Migrazione e cooperazione [file]

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Migrazione e cooperazione [file]
UNIVERSITÁ DI SASSARI
Facoltà di Scienze politiche
A.A. 2005-6
Corso di laurea specialistica in:
Editoria, comunicazione multimediale e giornalismo
Migrazione
e cooperazione
Una nuova governance locale
per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
Relatore
Studente
Prof. Rodolfo Ragionieri
Dott. Diego Deidda
MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
INDICE
INDICE
1
1
INTRODUZIONE
2
LA LIBERTÁ DI MOVIMENTO DELLE PERSONE E
L’ESPERIENZA FRANCESE
3
5
2.1
L’immigrato, lo straniero
5
2.2
Il contesto normativo nazionale
6
2.3
Il contesto normativo internazionale
10
2.4
L’integrazione alla francese
13
3
LA GLOBALIZZAZIONE CULTURALE E LA BANLIEUE
PARIGINA
18
3.1
La moltitudine popolare
18
3.2
Il predominio della diversità
19
3.3
La cultura delle cités
21
3.4
La marginalità delle cités e la violenza dei moti
24
3.5
La vita associativa
26
4
IL MULTICULTURALISMO E LA DERIVA COMUNITARISTA
Il modello canadese
28
4.1
La società culturalmente strutturata
28
4.2
La deriva comunitarista
29
4.3
La matrice americana
30
4.4
Le politiche dell’identità alla francese
31
4.5
33
IDENTITA NAZIONALI E NAZIONALITARISMI
5
La nazione
36
5.1
L’era post-nazionale
36
2
MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
5.2
5.3
La costruzione dell’identità nazionale nell’Africa post-
38
coloniale
Identità nazionale e Unione europea
40
5.4
Maggioranze e minoranze culturali
42
5.5
Una riscrittura dinamica della storia
44
5.6
Verso una nuova politica dell’identità
46
5.7
47
SOLUZIONI LOCALI PER UNA SFIDA GOBALE
6
Equilibrio demografico e integrazione
49
6.1
Un duplice problema di governance
49
6.2
Il gap politico e l’importanza di una buona gestione
51
6.3
delle competenze
Un problema di coordinazione
51
6.4
Un’informazione efficace e esaustiva
53
6.5
Targeting
57
6.6
Accrescere la flessibilità delle politiche di mainstream
58
6.7
I partenariati
59
6.8
UNA POLITICA DEL DIVENIRE
60
7
CONCLUSIONE
64
8
68
BIBLIOGRAFIA
69
3
MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
1.
Introduzione
La società attuale si caratterizza per una crescente mobilità internazionale del
capitale e del mercato del lavoro. Un luogo, un quartiere, una città si definiscono
sempre più come delle tappe, dei punti nodali, che l’individuo percorre nel corso
della sua esistenza. Alla statica problematica dell’origine e dell’appartenenza, si
sostituisce quella dinamica del divenire, degli investimenti esistenziali inscritti lungo
i nodi spazio-temporali dell’esperienza. All’immaginario di una determinata
comunità, un’epoca, una cultura, si sostituiscono gli immaginari prodotti da percorsi
intercomunitari e interculturali. Oggi, il paesaggio migratorio mondiale presenta un
crescente numero di mobilità pendolari, di migrazioni stagionali, di brevi e frequenti
soggiorni, di vai-e-vieni tra il paese ospite e il paese d’origine, di luoghi di transito.
Tuttavia, sul piano giuridico internazionale, siamo in presenza di restrizioni
all’accesso nel territorio nazionale che costituiscono la più notevole eccezione al
liberalismo. Mentre la Dichiarazione dei diritti umani del 1948 sostiene che emigrare
sia un diritto inalienabile dell’individuo, immigrare resta un fatto discrezionale,
dipendente dalle scelte di ogni singolo stato: il diritto alla migrazione costituisce un
diritto asimmetrico.
Nell’ambito dei paesi dell’OCSE, i migranti del lungo periodo sono pressoché
tre milioni l’anno, e come il capitale, che va alla ricerca di opportunità di profitto
attraverso il globo, i lavoratori sono interessati a quei luoghi dove possono accrescere
i loro standard di vita. La Francia è da secoli un paese di immigrazione e il paese
europeo con la maggiore presenza di immigrati: l’apparato normativo e il modello di
integrazione francese forniscono, dunque, importanti spunti di riflessione e analisi per
un approccio efficace allo studio del fenomeno migratorio. La questione
dell’immigrazione è una questione che riguarda il futuro di tutti i paesi sviluppati:
considerato l’invecchiamento della popolazione, la sua crescita naturale, in molti
paesi dell’OCSE, sarebbe troppo lenta per assicurare, in un prevedibile futuro, gli
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
standard di vita attuali. In molti paesi, un certo numero di settori dell’economia sta
già risentendo dell’assenza di lavoro e competenze che li sono utili per andare
incontro alla domanda. La libertà di circolazione degli individui potrebbe
incoraggiare il rinnovo delle società e dell’economia, stimolare l’innovazione e
portare nuove idee. Come risultato, i paesi e le organizzazioni potrebbero competere
nell’assunzione dei lavoratori su scala globale.
A porre freno a una reale apertura delle frontiere sono soprattutto le politiche che
mirano all’istituzionalizzazione delle differenze culturali, siano esse culture nazionali
o minoritarie. L’identificazione spirituale di territorio e cultura ha dato origine alle
nazioni moderne e ha avuto il merito di creare la coesione al loro interno, ma oggi,
questa identificazione rischia di frammentare la popolazione e minacciare la stessa
coesione sociale. Un cambiamento decisivo ha accompagnato le società dei paesi
sviluppati nel passaggio all’era postindustriale: gli individui non si riconoscono più
nella divisione in classi della società, ma nella sfumata divisione sulla base di criteri
culturali.
Il passaggio dall’immigrazione all’integrazione degli immigrati deve essere, in
ultima analisi, inserito nel quadro delle attività di governance locale, legittimate dalla
politica centrale e orientate alla cooperazione tra gli attori coinvolti, per lo sviluppo
economico e sociale della società.
5
MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
2.
La libertà di movimento delle persone e l’esperienza
francese
2.1 L’immigrato, lo straniero
È «immigrato» e «straniero» colui che, nato all’estero da genitori stranieri,
risiede nel territorio francese. Certi immigrati diventano «francesi»
in seguito
all’acquisizione della nazionalità, gli altri conservano lo statuto di straniero. L’Institut
national de la statistique et des études économiques (INSEE) sottolinea che “Ciascun
immigrato non è necessariamente straniero, e viceversa”. Infatti, la qualità di
immigrato è permanente: un individuo che diviene francese per acquisizione continua
ad appartenere al gruppo dei cittadini immigrati. Inoltre, lo status di immigrato è
ereditario in quanto si distinguono gli immigrati di prima, seconda e terza
generazione; i figli degli immigrati possono scegliere di mantenere lo statuto di
straniero se decidono di conservare la nazionalità del paese d’origine dei genitori.
Esistono diverse categorie di immigrati, a cui corrispondono diversi diritti (o
l’assenza di diritti): i clandestini sono coloro che risiedono illegalmente in un paese e,
essendo privi di documenti, non sono identificabili; gli irregolari sono coloro che
risiedono illegalmente ma sono identificabili per dati anagrafici e nazionalità; i
regolari risiedono legalmente me temporaneamente in un paese di cui non possiedono
la nazionalità; i regolari stabilizzati sono coloro che hanno un permesso di soggiorno
permanente o di lungo periodo; infine i naturalizzati, coloro che hanno ottenuto la
nazionalità del paese in cui vivono. Tra i non-nazionali (stranieri) e i nazionali, esiste
un terzo gruppo, quello dei denizen, cioè quegli abitanti che pur risiedendo
permanentemente in un paese, e in molti casi pur essendovi nati, non godono della
cittadinanza e dei diritti politici.
