le Décret de Gratien – engendrant les Decretales, les
recueils des promulgations pontificales - est le véritable mythe fondateur de l’Europe chrétienne, à savoir d’une Europe identifiée par
une légitimité chrétienne ayant une visée géopolitique universelle 28,
celle-ci faisant défaut au monde féodal. Le Décret de Gratien, par
ses gloses devient l’instrument d’assimilation de l’héritage normatif romain, tout en supprimant les éléments anthropologiques païens
ne pouvant pas être assimilés. Avant Gratien, on doit tenir compte
de l’agenda politique de Grégoire VII - Dictatus papae, du discours
politique d’Alcuin visant à légitimer Charles le Grand et son monisme politique. Mais le Décret de Gratien est un moment-clef alors
que le discours savant de l’Église catholique n’accepte plus d’être
un organisme politique au milieu d’une société régie par des principes chrétiens, mais aussi par des principes culturels et identitaires
non-chrétiens. Une société chrétienne, selon le sens du mot avec
majuscule de Christianitas, n’a jamais existé au Moyen Âge. Mais
le Décret de Gratien et le corpus normatif qui suit – gloses et Corpus juris canonici – a pour but idéal la réalisation d’une telle situa-
27
28
P. LEGENDRE, « Le droit romain, modèle et langage... », op. cit., p. 930.
La notion d’Empire est identifiée par son but final, non pas par son territoire. La différence entre le IIIe Reich et l’Empire Islamique malgré des traits communs (caractère impérial, longévité et extension géographique) tient à la nature respective de leur « identité
dogmatique » ; l’identité dogmatique national-socialiste ayant été étouffée pas son
moyen de réalisation, le Führerprinzip et la violence qui en découle.
187
188
tion sociale. L’idéal ne sera jamais une réalité. Il suffit de songer à
la Quatrième Croisade et au refus de pape Innocent III de poursuivre la politique des ordres religieux militaires. Mais l’Europe verra
son identité culturelle de plus en plus façonnée par le christianisme,
aboutissant à une stratification où pendant longtemps ont été difficilement accessibles les éléments anthropologiques pré-chrétiens
ou ceux de l’ennemi islamique. Le mot « longtemps » renvoie à la
période historique où l’identité dogmatique n’était pas une cible à
abattre par la Raison (au XXe siècle), mais a été conçue comme le
dernier rempart de la Raison.
En dépit des protestations contre le droit, protestations marquant
le christianisme refusant la fidélité au Siège apostolique ou à l’Orthodoxie du christianisme orientale29, la société chrétienne latine
est une société fondée sur l’interprétation du Texte sacré – la Bible
– et du Texte juridique – le Corpus juris civilis et canonici. Au XIe
siècle commence l’oeuvre de glose de la Bible, débouchant au XIVe
siècle sur une Glose ordinaire travaillée par Nicolas de Lyre. En
même temps Rachi, le grand interprète du Talmud, produit sa « paraphrase sémantique » du Texte juif. Une « société de l’interprétation » est au travail, une société qui nous renvoie à l’idée d’une
tradition judéo-chrétienne. Les gloses juridiques, les glose juives,
les gloses catholiques sont un phénomène commun. L’interprétation ayant obtenu le privilège d’être dite ordinaire est considérée
non seulement comme conforme mais de plus elle fusionne avec le
texte interprété. Car l’interprétation du Texte dogmatique est à son
tour partie du Texte dogmatique. Le Texte et le Méta-Texte deviennent, dans la Glose Ordinaire, un seul Texte, le Texte dogmatique
originaire.
L’interprétation littérale est déclassée comme interprétation se-
29
Les exemples sont nombreux, et pour ma part j’ai utilisé la catégorie de l’anomie pour
analyser « l’âme anti-normativiste » de la mouvance franciscaine médiévale - L. PARISOLI, « La Règle, la Pauvreté, le Destin industriel. Aux sources théologiques du capitalisme » in Luca Parisoli, éd., Pauvreté et Capitalisme. Comment les pauvres franciscains
ont justifié le capitalisme et le capitalisme a préféré la Modernité, Palermo, Officina di
Studi Medievali, 2008, pp. 39-146. Pour une synthèse générale minimale depuis la période des Pères de l’Église, T. GALKOWSKI, Il “quid ius” nella realtà umana e nella Chiesa,
Roma, Gregoriana, 1996, pp. 52-59.
condaire, et finalement très peu fiable. La continuité avec l’attitude
de la tradition juive, celle de la Torah et du Talmud, est évidente, en
dépit de la méconnaissance dans cette tradition de l’héritage juridique romain, explicitement évacué de la tradition juive ; la rupture
avec l’attitude de la tradition musulmane se consolide après le XIIIe
siècle, quand Ibn Tamiyya consacre la primauté de l’argument littéral. Le droit canonique se donne pour but d’établir les bornes
d’une société chrétienne homogène, tandis que la Scolastique se
donne pour but de fixer la rationalité propre au discours savant du
catholicisme. Mais en dépit des efforts des partisans de cette « politique du droit », - sans oublier au XVe siècle les franciscains partisans d’une société chrétienne cimentée par l’économie qui ont
introduit dans l’espace publique la politique économique des
Monts de Piété30 -, la Chrétienté en tant que réalité politique - et non
pas en tant que souhait politique - n’existera jamais. L’affirmation
franciscaine de la primauté de la sphère politique sur la sphère économique, à savoir la négation radicale de l’approche des institutions européenne actuelle, ne conduira pas à une société chrétienne
car les acteurs sociaux ne sont pas prêts à assumer la hiérarchie de
valeurs politiques (c’est-à-dire publiques, non pas simplement privées) proposée par les franciscains eux-mêmes. Ces acteurs sociaux, tout en se proclamant très chrétiens par une pratique
généreuse de l’aumône, ne peuvent pas accepter que la redistribution du revenu disponible passe par un mécanisme de législation
sociale qui laisserait l’aumône à la sphère privée ; un mécanisme
qui exige la solidarité sociale par la contribution des capitaux au
fonctionnement des Monts de Piété. Les acteurs sociaux, en faisant
échouer la politique du droit des Monts de Piété n’ont pas refusé
l’axiologie chrétienne en général, ils ont refusé que la nécessaire
et fondamentale solidarité sociale s’inscrive dans une normativité
économique réalisé par les pouvoirs publics. Ils n’ont pas rejeté la
pratique consistant à donner aux pauvres par aumône - une pra-
30
Il faut reconnaître que l’Empire Islamique est la construction politique la plus impressionnante dans l’histoire de l’Europe et de ses adversaires géo-politiques, même si l’Empire Romain nous a confié en héritage un dépôt culturel essentiel, la tradition juridique
romaniste.
189
190
tique que retrouvera la philanthropie de l’économie libérale anglosaxonne - ; ils ont refusé de se priver de la possibilité de gagner plus
de revenus en raison de la limitation des taux d’intérêt ordonnée par
les pouvoirs publics31. Finalement, ils ont refusé la normativité
d’une société chrétienne régie par une obligation politique chrétienne. Or, l’ensemble des arguments et des stratégies intellectuelles
visant à l’origine à légitimer une pareille société ont quand même
produit de puissants effets : l’identité chrétienne de l’Europe n’est
pas celle recherchée par ces acteurs sociaux là, mais son identité est
marquée par cette emprise de la théologie politique. Les franciscains du XVIe siècle qui partent pour le Nouveau Monde ont un
rêve d’eschatologie, celui de faire renaître le christianisme dans un
monde qui n’a pas été contaminé par le déclin européen32. Or,
comme nous l’a montré Harold Berman33, même si le rêve d’une
eschatologie a fait faillite en Europe, le discours savant du christianisme, notamment à travers son influence sur la normativité sociale,
juridique, politique et économique européenne, a posé sa marque
sur l’histoire culturelle de l’Europe. É. Gilson a bien compris que la
vocation universelle du catholicisme ne peut se borner à une géoculture ou bien à un territoire spécifique. Mais il a oublié de souligner que la théologie politique chrétienne - reliée de façon étroite
à la forme politique impériale - a contribué à façonner l’identité
dogmatique de l’Europe sans la réduire à une identité dogmatique
catholique ; cela tout simplement grâce à la confrontation dialectique de longue durée entre la civilisation romaniste de l’interprétation et la civilisation chrétienne de l’interprétation, une
confrontation qui a produit - notamment dès le XIIe siècle - une véritable identité dogmatique où la Révélation de la Foi ne peut se
passer du Théâtre de la Raison.
31
Pour une analyse de la signification politique de l’expérience des Monts de Piété, je
renvoie à mon article L. PARISOLI, La Règle, la Pauvreté, le Destin industriel, in L. Parisoli,
Pauvreté et Capitalisme, p. 98-106.
32
Diffusione del francescanesimo nelle Americhe, Società internazionale di studi francescani. Congressi X, Assisi, 1984 .
33
H. BERMAN, Droit et révolution, Aix-en-Provence, Librairie de l’Université d’Aix-enProvence, 2002. En dépit des critiques à son égard lui reprochant une certaine infidélité historique, je considère Berman comme l’un des auteurs clefs permettant une
compréhension non-archéologique et non-figée du passé de la civilisation latine, sans
191
jamais tomber dans les défauts de l’invention de la cohérence sémantique et de correspondance forcée à la réalité sociale d’une philosophie de l’histoire à la manière de
Sombart. Le point sensible est la persuasivité ou le défaut de persuasion inspirés par la
méthodologie conceptuelle manifestée par les articles recueillis dans H. BERMAN, Faith
and Order. The Reconciliation of Law and Religion, Grand Rapids, Eerdmans, MI, 1993.
Je suis convaincu par ses analyses critiques non seulement de la théorie soviétique du
droit, mais aussi d’une approche juspositiviste du droit.
