La mia Giudecca - La Toletta Edizioni

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La mia Giudecca - La Toletta Edizioni
Gianni Perzolla
LA MIA GIUDECCA
Ricordi semplici di un’isola che non c’è più
C’era una volta una Giudecca. Una nel senso che quella di oggi non è più quella di una volta, quella
della nostra infanzia e della nostra adolescenza tra gli anni quaranta e sessanta. Raccontano le antiche
cronache che nel IX° secolo il senato Veneziano stabilì che le persone truffaldine, malavitose, false e
non rispettose in genere delle leggi, dovessero dimorare nell’isola della Giudecca così come quei nobili
che con le loro famiglie per motivi di beghe politiche avessero in qualche modo complottato contro la
Repubblica, veniva loro imposto l’esilio in alcune zone dell’isola imponendo la residenza obbligatoria e
l’allontanamento dal centro della città. Da ciò, tra le varie ipotesi, l’origine della attuale denominazione.
Isola cioè dei “Zudegai” che non avrebbe perciò alcun collegamento con la presunta presenza di
comunità ebraiche sul luogo. Al contrario, la presenza invece delle nobili famiglie ivi esiliate ha fatto si
che anche nell’isola sorgessero bei palazzi di notevole pregio architettonico prospicienti la fondamenta
sul canale omonimo. Ma dopo questo piccolo cenno storico, vorrei parlare della mia Giudecca, quella
vissuta da me e molti miei coetanei in quel tempo. La Giudecca della nostra infanzia, della nostra
adolescenza, degli amici, dei compagni di scuola, dei personaggi e degli avvenimenti che resteranno per
sempre nella nostra memoria.
I luoghi
Ancora adesso, ma molto di più dalla fine della guerra e fino agli anni ’60 e ’70, dire Giudecca
significava evocare un luogo dalla pessima reputazione. “Sei della Giudecca?” ti chiedevano con un
tono tra il malevolo e l’ironico. Era cioè come dire che solo per essere giudecchino dovevi per forza
essere un malandrino. In effetti non era proprio del tutto immotivato questo sospetto perché non
passava giorno che Il Gazzettino non riportasse qualche fatto di cronaca riferito alla Giudecca e a
qualche suo abitante. L’isola era però prevalentemente abitata da una onesta classe operaia che lavorava
duramente al Porto, nei molti cantieri che allora c’erano e nelle manifatture. L’isola era il centro
economico e industriale della città. Porto Marghera, per fortuna, doveva ancora arrivare. Una certa
tranquillità economica, dopo i lunghi e duri anni della guerra, era dovuta alla presenza nell’isola dei
Cantieri Navali C.N.O.M.V., della Junghans, della fabbrica della birra, di quella dei tappeti, della
Herion, di Lucchese, di Toffolo e del Molino Stucky e di tante piccole imprese minori. Le necessità
quotidiane in questa situazione facevano si che il posto di lavoro fosse scelta privilegiata rispetto per
esempio al continuare gli studi e infatti erano ben pochi quelli che andavano oltre la quinta elementare.
Per molti altri invece la precarietà era un modo di sopravvivere tra occasionali occupazioni e prolungate
disoccupazioni. Molte di queste occupazioni saltuarie erano molto dure. Si scaricavano “peate” di
carbone o lo si portava a spalla nelle corbe fin dentro alle abitazioni dove veniva utilizzato per gli
impianti di riscaldamento nelle case di chi l’impianto se lo poteva permettere. Altri attendevano che
arrivasse il trabaccolo dalla Jugoslavia per guadagnarsi la giornata scaricando le grosse “bore”, quei
grossi pezzi di tronchi di legno che venivano poi rivenduti in pezzi più piccoli dal carbonaio perché a
quel tempo nelle nostre case si cucinava e ci si riscaldava con le stufe a legna e carbone. Per molti, il
finale logico dopo una giornata di polvere e fatica, era l’osteria da Gigio o dalla Wilma dove spesso si
prendeva allegramente la “bala” con “un’ombra mi e una ti”. Naturalmente c’era chi la prendeva bene e
chi la prendeva male e allora erano dolori perché le baruffe e spesse volte le scazzottate tra i più violenti
erano all’ordine del giorno e noi ragazzini lì tra il divertito e lo spaurito a godere lo spettacolo. Chi non
aveva il posto sicuro né quello precario si doveva in qualche modo arrangiare. Piccoli furti, ruberie da
dilettanti in qualche negozio come quella volta che, andati a rubare in una salumeria, si sono persi
prosciutti e salami per strada. Ingenue furberie per racimolare qualche spicciolo come quella di andare
in giro per le case a raccogliere soldi per un “defunto” in realtà vivo e vegeto a casa sua! Si sa che la
necessità aguzza l’ingegno e a quei tempi le necessità erano veramente tante. Anche alla Giudecca,
seppur non in maniera evidente, esistevano poi le distinzioni sociali. Non c’erano i cosiddetti “quartieri
alti”, esisteva però chi poteva mangiare tutti i giorni e chi invece doveva spesso fare “el giro de la tola”.