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Come si diviene francesi? Esistono quattro principali vie: la filiazione, la nascita
nel territorio nazionale, il matrimonio e la naturalizzazione per decreto.
1. È francese dalla nascita il cittadino, nato in Francia o all’estero, con almeno un
genitore francese.
2. I cittadini nati in Francia da genitori stranieri acquistano la nazionalità a 18
anni, a condizione che dimostrino di essere stati residenti per un periodo di
almeno cinque anni dal compimento degli 11 anni d’età.
3. Per mezzo del matrimonio con un(a) francese, la(il) congiunta(o) straniera(o)
può acquisire la nazionalità quattro anni dopo un periodo ininterrotto di
convivenza e a condizione che la coppia sia stata residente in Francia (se la
coppia ha risieduto all’estero, la nazionalità si ottiene dopo il quinto anno).
4. Chiunque abbia raggiunto la maggiore età, può chiedere di essere naturalizzato
dopo cinque anni di residenza in Francia: ogni richiesta dà luogo a una
decisione dell’autorità pubblica per decreto.
2.2 Il contesto normativo nazionale
La Francia è considerata storicamente un paese di immigrazione. Già nel
Medioevo, come in epoca moderna, la Francia accoglieva popolazioni di diversa
provenienza. Il fenomeno cresce soprattutto alla fine del XIX secolo, con la
Rivoluzione industriale. Negli anni 1860-70, l’assenza di manodopera che interessava
l’agricoltura e l’industria, provoca una prima grande ondata immigratoria che
prosegue fino al 1910. Negli anni Venti la Francia diviene il secondo paese
d’immigrazione al mondo dopo gli Stati Uniti. A partire dal 1945, al fine di colmare
l’insufficienza di manodopera a cui va incontro un’economia in piena crescita e la
perdita di vite umane provocata dalle due guerre, lo Stato incoraggia ufficialmente
l’immigrazione. Negli anni Sessanta, il processo di decolonizzazione alimenta
ulteriormente questa nuova ondata. Nel luglio del 1974, in seguito allo choc
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petrolifero e al rallentamento della crescita economica, il governo francese annuncia
l’arresto ufficiale dell’immigrazione, salvo i diritti d’asilo e di raggruppamento
familiare.
Seppure non s’intenda affrontare in questa sede un’analisi dettagliata della
politica migratoria francese degli ultimi secoli, ritengo che un escursus delle tappe
principali della produzione delle norme che hanno interessato gli immigrati in Francia
possa aiutare il lettore a contestualizzare meglio il dibattito attuale in materia di
immigrazione. Storicamente, il diritto francese ha sempre combinato, in misura
variabile nelle diverse epoche, «droit du sol» e «droit du sang». Il primo autorizza lo
straniero nato sul territorio francese a acquisirne la nazionalità. Il secondo si trasmette
per filiazione. Se il droit du sol è prevalso nel Medio Evo e sotto l’Ancien Régime, la
Rivoluzione attribuisce un uguale riconoscimento al droit du sol e al droit du sang.
Nel 1804, il codice civile consacra il droit du sang: i giuristi vedono nel droit du sang
un diritto della persona, un diritto moderno, in rottura con la tradizione monarchica
che vincolava al re i soggetti presenti sul territorio. Nel 1889, sullo sfondo di
un’immigrazione crescente, la Francia ristabilisce il droit du sol attraverso una legge
che accorpa tutti gli individui stranieri nati in Francia alla comunità nazionale,
permettendo loro di divenire francesi dopo il conseguimento della maggiore età.
Questa scelta è dovuta al bisogno di manodopera nell’industria e nell’esercito, e alla
preoccupazione di veder costituirsi nel territorio nazionale, comunità di stranieri
chiuse in sé stesse e suscettibili di minacciare l’unità del paese.
Nel 1945, vengono disciplinate per la prima volta le condizioni di accesso e
soggiorno degli stranieri nel territorio nazionale. Nel 1960, viene instaurata la
regolarizzazione
dei
raggruppamenti
familiari.
Nel
1974,
viene
sospesa
l’immigrazione dei lavoratori non qualificati. Nel 1976, la procedura di
raggruppamento familiare viene vincolata a un’inchiesta sulle condizioni di alloggio.
Nel 1980, con la legge Bonnet, l’ingresso e il soggiorno irregolari nel territorio
nazionale diventano motivo di espulsione degli immigrati. Nel 1981, il governo
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Mauroy sospende le espulsioni in corso e decide di regolarizzare gli stranieri in
condizione irregolare entrati in Francia prima del 1° gennaio 1981 e in possesso di un
contratto di lavoro. Nel 1983, gli stranieri in situazione irregolare vengono deferiti
davanti al tribunale secondo una procedura d’urgenza e condotti immediatamente alla
frontiera. Una legge del 1984 sancisce l’installazione duratura dell’immigrato
attraverso l’istituzione della carta di residente, valida per dieci anni e rinnovabile. La
prima legge Pasqua del 1986 semplifica le procedure di espulsione degli irregolari.
Nel 1989, la legge Joxe instaura il ricorso giuridico contro l’espulsione. Nel 1993, la
seconda legge Pasqua sulla «maîtrise de l’immigration» impone i primi limiti al
diritto d’asilo e alle condizioni della regolarizzazione. Nel 1997, i sans-papier
incorrono in un ulteriore restringimento delle regolarizzazioni. Tra il 1997 e il 1998,
il ministro dell’Interno Jean-Pierre Chevènement regolarizza i sans-papier che sono
in grado di dimostrare un certo livello di integrazione nella società francese:
congiunti di francesi o stranieri in situazione regolare, stranieri sottoposti a
trattamenti medici rilevanti, studenti. Nel 1998, la legge Chevènement crea la carta
«vie privé et familiale», valida per un anno, che viene rilasciata alle persone che
attestano qualche legame personale o familiare, e alle persone sottoposte a cure
particolari.
Nel 2003, la prima legge Sarkozy rinforza la lotta contro l’immigrazione
clandestina: visti biometrici, un aumento del numero di posti nel centro di
permanenza amministrativa, durata massima della permanenza di trentadue giorni,
etc. Sempre nel 2003, la legge Villepin sopprime l’asilo territoriale in favore di una
«protection subsidiaire» e definisce una lista dei «pays sûrs», i cui cittadini non
possono beneficiare del diritto d’asilo.
La seconda legge Sarkozy sull’immigrazione del 24 luglio 2006, ha per scopo
quello di promuovere una «immigration choisie» in sostituzione di una «immigration
subie», ossia di favorire un’immigrazione professionale di stranieri qualificati e utili
all’economia francese. Una tale politica può essere portata avanti solo attraverso un
sistema di «quote»: la legge impone il principio degli «objectifs quantitatifs
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pluriannuels» dei visti e dei permessi di soggiorno. Tutti gli anni, il governo deve
indicare “a titolo preventivo, il numero, la natura e le differenti categorie di visti e di
permessi di soggiorno” per i tre anni seguenti, “distinguendo in particolare
l’ammissione al soggiorno per ragioni di lavoro, di studio e familiari” e “tenendo
conto della situazione demografica della Francia, delle sue prospettive di crescita, dei
bisogni del mercato del lavoro e delle capacità di accoglienza” in materia di alloggio,
educazione e servizi pubblici.