192
Feyerabend: anythings goes!
Franco Staffa
SULLE VIE DELL’ANARCHISMO EPISTEMOLOGICO
INTRODUZIONE
Filosofia e verità sono tra di loro intrinsecamente legate, al punto
da costituire un binomio inscindibile.
Non si può svincolare l’indagine filosofica dalla ricerca della
verità, poiché come afferma Aristotele <la filosofia è scienza della
verità, perché il fine della scienza teoretica è la verità1>
È ben noto come la filosofia si sia sviluppata proprio nel momento in cui l’uomo ha iniziato ad interrogarsi sul perché delle
cose, lasciandosi avvolgere dal senso del mistero e della meraviglia2 ma, sebbene la ricerca della verità sia un processo innato nell’uomo3, non sempre essa costituisce un’operazione assai facile,
anzi la storia del pensiero umano è percorsa dall’annoso tentativo
di ricercare la verità.
< La causa della difficoltà della ricerca della verità - afferma Aristotele - non sta nelle cose ma in noi. Infatti, come gli occhi delle
nottole si comportano nei confronti della luce del giorno, così
anche l’intelligenza, che è nella nostra anima, si comporta nei confronti delle cose, che per natura loro sono le più evidenti di tutte4>
L’uomo è affetto da una strana miopia che non lo rende libero
nella ricerca della verità. Spesso gli assunti ideologici ingabbiano
1
2
3
4
ARISTOTELE, Metafisica, II, 1, 993, 20
Famoso è il passo del primo libro della Metafisica in cui Aristotele afferma che <gli uomini hanno cominciato a filosofare a causa della meraviglia>, cfr. Metafisica, II, 2,
982b
San Tommaso così afferma nell’Esposizione su Giovanni, cap.14 lectio 2 : < L’uomo desidera due cose principalmente: in primo luogo quella conoscenza della verità che è
propria della sua natura>
ARISTOTELE, Metafisica,II, 1, 993,10
193
194
l’uomo precludendogli la strada verso la verità, i pregiudizi concettuali lo irretiscono e non gli permettono di realizzare pienamente
la propria natura di cercatore della verità.
Nemica assoluta della filosofia è una cecità di siffatta specie, in
quanto ostacolerebbe la ricerca della verità e, in ultima analisi, rischierebbe di svuotare la filosofia della sua essenza.
Infatti che utilità avrebbe un’indagine filosofica non volta alla ricerca della verità e, ancor peggio, che statuto avrebbe un’indagine
filosofica carica di pregiudizi, indirizzata esclusivamente alla ricerca della verità orientata da tabù ideologici?
Il vero filosofo cerca la verità da ovunque essa venga e, possibilmente spende le proprie energie per cercare non una verità qualsiasi, ma - afferma Kierkegaard – la verità che salva.
Della verità salvifica non si potrà trattare in questa sede – sebbene chi scrive abbia ben chiara quale sia la fonte di questa veritàpiuttosto in questo contributo si vorrà prendere in analisi la speculazione filosofica dell’epistemologo austriaco Feyerabend, il quale
sembrerebbe rispecchiare quei parametri del buon filosofo, secondo i quali nessun preconcetto debba costituire un freno per la
ricerca della verità, ma piuttosto ogni cosa deve divenire oggetto di
studio per svelare la verità.
Anythings goes5, qualunque cosa può andare per ricercare la verità! Tale posizione feyerebendiana può costituire un valido prodromo epistemologico per sostenere la tesi della non esclusività
gnoseologica delle scienze, le quali non esauriscono i criteri di interpretazione della realtà nella quale l’uomo è immerso; è necessario andare oltre, aprirsi alla meta-fisica.
La cultura post-moderna rifiuta abbastanza categoricamente
qualsiasi spiegazione proveniente dalla ricerca metafisica, precludendosi così la possibilità di compiere un cammino onesto verso la
verità.
Una tale impostazione metodologica che aprioristicamente rifiuta altre vie di conoscenza svaluta qualsiasi sistema filosofico;
l’arroccarsi di taluni filosofi e scienziati, e l’incapacità di guardare
5
Per la spiegazione di questa espressione si rimanda infra p.13
alle altre scienze umane, fanno si che il tarlo dell’ignoranza possa
collidere con il desiderio dell’uomo di ricercare la verità.
Presupposto di una ricerca filosofica è il dialogo, che postula
l’incontro tra due soggetti eterogenei, in quanto un dialogo tra soggetti omogenei perderebbe la specifica componente relazionale ; il
dialogo non può che fluire nel pluralismo. Rifiutare il pluralismo
corrisponderebbe negare qualsiasi processo dialogico e, dunque,
qualsiasi occasione di crescita, in quanto solo il confronto è proteso
ad una vera crescita; chi invece rimane abbarbicato alle proprie
persuasioni non raggiungerà mai una piena conoscenza - ammesso
che la pienezza della verità possa essere raggiunta nello stato attuale in cui vive l’uomo6.
Aprirsi al pluralismo non significa svendere le proprie idee o gettar tutto alle ortiche in nome di un proficuo dialogo, o del popolare
politically correct, accogliere il pluralismo postula piuttosto
un’apertura mentale – se non del tutto spirituale- volta a conoscere
l’altro, incontrare l’altro e assieme all’altro crescere.
Il rischio di confondere il pluralismo con un relativismo pratico
è molto alto, anzi spesso si può incorrere in una transmigrazione
dal pluralismo al relativismo, per evitare questo scivolamento sarà
necessario conoscere i parametri entro i quali queste due declinazione del processo dialogico-culturale si manifestano, così facendo
il rischio sempre in agguato di cadere nell’oblio del relativismo,
che sempre più costituisce l’unico fondamento dell’uomo moderno,
alla stregua di un nuovo credo7 dell’era postsecolarista.
Anarchismo e spregiudicatezza, pluralismo e relativismo costituiscono le quattro coordinate entro le quali si ci muoverà nel corso
di questo contributo, con la speranza di giungere non ad una conoscenza piena ma, piuttosto, di giungere ad una maggiore consapevolezza del panorama culturale nel quale l’uomo è chiamato ad
immergersi ed interfacciarsi.
6
7
Nell’enciclica Fides et Raio al § 2, afferma Giovanni Paolo II: <ogni verità raggiunta è
sempre solo una tappa verso quella piena verità che si manifesterà nella rivelazione ultima di Dio>.
L’idea di relativismo quale nuova religione dell’uomo moderno è del Card. J. RATZINGER in Fede, verità, tolleranza, Cantagalli, Siena, 2003
195
196
ANARCHISMO E SPREGIUDICATEZZA
Quando si menziona Feyerabend8 immediatamente si associa all’epistemologo austriaco l’etichetta di anarchico, ma prima di cadere nell’errore di giungere a facili conclusioni, sarà opportuno
interrogare lo stesso Feyerabend circa l’adozione di tale termine.
Si legge nell’introduzione al fortunato saggio “Contro il metodo”9: <La scienza è un’impresa essenzialmente anarchica: l’anarchismo teorico è più umanitario e più aperto a incoraggiare il
progresso che non le sue alternative fondate sulla legge e sull’ordine10>.
La chiave di lettura, per comprendere senza travisamenti il riferimento all’anarchismo, la fornisce una nota a piè di pagina dello
stesso autore, vale la pena riportare testualmente ciò che scrive il
Nostro:
<Scegliendo il termine “anarchismo” per la mia impresa mi uniformai semplicemente a un uso generale. L’anarchia, come è stata
praticata in passato e come viene praticata oggi da un numero sempre crescente di persone presenta però caratteri che io non sono
disposto a sostenere. Essa si cura ben poco della vita umana e dell’umana felicità (eccezion fatta per la vita e per la felicità di coloro
che appartengono a qualche gruppo speciale); e comprende proprio quel tipo di dedizione e di serietà puritana che io detesto. Per
queste ragioni preferisco ora usare il termine dadaismo. Un dadaista non farebbe male a una mosca, e tanto meno a un essere
umano. Un dadaista non si lascia impressionare minimamente da
nessuna impresa troppo seria e comincia a sospettare qualcosa di
8
Filosofo austriaco (n. Vienna 1924 - m. 1994), prof. a Berkeley (1961), alla Freie Universität di Berlino (1967-69), alla London University (1967-70), alla Yale University
(1969-70) ed infine a Zurigo (1980). F. è l’esponente di punta di una filosofia della
scienza centrata sull’impossibilità di una giustificazione puramente razionale delle teorie scientifiche, sull’incommensurabilità di queste e sull’autoritarismo che queste richiedono per essere ritenute vere. Tra le sue opere: Problems of empiricism (1968; trad.
it. 1971); Against method: outline of an anarchistic theory of knowledge (1975; trad. it.
1979); Science in a free society (1978; trad. it. 1981); la raccolta di saggi Der wissenschaftstheoretische Realismus und die Autorität der Wissenschaften (1978; trad. it.
1983) e Fare well to reason (1987; trad. it. 1990).
9
In questo contributo si farà riferimento all’edizione italiana edita da Feltrinelli nel 1979.
10
FEYERABEND, Contro il metodo, Feltrinelli Milano 2009, p. 15.
equivoco ogni volta che qualcuno smette di sorridere e assume
quell’atteggiamento e quelle espressioni facciali che indicano che
si accinge a dire qualcosa di importante.
Un dadaista è convinto che la vita merita di essere vissuta solo
quando si cominciano a prendere le cose allegramente e quando si
eliminano dal proprio linguaggio i significati profondi ma ormai un
po’ frusti che esso ha accumulato nel corso dei secoli. Un dadaista
è pronto a iniziare esperimenti gioiosi anche in quegli ambienti da
cui il cambiamento e la sperimentazione sembrano intrinsecamente
esclusi ( per esempio: le funzioni base della lingua).
