La mia Giudecca - La Toletta Edizioni
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La mia Giudecca - La Toletta Edizioni
Gianni Perzolla LA MIA GIUDECCA Ricordi semplici di un’isola che non c’è più C’era una volta una Giudecca. Una nel senso che quella di oggi non è più quella di una volta, quella della nostra infanzia e della nostra adolescenza tra gli anni quaranta e sessanta. Raccontano le antiche cronache che nel IX° secolo il senato Veneziano stabilì che le persone truffaldine, malavitose, false e non rispettose in genere delle leggi, dovessero dimorare nell’isola della Giudecca così come quei nobili che con le loro famiglie per motivi di beghe politiche avessero in qualche modo complottato contro la Repubblica, veniva loro imposto l’esilio in alcune zone dell’isola imponendo la residenza obbligatoria e l’allontanamento dal centro della città. Da ciò, tra le varie ipotesi, l’origine della attuale denominazione. Isola cioè dei “Zudegai” che non avrebbe perciò alcun collegamento con la presunta presenza di comunità ebraiche sul luogo. Al contrario, la presenza invece delle nobili famiglie ivi esiliate ha fatto si che anche nell’isola sorgessero bei palazzi di notevole pregio architettonico prospicienti la fondamenta sul canale omonimo. Ma dopo questo piccolo cenno storico, vorrei parlare della mia Giudecca, quella vissuta da me e molti miei coetanei in quel tempo. La Giudecca della nostra infanzia, della nostra adolescenza, degli amici, dei compagni di scuola, dei personaggi e degli avvenimenti che resteranno per sempre nella nostra memoria. I luoghi Ancora adesso, ma molto di più dalla fine della guerra e fino agli anni ’60 e ’70, dire Giudecca significava evocare un luogo dalla pessima reputazione. “Sei della Giudecca?” ti chiedevano con un tono tra il malevolo e l’ironico. Era cioè come dire che solo per essere giudecchino dovevi per forza essere un malandrino. In effetti non era proprio del tutto immotivato questo sospetto perché non passava giorno che Il Gazzettino non riportasse qualche fatto di cronaca riferito alla Giudecca e a qualche suo abitante. L’isola era però prevalentemente abitata da una onesta classe operaia che lavorava duramente al Porto, nei molti cantieri che allora c’erano e nelle manifatture. L’isola era il centro economico e industriale della città. Porto Marghera, per fortuna, doveva ancora arrivare. Una certa tranquillità economica, dopo i lunghi e duri anni della guerra, era dovuta alla presenza nell’isola dei Cantieri Navali C.N.O.M.V., della Junghans, della fabbrica della birra, di quella dei tappeti, della Herion, di Lucchese, di Toffolo e del Molino Stucky e di tante piccole imprese minori. Le necessità quotidiane in questa situazione facevano si che il posto di lavoro fosse scelta privilegiata rispetto per esempio al continuare gli studi e infatti erano ben pochi quelli che andavano oltre la quinta elementare. Per molti altri invece la precarietà era un modo di sopravvivere tra occasionali occupazioni e prolungate disoccupazioni. Molte di queste occupazioni saltuarie erano molto dure. Si scaricavano “peate” di carbone o lo si portava a spalla nelle corbe fin dentro alle abitazioni dove veniva utilizzato per gli impianti di riscaldamento nelle case di chi l’impianto se lo poteva permettere. Altri attendevano che arrivasse il trabaccolo dalla Jugoslavia per guadagnarsi la giornata scaricando le grosse “bore”, quei grossi pezzi di tronchi di legno che venivano poi rivenduti in pezzi più piccoli dal carbonaio perché a quel tempo nelle nostre case si cucinava e ci si riscaldava con le stufe a legna e carbone. Per molti, il finale logico dopo una giornata di polvere e fatica, era l’osteria da Gigio o dalla Wilma dove spesso si prendeva allegramente la “bala” con “un’ombra mi e una ti”. Naturalmente c’era chi la prendeva bene e chi la prendeva male e allora erano dolori perché le baruffe e spesse volte le scazzottate tra i più violenti erano all’ordine del giorno e noi ragazzini lì tra il divertito e lo spaurito a godere lo spettacolo. Chi non aveva il posto