Al fine di promuovere una «immigration choisie», la legge inquadra in
particolare l’immigrazione del lavoro. Vengono istituiti differenti titoli di soggiorno
temporaneo destinati ai lavoratori stranieri, in funzione della durata del loro contratto
di lavoro: i titolari di un contratto di almeno un anno beneficiano di una carta di
«travailleur temporaire»; ai beneficiari di un contratto della durata pari o superiore ai
dodici mesi viene rilasciata una carta «salarié». Inoltre, viene creata una nuova carta
di soggiorno detta «compétences et talents», che viene rilasciata allo straniero
“suscettibile di partecipare, grazie alle sue capacità e al suo talento, in maniera
significativa e durevole, allo sviluppo dell’economia francese o all’influenza della
Francia nel mondo, o allo sviluppo del suo paese”. La legge crea inoltre una «carte
spéciale» che viene rilasciata agli studenti più meritevoli, “in cambio dell’obbligo di
rientrare nel paese d’origine, al fine di apportare al loro paese una parte del beneficio
della loro formazione”.
Al fine di lottare contro una «immigration subie», questa legge inasprisce le
condizioni per il raggruppamento familiare, inquadra in maniera più severa i
matrimoni misti e abroga il dispositivo di regolarizzazione automatica dopo i dieci
anni di residenza in Francia.
2.3 Il contesto normativo internazionale
10
MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
Sul piano giuridico internazionale siamo in presenza di una grande
contraddizione: il diritto a emigrare è un diritto asimmetrico. La Dichiarazione dei
diritti umani del 1948, art. 13, secondo comma, recita: «Ogni individuo ha diritto di
lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese». Se ogni
individuo è libero di lasciare il proprio paese, ciò presuppone, per converso, che
debba essere libero di entrare in un altro. In realtà, se emigrare è un diritto
inalienabile, immigrare resta un fatto discrezionale, dipendente dalle scelte di ogni
singolo stato. Come sostiene l’Osservatorio Internazionale delle Migrazioni (OIM),
“in assenza di un «ordine internazionale della migrazione» diventa improbabile
riuscire a conciliare il principio di sovranità nazionale con quello della protezione dei
diritti dei migranti”. La ragione di tale asimmetria risiede probabilmente nel fatto che
il riconoscimento da parte degli stati del «diritto di immigrare» metterebbe in
discussione lo stesso fondamento antropologico dello Stato-nazione: l’appartenenza,
che traccia la distinzione costituzionale tra cittadino e straniero. È, dunque, evidente
che affermare dei principi e al contempo rifiutare di farsi carico delle loro
conseguenze, crea una disfunzione. È indubbio, inoltre, che la politica debba
prospettare soluzioni che siano in linea con i principi etici del quadro istituzionale di
riferimento (Schmidt).
Sinora, le politiche dei singoli Stati membri e della stessa Unione europea, si
sono concentrate sul modo di rendere più efficienti le misure di controllo e di
armonizzare le politiche di stop dei vari paesi. Nel corso degli anni Ottanta, si apre in
Europa un dibattito sul significato della nozione di «libera circolazione delle
persone». Per alcuni Stati membri, essa andrebbe applicata ai soli cittadini europei e
andrebbero conservati i controlli alle frontiere per distinguere questi ultimi dai
cittadini provenienti da paesi terzi. Viceversa, altri Stati membri chiedono la
soppressione dei controlli alle frontiere e la libera circolazione per chiunque. Di
fronte all’impossibilità di trovare un accordo in seno alla Comunità europea, la
Francia, la Germania, il Belgio, il Lussemburgo e l’Olanda, decidono nel 1985 di
11
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creare uno spazio senza frontiere che comprenda i loro territori nazionali, lo spazio
Schengen. In seguito al Trattato di Amsterdam del 1997, che estende questa
cooperazione internazionale a tredici paesi, le decisioni prese nel 1985 dai membri
dello spazio Schengen vengono adottate in seno all’Unione europea il 1° maggio
1999. Al fine di conciliare libertà e sicurezza, vengono coordinati i servizi di polizia,
di dogana e di giustizia, e vengono adottate delle misure necessarie per combattere in
particolare il terrorismo e la criminalità organizzata. Viene infine adottato il Sistema
d’Informazione Schengen (SIS) che permette agli Stati membri di condividere e
scambiare i dati inerenti all’identità delle persone e alla descrizione degli oggetti
ricercati.
Nel 1999, il summit a Tampere segna una tappa decisiva del processo di
armonizzazione della politica migratoria europea e il primo importante segnale arriva
nel 2004, in occasione dell’allargamento a Est dell’UE: i venticinque Stati membri
decidono di votare a maggioranza, e non più all’unanimità, le proposte in materia di
immigrazione illegale e controllo delle frontiere. Inoltre, vengono adottate alcune
direttive concernenti il raggruppamento familiare, lo statuto di residenti di lunga
durata e l’apertura agli studenti e ai ricercatori. Tuttavia, questi testi non vanno molto
al di là dell’enunciazione di prescrizioni minime, lasciando ai governi nazionali un
margine di manovra ancora piuttosto ampio.
Il punto cruciale, che interessa particolarmente questa analisi del fenomeno
migratorio, è che se oggi gli Stati membri sono disposti a trovare un punto in comune
per quanto riguarda l’immigrazione clandestina, essi rifiutano di concedere a
Bruxelles la benché minima prerogativa in materia di immigrazione legale o
economica, dominio sempre sottoposto al voto ad unanimità, per il timore di
destabilizzare il mercato di lavoro interno ai singoli paesi.
La Commissione europea spinge per un’immigrazione controllata e concertata,
ma i governi non intendono agire in questo senso. In un Libro verde pubblicato nel
gennaio del 2005, la Commissione richiama all’attenzione il processo di
invecchiamento della popolazione europea legato alle attuali restrizioni all’ingresso
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
degli stranieri. Essa sostiene che tra il 2010 e il 2030, si andrà incontro a un calo della
popolazione attiva dell’ordine di 20 milioni: «Ci sarà bisogno di un incremento del
flusso immigratorio per soddisfare i bisogni del mercato del lavoro in Europa».
Anche l’OCSE, nel documento From Immigration To Integration pubblicato nel
2006, sostiene che l’immigrazione possa offrire una risposta decisiva al processo di
invecchiamento della popolazione. Il basso tasso di natalità in molti paesi dell’OCSE
non permette di assicurare gli standard di vita attuali in un prevedibile futuro. Un
certo numero di settori dell’economia sta già risentendo dell’assenza di lavoro e
competenze che sono utili per andare incontro alla domanda. L’immigrazione
incoraggia il rinnovo delle società e dell’economia, stimola l’innovazione e porta
nuove idee. Come risultato, i paesi, le regioni e le organizzazioni potrebbero
competere nell’assunzione dei lavoratori su scala globale. A tal proposito, Bruxelles
si impegna ad emanare, da qui al 2009, quattro direttive relative alle condizioni
d’ingresso e di soggiorno dei lavoratori altamente qualificati, dei lavoratori
stagionali, del personale trasferibile nell’ambito di un’impresa e degli stagisti
remunerati.
Tuttavia, finché le questioni di immigrazione legale continueranno a dipendere
dalla regola dell’unanimità in seno all’Unione europea, è improbabile che si abbia un
rapido riscontro. La questione della circolazione delle persone non può ridursi alla
sola dimensione della sicurezza: la politica delle migrazioni deve passare piuttosto
per una politica dello sviluppo.
2.4 L’integrazione alla francese
Il termine «integrazione» si riferisce a quell’insieme di interazioni sociali che
formano il sentimento di identificazione dell’individuo nei confronti di una data
società e grazie al quale si preserva la stessa coesione sociale. Il lavoro di
integrazione per mezzo delle istituzioni create dagli uomini e dalle donne di una
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
società, concerne in particolare gli immigrati. Il termine «integrazione«» denota una
forte valenza politica, oltre che sociale.