Spero che dopo aver letto questo pamphlet il lettore si faccia di
me l’immagine di un impertinente dadaista e non di un serio anarchico.11>
Se fino ad ora l’immagine dell’anarchico precedeva il nome dell’epistemologo austriaco, ora sarà necessario pensare a Feyerabend
a guisa di un impertinente artista mistificatore, finanche, della celebre Monna Lisa di Leonardo12.
Dadaista piuttosto che anarchico, è questa la giusta collocazione
di Feyerabend, il quale intende l’anarchico come un agente segreto che giochi la partita della Ragione allo scopo di minare l’autorità della Ragione13, ovvero il compito dell’epistemologo
anarchico è quello di convincere il lettore del fatto che tutte le metodologie, anche quelle più ovvie, hanno i loro limiti14.
Il ribelle discepolo di Popper fonda la propria indagine filosofica sulla convinzione che non esista alcun metodo scientifico che
sia alla base di ogni progetto di ricerca che lo renda scientifico e
perciò fidato; egli sostiene piuttosto che l’unico atteggiamento giusto sia quello opportunistico, ovvero l’utilizzo, volta per volta, di
quei mezzi che si rivelano più idonei al raggiungimento del pro-
11
FEYERABEND, Op.cit., nota 12, p.19.
Uso questa immagine in riferimento all’artista dadaista M. Duchamp (1897-1968) e alla
sua opera L.H.O.O.Q, riproduzione della Gioconda di Leonardo alla quale l’artista ha
apposto i baffi e barba e ha aggiunto la scritta del titolo. Lette in inglese, quelle lettere
significano “guarda”; lette secondo uno spelling francese, esse sciolgono il mistero del
sorriso di Monna Lisa asserendo che “elle a chaud au cul” ( ella ha caldo al culo).
13
FEYERABEND, Op.cit, p.29
14
Ibidem
12
197
198
prio fine.
Feyerabend sostiene che <l’idea di un metodo che contenga
principi fermi, immutabili e assolutamente vincolanti come guida
nell’attività scientifica si imbatte in difficoltà considerevoli quando
vien messa a confronto con i risultati della ricerca storica15>, e ciò
trova riscontro nel modo di procedere degli scienziati che, spesse
volte hanno tralasciato alcuni principi scientifici, o vi sono andati
contro, per garantire la sostenibilità della propria innovazione
scientifica16.
Tralasciando ogni questione linguistica, è indiscutibile che il sistema epistemologico proposto da Feyerabend risulti - stricto sensuanarchico, ovvero privo di norme, ed è proprio questa la critica che
i cosiddetti illiterates17 - come li appella lo stesso filosofo- muovono
alle tesi feyerabendiane.
Agli sciovinisti delle regole Feyerabend obietta sciorinando le
molteplici violazioni poste in essere dagli scienziati durante lo sviluppo di singole teorie, non per ignoranza o fatalità ma per necessità perché, nelle condizioni date, si potesse conseguire il progresso
o il fine perseguito.
La scienza secondo Feyerabend deve svilupparsi attraverso il
confronto tra teorie alternative: essa non può che trarre vantaggio
dal pluralismo delle metodologie e della proliferazione delle teorie.
Sembrerebbe che per Feyerabend l’unico metodo che la scienza
debba adottare sia quello che Sofia Vanni Rovighi chiama Voraussetzungslosigkeit, ossia <il cercare di vedere come stiano le cose
senza presupporre nessuna affermazione sul come esse stiano18>.
La spregiudicatezza radicale di Vanni Rovighi consiste nel liberare la ricerca filosofica da qualsiasi supposta affermazione che
possa essere utilizzata come <costruzione dell’edificio filosofico19>.
La Voraussetzungslosigkeit altro non è che il metodo critico,
l’unico principio <di chi ha pensato sul serio e non si limita a ripe-
15
FEYERABEND, Op.cit., p. 21
Si prendano in considerazione tutti gli esempi riportati dallo stesso Feyerabend nel saggio preso in analisi.
17
Con questo nome Feyerabend appella i critici della sua teoria epistemologica, volendo
indicare con un solo termine i cosiddetti <benpensanti>, <Lettori della domenica>.
18
Cfr. S. VANNI ROVIGHI, Elementi di Filosofia I, Editrice Brescia, La Scuola, p. 97.
19
Cfr. S. VANNI ROVIGHI, Op.cit., p. 98
16
tere quel che ha sentito dire intorno a sé20>.
Molto acutamente Vanni Rovighi afferma che tale spregiudicatezza sembra appartenere solo ad alcuni filosofi - quelli onesti e
serî- che abbiano avuto il coraggio di non uniformarsi al coro dei
ripetitori; giova riportare le brillanti asserzioni di Vanni Rovighi:
<l’impressione che il metodo critico sia proprio solo di alcuni filosofi dipende, credo, dal fatto che - dopo periodi in cui una massa
di mediocri segue passivamente una tradizione senza riviverla personalmente, senza riesaminare, per dir così, i titoli di credito, e gabella per verità evidenti teorie che sono state invece inferite in base
ad argomentazioni talora fallaci, teorie, insomma, che, lungi dall’essere principî evidenti- compare nella storia un grande filosofo
che mette in luce la necessità di far piazza pulita tutto ciò che è
presentato come ovvio21>.
Pare certo come la mediocrità non possa trovar spazio all’interno
di una ricerca scientifica, tale di questo nome.
Non è certamente facile mettersi nell’atteggiamento di radicale
spregiudicatezza, si è portati a vivere passivamente la quotidianità
anziché porsi in maniera nuova e non fermarsi all’evidenzia, al
modo di pensare corrente.
Non si vuol sostenere la necessità di essere bastian contrarî ineluttabilmente, tuttavia risulta inammissibile tutto ciò che cade nella
sfera dei dicica22; difatti nella ricerca filosofica non può esserci
posto per il si23.
Come si affermava nell’introduzione, un orientamento privo di
pregiudizi è preliminare a qualsiasi ricerca scientifica, ciò non
ostante, circa tale asserzione si potrebbe eccepire che è impossibile
all’uomo spogliarsi delle proprie persuasioni, ovvero che possa pro-
20
Cfr. S. VANNI ROVIGHI, Op.cit., p.99
Ibidem
22
Con questa espressione neologistica, attinta dal patrimonio sociolinguistico calabrese,
si vuole indicare con un unico termine la molteplicità delle consuetudini linguistiche
adoperate per esprimere opinioni sorte in seno al popolino, che coincidono, il più delle
volte, con il pettegolezzo. Il termine nasce dal calco della locuzione calabrese “dici ca”
ovvero si dice che, utilizzata quando si desidera riportare maldicenze od opinioni comune, che non sempre corrispondono alla verità.
23
Cfr. S. VANNI ROVIGHI, Op.cit., p. 100
21
199
200
cedere nella ricerca senza presupposti. Questa obiezione si basa
sulla confusione tra i due atteggiamenti possibili dinanzi alla questione della ricerca della verità; infatti altro è porsi dinanzi all’investigazione come uomini, altro come uomini filosofanti.
Risulta impossibile per l’uomo filosofo il non rinnegare tutte le
sue persuasioni prima di mettersi a studiar filosofia24.
Sorge spontaneo ora domandarsi se possa essere compatibile la
posizione di spregiudicatezza con la professione di un credo.
Alcuni filosofi negano al credente la possibilità di filosofare in
quanto la posizione di fede di partenza precluderebbe alle loro persuasioni qualsiasi accrescimento, in realtà se ciò fosse vero, come
osserva Rosmini, si ammetterebbe <la singolare conclusione che il
solo ateo si trovasse in istato di liberamente filosofare25>, non di
meno si negherebbe la possibilità di filosofare a chiunque abbia
serie convinzioni morali e politiche.
La spregiudicatezza radicale può sopravvivere assumendo la
prassi husserliana del klammern sie ein, ovvero mettere tra parentesi le persuasioni della vita quotidiana per avviare liberamente la
propria investigazione circa la verità26.
Feyerabend invita proprio ad assumere tale libertà di pensiero
affinché si possano esplorare strade nuove, anche quando non si
trovano motivazione razionali per farlo.
24
Cfr. S. VANNI ROVIGHI, Op.cit., p. 101
ROSMINI, Introduzione alla filosofia, in Opere, Ediz. Nazionale, vol. I, p. 41
26
È interessante riportare a piè di pagina ciò che Vanni Rovighi scrive nei suoi Elementi
in merito alla questione della compatibilità tra metodo critico e uomo di fede: <Verrebbe fatto di chiedersi che razza di cattolico fosse mai S.Tommaso, il quale si pone il
problema dell’esistenza di Dio cominciando con Videtur quod Deus non sit. E non risponde alle obiezioni dicendo all’avversario: tu sei un miscredente, dunque è chiaro
che sbagli; oppure: Dio esiste, perché così insegna la Chiesa Cattolica; ma risponde argomentando, cioè prendendo in considerazione le obiezioni dell’avversario. E può farlo,
senza smettere di credere in Dio, ma senza adoperare la sua fede in Dio come argomento, come pietra del suo edificio filosofico>. Cfr. Elementi di Filosofia I, p. 102
25
PLURALISMO E RELATIVISMO
Feyerabend critica una certa tracotanza da parte dei razionalisti
i quali considerano la scienza l’unica chiave interpretativa del
mondo, senza considerare il pluralismo interpretativo che l’esperienza umana fornisce.
In un passo dell’opera Dialogo sul metodo, il Nostro sostiene:
<la scienza non è l’unica via per acquisire la conoscenza, ci sono
alternative e le alternative possono riuscire laddove la scienza ha
fallito27>.