Per questi ultimi c’erano per fortuna delle alternative salvifiche come la mensa per i poveri dei Frati
Cappuccini al Redentore. Nei casi più urgenti in cui anche un pezzo di pane raffermo poteva calmare i
morsi della fame, la campanella di Frate Eustacchio serviva benissimo alla bisogna. Per noi ragazzini era
un divertimento e aveva un certo fascino l’ambiente conventuale e devo dire che anche il pane che ci
dava Frate Eustacchio aveva un sapore particolare. La cosa che più mi impressionava all’ingresso del
convento era quel teschio posto in una nicchia al di sotto della quale vi era impressa una scritta che ho
imparato a memoria e non ho più scordato. “O tu mortal che guardi miri e pensi, io fui come tu sei con
alma e sensi, tu pur sarai cangiato qual son io, pensa di cuore a questo e vai con Dio”. La mia prima
lezione di filosofia che non avrei mai dimenticato. C’erano comunque anche le cosiddette zone “bene”
con case che avevano perfino il salotto e il bagno con più camere e per i fortunati perfino il giardino. Io
invidiavo particolarmente quelli col giardino poiché ho sempre amato molto i fiori e le piante. Case che
si trovavano “ai giardinetti” di Campo Marte, nel Rio della Croce, a S.Giacomo e in altre zone
prospicienti il Canale della Giudecca. Quelle che invece godevano di pessima fama si trovavano a
Campo Marte, Campalto o al Lago Scuro a S.Eufemia. Si diceva ridendo che in quei luoghi si
piantavano fagioli e ne uscivano malandrini. Una fama non sempre meritata perché in mezzo a qualche
elemento non proprio cristallino viveva brava e buona gente che lavorava e tribolava onestamente e nel
rispetto della legge. Prova ne sia che a quei tempi vigeva l’usanza nel periodo estivo di lasciare le porte
di casa aperte tutto il giorno e nessuno o quasi si sognava di approfittare della situazione. Esisteva anzi
una forte solidarietà umana e un senso di appartenenza che oggi certo non si trova più. Tra vicini ci si
aiutava anche per le piccole necessità quotidiane. Un po’ di caffè, un bicchiere di olio, lo zucchero o il
filo e l’ago per cucire. Piccoli favori che rinsaldavano amicizie e rapporti tra vicini che sapevano anche
volersi bene. I bambini venivano tenuti puliti e in ordine e sebbene non ci fosse il bagno in molte
abitazioni, il collo e le orecchie ce le facevano tenere pulite anche con il solo lavello della cucina. A un
certo punto arrivarono per fortuna le docce pubbliche alle Corti Grandi e quei venti minuti sotto
l’acqua calda ci parevano un sogno. La leggenda vuole anche che chi il bagno l’aveva ricevuto con la
nuova casa, non avendo molta dimestichezza con quell’accessorio, lo utilizzasse per depositarvi il
carbone o per mettervi le piante. Avvenne quindi che molti tolsero anche le tubature in piombo per
rivenderle al mitico Romeo Serafin, per molti una specie di benefattore in quanto acquistava tutto ciò
che si poteva utilizzare. Noi andavamo da lui con pezzi di rame o di piombo, con vecchie pentole di
alluminio che qualche volta “prelevavamo” alle legittime proprietarie che le mettevano fuori al mattino
con la spazzatura. Con stracci e bottiglie si rimediava sempre qualche soldo. Altro personaggio al quale
ci rivolgevamo per questa incombenza era uno “strasseta” che chiamavamo “Capea” che con il suo
sacco sulle spalle girava per le strade lanciando il suo grido “strasse e ossi da tucar bessi” e a lui
portavamo anche delle ossa di animale venute alla luce durante gli scavi per il nuovo sistema fognario di
Campo Marte. Si pensa che in quella zona esistesse anticamente un mattatoio e noi ragazzini lì tutto il
giorno a scavare, piccoli paleontologi sui generis, per recuperare poche lire. Con queste poche lire
andavamo dalla signora Vittoria nel suo chiosco a comperare qualche dolcetto. Attività che in seguito
passerà per molti anni alla figlia Lidia che per noi resterà per tutta l’infanzia un punto di riferimento per
le caramelle. Entravi da lei con un biglietto da dieci lire e non sapevi mai cosa comperare tante erano le
tentazioni. Molti altri personaggi rimangono poi indimenticabili. Chi non si ricorda di Ruggero del latte?