Con la fine della decolonizzazione il termine di «assimilazione» diventa
illegittimo, sulla base di un comune accordo della destra e della sinistra, seppure
sostenessero due ragioni differenti: la destra considerava impossibile riuscire ad
assimilare alla società francese la popolazione araba e musulmana, e la sinistra
considerava semplicemente illegittimo agire in questo senso. In realtà, in tutte le
società sono esistite, e esisteranno, delle politiche di assimilazione, cioè delle
politiche che tendono a uniformare alla cultura, le usanze e le credenze locali, e delle
politiche che, al contrario, mirano alla conservazione delle differenze culturali. Per
esempio, gli Stati Uniti sono passati da una politica di assimilazione a una politica
multiculturale, ma esistono dei sistemi di assimilazione anche nella società americana
odierna, basti pensare all’inno nazionale che da il via ai match sportivi. È soprattutto
la scuola che gioca ancora oggi, come negli anni trenta, un ruolo di assimilazione alla
cultura nazionale, specialmente da quando esiste l’obbligo fino all’età dei 16 anni.
Fino agli anni Ottanta, destra e sinistra francesi convergono inoltre nel sostenere
che gli individui e i gruppi sociali possono rivendicare il cosiddetto «diritto della
differenza»: si tratta del diritto a conservare la cultura d’origine. È la politica portata
avanti negli anni 1974-77 che promuove l’insegnamento nelle scuole della lingua
d’origine ai figli degli immigrati, e inserisce i luoghi di culto all’interno delle
fabbriche. Successivamente, si assiste a una strumentalizzazione del diritto della
differenza da parte dell’estrema destra, il Fronte Nazionale, che si afferma proprio
negli anni Ottanta: “Noi reclamiamo il diritto dei francesi di sentirsi diversi dagli
immigrati”. A questo punto bisogna cambiare termine, e si sceglie di adottare quello
di «integrazione» che permette di unire tutti i democratici e impedisce al Fronte
nazionale di sminuirne o ribaltarne addirittura il significato.
È con la legge del 1984, che trova d’accordo la destra e la sinistra, che
l’integrazione viene declamata con entusiasmo dall’insieme delle forze democratiche.
Oggi, il termine non è più così accettato, soprattutto quando lo si evoca in riferimento
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
ai figli degli immigrati che, alla politica di integrazione che viene rivolta loro,
rispondono: “Io sono francese, e sono integrato”, oppure “Ho gli stessi documenti di
un francese, perché non devo essere considerato come un vero francese?”. Forse, il
problema non è il concetto di integrazione, ma piuttosto la condizione di immigrato
che ha assunto un carattere ereditario, specialmente quando si pretende di distinguere
gli immigrati di seconda o terza generazione dai francesi d’origine. Tra il 1977 e il
2002 in Francia, cioè dal momento in cui sono state interrotte le politiche di
accoglienza e di alfabetizzazione, si ha l’arrivo di circa 2 milioni di immigrati che
non beneficiano di tali politiche di inserimento e per i quali si pone il problema
dell’integrazione: si assiste a un aggravarsi della condizione degli stranieri.
Il diritto al soggiorno è l’elemento essenziale in una politica che guarda
all’avvenire di un paese. Nel 1945, il direttore di Gabinetto del Ministro dell’Interno,
in vista della nuova disciplina per l’ingresso e il soggiorno degli stranieri, viene
sollecitato da un’importante considerazione: se lo straniero ha l’intenzione di inserirsi
nella società francese deve essere messo nelle condizioni di poter confidare in uno
statuto stabile. Ancora oggi, gli uomini politici non si rendono conto dell’importanza
di questa scelta: sentendosi accolti, gli individui investono maggiormente le proprie
risorse nella società del paese di accoglienza.
Nel 1984, per esempio, la questione dello statuto riservato agli immigrati
algerini è fatto oggetto di una lunga battaglia politica poiché la condizione
dell’immigrato era indebolita dalla politica dello stesso paese d’origine. L’Algeria
fino al 1984, non accettava che i suoi cittadini si installassero definitivamente in
Francia: un discorso del «ritorno» che soddisfava una buona parte dei responsabili
politici francesi. Cosa accade concretamente? La condizione di vita degli algerini che
abitavano nelle bidonville della banlieue parigina non veniva considerato un
problema di integrazione o assimilazione da parte del governo francese, per due
ragioni: il loro destino non era in Francia, e vivere dentro alle bidonville, avrebbe
permesso loro di fare economia più facilmente e di inviare i propri risparmi ai parenti
in Algeria. Oggi, diversamente, la maggioranza degli immigrati ha una carta di
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
soggiorno valida per dieci anni e rinnovabile e inoltre, in materia di nazionalità, gli
algerini sono tutelati da una Convenzione internazionale siglata dagli Accordi di
Vienna che rafforza il loro statuto rispetto a quello degli altri immigrati.
Gli immigrati sono i più colpiti dalla disoccupazione. Negli anni 70 c’è stata una
forte ondata di licenziamenti. Gli immigrati che non sono andati incontro a una
politica di accoglienza e di alfabetizzazione sono i più colpiti. Tra le due guerre,
l’alloggio era garantito dalle imprese private: i lavoratori arrivavano dall’estero per
lavorare in miniera o nella grande industria. Dopo la Seconda guerra mondiale, la
neonata organizzazione dell’OMI sopprime l’impresa patronale di reclutamento e
l’autonomia del patronato nel fornire l’alloggio ai salariati immigrati. Alla fine degli
anni 60, l’alloggio diventa un motivo di mobilitazione poiché i lavoratori immigrati,
principalmente musulmani algerini, come abbiamo appena ricordato, sono emarginati
nelle grandi bidonville che nascono attorno alla metropoli parigina. I rappresentanti
politici optano per un sistema di quote, secondo il quale il 10% degli alloggi da
destinare ai salariati sarebbe dovuto essere destinato ai salariati immigrati. Il sistema
delle quote non fa altro che escludere e ghettizzare una certa parte della popolazione.
Il paradosso sta nel fatto che si tende a regolamentare i diritti degli immigrati
senza una vera intenzione di includere a pieno nella società quelli che sono, o
vorrebbero diventare, nostri compatrioti. Si percepisce la stessa contraddizione in
materia di lotta alle discriminazioni. I giovani delle ultime generazioni provenienti da
famiglie di immigrati, rifiutano il concetto di integrazione poiché considerano che il
problema risieda piuttosto nelle discriminazioni all’accesso nel mercato del lavoro e
all’alloggio. Nel 1996, queste problematiche vengono evocate in un rapporto del
consiglio di stato; nel 1998, l’Alto consiglio per l’integrazione chiede l’istituzione di
un’alta autorità per la lotta contro le discriminazioni. Questa alta autorità viene
istituita a partire dal 1° gennaio 2005: la HALDE, l’Alta autorità di lotta contro le
discriminazioni e per l’uguaglianza. È probabile, tuttavia, che «sorvegliare» non sia
ancora sufficiente e che, andare più a fondo nell’analisi e nell’acquisizione di una
politica che accetti la diversità all’interno delle nostre società, significhi soprattutto
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educare la popolazione per mezzo di un nuovo apparato normativo che riconosca la
libertà di movimento delle persone, alla luce di un superamento del concetto di
origine e appartenenza nazionalitaria come requisito d’accesso ai diritti e i doveri del
cittadino.
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
3.
La globalizzazione culturale e la banlieue parigina
3.1 La moltitudine popolare
La tradizione filosofica del Settecento è riuscita a imporre, nel corso degli ultimi
secoli, l’idea di un attore sociale singolare e omogeneo: il popolo, la nazione. I
filosofi illuministi hanno sostituito la rappresentazione monarchica e religiosa della
sovranità con la nuova figura del «popolo sovrano». La vivacità delle tensioni
prodotte dalle organizzazioni industriali ha reso unita e solidale la così detta «classe
operaia» della nascente società moderna. La rappresentazione sociale e politica del
popolo-classe si è imposta nei costumi, nelle istituzioni e negli animi. Ma il
rinnovamento demografico, che ha interessato i paesi sviluppati con l’ingresso
crescente di lavoratori provenienti dall’estero, la globalizzazione dell’economia,
l’indebolimento delle ideologie, hanno messo in discussione il modello del popoloclasse.