Feyerabend è fortemente convinto che <nella vita ci sono più
cose di quel che è contenuto in qualsiasi particolare credo, filosofia, punto di vista, forma di vita o che altro, sicché non si dovrebbe
mai essere ammaestrati a dormire nella bara di un particolare insieme di idee, giorno e notte, e un autore che presenta una tesi ai
suoi lettori non dovrebbe mai essere così miope da credere che non
ci sia più nulla da dire28>.
Non si può avere la presunzione di approcciarsi ad una cosmologia esclusivamente con strumenti scientifici, essi non riuscirebbero ad avere un carattere assoluto, piuttosto si avrebbe il rischio di
avere molti gap gnoseologici e teorie assediate da difficoltà, e agli
scienziati non resterebbe la pia fede - così come la chiama il Nostro - che prima o poi tali difficoltà possano essere sormontate.
Il Nostro rifiuta l’idea che possano esistere persuasioni e metodi
rigidi capaci di indirizzare la scienza nella spiegazione della cosmologia; egli rifiuta un metodo universale29 in quanto la scienza
non può non essere relativa, ovvero limitata al lato prospettico con
cui l’uomo la pone in essere.
Feyerabend è convinto che sia impossibile afferrare una realtà
stabile ed oggettiva, in quanto non è afferrabile dall’uomo, e sul
piano metodologico non rimane che aderire all’anarchismo, il cui
27
P. FEYERABEND, Dialogo sul metodo, p.93, Editori Laterza Roma - Bari, VI edizione 2007
Cfr. P. FEYERABEND, Op.cit., p.9
29
<Gli eventi e i risultati che costituiscono la scienza non hanno una struttura comune>,
così FEYERABEN in Addio alla ragione, Armando Editore, Roma 2004, p. 291
28
201
202
motto è anything goes.
Questo tutto va bene, come scrive nella postfazione a “Dialogo
sul metodo” Roberta Corve, <non significa la negazione di qualsiasi regola, bensì la necessità di adeguare le norme al caso concreto con cui lo scienziato ha a che fare, interponendole in modo
originale o addirittura discostandosene nettamente30>.
Ci troviamo dinanzi a ciò che, in un’altra opera, Feyerabend afferma essere il relativismo pratico vel opportunismo.
In “Addio alla ragione” si legge < l’opportunismo ammette che
una cultura straniera possa avere qualcosa che vale la pena di assimilare, prendere quello che può usare e lascia il resto inalterato31>, in sostanza per favorire un avanzamento nella conoscenza,
giacché essa non può essere esaurita da una sola fonte, ben che
meno dalla scienza, è necessario ammettere la coesistenza di una
pluralità di teorie e culture dalle quali ognuno possa, secondo le
opportunità del caso, trarre il maggior beneficio, senza considerare
ulteriori connessioni.
Sicuramente l’apertura a qualsiasi tipo di cultura e teoria stimola
il dialogo, e dunque un confronto che non può non essere arricchente e costituire un momento di crescita.
La globalizzazione ha fortemente accelerato i processi di scambio ed incontro tra culture profondamente diverse, con un semplice
touch si entra in una rete comunicativa che apre l’uomo ad una
relazione globale.
La nascita della società globale, nella quale i differenti spazi vitali entrano in contatto e si permeano vicendevolmente, interpella
ogni singolo uomo circa le modalità di scambio fra culture diverse.
Scrive J. Ratzinger32: <è assai urgente affrontare la questione di
come le culture incontrandosi possano trovare fondamenti etici atti
a condurle sulla strada giusta e a costruire una comune forma di
delimitazione e regolazione del potere provvista di una legittima-
30
Cfr. Roberta CORVE in P. Feyerabend, Dialogo sul metodo, p. 164
Cfr. P. FEYERABEND, Addio alla ragione, Armando Editore, Roma 2004, p. 83
32
Si è preferito utilizzare per indicare i testi ratzingeriani due tipi di nomenclature: una
indicante il nome proprio del teologo Ratzinger, utilizzata in rifermento ai testi non petrini, e l’altra che riporta il nome del Pontefice in relazione ai documenti del Suo magistero.
31
zione giuridica33>.
In questa sede non sarà opportuno affrontare le questioni di natura etico-giuridica, ma certamente è necessario domandarsi quale
metodologia auspicabile sia da intraprendere per arginare l’emergenza culturale del nostro tempo.
Si impone una visione della realtà umana che mantenga uno
sguardo d’insieme per evitare che si cada nell’errore, già incorso,
di una superficialità circa la vita umana.
Ratzinger scrive : <vi è una responsabilità della filosofia nell’accompagnare criticamente lo sviluppo delle singole scienze e nell’esaminare criticamente conclusioni affrettate e finte certezze su
cosa sia l’essere umano, da dove venga e perché esista34>.
Ricompare la Voraussetzungslogistkeit che sembra rimanere
l’unica strada seria da intraprendere.
La storia del pensiero umano è costellata dall’alternarsi di Weltanschauung dettate dalle maggioranze di turno, ma verrebbe spontaneo chiedersi se la maggioranza o la fortuna di alcune visioni del
mondo siano necessariamente quelle più giuste, tali da essere imposte ad un’intera società.
<Quando una maggioranza – per quanto preponderante – opprime con norme persecutorie una minoranza, per esempio religiosa o etnica, si può parlare ancora di giustizia o in generale di
diritto?35>.
Non è affare assai facile rispondere al quesito che il card. Ratzinger poneva il 19 gennaio del 2004 nello storico incontro con il
filosofo Habermas, ma si possono riportare alcune parole del Nostro per aggiungere ulteriore materiale per cercare di trovare piste
possibili di riflessione.
Ecco come virtualmente potrebbe rispondere Feyerabend:
<Aiutare le persone non significa prenderle a calci finché non finiscono in quello che per qualcun altro è il paradiso, aiutarle significa
identificarsi con la loro saggezza e anche con le loro follie36>.
33
Cfr. J. RATZINGEr in J.Habermas – J. RATZINGER Ragione e fede in dialogo, Marsilio, Venezia X edizione 2008, p. 65.
34
Cfr. J. RATZINGER, Op.cit., p.66.
35
Ibidem, p. 68
36
Cfr. P. FEYERABEND, Addio alla ragione, Armando Editore, Roma 2004, p. 317
203
204
Prendere in considerazione tutte le varietà culturali, sforzarsi di
comprenderle, impegnarsi nel rispettarle e con esse dialogare non
per svendere le proprie idee ma, piuttosto, per attivare un fruttuoso scambio, costituiscono le fondamenta di una metodologia
del dialogo interculturale.
Risultano illuminanti, in tal senso, le parole di Ratzinger espresse
nel già citato incontro: <L’interculturalità mi sembra rappresentare
oggi un dimensione inevitabile della discussione sulle questioni
fondamentali dell’essenza dell’essere umano, che non può essere
condotta né del tutto all’interno del Cristianesimo né puramente all’interno della tradizione razionalista occidentale37>.
Ratzinger parla altrove di correlazione polifonica, in cui le varie
culture si aprano reciprocamente non solo all’ascolto ma soprattutto al rispetto, e ciò postula lo scrollarsi da dosso dei pregiudizi
che irretiscono il singolo nella propria cultura e nelle proprie persuasioni.
Insomma è tempo di metter da parte la hybirs della ragione, tipica della cultura occidentale, bisogna leggere l’uomo e la realtà
che lo circonda in tutte le gamme che lo spettrogramma della vita
ci fornisce, d’altronde <a scienza è solo una parte della cultura e ha
bisogno di altri ingredienti per arrivare alla pienezza della vita38>.
Feyerabend invita l’uomo postmoderno a prendere in maggiore
considerazione i valori spirituali che sono stati sostituiti, nel corso
dello sviluppo del pensiero occidentale, con un <materialismo
rozzo, ma “scientifico”, che qualche volta viene anche chiamato
umanesimo39>.
Considerare il mondo, non come se fosse un campione analizzabile in laboratorio, postula l’abbandono di un approccio astratto
per abbracciare una metodologia che sia più calata nella pragmaticità della vita, una metodologia che non si fa problemi nell’accogliere ciò che millenni di cultura hanno prodotto considerando
tutto come un < serbatoio di conoscenza nel quale miti, favole, tragedie, componimenti epici e molte altre creazioni delle tradizioni
37
Cfr. J. RATZINGER, Op.cit., p. 76
Cfr. P. FEYERABEND, Addio alla ragione, p. 330
39
Ibidem, p. 326
38
non scientifiche40> confluiscono per fornire all’uomo le giuste chiavi
per tentare di comprendere sé stesso e la realtà in cui è calato.
CONCLUSIONI
Anythings goes rappresenta una soluzione reale al problema
della ricerca della verità oppure è solo una via per garantire l’equilibrio stabile di una società sedicente liberale e democratica nella
quale la convivenza di culture e posizioni diverse rischia di infrangersi come una bolla di sapone?
Anythings goes rappresenta una strada sgombra di pregiudizi
aperta ad un dialogo interculturale oppure è una variante del politically correct strettamente legato ad una cieca tolleranza?
Esiste o non esiste una cultura detentrice di una verità piena e
dunque superiore alle altre, oppure le circostanze socio-culturali e
il successo di una ideologia determina una pseudo superiorità?
A tali quesiti non si è voluto dare una risposta, ma piuttosto fornire delle piste di riflessione sulle quali intraprendere un possibile
viaggio verso la risoluzion. Certamente l’opera di Feyerabend rimane preziosa per chiunque si ponesse il problema circa la metodologia da acquisire per cercare di leggere la realtà.