E di Gilmo del pane? E Mario Doria “el biavarol” e Oreste “el becher” e Gigio Fame dei frutti e Gigio
Baracca con la sua osteria? Senza dimenticare Rino Canestrelli il carbonaio o la Gigia delle granite. Da
Ruggero si andava con il pentolino a prendere un quarto di latte e un etto di zucchero e ci scappava
sempre qualche caramella. Da Gilmo arrivava il pane fresco dal forno e il suo profumo si spandeva in
tutta la zona. Quanto pane comune si comperava a quei tempi. Solo più tardi, con un po’ più di
benessere avremmo scoperto il pane bianco che aveva un gusto e un profumo speciale che oggi non si
ritrova più. Da Mario si andava a far la spesa con la nota. Si facevano gli acquisti e si pagava a fine mese
quando arrivavano a casa i soldi della paga. Poi, piano piano, altre attività cominciarono a fiorire anche
da noi. Il cosiddetto miracolo economico si stava facendo sentire anche alla Giudecca migliorando la
situazione lavorativa, il costume e le abitudini di vita. Era la Giudecca che pur lentamente stava
cambiando e che non sarebbe più stata la stessa.
La scuola
La scuola alla Giudecca una volta era soltanto quella alle Corti Grandi vicino alla fabbrica Junghans e si
chiamava “Duca d’Aosta”. Ricordo bene, per il poco tempo che l’ho frequentata, le fredde mattinate a
percorrere da solo tutta la fondamenta da Campo Marte fino in fondo, nel rigido inverno con i
pantaloni corti. Non c’erano cappotti e tantomeno piumotti imbottiti come hanno ora i nostri nipoti e il
freddo tagliava le gambe e i geloni sulle mani e sui piedi erano all’ordine del giorno. Per fortuna che il
mio saggio nonno Giovanni mi aveva suggerito un metodo empirico, ma efficace per rimediare: farci
sopra la pipì! Verso il 1949 o 1950 fu inaugurata la nuova scuola elementare a Campo Marte intitolata a
“Carlo Goldoni” nostro illustre concittadino e all’interno del parco della scuola, ve ne era un’altra
intitolata a “Daniele Manin” che effettuava un orario anche pomeridiano; la chiamavamo scuola
all’aperto perché si passavano molte ore, nel periodo caldo, a far lezione all’esterno delle aule. Quanti
ricordi meravigliosi in quel periodo di vita. Chi non ricorda il suo primo maestro, i compagni di classe e
perfino le aule e il proprio banco? La nostra scuola era una bellissima costruzione di fronte alla laguna,
circondata da stupendi giardini sempre ben curati e fioriti. Se ne occupava il giardiniere Riccardo al
quale mi offrivo spesso come aiutante dal momento che fin da allora il mio amore per la natura era già
forte. All’interno della scuola armature antiche con armi, lance, scudi, spade e finimenti per cavalli
abbellivano le pareti. Come non ricordare la mia prima maestra, la signora Battistella, un personaggio
degno del libro Cuore e quando mai potrò dimenticare il mitico maestro Vanzetto con il quale molti di
noi hanno trascorso almeno tre anni scolastici. Per me lui fu molto più di un semplice insegnante, fu “il
maestro” che ci insegnò ad essere leali, onesti, rispettosi e altruisti e non solo attraverso i programmi
scolastici, soprattutto grazie ai racconti di episodi della sua vita e delle sue esperienze. La sua severità
che a volte si manifestava con modi bruschi, non era mai gratuita. Era sempre motivata e comunque
temperata poi dai molti momenti sereni che ci faceva trascorrere in classe. Un altro dei maestri che
certo tutti ricordiamo con affetto era il signor Alzetta, il maestro di musica che con un vecchio