sicuro né quello precario si doveva in qualche modo arrangiare. Piccoli furti, ruberie da dilettanti in qualche negozio come quella volta che, andati a rubare in una salumeria, si sono persi prosciutti e salami per strada. Ingenue furberie per racimolare qualche spicciolo come quella di andare in giro per le case a raccogliere soldi per un “defunto” in realtà vivo e vegeto a casa sua! Si sa che la necessità aguzza l’ingegno e a quei tempi le necessità erano veramente tante. Anche alla Giudecca, seppur non in maniera evidente, esistevano poi le distinzioni sociali. Non c’erano i cosiddetti “quartieri alti”, esisteva però chi poteva mangiare tutti i giorni e chi invece doveva spesso fare “el giro de la tola”. Per questi ultimi c’erano per fortuna delle alternative salvifiche come la mensa per i poveri dei Frati Cappuccini al Redentore. Nei casi più urgenti in cui anche un pezzo di pane raffermo poteva calmare i morsi della fame, la campanella di Frate Eustacchio serviva benissimo alla bisogna. Per noi ragazzini era un divertimento e aveva un certo fascino l’ambiente conventuale e devo dire che anche il pane che ci dava Frate Eustacchio aveva un sapore particolare. La cosa che più mi impressionava all’ingresso del convento era quel teschio posto in una nicchia al di sotto della quale vi era impressa una scritta che ho imparato a memoria e non ho più scordato. “O tu mortal che guardi miri e pensi, io fui come tu sei con alma e sensi, tu pur sarai cangiato qual son io, pensa di cuore a questo e vai con Dio”. La mia prima lezione di filosofia che non avrei mai dimenticato. C’erano comunque anche le cosiddette zone “bene” con case che avevano perfino il salotto e il bagno con più camere e per i fortunati perfino il giardino. Io invidiavo particolarmente quelli col giardino poiché ho sempre amato molto i fiori e le piante. Case che si trovavano “ai giardinetti” di Campo Marte, nel Rio della Croce, a S.Giacomo e in altre zone prospicienti il Canale della Giudecca. Quelle che invece godevano di pessima fama si trovavano a Campo Marte, Campalto o al Lago Scuro a S.Eufemia. Si diceva ridendo che in quei luoghi si piantavano fagioli e ne uscivano malandrini. Una fama non sempre meritata perché in mezzo a qualche elemento non proprio cristallino viveva brava e buona gente che lavorava e tribolava onestamente e nel rispetto della legge. Prova ne sia che a quei tempi vigeva l’usanza nel periodo estivo di lasciare le porte di casa aperte tutto il giorno e nessuno o quasi si sognava di approfittare della situazione. Esisteva anzi una forte solidarietà umana e un senso di appartenenza che oggi certo non si trova più. Tra vicini ci si aiutava anche per le piccole necessità quotidiane. Un po’ di caffè, un bicchiere di olio, lo zucchero o il filo e l’ago per cucire. Piccoli favori che rinsaldavano amicizie e rapporti tra vicini che sapevano anche volersi bene. I bambini venivano tenuti puliti e in ordine e sebbene non ci fosse il bagno in molte abitazioni, il collo e le orecchie ce le facevano tenere pulite anche con il solo lavello della cucina. A un certo punto arrivarono per fortuna le docce pubbliche alle Corti Grandi e quei venti minuti sotto l’acqua calda ci parevano un sogno. La leggenda vuole anche che chi il bagno l’aveva ricevuto con la nuova casa, non avendo molta dimestichezza con quell’accessorio, lo utilizzasse per depositarvi il carbone o per mettervi le piante. Avvenne quindi che molti tolsero anche le tubature in piombo per rivenderle al mitico Romeo Serafin, per molti una specie di benefattore in quanto acquistava tutto ciò che si poteva utilizzare. Noi andavamo da lui con pezzi di rame o di piombo, con vecchie pentole di alluminio che qualche volta “prelevavamo” alle legittime proprietarie che le mettevano fuori al mattino con la spazzatura. Con stracci e bottiglie si rimediava sempre qualche soldo. Altro personaggio al quale ci rivolgevamo per questa incombenza era uno “strasseta” che chiamavamo “Capea” che con il suo sacco sulle spalle girava per le strade lanciando il suo grido “strasse e ossi da