È del tutto scontato sottolineare come non tutto il pensiero feyerabendiano può essere accolto da chi già abbia fatto una precisa
scelta di campo nella propria vita, ma un’attenta lettura dei Suoi
scritti, alla quale si rimanda vivamente, rivelerà una apertura maggiore alla trascendenza rispetto a chi, non esponendosi così tanto
come il Nostro, si autoproclama difensore di talune certe e stabili
idee, per le quali si farebbe di tutto finanche negare che ci sia qualcosa oltre ciò che i nostri sensi rivelano!
40
Cfr. P. FEYERABEND, Dialogo sul metodo, p. 951
205
206
BIBLIOGRAFIA
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Rosimini A. Introduzione alla filosofia, in Opere, Edizione Nazionale
Vanni Rovighi S. Elementi di Filosofia, volume I, Editrice “La
scuola” Brescia V edizione 1975
L’imitazione come conoscenza
nella Poetica di Aristotele:
La superiorità del poeta rispetto allo storico
Giulio Cesare De Rosis
Sintetizzare un lavoro organico sul tema “L’imitazione come conoscenza nella Poetica di Aristotele: la superiorità del poeta rispetto
allo storico” è un’impresa abbastanza ardua. Si cercherà, pertanto,
di esplorare la Poetica di Aristotele nella prospettiva di coglierne gli
elementi essenziali per la storia delle idee, senza pretesa di innovazione analitica e come specifica attenzione all’’800 italiano.
La Poetica è l’opera che Aristotele dedica alla poesia. Lo Stagirita esamina la tragedia1, l’epica, e probabilmente (ma non possiamo esserne certi, essendo parte del testo andata perduta), la
commedia. Aristotele intende trattare prima dei principi della poesia in generale, poi dei diversi generi poetici. Purtroppo, però, il
testo giunto fino a noi (quello riscoperto ed edito in traduzione latina da Giorgio Valla) si conclude con le parole:
“E così, dunque, della tragedia e dell’epopea [...] basti oramai
quello che ho detto. [Diciamo ora] dei giambi e della commedia [...]”2.
Questa affermazione, insieme ad altri riferimenti alla commedia
interni al testo, fa pensare che un secondo libro della Poetica, dedicato proprio a quell’argomento, sia andato perduto e non che il
filosofo non lo abbia mai redatto.
1 Edipo re secondo Aristotele, è la tragedia greca per eccellenza. Fu Composta da Sofocle in data ignota (si presume intorno al 430 a.C.), ha affascinato nel corso dei secoli
decine di generazioni e coinvolto parecchi studiosi su dibattiti riguardo la sua interpretazione. Oltre Sofocle, Aristotele idealizza altri due tragediografi: Euripide ed Eschilo.
2
ARISTOTELE, Poetica: 101. Per tutte le citazioni della Poetica di Aristotele si fa riferimento alla edizione di P. DONINI, Aristotele, Poetica, Torino 2008, condotta sul testo
critico di R. Kassel. Cfr. R. KASSEL, Aristotelis de arte poetica liber, Clarendon Press, Oxford 1965.
207
208
Il famoso romanzo di Umberto Eco, Il nome della rosa, ruota intorno al presunto secondo libro della poetica di Aristotele, quello
riguardante la commedia. Il volume manoscritto, celato nell’impenetrabile biblioteca dell’abbazia in cui si svolge la vicenda, è descritto come l’unica copia esistente dell’opera. In seguito agli
accadimenti narrati, il libro verrà infine distrutto3. La Poetica, scritta
ad uso didattico4 (ossia interno alla scuola), probabilmente tra il
334 e il 330 a.C., sembra essere capace di far fruire una trattazione
esaustiva sull’argomento tragico più in uso, somigliando nello
stesso tempo nelle sue parti a un’introduzione storica alla letteratura
greca, a un saggio di critica letteraria e a un primo abbozzo di teoria estetica5.
Nello Stagirita come in Platone, l’arte e la poesia è mimesis, un
vocabolo per cui la traduzione “imitazione” è tradizionale 6. Ma
cosa imitano gli artisti? La Poetica offre quasi immediatamente una
risposta: “coloro che imitano persone che agiscono”7; ancor più
precisamente, la tragedia, che rappresenta per Aristotele il grado
più completo e perfetto dell’arte poetica, è “imitazione di azioni e
di vita”8 .
Anche Enrico Berti mette in evidenza le differenze con Platone.
Per Platone la realtà imitata dalla poesia non è vera, in quanto è
a sua volta imitazione delle idee, e la poesia pertanto non possiede
alcun valore conoscitivo, per Aristotele al contrario la realtà sensibile è unica realtà, quindi la poesia, in quanto rappresentazione di
essa, possiede un autentico valore conoscitivo . Su questo valore
egli insiste esplicitamente, osservando che la tendenza a imitare
deriva dal desiderio di conoscere, perché l’imitazione è un modo
per apprendere, come è provato dal piacere che si trova nel completare le riproduzioni artistiche della realtà, il quale è appunto un
3
U. ECO, Il nome della rosa, Milano 1980; Cfr. E. BERTI, In principio era la meraviglia,
2007, p. 234
4
Le opere interne alla scuola, e quindi non pensate e finalizzate alla pubblicazione, sono
dette esoteriche o acromatiche. Cfr. A. BENIGNI, Capire la Poetica di Aristotele, 2007,
p. 9.
5
P. DONINI, Introduzione alla Poetica di Aristotele, 2008, p. 7.
6
Ibidem, p.21.
7
Poet., II, 1448 a I.
8
Poet., VI, 1450aI6 ; P. DONINI, op. cit. pag. 24.
piacere conoscitivo9. Per Aristotele l’imitazione è strumento di conoscenza, già dall’infanzia: e ciò è affermato sulla base dei dati
dell’esperienza. Ma la somiglianza produce anche piacere: e questo perché ogni immagine (purché somigliante: cioè mimetica e verisimile) ha una sua autonomia di senso rispetto alla realtà che
riproduce, anche perché mette in gioco la competenza di chi la
traccia.
Ci dice Berti che non si deve credere che la considerazione conoscitiva e quella morale prevalgano in modo da escludere, da
parte di Aristotele, il riconoscimento del valore specificatamente
estetico della poesia e dell’arte in genere10.
Aristotele assegna alla poesia natura conoscitiva, e il fine della
conoscenza è raggiungere la verità. L’imitazione costituisce il primo
modo di acquisire conoscenza.
Per il concetto di Conoscenza universale torna utile prendere in
considerazione i concetti che, con alcune differenze, Aristotele
tratta già nella Metafisica.
La conoscenza dei principi di ciò che è oggetto di scienza è invece indicata da Aristotele come “intelletto” (nous), il quale, in
quanto disposizione mediante cui si coglie il vero intorno a quello
che non può essere diversamente da ciò che è, è anch’esso un abito
della ragion teoretica. Infatti anche i principi della scienza sono,
non meno delle realtà che costituiscono l’oggetto di questa, universali, necessari ed eterni; epperciò la loro conoscenza riguarda la
ragione teoretica. In pratica i principi primi non possono essere conosciuti dimostrativamente: il che esclude che siano oggetti della
scienza; e non possono neppure essere oggetto dell’arte e della saggezza, il cui dominio è invece costituito da ciò che può essere diversamente da quello che è. La conoscenza di essi è una sorta
d’intuizione intellettiva, ossia di conoscenza immediata da parte
della ragione teoretica. L’intelletto è l’abito razionale che esprime
una tale conoscenza11.
Come spiega il capitolo IV della Poetica, la mimesis artistica si
9
E. BERTI, Profilo di Aristotele, 1979, II ed. 2009, p.147
Ivi, p.147 .
11
ARISTOTELE, Etica Nicomachea, a cura di C. Mazzarelli, Milano 1994.
10
209
210
situa sul prolungamento di un’innata tendenza degli uomini all’imitazione il cui primo frutto sono appunto le conoscenze fondamentali che si acquisiscono nell’infanzia mediante il giuoco.
Davanti a un’opera di imitazione pittorica e certamente anche a
una poetica, al fruitore accade di “apprendere e concludere con il
ragionamento che cosa è ciascun oggetto”12: il risultato primario
dell’opera d’arte è dunque quello di procurare al suo fruitore una
qualche conoscenza13.
Da diversi studi critici sembrerebbe che la Poetica mantenga in
vita il nesso tra arte e scienza (arte e conoscenza, arte e verità), non
solo come unità epistemica inscindibile, ma anche e soprattutto
come forme di conoscenza che quantunque diverse reclamano verità. La poesia è conoscenza e, in quanto tale, verità (verisimile). Il
poetare è anche ricerca (scientifica), ricerca di sapere, verità a tutti
gli effetti malgrado Platone14.
Si diceva in precedenza che l’imitazione costituisce il primo
modo di acquisire conoscenza. Ebbene come seconda causa dell’origine della mimesi poetica Aristotele indica il piacere di imitare,
e anche per questa strada la poesia si riporta al conoscere e alla verità15. Per Berti mimesis e conoscenza sono strettamente connessi.
La tragedia produce pietà e paura, mettendo in scena eventi che
suscitino queste passioni; al tempo stesso, però, grazie all’effetto
della mimesis, essa “purifica” tali passioni da quanto hanno di doloroso e le rende piacevoli. Ma di quale piacere si tratta? Aristotele
l’ha già detto: il piacere proprio della mimesis, cioè il piacere di
apprendere16.
Il piacere di fronte a un’immagine sul quale fissa l’attenzione Aristotele è dunque il piacere di poter “imparare e argomentare” che
cos’è l’oggetto raffigurato. Vale per un’opera d’arte in senso stretto
come per la poesia. La rappresentazione, proprio perché è rassomiglianza, attiva, infatti, il circuito virtuoso e positivo (in senso conoscitivo ed estetico: pertinente al sapere e al piacere) del verisimile.