armonio, nell’ultima mezz’ora di scuola ci insegnava delle semplici e simpatiche canzoncine che ancora
oggi ricordo. Altri coetanei ricorderanno sicuramente gli altri insegnanti della scuola come la signora
Bolognesi o il maestro Bruni sulla cui statura si faceva spesso dell’ironia. D’estate, durante il
doposcuola, con il maestro Alzetta e con il giardiniere Riccardo si facevano vari lavoretti con il traforo
per costruire piccoli giocattoli, una volta arrivammo perfino a costruire un vero sandolo che poi fu
varato e dato a Riccardo per sostituire il suo vecchio cofanetto. Alla fine delle lezioni c’era il rito della
refezione. Una scodella di pasta al sugo, un formaggino ed un pezzo di pane era la razione destinata a
chi risultava più bisognoso e a quei tempi i bisognosi non mancavano. Ambiti i posti per la colonia
montana dove, non esistendo vacanza a quei tempi, tutti avrebbero voluto andare. Era un mese da
trascorrere in una località di montagna ed era per molti un sogno irraggiungibile. Allora ci si sforzava di
apparire deboli, con problemi di respirazione e altro pur di essere ammessi tra i prescelti. Un anno
toccò anche a me e trascorsi un mese a Cimagogna con molti altri compagni di scuola. Un altro luogo
dove molti di noi hanno trascorso buona parte della loro infanzia è senz’altro il Patronato del
Redentore. Credo che molti della mia generazione debbano essere grati al nostro primo parroco, padre
Gervasio. Fu infatti grazie alla sua intraprendenza che il Patronato e quanto in esso contenuto fu creato.
Per noi era un punto di riferimento con il suo campo di calcio dove d’estate nei tornei serali si andava a
tifare per la Campaltina con i nostri eroi della pedata che si chiamavano Virginio Pangalli, Erminio
Chia, Marietto Schiavini, Gastone Soldà, chiamato “Bappone”, Villici e molti altri che ora proprio non
riesco a ricordare. Oltre al campo da calcio c’erano le varie sale per la musica, per il catechismo e per
altre attività. Alla domenica c’era il film al pomeriggio in quella piccola sala dove ce ne stavamo raccolti
ed attenti in attesa dell’inizio dello spettacolo che di solito cominciava con una comica che ci faceva
sbattere mani e piedi per l’entusiasmo. Il cinema però bisognava guadagnarselo con la presenza alla
messa delle nove la domenica, alla fine della quale ci veniva consegnato uno scontrino con il quale si
poteva accedere con lo sconto. A quel tempo il costo del biglietto era di trenta lire. D’estate invece il
film veniva proiettato all’aperto ed era tutta un’altra musica. Qualche anno più tardi, sempre grazie
all’iniziativa di padre Gervasio, fu acquisito un vecchio deposito a fianco della chiesa e dopo i lavori di
adeguamento venne inaugurata la nuova sala parrocchiale utilizzata sia per gli spettacoli teatrali che per
il cinema. Finalmente la Giudecca aveva un vero cinema. Nel Patronato si trovava anche la sala prove
della corale del Redentore. Animatore convinto ed entusiasta di questa attività fu per molti anni padre
Celso che succedette nella direzione del coro a padre Mariano. Padre Celso ebbe anche l’onore di
inaugurare il nuovo organo installato in chiesa ed io che del coro facevo parte, ricordo che seguivo con
passione la costruzione del nuovo strumento. Tutte quelle canne, grandissime e piccolissime, mi
affascinavano e quando poi potemmo cantare accompagnati da tanta magnificenza non ci pareva vero.