tucar bessi” e a lui portavamo anche delle ossa di animale venute alla luce durante gli scavi per il nuovo sistema fognario di Campo Marte. Si pensa che in quella zona esistesse anticamente un mattatoio e noi ragazzini lì tutto il giorno a scavare, piccoli paleontologi sui generis, per recuperare poche lire. Con queste poche lire andavamo dalla signora Vittoria nel suo chiosco a comperare qualche dolcetto. Attività che in seguito passerà per molti anni alla figlia Lidia che per noi resterà per tutta l’infanzia un punto di riferimento per le caramelle. Entravi da lei con un biglietto da dieci lire e non sapevi mai cosa comperare tante erano le tentazioni. Molti altri personaggi rimangono poi indimenticabili. Chi non si ricorda di Ruggero del latte? E di Gilmo del pane? E Mario Doria “el biavarol” e Oreste “el becher” e Gigio Fame dei frutti e Gigio Baracca con la sua osteria? Senza dimenticare Rino Canestrelli il carbonaio o la Gigia delle granite. Da Ruggero si andava con il pentolino a prendere un quarto di latte e un etto di zucchero e ci scappava sempre qualche caramella. Da Gilmo arrivava il pane fresco dal forno e il suo profumo si spandeva in tutta la zona. Quanto pane comune si comperava a quei tempi. Solo più tardi, con un po’ più di benessere avremmo scoperto il pane bianco che aveva un gusto e un profumo speciale che oggi non si ritrova più. Da Mario si andava a far la spesa con la nota. Si facevano gli acquisti e si pagava a fine mese quando arrivavano a casa i soldi della paga. Poi, piano piano, altre attività cominciarono a fiorire anche da noi. Il cosiddetto miracolo economico si stava facendo sentire anche alla Giudecca migliorando la situazione lavorativa, il costume e le abitudini di vita. Era la Giudecca che pur lentamente stava cambiando e che non sarebbe più stata la stessa. La scuola La scuola alla Giudecca una volta era soltanto quella alle Corti Grandi vicino alla fabbrica Junghans e si chiamava “Duca d’Aosta”. Ricordo bene, per il poco tempo che l’ho frequentata, le fredde mattinate a percorrere da solo tutta la fondamenta da Campo Marte fino in fondo, nel rigido inverno con i pantaloni corti. Non c’erano cappotti e tantomeno piumotti imbottiti come hanno ora i nostri nipoti e il freddo tagliava le gambe e i geloni sulle mani e sui piedi erano all’ordine del giorno. Per fortuna che il mio saggio nonno Giovanni mi aveva suggerito un metodo empirico, ma efficace per rimediare: farci sopra la pipì! Verso il 1949 o 1950 fu inaugurata la nuova scuola elementare a Campo Marte intitolata a “Carlo Goldoni” nostro illustre concittadino e all’interno del parco della scuola, ve ne era un’altra intitolata a “Daniele Manin” che effettuava un orario anche pomeridiano; la chiamavamo scuola all’aperto perché si passavano molte ore, nel periodo caldo, a far lezione all’esterno delle aule. Quanti ricordi meravigliosi in quel periodo di vita. Chi non ricorda il suo primo maestro, i compagni di classe e perfino le aule e il proprio banco? La nostra scuola era una bellissima costruzione di fronte alla laguna, circondata da stupendi giardini sempre ben curati e fioriti. Se ne occupava il giardiniere Riccardo al quale mi offrivo spesso come aiutante dal momento che fin da allora il mio amore per la natura era già forte. All’interno della scuola armature antiche con armi, lance, scudi, spade e finimenti per cavalli abbellivano le pareti. Come non ricordare la mia prima maestra, la signora Battistella, un personaggio degno del libro Cuore e quando mai potrò dimenticare il mitico maestro Vanzetto con il quale molti di noi hanno trascorso almeno tre anni scolastici. Per me lui fu molto più di un semplice insegnante, fu “il maestro” che ci insegnò ad essere leali, onesti, rispettosi e altruisti e non solo attraverso i programmi scolastici, soprattutto grazie ai racconti di episodi della sua vita e delle sue esperienze. La sua severità che a volte si manifestava con modi bruschi, non era mai gratuita. Era sempre motivata e comunque temperata poi dai molti momenti sereni che ci faceva trascorrere in