12
Poet. 1448b15
P. DONINI, op. cit. p.43
14
D. GUASTINI, Prima dell’estetica. Poetica e filosofia nell’antichità, Bari 2004
15
Ibidem
16
E. BERTI, In principio.. op.cit. p. 237.
13
Si esibisce un nesso con la verità. Proviamo a chiarire meglio.
Accertato che la poesia, in quanto imitazione, è un modo del conoscere e che per questo enuncia verità, occorre determinare che
cosa fa conoscere, vale a dire qual è l’oggetto al quale si applica e
che genere di verità le compete. Aristotele chiarisce il punto precisando innanzitutto che l’oggetto della poesia non è il reale, ma il
possibile, colto o sotto il profilo della necessità che lega le situazioni e gli accadimenti ipotizzabili o sotto il profilo della verisimiglianza. Indi afferma che questo possibile secondo necessità o
verisimiglianza è un universale17. Insomma la verità della poesia è
il verisimile.
L’arte si basa su una conoscenza dell’universale: essa converte
la conoscenza in azione, all’immaginazione segue un movimento
e dal movimento nasce l’opera. In questo l’artista sperimenta un
certo piacere18.
Non si crede di cadere in errore se si dice che l’opera d’arte ha
valore universale malgrado “non vediamo l’opera d’arte asetticamente, così com’è, ma filtrata dalla nostra emozione che a sua volta
riflette un ambiente, una cultura, un’epoca”19. La parola arte richiama il concetto di bellezza. E questa, a parere di chi scrive, crea
un naturale connubio tra la Retorica e la Poetica. Cerchiamo di vedere le modalità di tale connubio.
Tra le “arti”, o “scienze poietiche”, le sole che Aristotele abbia
fatto oggetto di trattazione specifica, dedicando a ciascuna un’intera sua opera, sono due, entrambe accomunate da una caratteristica che le distingue da tutte le altre, cioè il fatto di avere per
oggetti non “cose”, ma “parole”: la techne rhetorikè e techne poietikè. La prima è da lui esplicitamente definita come arte dei discorsi, cioè arte di produrre discorsi, più precisamente discorsi
persuasivi (pistesis), cioè argomentazioni ; la seconda è invece da
lui senz’altro identificata con la poesia, che dal punto di vista terminologico significherebbe produzione “produzione” per antono-
17
D. GUASTINI, op. cit.
G. BERSA, Il pensiero in Aristotele e le storie dell’estetica del Novecento, in “Studi di Filosofia aristotelica”, 2009, p.18.
19
M. DOLZ, Il Giudizio all’alba del Rinascimento, in “Avvenire” 25 ottobre 2011 p.26.
18
211
212
masia, ma in realtà indica l’arte di comporre “miti”, cioè “racconti”
in senso lato, includenti l’epopea, la tragedia, la commedia, il ditirambo ed altri componimenti destinati ad essere recitati con l’accompagnamento del flauto e della cetra20 .
La tragedia deve essere ben costruita e quindi vi è un legame
con la retorica, perché quest’ultima si serve , nella concezione che
di essa ha Aristotele, di esplicite argomentazioni e quindi rappresenta una vera e propria forma di razionalità21.
Una notevole distanza separa la concezione che fa da sfondo all’opera aristotelica dal nostro intendimento all’estetica: la Poetica si
interessa esclusivamente alle “arti belle” (le altre sono tecniche produttive) e segnatamente alla produzione artistica legata alla parola
, perché le altre arti belle erano ritenute subordinate a quella letteraria, ad esempio, la musica poteva fungere solo da accompagnamento al testo. Il taglio dell’analisi non viene tuttavia spiegato e sta
a noi intenderlo22.
L’aspetto importante che lega la Poetica alla Retorica è l’elocuzione ossia la costruzione del discorso. L’indagine tecnica sull’elocuzione che Aristotele conduce nella Poetica riprende in ampia
misura analisi che il filosofo conduce ad altri scritti, nel secondo
libro della Retorica e nel De interpretatione innanzitutto23.
Sin dai primi contatti con la Poetica , chi scrive fu colpito dalla
illimitata fortuna critica che ancor oggi continua ad alimentare.
Di straordinaria portata è la citazione che Giacomo Leopardi fa
nello Zibaldone: “Già diceva Aristotele che il protagonista della Tragedia non doveva essere né affatto scellerato né affatto virtuoso.
Schernite pure Aristotele quanto volete, anche per questo insegnamento (come credo abbian fatto); alla fine la vostra psicologia, s’è
vera, vi deve ricondurre allo stesso luogo, e a ritrovare il già trovato”
(G. Leopardi 24 Agosto 1820 ).
Sulla stessa falsariga aggiunge: “Si vergognino d’essere pronti a
lodare chiunque citi in materia di poesia lo Schlegel, il Lessing, la
20
Poet. 1, 1447 a 1-15; E. BERTI, Le Ragioni di Aristotele, 1989, p. 160.
E. BERTI, op. cit. p. 162.
22
N. ABBAGNANO, G. FORNERO, Figure della Filosofia - Il pensiero antico e medievale,
1999, p. 227.
23
D. GUASTINI, op. cit. op
21
Stael, e di schernire Aristotele”24.
Per Leopardi, la poesia è lirica in quanto nasce dal sentimento,
ed anche i canti che hanno implicazioni filosofiche sono espressione dei sentimenti e voce del dolore esistenziale del poeta. I canti
coprono tutto l’arco della vita del poeta, che morì a soli trentanove
anni, mentre il suo pensiero era ancora in pieno svolgimento e la
sua poesia era ancora feconda e pronta ad aprirsi a nuove soluzioni. Quello che ci ha detto Leopardi è senza dubbio assolutamente veritiero ma la “Poetica” aristotelica viene un po’ rivista da
Manzoni. E in questa sede vogliamo riportare, senza alcuna pretesa di originalità, soltanto alcuni cenni di natura “enciclopedica”
che cercano di sintetizzarne il pensiero.
Manzoni dimostra l’irragionevolezza delle cosiddette unità aristoteliche di tempo e di luogo.
Manzoni ne la Lettre à M. Chauvet (1820) afferma che la storia
è l’unica fonte della poesia. La storia ci dà dei fatti che non sono,
per così dire, conosciuti se non nel loro aspetto esteriore, quello
cioè che gli uomini hanno fatto, ma non ci dice i pensieri, i sentimenti che li hanno accompagnati. Il poeta deve «contemplare la
storia», la sua invenzione che «deve accordarsi con la realtà», anzi
«è un modo di costringerla a venir fuori, a rivelarsi». L’arte è creazione, non imitazione. Ogni azione storica, poi, se la si considera
attentamente si distingue per «un carattere particolare, quasi individuale, qualcosa di esclusivo e proprio che la fa ciò che essa è»:
il poeta deve saper cogliere questo carattere, né può accettare il
concetto di imitazione senza contraddire questa realtà esclusiva e
propria di ogni soggetto. Ciò significa che l’arte è creazione. L’imitazione e le regole, che si vogliono far risalire ad Aristotele, sono in
realtà un’invenzione dei grammatici, che hanno abusato del suo
nome per «instaurare un deplorabile dispotismo». Il valore morale
dell’arte. Il fine che il poeta deve proporsi è di «interessare per
mezzo della verità: non domandiamogli altro che di essere vero».
Vi è da aggiungere ancora che nel saggio Del romanzo storico Manzoni cerca di definire il “vero” con maggiore rigore, tanto che ar-
24
G. LEOPARDI, Lo Zibaldone, 1820; Cfr. ARISTOTELE, Poetica, a cura di D. LANZA, Milano 1987 (II ed. 1996), p. 105
213
214
riva ora a giudicare come propriamente “vero” solo quello storico,
escludendo i contributi dell’immaginazione come fantastici25. In
vari scritti tra i quali il carme In morte di Carlo Imbonati, Manzoni
affermò che materia della poesia doveva essere il Vero: lo dichiarò
esplicitamente nella lettera Sul romanticismo, inviata al marchese
Cesare D’Azeglio nel 1823. Nel 1846 un giornale parigino pubblicò questa lettera. Più tardi Manzoni la rivide e la inserì tra le sue
Opere varie, nel 1870. In questa lettera, dopo aver condannato
l’uso della mitologia da parte dei Classicisti, e dopo aver considerato le favole false una causa di deviazioni morali, Manzoni sosteneva che la letteratura doveva avere come soggetto il Vero, come
scopo l’Utile e come mezzo l’Interessante.
In un passo della lettera, Manzoni precisa che è opinione dei
Romantici che la poesia debba riconoscere il Vero come unica sorgente di un diletto nobile e duraturo, specialmente perché il falso
finisce sempre per creare fastidio. Il mezzo più naturale per dare valore alla poesia è scegliere soggetti che interessino sia i dotti sia la
maggioranza dei lettori, e questi soggetti si trovano sia nella storia,
sia nelle esperienze di vita. Il problema porta con sé una difficoltà:
bisogna affrontare la definizione di Vero nei confronti dell’opera
letteraria. Non si tratta, sostiene Manzoni, di rivolgersi a ciò che è
banale o di respingere ciò che è palesemente falso. Il concetto di
Vero è sempre stato incerto; i Romantici tuttavia si sono avvicinati
più degli altri, perché hanno cominciato a respingere il falso, il dannoso e l’inutile. Essi, inoltre, si rivolgono ad un Vero che non si discosta da ciò che la fede cristiana indica per tale: per questo motivo
Manzoni riconosce una identità di interessi fra lui e i Romantici e
sostiene esplicitamente l’elezione del Vero a materia di letteratura,
in una lettera scritta a Marco Coen il 2 giugno 183226.