Nel corso dell’era industriale, l’idea di una strutturazione culturale dei rapporti
sociali, nei paesi del mondo occidentale, non poteva che essere secondaria e
accessoria rispetto a quella di una strutturazione in base ai rapporti di produzione. Un
cambiamento decisivo accompagna il passaggio all’era postindustriale sistemando la
cultura al centro di questioni la cui portata politica diviene considerevole. La cultura,
nazionale o religiosa, cessa di apportare un principio indiscutibile di unità nelle
società attraversate da conflitti socio-economici; la cultura viene vissuta sempre più
come un principio di divisione e conflittualità in seno al corpo sociale nazionale.
Parigi e la sua banlieue rappresentano una delle più chiare eccezioni al modello
che intende ridurre la classe dei lavoratori a un corpo sociale omogeneo ed unitario al
suo interno. Il popolo odierno è innanzitutto una «moltitudine». La moltitudine
popolare tende a sostituirsi all’immagine di una classe capace di parlare con una sola
voce e di agire secondo un’azione comune. Nella banlieue si incontra una grande
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varietà di visi, linguaggi, costumi e comportamenti. Si può supporre che queste
varietà apparenti nascondano altrettante varietà concernenti il pensiero, la percezione
del mondo, poiché la diversità non può limitarsi esclusivamente ai tratti somatici o
alle origini culturali.
Nei primi decenni del XX secolo, la popolazione francese conta meno del 10%
di stranieri. Italiani e polacchi si integrano gradualmente nella società e si fondono
con i francesi «de souche», di ceppo, o per restare nella metafora botanica, di
radicamento profondo, la categoria in apparenza più omogenea e indubbiamente più
numerosa. Spagnoli, algerini e portoghesi sono ormai installati nel territorio francese
da tre o quattro generazioni. Altri africani del Nord e del Centro-Sud si sono aggiunti
quando lo Stato francese ha avuto maggior bisogno di manodopera. E oggi, i flussi
migratori tendono a slegarsi progressivamente dalle spinte della decolonizzazione per
aggiungere una nuova varietà di “visi e colori” allo spettro già fortemente variegato
delle cités (i comuni della banlieue): colombiani, srilankesi, serbi, turchi, iracheni etc.
Le classi della scuola primaria e secondaria nella banlieue sono delle Babeli, in cui si
parlano svariate lingue del pianeta, veicolo di altrettanti modi di pensare, vedere e
decifrare il mondo concreto e la stessa società francese.
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
3.2 Il predominio della diversità
Ogni cité della banlieue è abitata da una popolazione che mescola culture
diverse. Sono frequenti i paradossi, i dibattiti e le dispute al loro interno, ma sono
soprattutto le rivalità tra le cités a denotare il senso di appartenenza al gruppo che
prescinde dalla provenienza o dalla cultura di origine. Dall’ampia diversità della
composizione, dei costumi e delle pratiche delle cités, risulta una notevole elasticità e
plasticità del fascio identitario e dell’immaginario degli abitanti.
Se situiamo questa diversità nel contesto della strutturazione del discorso
politico dominante, riscontriamo un monolitismo benpensante di cui l’espressione
americana «politically correct» o quella francese di «pensée unique» non fanno che
riprendere
i
vecchi
temi
del
totalitarismo
intellettuale
e
dell’«uomo
unidimensionale»: gran parte degli attori politici che intendono parlare in nome della
diversità contribuiscono alla logica totalitaria della «pensée unique» e del
fondamentalismo. Articolata sulla diversità culturale delle cités della banlieue e con
la complicità degli attori del sistema politico contemporaneo e del lobbying
elettorale, l’idea di una strutturazione della società francese in comunità organizzate e
distinte in base a criteri etnici e culturali rischia di trovare spesso un largo consenso.
Se entro un certo ambito locale o temporale, si riscontrano degli elementi identitari
corrispondenti a delle tradizioni culturali notevolmente diverse, è improbabile
pensare che l’una o l’altra di queste tradizioni possa consistere in un progetto
comune, un’omogeneità indiscussa, o un principio di coesione. Le persone e le
famiglie di origine musulmana, per esempio, presentano lo stesso margine di diversità
nell’attaccamento alla religione e alla cultura islamica dei francesi «de souche»
rispetto alla religione cattolica.
Rispetto alle pratiche e alle idee in corso nelle cités, non esiste niente che possa
essere definito una comunità nord-africana, una comunità ebrea omogenea e solidale,
una comunità musulmana, una comunità indiana etc. All’interno di ciascuno di questi
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
insiemi virtuali, legati dall’appartenenza notevolmente asimmetrica rispetto a una
medesima origine culturale, è ancora la diversità a dominare.
3.3 La cultura delle cités
Se si osservano le forme culturali e si tenta di costruire un legame tra le
differenti creazioni artistiche delle cités, prevale una sensazione di «dislocazione»,
che caratterizza le principali attività. Il rap è una musica il cui ritmo dislocato poggia
sulla tradizione del free jazz degli anni Settanta; il tag è un’arte pittorica che disloca
le lettere di un testo e che fa emergere l’identità e la singolarità dell’autore; lo smurf è
una coreografia che disloca il corpo del danzatore secondo dei tempi sincopati; e il
termine stesso di breakdance rende esplicita la dislocazione stessa. La dislocazione è
una caratteristica evidente delle arti delle cités ma compare già come attributo della
modernità artistica del primo Novecento: è un tratto formale che caratterizza il
surrealismo nella scrittura, il cubismo nella pittura, la musica di Stockhausen e
Schonberg. La dislocazione che esprimono gli artisti delle cités può essere
interpretata come l’espressione di una violenza che essi constatano in un mondo esso
stesso dislocato. Fa parte dello stesso registro della proclamazione del Manifesto del
surrealismo secondo il quale «la bellezza sarà convulsiva o non sarà affatto».
Inoltre, l’arte delle cités è un’arte dell’immediato, dell’«effimero». Nel cuore di
un’epoca ossessionata dalla propria memoria e dalla preoccupazione di sopravvivere
accumulando e classificando per la posterità le proprie tracce di vissuto, di storia e
cultura nzionale, le arti delle cités sono perfettamente volatili. Le immagini dei
graffiti e dei tag, realizzate di nascosto su dei muri che verranno rimbiancati dopo
qualche giorno. Le elaborate coreografie della brakdance e dello smurf che vengono
offerte al passante nel corso della sua deambulazione. Fugaci, le arti popolari
scivolano così in un anonimato che entra in netto contrasto con la frenesia narcisistica
indotta dalle arti contemporanee costrette alla personalizzazione mediatica dal
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mercato che le sovvenziona. Il tag è una firma, ma una firma camuffata: indica un
nome d’artista che non rivelerà mai la sua vera identità. Lo stesso vale per i cantoripoeti del rap: molti abitanti delle cités ignorano il vero nome di coloro che hanno
conquistato la fama, ma non hanno accettato il compromesso con il business.
In tutte le attività artistiche enunciate, ritroviamo la trasgressione come una
regola dell’arte. Una trasgressione rivolta in particolare alla nozione di «opera» nella
sua accezione moderna, durevole, nominabile, classificabile e presentabile, che viene
ribaltata nella dimensione dell’effimero, e talvolta della derisione tipicamente
dadaista.
Anche il discorso sulla lingua manifesta il contrasto tra la prospettiva di un
francese accademico e ufficiale, e la prospettiva di un francese fluido e creativo tipico
del linguaggio delle cités. Il mito della francofonia come patria, e della lingua
francese come luogo di accoglienza, non sono estinti. Il francese, lingua veicolare, è
una sorta di denominatore comune delle relazioni tra le genti di differente estrazione
culturale, e che il bisogno di chiarezza impone all’interno degli ambiti più pratici
della vita quotidiana. È la lingua del commercio, degli incontri e delle relazioni con i
rappresentanti delle istituzioni. È una lingua di integrazione: si cerca ovunque di
imitarne gli accenti, di francesizzare il tono della voce e di emanciparsi attraverso il
suo uso. Ma è una lingua neutra, una lingua che si astiene dall’essere stravagante o
emotiva.