classe. Un altro dei maestri che certo tutti ricordiamo con affetto era il signor Alzetta, il maestro di musica che con un vecchio armonio, nell’ultima mezz’ora di scuola ci insegnava delle semplici e simpatiche canzoncine che ancora oggi ricordo. Altri coetanei ricorderanno sicuramente gli altri insegnanti della scuola come la signora Bolognesi o il maestro Bruni sulla cui statura si faceva spesso dell’ironia. D’estate, durante il doposcuola, con il maestro Alzetta e con il giardiniere Riccardo si facevano vari lavoretti con il traforo per costruire piccoli giocattoli, una volta arrivammo perfino a costruire un vero sandolo che poi fu varato e dato a Riccardo per sostituire il suo vecchio cofanetto. Alla fine delle lezioni c’era il rito della refezione. Una scodella di pasta al sugo, un formaggino ed un pezzo di pane era la razione destinata a chi risultava più bisognoso e a quei tempi i bisognosi non mancavano. Ambiti i posti per la colonia montana dove, non esistendo vacanza a quei tempi, tutti avrebbero voluto andare. Era un mese da trascorrere in una località di montagna ed era per molti un sogno irraggiungibile. Allora ci si sforzava di apparire deboli, con problemi di respirazione e altro pur di essere ammessi tra i prescelti. Un anno toccò anche a me e trascorsi un mese a Cimagogna con molti altri compagni di scuola. Un altro luogo dove molti di noi hanno trascorso buona parte della loro infanzia è senz’altro il Patronato del Redentore. Credo che molti della mia generazione debbano essere grati al nostro primo parroco, padre Gervasio. Fu infatti grazie alla sua intraprendenza che il Patronato e quanto in esso contenuto fu creato. Per noi era un punto di riferimento con il suo campo di calcio dove d’estate nei tornei serali si andava a tifare per la Campaltina con i nostri eroi della pedata che si chiamavano Virginio Pangalli, Erminio Chia, Marietto Schiavini, Gastone Soldà, chiamato “Bappone”, Villici e molti altri che ora proprio non riesco a ricordare. Oltre al campo da calcio c’erano le varie sale per la musica, per il catechismo e per altre attività. Alla domenica c’era il film al pomeriggio in quella piccola sala dove ce ne stavamo raccolti ed attenti in attesa dell’inizio dello spettacolo che di solito cominciava con una comica che ci faceva sbattere mani e piedi per l’entusiasmo. Il cinema però bisognava guadagnarselo con la presenza alla messa delle nove la domenica, alla fine della quale ci veniva consegnato uno scontrino con il quale si poteva accedere con lo sconto. A quel tempo il costo del biglietto era di trenta lire. D’estate invece il film veniva proiettato all’aperto ed era tutta un’altra musica. Qualche anno più tardi, sempre grazie all’iniziativa di padre Gervasio, fu acquisito un vecchio deposito a fianco della chiesa e dopo i lavori di adeguamento venne inaugurata la nuova sala parrocchiale utilizzata sia per gli spettacoli teatrali che per il cinema. Finalmente la Giudecca aveva un vero cinema. Nel Patronato si trovava anche la sala prove della corale del Redentore. Animatore convinto ed entusiasta di questa attività fu per molti anni padre Celso che succedette nella direzione del coro a padre Mariano. Padre Celso ebbe anche l’onore di inaugurare il nuovo organo installato in chiesa ed io che del coro facevo parte, ricordo che seguivo con passione la costruzione del nuovo strumento. Tutte quelle canne, grandissime e piccolissime, mi affascinavano e quando poi potemmo cantare accompagnati da tanta magnificenza non ci pareva vero. Padre Celso fu per me e credo per molti altri più che un semplice frate. Seppe essere un amico e un maestro. Con lui si imparava a cantare, a recitare e a fare quei piccoli spettacoli che poi si portavano in giro a rappresentare per rallegrare infermi e sofferenti. Come premio per il nostro impegno ci portava spesso a fare delle gite, ora a casa sua a S.Maria di Non, a volte a casa del padre Gervasio a Thiene, a Vicenza al Monte Berico o a Trieste a S.Giusto. Di tutte queste gite conservo molte foto con gli amici di avventura di quei tempi. Tanto