Al di là delle revisioni, dei giudizi e delle considerazioni che a
giusto titolo nel tempo si sono susseguite e ancora quasi sicura-
25
Cfr. G. PETRALIA, Poetica manzoniana - Palermo, 1935; Cfr. P. MAZZAMUTO, Poetica
e stile in Alessandro Manzoni: (Commento alla Lettre à Mr. Chauvet), Firenze 1957 ; Cfr.
A. MANZONI, Scritti di teoria letteraria, Note e traduzioni di Adelaide Sozzi Casanova,
Introduzione di Cesare Segre, Milano 1981. Cfr. R. MARCHESE , A. GRILLINI, Storia e
antologia della letteratura italiana, Dal romanticismo al Positivismo, p.408 – 409.
26
V. LAFORGIA, Manzoni e la poetica del vero, in “La Repubblica” 20 Gennaio 2001.
mente si registreranno siamo d’accordo con quanto Berti asserisce
nel già citato volume In principio era la meraviglia: “la poesia ci fa
conoscere più della storia e raggiunge, nel campo delle vicende
umane, lo stesso grado di conoscenza che è proprio della scienza,
vale a dire la conoscenza dell’universale, sia questo il necessario,
o sia soltanto il verosimile. Con la celebrazione del valore conoscitivo della poesia Aristotele si colloca agli antipodi di Platone.
La posizione platonica e quella aristotelica delimitano così l’intera gamma delle valutazioni che si possono fare della poesia, e rimangono emblematiche, perché qualunque altra valutazione
espressa dai filosofi dell’antichità risulterà inquadrabile nell’una o
nell’altra”27.
27
E. BERTI, In principio … op.cit. p. 240.
215
216
BIBLIOGRAFIA
AA.VV., Studi di Filosofia aristotelica, a cura di M. Zanatta, Luigi
Pellegrini Editore, Cosenza 2009.
ARISTOTELE, Poetica, ed. a cura di P. Donini, Einaudi, Torino 2008.
ARISTOTELE, Poetica, a cura di Diego Lanza, BUR, Milano 1987 (II
ed. 1996)
ARISTOTELE, Etica Nicomachea, BUR, Milano 1998.
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ARISTOTELE, Retorica e poetica, Torino 2006.
A. MANZONI, Scritti di teoria letteraria, Note e traduzioni di Adelaide
Sozzi Casanova, Introduzione di Cesare Segre, BUR, Milano 1981.
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2007.
A. GIANNI, Storia e antologia della letteratura italiana, D’Anna, Firenze – Messina 1992.
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e Medioevo, Olschki Ed., Firenze 1989
R. MARCHESE, A. GRILLINI, Storia e antologia della letteratura italiana, Dal romanticismo al Positivismo, La Nuova Italia, Firenze 1992
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D. GUASTINI, Prima dell’estetica. Poetica e filosofia nell’antichità,
Bari 2004
E. BERTI, Le Ragioni di Aristotele, Laterza, Bari 1989.
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E. BERTI, Profilo di Aristotele, Studium, Roma 1979 / 2 ed. 2009.
E. BERTI (a cura di), Guida ad Aristotele, Roma-Bari, Laterza, 1997
J. L. ACKRILL, Aristotele, introduzione E. Berti, Il Mulino, Bologna
1993.
G. LEOPARDI, Tutte le opere, introduzione di Walter Binni, a cura
di Walter Binni con la collaborazione di Enrico Ghidetti, vol. secondo, Sansoni Editore, Firenze 1969
L. CARETTI, Manzoni e la Critica, Laterza, Bari 1973
M. DOLZ, Il Giudizio all’alba del Rinascimento, in “Avvenire” 25 ottobre 2011
N. ABBAGNANO, G. FORNERO, Figure della Filosofia - Il pensiero
antico e medievale, Paravia, Torino 1999.
V. LAFORGIA, Manzoni e la poetica del vero, in “La Repubblica”
20 Gennaio 2001.
G. PETRALIA, Poetica manzoniana - Palermo, 1935.
P. MAZZAMUTO, Poetica e stile in Alessandro Manzoni: (Commento alla Lettre à Mr. Chauvet), F. Le Monnier, Firenze 1957 .
217
218
La Visita ad Limina
e il fondo delle Visite dell’Archivio Storico diocesano
di Cosenza
di Enzo Gabrieli
La Visita ad limina è una visita periodica alla quale sono obbligati i Vescovi diocesani e i Presuli equiparati che a norma del Diritto, sono tenuti a recarsi a Roma per venerare il sepolcro degli
Apostoli Pietro e Paolo e per incontrarsi con il Romano Pontefice.
Le modalità della Visita attualmente prevedono: l’incontro con il
Papa la consegna di una Relazione accurata sullo stato della diocesi, alla luce di un questionario (Formulario) fornito dalla Sede
Apostolica, e un incontro con i dicasteri della Curia romana.
Tale normativa che regola la Visita è contenuta nei canoni 399400 del Codice di Diritto Canonico; il precedente Codice del 1917
riservava alla Visita ad limina i canoni 340-342 che nell’attuale restano sostanzialmente immutati.
A queste norme si aggiungono le indicazioni provenienti dalla
Costituzione Apostolica Pastor bonus di Giovanni Paolo II sulla
Curia romana (art. 28-32, il n. 10 dell’introduzione), il Direttorio
per la Visita ad limina emesso dalla Congregazione per i Vescovi il
29 giugno del 1988 e il Formulario per la relazione quinquennale
emesso dalla stessa Congregazione nel 1997. Dall’apposito Direttorio la Visita non viene considerata come “un semplice atto giuridico-amministrativo” ma è un vero e proprio “arricchimento di
esperienze al ministero del Papa”.
L’origine della Visita è antichissima. I primi cenni e le numerose
testimonianze storiche risalgono al IV secolo. Fra i segni che danno
rilievo a questo particolare vincolo di unione c’era lo scambio del
“fermentum” ossia del pane consacrato; era una comunione eucaristica piuttosto che giuridica. Ottenuta la libertà di professare liberamente la propria fede cominciarono i pellegrinaggi pubblici
sulla tomba degli Apostoli Pietro e Paolo e gradualmente, con
l’espandersi del Cristianesimo, si promulgarono le prime norme che
obbligavano i Vescovi a recarsi periodicamente a Roma.
Le ragioni spirituali e comunionali della Visita ad limina apostolorum sono da riferirsi biblicamente alla lettera di Paolo ai Galati
quando lo stesso Apostolo racconta della sua permanenza presso Pie-
219
220
tro per quindici giorni1, durante i quali fecero il punto sulla fede e la
missione della Chiesa nascente. Il primo documento che però si può
dire “fondativo” di tale prassi risale al Sinodo Romano del 743.
Fra le testimonianze è interessante richiamare pure la famosa e
precedente lettera Quod semper diretta al papa San Giulio I da alcuni Vescovi riuniti nel Sinodo del 343 a Sardica (attuale Sophia)
nella Dacia inferiore (attuale Bulgaria).
San Gregorio Magno nel maggio del 557 ricorda al suo legato
Cipriano l’usanza dei Vescovi siciliani che “ogni tre anni si recavano a Roma”.
Della Visita ad limina se ne parlò naturalmente anche nel grande
Concilio di Trento (1545-1563) ma la sua forma organica, accompagnata da una precisa normativa, fu data da Sisto V nella Costituzione Apostolica Romanus Pontifex del 20 dicembre 1585 che
recepì anche l’indicazione della Visita triennale, già inserita nel Decreto di Graziano.
Questo atto pontificio contribuì efficacemente a promuovere l’attività pastorale dei Vescovi e la disciplina nella Chiesa. Papa Benedetto XIV confermerà la prassi del triennio nella Bolla Quod Sancta
del 1740.
Con Decreto della Congregazione concistoriale del 31 dicembre
1909 A Remotissima la Visita diventerà poi quinquennale.
Tale nuova indicazione temporale, rimasta in vigore fino ad oggi,
verrà recepita dal Codice di Diritto Canonico del 1917.
La funzione pastorale dei Vescovi, ben esplicitata nei documenti
del Concilio Vaticano II, ricorda che ai successori degli Apostoli è dato
di custodire le Chiese loro affidate sulle quali “effondono la pienezza
della santità di Cristo” (LG n.26).
La Relatio presentata alla Sede di Pietro manifesta perciò quella
piena comunione con il Vescovo di Roma ed è la visibile traduzione
di un impegno di vigilanza e conoscenza del gregge loro affidato “per
essere di giovamento a quelli cui presiedono, serbando i loro costumi
immuni da ogni male e con l’aiuto di Dio, per quanto possono commutandoli in bene” (LG n.26).
Ogni azione pastorale muove infatti da una analisi dei dati, da
1
“In seguito, dopo tre anni, andai a Gerusalemme per consultare Cefa e rimasi presso di
lui quindici giorni” (Gal 1,18).
una conoscenza del territorio e dell’ambiente socio-economico, da
un contesto culturale e politico, da una esperienza religiosa che lo
tipicizza e lo rende di per sé unico.
Giovanni Paolo II nell’Assemblea Cei del 26 febbraio 1986 così
si è espresso: “si annette una grande importanza alle Visite ad limina: esse costituiscono un’occasione privilegiata di comunione
pastorale, il dialogo pastorale di ciascuno di noi mi consente di partecipare alle ansie e alle speranze che si manifestano nelle Chiese
da voi guidate in atteggiamento di ascolto del soffio dello Spirito”.
Benedetto XVI ha rafforzato questi concetti aggiugendo che “in
questi momenti centro e periferia si incontrano in uno scambio
franco e cresce un nascente rapporto in una tensione equilibrata”.