Padre Celso fu per me e credo per molti altri più che un semplice frate. Seppe essere un amico e un
maestro. Con lui si imparava a cantare, a recitare e a fare quei piccoli spettacoli che poi si portavano in
giro a rappresentare per rallegrare infermi e sofferenti. Come premio per il nostro impegno ci portava
spesso a fare delle gite, ora a casa sua a S.Maria di Non, a volte a casa del padre Gervasio a Thiene, a
Vicenza al Monte Berico o a Trieste a S.Giusto. Di tutte queste gite conservo molte foto con gli amici
di avventura di quei tempi. Tanto era sereno e paziente padre Celso quanto era severo e a volte
decisamente duro padre Gervasio. Credo che molti di noi abbiano provato il suo “scappellotto” o il suo
cordone. Non te le mandava certo a dire. Così come certamente in molti ricordano la sua intransigenza
in fatto di politica. Non sono mancate in quegli anni le contrapposizioni a volte anche molto forti tra
diversi schieramenti. Per fortuna ora è acqua passata. Tra i molti altri frati che bisogna ricordare ci sono
senz’altro padre Ezio con il suo sorriso gentile, padre Achille e il caro padre Bellino, recentemente
scomparso. Tutti personaggi che hanno significato certamente qualcosa nella nostra vita.
I nostri giochi
Considerato che eravamo bambini nei primi anni dalla fine della guerra, spesso ci ispiravamo proprio a
questo tragico evento per i nostri giochi. Facevamo gli aerei con le braccia aperte e due grosse pietre tra
le mani che fungevano da bombe e volando intorno alle casette disegnate per terra dalle bambine
imitavamo i bombardamenti aerei. Le bambine da parte loro collaboravano gridando spaventate. A
volte si facevano dei grandi fuochi gettandovi dentro dei proiettili inesplosi che ancora si trovavano in
giro divertendoci agli scoppi senza rendersi conto del pericolo che si stava correndo. Da piccolino uno
dei giochi preferiti era una specie di caccia al tesoro che consisteva nel raccogliere in giro piccoli pezzi
di vetro colorato che poi provvedevamo a seppellire in un luogo segreto sotto terra dopo aver foderato
la buca con della stagnola. I vetri più ricercati erano naturalmente quelli di color rosso e blu a quel
tempo più rari del comunissimo verde. Di tanto in tanto si andava a verificare che nessuno avesse
rubato il nostro tesoro. Alle bambine erano destinati naturalmente i giochi più appropriati come il
campanon, il salto con la corda, la casetta con le bambole. Noi bambini, un po’ più vivaci, avevamo il
gioco dei banditi con la caccia ai cattivi con pistole di legno che facevamo noi stessi. Ci fabbricavamo
aquiloni, girandole con carte dai magnifici colori, i più grandicelli si fabbricavano dei veloci carrelli con i
cuscinetti a sfera e con questi si facevano emozionanti gare scorazzando per le strade sempre rischiando
di investire qualcuno. Gran parte della giornata si trascorreva in strada facendo i vari giochi di gruppo.
Tra ragazzi si giocava a “pani marsi, pani duri” o a “salta in banco alle tre colonne”, alle “sconte”
andandoci a infilare nelle soffitte dei vicini dove al buio totale si approfittava della vicinanza con le
ragazze. Le partite al pallone le facevamo con una palla fatta di carta e di stracci infilati in una vecchia
calza di lana. Solo più tardi a qualche fortunato fu regalata una palla di gomma e questo rese tutto
molto più piacevole, mentre ci si doveva rivolgere all’amico privilegiato al quale era stata regalata la
bicicletta per sperare che ci lasciasse fare un giretto, a volte anche a pagamento. Ai nostri giorni potrà
sembrare ridicolo desiderare un vecchio manico di scopa in legno come quelli di una volta, ma per noi
era molto ambito perché con quello facevamo delle bellissime spade e pugnali per emulare gli eroi di
cappa e spada o il mitico Zorro. Il manico di scopa era inoltre indispensabile per un altro bel gioco che
noi chiamavamo “chiba cheba” e “dago daga”. Una parte del manico era la mazza e una parte più
piccola il “pindolo” e da questo il gioco prendeva il nome. Nella buona stagione si incominciavano i
bagni in fondamenta e non aspettavamo certo i trentacinque gradi. Ci bastava una bella giornata di sole
e anche in aprile eravamo capaci di andare a fare il bagno in laguna. Spesso si andava a nuotare in quella
zona di acque non propriamente limpide che era nei pressi dello squero. Lì tra tutto quello che veniva
dagli scarichi fognari, molti di noi hanno imparato a nuotare. I corsi di perfezionamento poi si facevano
nel canale della Giudecca spingendoci fino alle boe che servivano per l’ormeggio delle navi. A Venezia
si dice ancora “va a nuar co la tola” ed in effetti era proprio questo che si faceva. Si utilizzava la tavola
per lavare la biancheria di nostra madre e la si usava come salvagente perché neanche quelli avevamo
allora. Una volta acquisita una certa perizia ci si avventurava ad attraversare la cabaletta dietro la
Giudecca e camminando sulla barena si andava fino alla Grazia o a S.Clemente. A S.Clemente ci
andavamo anche per la curiosità di vedere “i matti”, quei poveri disgraziati lì ricoverati venivano alla
cancellata sulla laguna a fare i loro strani discorsi che noi trovavamo più che altro divertenti proprio
perché incomprensibili alla nostra età. La barena era anche un ottimo terreno di pesca ed era un vero
spasso andare a “busi da go” o a “cape longhe” che poi si vendevano o si mangiavano a casa. L’estate
era una stagione meravigliosa e offriva molte più opportunità di svago e di gioco. Le giornate più
lunghe permettevano di rimanere fuori anche fino a tardi e spesso la sera con delle coperte ci si andava
a sdraiare in campo Grande sull’erba e si ascoltavano i discorsi dei grandi guardando le stelle. A pochi
passi il vecchio Gigio esponeva le rosse fette di anguria posate sulle forme di ghiaccio a 10 lire alla fetta.