era sereno e paziente padre Celso quanto era severo e a volte decisamente duro padre Gervasio. Credo che molti di noi abbiano provato il suo “scappellotto” o il suo cordone. Non te le mandava certo a dire. Così come certamente in molti ricordano la sua intransigenza in fatto di politica. Non sono mancate in quegli anni le contrapposizioni a volte anche molto forti tra diversi schieramenti. Per fortuna ora è acqua passata. Tra i molti altri frati che bisogna ricordare ci sono senz’altro padre Ezio con il suo sorriso gentile, padre Achille e il caro padre Bellino, recentemente scomparso. Tutti personaggi che hanno significato certamente qualcosa nella nostra vita. I nostri giochi Considerato che eravamo bambini nei primi anni dalla fine della guerra, spesso ci ispiravamo proprio a questo tragico evento per i nostri giochi. Facevamo gli aerei con le braccia aperte e due grosse pietre tra le mani che fungevano da bombe e volando intorno alle casette disegnate per terra dalle bambine imitavamo i bombardamenti aerei. Le bambine da parte loro collaboravano gridando spaventate. A volte si facevano dei grandi fuochi gettandovi dentro dei proiettili inesplosi che ancora si trovavano in giro divertendoci agli scoppi senza rendersi conto del pericolo che si stava correndo. Da piccolino uno dei giochi preferiti era una specie di caccia al tesoro che consisteva nel raccogliere in giro piccoli pezzi di vetro colorato che poi provvedevamo a seppellire in un luogo segreto sotto terra dopo aver foderato la buca con della stagnola. I vetri più ricercati erano naturalmente quelli di color rosso e blu a quel tempo più rari del comunissimo verde. Di tanto in tanto si andava a verificare che nessuno avesse rubato il nostro tesoro. Alle bambine erano destinati naturalmente i giochi più appropriati come il campanon, il salto con la corda, la casetta con le bambole. Noi bambini, un po’ più vivaci, avevamo il gioco dei banditi con la caccia ai cattivi con pistole di legno che facevamo noi stessi. Ci fabbricavamo aquiloni, girandole con carte dai magnifici colori, i più grandicelli si fabbricavano dei veloci carrelli con i cuscinetti a sfera e con questi si facevano emozionanti gare scorazzando per le strade sempre rischiando di investire qualcuno. Gran parte della giornata si trascorreva in strada facendo i vari giochi di gruppo. Tra ragazzi si giocava a “pani marsi, pani duri” o a “salta in banco alle tre colonne”, alle “sconte” andandoci a infilare nelle soffitte dei vicini dove al buio totale si approfittava della vicinanza con le ragazze. Le partite al pallone le facevamo con una palla fatta di carta e di stracci infilati in una vecchia calza di lana. Solo più tardi a qualche fortunato fu regalata una palla di gomma e questo rese tutto molto più piacevole, mentre ci si doveva rivolgere all’amico privilegiato al quale era stata regalata la bicicletta per sperare che ci lasciasse fare un giretto, a volte anche a pagamento. Ai nostri giorni potrà sembrare ridicolo desiderare un vecchio manico di scopa in legno come quelli di una volta, ma per noi era molto ambito perché con quello facevamo delle bellissime spade e pugnali per emulare gli eroi di cappa e spada o il mitico Zorro. Il manico di scopa era inoltre indispensabile per un altro bel gioco che noi chiamavamo “chiba cheba” e “dago daga”. Una parte del manico era la mazza e una parte più piccola il “pindolo” e da questo il gioco prendeva il nome. Nella buona stagione si incominciavano i bagni in fondamenta e non aspettavamo certo i trentacinque gradi. Ci bastava una bella giornata di sole e anche in aprile eravamo capaci di andare a fare il bagno in laguna. Spesso si andava a nuotare in quella zona di acque non propriamente limpide che era nei pressi dello squero. Lì tra tutto quello che veniva dagli scarichi fognari, molti di noi hanno imparato a nuotare. I corsi di perfezionamento poi si facevano nel canale della Giudecca spingendoci fino alle boe che servivano per l’ormeggio delle navi. A Venezia si dice ancora “va a nuar co la tola” ed in effetti era proprio questo