Il francese veicolare è l’esatto contrario del verlan, la lingua propria delle cités.
Il verlan è una lingua del segreto e dell’opacità, ma è anche l’inverso di una lingua
semplice o di una lingua neutra. È una lingua vigorosa e insolente, una lingua
trasgressiva nella sua essenza. La materia del verlan è notevolmente variegata: la
lingua francese accademica, amministrativa o veicolare si fonde assieme all’arabo
dialettale, il creolo, parole ricavata da una qualche lingua africana, ma anche
l’inglese, o piuttosto l’americano, la lingua dei Neri d’america e l’argot popolare. Il
verlan non è chiaro e immediato poiché cerca di sfuggire al senso comune. Inventato
inizialmente per permettere alle bande di ragazzi delle cités di comunicare in codice,
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il verlan inverte le sillabe delle parole secondo una logica piuttosto arbitraria e riesce
spesso a non farsi capire dagli intrusi. Il verlan, inoltre, è una lingua instabile e
variabile, al contrario del francese accademico; cambia da una cités all’altra e da un
anno all’altro. Il verlan si prende gioco dell’esattezza linguistica in generale, della
precisione del vocabolario, di qualsiasi regola prescritta: è una lingua dell’immediato.
Il suo utilizzo permette di affermare un’identità forte e competitiva rispetto alla
buona-creanza del francese accademico e istituzionale. Il verlan è l’inverso della
lingua scritta, è il linguaggio dell’oralità ritrovata. Mentre il francese si dà come
modello i grandi scrittori della letteratura, il verlan si dà come modello tre esercizi di
un’oralità istantanea: la vanne, il joute e lo slam. La vanne è una pratica che consiste
nell’interpellare un passante, o attenderlo dietro l’angolo di una via, e rivolgergli
delle proposte mirate, violente e paradossali. In assenza della combinazione di queste
tre qualità, la vanne fallisce e il vanneur abbandona il suo interlocutore con la coda
fra le gambe. Se, al contrario, egli raggiunge il suo scopo, trova l’approvazione e la
risata degli astanti. La vanne è fatta per provocare la risata. La joute è come una
vanne che si prolunga per la messa in scena tra due o più vanneurs. Come tutte le
competizioni, la joute ha le sue regole: non ci si umilia, non si colpiscono le zone
vietate, come la famiglia, e non si prende alcuno in ostaggio. I più apprezzati sono i
più giovani, per via della rapidità. La versione organizzata di questa creatività verbale
è lo slam. Lo slam si aggrappa alla vivacità del linguaggio popolare delle cités per far
emergere la poetica dell’improvvisazione. Le regole della teatralizzazione della sfida
variano a seconda degli organizzatori.
Nel contesto della lingua francese tormentata dal panico della contaminazione,
talvolta naturale e inevitabile, per esempio, rispetto all’inglese, la lingua delle cités
vive di oralità, l’oralità come fonte e origine linguistica. Questa fonte è una miniera
di metafore, di prestiti, di sfrontatezza, di capovolgimenti, di trasgressione creativa
delle forme verbali e grammaticali.
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
3.4 La marginalità delle cités e la violenza dei moti
Beneficiare della partecipazione critica della popolazione delle cités implica la
definizione delle condizioni di un’urbanità comune, di reintrodurre fisicamente le
cités della banlieue nel cuore della città. Le cités, sul piano urbanistico, sono state
costruite come dei quartieri della città senza che esse fossero dotate degli attributi
suscettibili di produrre urbanità. Gli sforzi della politica e la prudenza di certe
municipalità hanno contribuito a equipaggiare le grandi distese di palazzoni, abitati
principalmente da famiglie di operai e immigrati, di certi servizi e di certi luoghi che
rappresentassero, simbolicamente, la vicinanza delle istituzioni di riferimento per la
popolazione delle cités, la Repubblica, la religione, lo sport etc. Ma le cités sono
ancora molto lontane dall’assomigliare a delle vere e proprie città, nel senso in cui le
intendiamo in Europa da cinque secoli a questa parte. Dal punto di vista
architettonico e della costruzione del corpo sociale e dell’urbanità, le città sono il
frutto della creazione di due categorie di autori fortemente distinti, ma la cui
convergenza delle conoscenze e degli interessi assicura la qualità della vita
nell’ambito del territorio urbano: i tecnici (in particolare gli architetti e gli ingegneri)
e gli abitanti. Le cités della banlieue sono state trattate finora secondo la sola logica
pianificatrice degli esperti tecnici. Inoltre, a partire dagli anni Ottanta fino ai giorni
nostri, si è investito nell’indispensabile riabilitazione delle cités, e proporzionalmente
molto di più, nell’abbellimento delle città principali.
Da diversi anni, i moti urbani esplodono lungo le cités francesi; maggiormente in
alcune di esse e in determinate occasioni. La spiegazione delle cause che scatenano
tali disordini trova d’accordo molti commentatori: l’insoddisfazione e la frustrazione
generano la collera. Ma la gran parte dei commentatori sostiene che la violenza non
possa essere in alcun modo giustificata: si parla perciò di violenza gratuita, come se i
gesti e gli atti fossero svalutati e privati di alcun senso per il semplice fatto che ci si
trova davanti a delle forme di violenza. Ma il compito dell’analista e del politico è
proprio quello di affrontare la difficile questione dell’interpretazione del discorso
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
implicito della violenza. È l’assenza di altre forme di espressione che conduce gli
abitanti a disporre dello strumento della violenza come veicolo di comunicazione. I
moti non sono che l’espressione radicale di un’esasperazione condivisa rispetto alla
necessità di una trasformazione profonda delle regole dell’organizzazione e del
funzionamento del sistema.
Il bersaglio principale dei giovani fautori dei disordini e delle azioni di inciviltà,
sono le automobili: oggetto di fascino che si trasforma in simbolo odiato da parte di
coloro che ne sono privati a causa della povertà e della disoccupazione, ma anche
oggetto indispensabile per la mobilità geografica, la cui privazione diventa ulteriore
motivo di isolamento e esclusione. Il secondo bersaglio che rende maggiormente
esplicito l’intento di delegittimare l’autorità civile, sono le costruzioni e i simboli
istituzionali, bruciare una scuola materna, un camion dei pompieri, una sala di
spettacolo. Il terzo bersaglio sono le imprese e i commercianti, rappresentanti del
mercato dell’impiego e controparte di una condizione di precarietà e lavoro nero.
In assenza di altre forme d’espressione, gli abitanti delle cités non dispongono
che della violenza per esprimere la loro determinazione a essere considerati come dei
cittadini degni di vivere del loro lavoro e di condividere la città con gli altri cittadini.
3.5 La vita associativa
Malgrado la condizione di marginalità vissuta dagli abitanti delle cités e le
manifestazioni di inciviltà in occasione dei moti urbani, esiste nelle cités una forte
volontà di partecipare alla vita cittadina, che si inscrive in particolare nella vita
associativa. I così detti Goulois che abitano nelle cités, francesi «de souche» di
estrazione operaia, sono attaccati al sistema democratico che, con la legge del 1901,
sancisce il diritto alla vita associativa. Questo diritto è stato acquisito e fatto proprio
da tutti gli abitanti, compresi quelli provenienti da culture più conservatrici e rigide
rispetto alla libertà di associazione; ne hanno appreso le pratiche e il significato
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
simbolico del coinvolgimento dei cittadini alla vita democratica del paese. Nelle
cités, la parte più attiva della popolazione è stata dunque assorbita dalla attività
associativa. Le associazioni si occupano di attività e questioni sociali differenti, che
spaziano dalla cultura alla politica, allo sport, alle religioni e ai gruppi di abitanti
costruiti sulla base della provenienza. La legge del 1901 introduce un sistema di
dibattito, assemblea, responsabilità e rappresentanza degli associati, che permette loro
di socializzare nell’ambito degli spazi e delle attività dell’associazione.