Ogni Relatio si caratterizza per brevità e chiarezza, precisione e
concretezza, per questo ci si avvale di un apposito schema preparato
dalla Congregazione dei Vescovi. L’Ordinario per la sua stesura può
chiedere la collaborazione di persone competenti e di sua fiducia,
salva sempre la riservatezza che deve circondare tali documenti. Essa
viene spedita prima della Visita, in tre copie, perché possa essere studiata e riassunta in una esposizione sintetica da presentare al Santo
Padre per consentirgli di prendere coscienza dello stato e dei problemi di ciascuna Chiesa. È interessante e curioso sottolineare che
per i Vescovi della Chiesa latina i quinquenni stabiliti con apposito
decreto dal 1976 prevedono questa alternanza: nel primo anno i Vescovi d’Italia, Spagna, Malta, Africa settentrionale-occidentaleorientale; nel secondo gli altri Vescovi d’Europa e d’Africa; nel terzo
anno i Vescovi dell’America settentrionale-centrale, delle Isole dei
Caraibi che, dell’Oceania; nel quarto i Vescovi dell’America meridionale (escluso il Brasile), dell’Asia meridionale e del Medio
Oriente; nel quinto i Vescovi del Brasile e delle altre regioni dell’Asia.
“Le relazioni quinquennali e gli atti delle visite pastorali, conservati negli archivi ecclesiastici, rivestono un eccezionale interesse
sotto il profilo storico, in quanto si rivelano fonti preziose e spesso
uniche e insostituibili per la conoscenza della storia della Chiesa e
della stessa società civile”2 scrive lo studioso di diritto Feliciani.
2
G. FELICIANI, Le basi del Diritto Canonico. Dopo il codice del 1983, Bologna 2002,
pag. 102.
221
222
Gli studi e le ricerche contemporanee che contribuiscono alla
ricostruzione della microstoria locale o dei grandi fatti storici,
stanno valorizzando non solo alla consultazione di tali documenti
ma anche la pubblicazione integrale delle Visite. All’interno di esse
infatti emerge la vitalità di una Chiesa e lo spaccato socio-economico e culturale dei capoluoghi e dei paesi di periferia; tante volte
si ritrovano interessanti valutazioni, analisi, numeri e dati, che consentono la ricostruzione di un quadro preciso di un determinato
territorio.
I Vescovi nella stesura di tali relazioni risultano ottimi conoscitori della situazione sociale e culturale delle comunità e della vita
della Chiesa e trasmettono alle future generazioni direttamente o
indirettamente una vera e propria valanga di informazioni che
vanno dai costumi alla vita del clero, dalla prassi sacramentale alla
condizione economica, dalla presenza degli ordini religiosi maschili e femminili al numero e alle attività delle parrocchie.
Le Visite possono essere consultate negli Archivi diocesani (e naturalmente nell’Archivio Segreto Vaticano) secondo i tempi e le modalità opportune e costituiscono quella vera e propria fonte per la
storia complessiva della comunità civile e religiosa:
“il materiale custodito rappresenta il filo di collegamento con il
patrimonio della comunità cristiana e concorre a costruire i luoghi
della memoria storica ecclesiale e laicale. Gli archivi sono i depositari della memoria della chiesa locale, delle sue istituzioni, delle attività e dei protagonisti del passato; descrivono la storia della
devozione e della sensibilità religiosa; testimoniano la storia del territorio, del patrimoni artistico ed architettonico. Tutto ciò perché la
Chiesa è sempre stata il centro della vita di ogni aggregato umano,
il fulcro intorno a cui si svolgevano fatti, eventi ed avvenimenti quotidiani; notorio è il suo ruolo storico ed istituzionale riguardante le
registrazioni anagrafiche, rispetto all’ufficio preposto allo stato civile, che, nel Regno di Napoli nasce in epoca napoleonica”3.
I registri dei sacramenti, ad esempio, nascono e caratterizzano la
documentazione parrocchiale già dai tempi del Concilio di Trento
3
V.A. TUCCI, L’archivio storico diocesano di Cosenza e la relazione ad limina di Mons.
Domenico Narni-Mancinelli (1821), in Rogerius anno XIII- n. 2 (2010), pag. 85
per quella sistematica annotazione del movimento delle anime e
per la periodica descrizione dello “Status animarum” fino a diventare oggi una grande risorsa per i ricercatori.
Gli archivi si trasformano da “custodi silenziosi” a polo intorno
al quale ruota il passato; le Visite ad limina ne diventano fondi che
senza dubbio possiamo definire “speciali”.
In occasione della recente Visita ad limina di S. E. Mons. Salvatore
Nunnari, per la quale è stata redatta la relazione quinquennale 20082012, l’Arcivescovo ha coinvolto numerosi collaboratori per un lavoro dettagliato ed ordinato sull’Arcidiocesi di Cosenza-Bisignano.
Tale momento ecclesiale ha stimolato anche la raccolta e rilegatura in nove volumi delle Visite ad limina degli Arcivescovi di
Cosenza per una più ordinata conservazione e un’agevole consultazione.
Il lavoro di riordino, che ho curato personalmente4, grazie al certosino impegno del professore Luigi Intrieri, direttore dell’Archivio
diocesano, (che negli anni ha creato il fondo delle Visite ad limina
della diocesi di Cosenza) si arricchisce delle relazioni degli Arcivescovi dell’Arcidiocesi di Cosenza-Bisignano a partire da quella
del 1985 ed è ora di più facile consultazione.
Questo l’ordine dei volumi che permettono agli studiosi un approccio ordinato che tenga conto dei necessari tempi di riservatezza previsti dalle regole degli Archivi civili ed ecclesiastici sugli
atti e i documenti. Per il nostro Archivio diocesano vige la regola
della non consultazione dei documenti riservati, emessi o ricevuti,
negli ultimi settanta anni.
Volume I: 1590 (Card. Pallotti) – 1594 (Costanzo) – 1597 (Costanzo) – 1600 (Costanzo) – 1603 (Costanzo) – 1606 (Costanzo) –
1609 (Costanzo) – 1612 (Costanzo) - 1615 (Costanzo) – 1619 (P. E.
Santoro) – 1626 (G. A. Santoro) – 1630 (G. A. Santoro) – 1633 (G.
A. Santoro) – 1636 (G. A. Santoro) – 1647 (Morelli) – 1660 (G.M.
Sanfelice) – 1664 (G. Sanfelice) – 1675 (G. Sanfelice) – 1696 (Caracciolo) – 1699 (Caracciolo).
4
Il lavoro di rilegatura e composizione del fondo si è svolto nei mesi di gennaio e febbraio 2013
223
224
Volume II: 1706 (Brancaccio) – 1707 (Brancaccio) – 1711 (Brancaccio) – 1715 (Brancaccio) – 1717 (Brancaccio) – 1721 (Brancaccio) – 1723 (Brancaccio) – 1730 (Brancaccio) -1739 (D’Aragona) –
1745 (Cavalcante) – 1752 (Maria Capece Galeota) – 1757 (Maria Capece Galeota) – 1760 (Maria Capece Galeota) – 1763 (Maria Capece
Galeota) – 1767 (D’Afflitto) – 1772 (D’Afflitto) – 1776 (Francone) –
1790 (Francone) – 1795 (Mormile) -1799 (Mormile).
Volume III: 1821 (Narni Mancinelli) – 1825 (Narni Mancinelli)
-1828 (Narni Mancinelli) -1831 (Narni Mancinelli) -1838 (Pontillo)
-1841 (Pontillo) -1843 (Pontillo) -1847 (Pontillo) -1849 (Pontillo) 1853 (Pontillo) -1856 (Pontillo) - 1859 (Pontillo) -1863 (Pontillo) 1865 (Pontillo) – 1869 (Pontillo) -1877 (Sorgente) -1882 (Sorgente)
-1887 (Sorgente) -1897 (Sorgente).
Volume IV: 1910 (Sorgente) - 1916 (Trussoni) -1920 (Trussoni) 1926 (Trussoni) -1931 (Trussoni) – 1936 (Nogara) -1976 (Selis)
Volume V: 1981 (Trabalzini)
Volume VI: 1985 (Trabalzini) – 1990 (Trabalzini) -1996 (Trabalzini)
Volume VII: 2001 (Agostino)
Volume VIII: 2007 (Nunnari)
Volume IX: 2012 (Nunnari)
Mi resta da evidenziare che tale lavoro è stato reso possibile
anche per l’acquisizione in copia, da parte dell’Archivio Storico
Diocesano, delle relazioni dei Vescovi bruzi dal fondo delle Visite
della diocesi di Cosenza custodito presso l’Archivio Segreto Vaticano. Resta vuoto l’arco temporale tra il 1936 e il 1976 che coincide con gli episcopati di mons. Nogara (1934-1940), mons.
Calcara (1940-1961), mons. Picchinenna (1961-1971) che andrà
completato, e la prima parte dell’episcopato di mons. Selis che però
dovrebbe coincidere e/o confluire con la Visita esistente del 1976.
Bibliografia
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Codice di Diritto Canonico (1983)
GIOVANNI PAOLO II, Costituzione Apostolica Pastor Bonus
SISTO V, Costituzione Apostolica Romanus Pontifex
CONGREG. E PER I VESCOVI, Direttorio per la Visita ad limina (1988)
L. CHIAPPETTA, Il Codice di Diritto Canonico, Commento giuridico pastorale (2011³)
G. FELICIANI, Le basi del Diritto Canonico. Dopo il codice del
1983, Bologna 2002
V. A. TUCCI, L’archivio storico diocesano di Cosenza e la relazione ad limina di Mons. Domenico Narni-Mancinelli (1821), in
Rogerius anno XIII- n. 2 (2010)
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