che si faceva. Si utilizzava la tavola per lavare la biancheria di nostra madre e la si usava come salvagente perché neanche quelli avevamo allora. Una volta acquisita una certa perizia ci si avventurava ad attraversare la cabaletta dietro la Giudecca e camminando sulla barena si andava fino alla Grazia o a S.Clemente. A S.Clemente ci andavamo anche per la curiosità di vedere “i matti”, quei poveri disgraziati lì ricoverati venivano alla cancellata sulla laguna a fare i loro strani discorsi che noi trovavamo più che altro divertenti proprio perché incomprensibili alla nostra età. La barena era anche un ottimo terreno di pesca ed era un vero spasso andare a “busi da go” o a “cape longhe” che poi si vendevano o si mangiavano a casa. L’estate era una stagione meravigliosa e offriva molte più opportunità di svago e di gioco. Le giornate più lunghe permettevano di rimanere fuori anche fino a tardi e spesso la sera con delle coperte ci si andava a sdraiare in campo Grande sull’erba e si ascoltavano i discorsi dei grandi guardando le stelle. A pochi passi il vecchio Gigio esponeva le rosse fette di anguria posate sulle forme di ghiaccio a 10 lire alla fetta. Un po’ di più costava il cuore dell’anguria. Per qualcosa di ancora più fresco ci si rivolgeva alla signora Gigia che con la sua macchinetta tritava ben bene il ghiaccio e ti preparava una bella granita o prendevi un ottimo stick alla menta. Ci si industriava con molto poco ma ci si divertiva veramente tanto. Facevamo appassionanti gare di ciclismo su piste disegnate per terra con il gesso e con i “cimbani”, i tappi in ferro delle bottiglie all’interno dei quali con un dischetto di vetro e la figura del nostro corridore preferito si rivivevano le glorie di Bartali e Coppi, di Magni e Leone. Chissà di quanti giochi non ho più memoria certo è però che una volta vivendo molto di più in strada da mattina a sera si cementavano amicizie e relazioni che ancora oggi per me durano. Al contrario le attività invernali erano naturalmente più limitate ma una bella nevicata come quella del 1954, se non erro, ci offrì l’occasione per fare un bel pupazzo di neve e una bella battaglia a palle di neve. Molti pomeriggi d’inverno li passavamo a casa degli amici a leggere fumetti o a giocare a Monopoli, a volte a casa di uno di questi la madre ci raccontava fatti e storie, anche antiche e tragiche, della nostra città, impressionandoci parecchio. Per noi era una grande avventura anche entrare nell’orto di Meni per “raccogliere” qualche frutto, e una volta lì non sapevamo cosa scegliere tra tanto ben di Dio che ci circondava! Frutta di ogni specie, ortaggi di ogni tipo; un Paradiso dell’abbondanza. Quando invece volevamo ottenere qualcosa onestamente, bastava presentarsi da lui con una borsa di pane vecchio per i maiali e in cambio ricevevi un po’ di frutta o verdura. Molte domeniche d’estate le passavamo in barca in laguna. Si andava da Zanin il “fitta barche” al Ponte Lungo o da Seno a S. Trovaso e si affittava un sandolo o una “batela” se si era in molti e si andava al Lido o fino a S.Erasmo e non sembri cosa da poco perché a quei tempi si andava a remi. Con una bottiglia di Idrolitica o di aranciata fatta con le polverine, un sacchetto di panini e qualche spicciolo in tasca si trascorrevano belle giornate al sole e a fare i bagni in laguna. Spesso ci si limitava ad una secca sabbiosa dietro l’isola di S.Giorgio che chiamavamo “la spiaggia dei poaretti”. Qualche volta si andava anche al Lido in spiaggia e a quei tempi era quasi un lusso. Riuscire ad avere una capanna o un camerino significava alzarsi alle sei per metterti in coda alla biglietteria dove trovavi già centinaia di persone che spingevano per entrare tra i primi. Tempi belli? Altri tempi! Non c’erano gite in automobile, vacanze estive e settimane bianche né week end. Forse bei tempi perché si dice sempre così o perlomeno si crede che i tempi passati siano sempre migliori del presente e ognuno spesso ricorda il proprio passato come il tempo migliore della sua vita. Bondì Giudecca cara, Bondì Giudecca mia…!