Certe associazioni, come le così dette «regie di quartiere», sono divenute esperte
nella triangolazione tra gli attori simbolici locali (rappresentanti politici), gli attori
tecnici (esperti nella gestione del territorio e attori economici) e gli abitanti. Prendere
in considerazione la complementarietà di questi tre attori va a vantaggio di una
politica locale indubbiamente più consapevole e responsabile. La violenza dei moti
da una parte e una morbida reinvenzione della democrazia locale dall’altre, formano i
due poli opposti di un approccio alla politica da parte degli abitanti delle cités.
Ciò che costruisce il legame, nei paesi dell’Unione europea, è il riconoscimento
reciproco delle persone, dei gruppi, delle comunità, per mezzo di un sistema che dia
senso alla loro esistenza e alle loro interazioni. Questo sistema è fondato sul
riconoscimento di uno spazio comune, la Repubblica, sul funzionamento simbolico
della democrazia partecipativa e infine sul diritto come garante delle relazioni tra i
cittadini. Un sistema ispirato dalla filosofia umanista dell’epoca dei Lumières. Un
sistema, dunque, che genera il legame sociale e stimola l’appartenenza ai valori della
libertà, della solidarietà e del rispetto. Gli individui costruiscono e definiscono gli
spazi collettivi attraverso la libertà di associazione, ma all’interno di una sfera
pubblica che li riconosce tali, semplicemente «individui».
Le cités rappresentano, infine, dei microcosmi di una globalizzazione culturale
in corso a livello internazionale e in particolare a livello europeo. Il discorso
trasgressivo, violento e radicale, e quello partecipativo dell’attività artistica e
associazionistica, esprimono un’urgente esigenza degli abitanti delle cités di
appartenere a una società in cui i diritti e le pari opportunità garantiscano la libertà di
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
accesso al mondo del lavoro e ai servizi, e la libera espressione delle diversità
culturali.
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
Il multiculturalismo e la deriva comunitarista
4.
4.1 Il modello canadese
Il multiculturalismo intende porre la questione essenziale di «come si può vivere
insieme con le nostre differenze?». Il concetto di «multiculuralismo» compare in
numerosi discorsi giornalistici e politici e la sua definizione non è del tutto chiara o
univoca, riflette una molteplicità di sensi e viene impiegato per descrivere contesti
spesso differenti. Viene utilizzato per descrivere un fenomeno presente nelle società
contemporanee e, in senso allargato, designa la diversità di gruppi culturali che
convivono in uno stesso paese. Secondo questa accezione, lo spazio pubblico
comprende una vasta gamma di culture che non possono essere ricondotte a un
medesimo retaggio storico. Secondo un’accezione più ristretta, «multiculturalismo» è
il termine che indica una corrente ideologica che sostiene il riconoscimento politico
di questa molteplicità culturale. Infine, esso si riferisce alla politica intrapresa dalla
società canadese nei confronti dell’immigrazione di gruppi sociali distinti in base a
dei criteri culturali e in opposizione alle politiche di assimilazione meno rispettose
delle diverse origini culturali dei cittadini.
La legge sul multiculturalismo canadese riconosce il fatto che:
I.
il multiculturalismo riflette la diversità culturale e razziale della società
canadese e si traduce nella libertà, per tutti i suoi membri, di conservare,
valorizzare e condividere il loro patrimonio culturale, e di sensibilizzare
la popolazione in questo senso;
II.
il multiculturalismo è una caratteristica fondamentale dell’identità e del
patrimonio canadese e costituisce una risorsa inestimabile per il futuro
del paese.
Il Canada definisce dunque il multiculturalismo, ossia la diversità delle origini
nazionali, culturali e razziali costitutive della sua popolazione, come uno dei valori
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
collettivi
e
come
una
caratteristica
dell’identità
nazionale.
Dunque,
il
multiculturalismo consiste in un approccio politico alla molteplicità culturale, nei
paesi soggetti a un notevole afflusso di immigrati o caratterizzati dalla presenza a loro
interno di gruppi sociali che rivendicano l’indipendenza in nome di una presunta
diversità culturale. Esso sostiene che tutte le culture meritino un uguale
riconoscimento all’interno del panorama sociale. Il problema non è immediatamente
quello di istituzionalizzare o meno gli attori identitari sotto forme di rappresentanza
diretta, ma quello di aprire l’accesso al trattamento politico delle loro singole istanze.
È tuttavia evidente che le identità culturali sono costantemente minacciate
dall’integralismo, dal settarismo, dalla violenza identitaria o dall’istituzionalizzazione
che trasforma la storia e la memoria in «commemorazione ufficiale».
4.2 La società culturalmente strutturata
Poiché le società degli attuali paesi sviluppati non sono più organizzate secondo
un conflitto di classe che parte dalla fabbrica e si estende alla società e alla vita
intellettuale, altre realtà e altre rappresentazioni della questione sociale tendono ad
imporsi: la rivendicazione delle differenze culturali.
Le prime manifestazioni di una frammentazione culturale, caratteristica di
numerose società occidentali, devono molto alla crisi dello stato-nazione. Importanti
cambiamenti hanno luogo negli anni Ottanta in Francia, e innanzitutto per via
dell’immigrazione. La categoria dei «lavoratori» immigrati lascia spazio a quella
degli «arabi», «musulmani», «beurs», «neri», «turchi» etc. Si tratta della transazione
da una definizione sociale a una definizione etnica, nazionale, religiosa o razziale
dell’immigrazione, un fenomeno complesso che si esprime ben presto con
l’esclusione sociale, la stigmatizzazione e il razzismo. A partire dagli anni Ottanta in
Francia (precedentemente in Inghilterra e negli Stati Uniti e più tardi in Italia e
Spagna) il tema della frammentazione culturale non può più essere dissociato da
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
quello della disoccupazione, del lavoro precario, della povertà e della crisi urbana.
Parlare di etnie, relativamente a gruppi che abitano in seno alle società occidentali,
non equivale a un discorso ristretto alla sola sfera culturale, rinvia, in maniera più o
meno velata, all’idea di natura e più precisamente di razza. Talvolta, l’esperienza del
rigetto sociale o della discriminazione razzista, è decisiva nella costruzione di
un’identità culturale, che si preoccupa principalmente di reagire al disprezzo,
all’esclusione e alla stigmatizzazione, spingendo l’individuo ad appropriarsi del
discorso della differenza che gli è stata, in fin dei conti, imposta dall’esterno.
4.3 La deriva comunitarista
Il comunitarismo non è né un’ideologia né un progetto politico: è piuttosto una
“deriva”. Nessuno si dichiara espressamente comunitarista. Una sua definizione
potrebbe essere quella di uno slittamento della società repubblicana che concede alle
sue «comunità» un margine di manovra sufficiente per mettere in discussione il
legame sociale. Le comunità che sono prese in causa sono innanzitutto quelle che si
considerano «identitarie», cioè fondate su criteri di identificazione culturale dei loro
membri. Il comunitarismo mette in gioco delle forme antimoderne di determinazione
identitaria (razza, etnia, religione, tradizione, sesso) di gruppi sociali che si
considerano più spesso come delle minoranze. Le rivendicazioni di riconoscenza
dell’identità, indirizzate alle istituzioni e alla società intera, rinviano alle pagine più
scure della storia di una determinata categoria sociale: schiavitù, segregazione,
dominazione, sfruttamento, umiliazione e persecuzione. È il caso archetipico dei Neri
americani. Questo non significa che le questioni legate alle identità e alla
riconoscenza storica, al di là di quelli dell’integrazione e della lotta contro la
discriminazione, non vadano prese in considerazione dalle istituzioni e dagli autori
dei manuali di storia. Il problema sta nella scelta di adottare dei criteri identitari di
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
natura etnica, razziale, o sessuale, per la determinazione di politiche democratiche e
l’organizzazione della sfera pubblica.