Un po’ di più costava il cuore dell’anguria. Per qualcosa di ancora più fresco ci si rivolgeva alla signora
Gigia che con la sua macchinetta tritava ben bene il ghiaccio e ti preparava una bella granita o prendevi
un ottimo stick alla menta. Ci si industriava con molto poco ma ci si divertiva veramente tanto.
Facevamo appassionanti gare di ciclismo su piste disegnate per terra con il gesso e con i “cimbani”, i
tappi in ferro delle bottiglie all’interno dei quali con un dischetto di vetro e la figura del nostro
corridore preferito si rivivevano le glorie di Bartali e Coppi, di Magni e Leone. Chissà di quanti giochi
non ho più memoria certo è però che una volta vivendo molto di più in strada da mattina a sera si
cementavano amicizie e relazioni che ancora oggi per me durano. Al contrario le attività invernali erano
naturalmente più limitate ma una bella nevicata come quella del 1954, se non erro, ci offrì l’occasione
per fare un bel pupazzo di neve e una bella battaglia a palle di neve. Molti pomeriggi d’inverno li
passavamo a casa degli amici a leggere fumetti o a giocare a Monopoli, a volte a casa di uno di questi la
madre ci raccontava fatti e storie, anche antiche e tragiche, della nostra città, impressionandoci
parecchio. Per noi era una grande avventura anche entrare nell’orto di Meni per “raccogliere” qualche
frutto, e una volta lì non sapevamo cosa scegliere tra tanto ben di Dio che ci circondava! Frutta di ogni
specie, ortaggi di ogni tipo; un Paradiso dell’abbondanza. Quando invece volevamo ottenere qualcosa
onestamente, bastava presentarsi da lui con una borsa di pane vecchio per i maiali e in cambio ricevevi
un po’ di frutta o verdura. Molte domeniche d’estate le passavamo in barca in laguna. Si andava da
Zanin il “fitta barche” al Ponte Lungo o da Seno a S. Trovaso e si affittava un sandolo o una “batela”
se si era in molti e si andava al Lido o fino a S.Erasmo e non sembri cosa da poco perché a quei tempi
si andava a remi. Con una bottiglia di Idrolitica o di aranciata fatta con le polverine, un sacchetto di
panini e qualche spicciolo in tasca si trascorrevano belle giornate al sole e a fare i bagni in laguna.
Spesso ci si limitava ad una secca sabbiosa dietro l’isola di S.Giorgio che chiamavamo “la spiaggia dei
poaretti”. Qualche volta si andava anche al Lido in spiaggia e a quei tempi era quasi un lusso. Riuscire
ad avere una capanna o un camerino significava alzarsi alle sei per metterti in coda alla biglietteria dove
trovavi già centinaia di persone che spingevano per entrare tra i primi. Tempi belli? Altri tempi! Non
c’erano gite in automobile, vacanze estive e settimane bianche né week end. Forse bei tempi perché si
dice sempre così o perlomeno si crede che i tempi passati siano sempre migliori del presente e ognuno
spesso ricorda il proprio passato come il tempo migliore della sua vita.
Bondì Giudecca cara, Bondì Giudecca mia…!