4.4 La matrice americana
È nella costruzione della società americana che si possono riscontrare le ragioni
e i retroscena sociali e intellettuali che spiegano la nascita della «questione
comunitarista». Le tappe storiche che ci permettono di comprendere l’importanza
dell’idea comunitaria sono principalmente tre: l’affermazione del colonialismo
inglese nel XVII secolo, la Rivoluzione americana alla fine del XVIII secolo e
l’enorme flusso immigratorio che ha interessato gli Stati uniti a partire dalla fine del
XIX secolo.
L’esodo religioso e politico dei puritani inglesi verso il Nuovo mondo costituisce
il fatto fondatore dell’identità americana: il rispetto della diversità fondato sulla
libertà religiosa. Si tratta di un’idea di «pluralismo religioso» che sta alla base del
pluralismo sociale e politico che si inscriverà nella Costituzione americana. Ma è
soprattutto attraverso l’istituzionalizzazione dei raggruppamenti comunitari originari
(le townships), non solo religiosi ma anche politici ed economici, che si afferma
l’idea di «pluralismo primitivo» che implica libertà individuale e collettiva, e
sottomissione, talvolta rude, all’autorità comunitaria.
Durante la Rivoluzione americana, è ancora una volta a partire dalla
valorizzazione delle differenze e del pluralismo, che le «fazioni» e gli «interessi»
sono accettati come un fatto irrinunciabile per la costruzione di una repubblica
moderna. Il motto americano è «E Pluribus Unum»: la coesistenza di individui e
comunità che hanno interessi contrastanti non è un male, è piuttosto il fondamento
del funzionamento della società.
L’immigrazione ha rinforzato ulteriormente questa doppia iscrizione fondatrice e
costitutiva di unità e frammentazione della sfera pubblica. Le prime generazioni di
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
immigrati si vedono impiegati in attività lavorative subalterne, non parlano l’inglese,
e si stabiliscono presso la loro comunità d’origine, che corrisponde spesso a un
quartiere preciso della città. La seconda generazione apprende l’inglese a scuola, ciò
facilita il suo ingresso nella middle class e il suo trasferimento verso la periferia o le
cittadine di provincia, dove adotta l’American way of life; questa seconda
generazione diviene americana a tutti gli effetti ma conserva un notevole
attaccamento alla comunità d’origine. La comunità d’origine (familiare, etnonazionale o religiosa) è considerata, dunque, sia come un luogo di passaggio prima
del grande salto nella società americana, sia come un luogo di rifugio identitario.
Paradossalmente, colui che non ha una comunità di appartenenza non riesce a
inserirsi a pieno nella società americana.
Per comprendere il senso del comunitarismo negli Stati uniti, bisogna
aggiungere alla descrizione storica un’analisi della trasformazione del pluralismo
americano avvenuta negli anni Sessanta: la «svolta identitaria». Si è passati, in
qualche anno, dalla concezione tradizionale di un pluralismo degli interessi, che
mette l’accento sulla diversità delle comunità, a un pluralismo delle identità, che
mette l’accento sulle differenze tra comunità. Neri, omosessuali, gruppi etnici
immigrati di recente, donne: l’immaginario di colui che intende rimarcare le proprie
differenze, la propria appartenenza a una categoria socio-culturale precisa e lottare
per il riconoscimento di una specifica identità, presuppone la percezione di uno
spazio pubblico dominato da una maggioranza che non può cambiare; ma soprattutto,
questo immaginario crea delle comunità fisse e a statuto invariabile, le cosiddette
«minoranze».
In questo modo, l’individuo non entra più a far parte dello spazio pubblico per
far riconoscere un interesse che gli è proprio, o eventualmente condiviso con altri
individui; lo fa piuttosto per vedersi riconoscere un’identità di cui va fiero, che lo
coinvolge emotivamente e in cui sa di potersi sempre identificare, e in pieno. È la
comunità che preesiste all’individuo, una comunità che è sempre stata là, e che
definisce i caratteri sociali e etici dell’individuo: è l’idea di un embedded self, un «sé»
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intrappolato nelle sue appartenenze etniche, di genere, culturali, storiche, religiose,
sociali, razziali; un «sé» che non esiste e non si comprende che a partire
dall’appartenenza a una o più comunità.
4.5 Le politiche dell’identità alla francese
Nel quadro generale di ciò che potrebbe definirsi una «politica dell’identità» in
Francia, si possono distinguere tre vie, tre approcci differenti della politica alla
questione dell’identità. Una prima via è quella della «lutte contre les
discriminations»: una politica avviata nel 1999 con la richiesta da parte dell’Alto
consiglio per l’integrazione di istituire un organismo indipendente che si occupi di
rilevare e denunciare qualsiasi forma di discriminazione. L’organismo amministrativo
indipendente viene istituito nel gennaio 2005: l’Halde, Alta autorità di lotta contro le
discriminazioni e per l’uguaglianza. Questa politica è stata il frutto di rivendicazioni
portate avanti dalle associazioni rappresentanti le così dette «minoranze visibili»
(neri, handicap etc.) e i cittadini che hanno denunciato diverse forme di
discriminazione, soprattutto di carattere etno-razziale. Questo tipo di politica va
incontro a un limite principale: la troppo estesa definizione di discriminazione che fa
riferimento a caratteri identitari di vario tipo, l’origine, l’appartenenza vera o presunta
a un’etnia, una nazione o una razza, l’apparenza fisica, il sesso, gli orientamenti
sessuali, ma anche la situazione familiare, l’età, l’handicap, lo stato di salute, le
appartenenze politiche o sindacali etc. Questo dimostra quanto sia fluido e,
probabilmente, inafferrabile il fattore identitario quando viene fatto oggetto, come in
questo caso, di una politica destinata a garantire la giustizia sociale.
La seconda via è quella della «discrimination positive», tradotto liberamente
dall’affermative action americana. La discriminazione positiva si identifica con il
sistema delle quote e si preoccupa dell’integrazione delle persone provenienti da
famiglie di immigrati, gli immigrati stessi, i musulmani, le donne, gli handicap etc.
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
Questa integrazione viene disciplinata sulla base di una “discriminazione” volta a
privilegiare una categoria sociale svantaggiata, e definita sulla base di criteri
identitari. I territori destinatari di politiche di discriminazione positiva corrispondono
generalmente a popolazioni i cui caratteri identitari di tipo etno-razziale sono
considerati «atipici» rispetto al profilo nazionale maggioritario. Lo slittamento da
politiche così dette di «recupero» o di «riabilitazione» verso una crescente
esplicitazione del non-detto identitario delle popolazioni delle zone-cibles è stato
compiuto dal governo Jospin (1997-2002). Si è passati da politiche di giustizia
sociale, redistributive, di compensazione o di correzione delle disparità, a una logica
di discriminazione positiva contro una discriminazione tout court o negativa. Il
ritorno di una maggioranza di destra, nel 2002, non ha modificato la politica
intrapresa, e le «minoranze visibili» sono entrate nel cuore dei discorsi del governo
sul soggetto. Al di là delle logiche di governo, è l’insieme della società che è stato
sottomesso a questa nuova logica di etnicizzazione della differenza.
Queste questioni ci conducono sulla terza via di una politica dell’identità e della
gestione delle «minoranze» in Francia. La prima questione che va sollevata è quella
della possibilità o meno della trascrizione giuridica di una tale logica politico-sociale.
E inoltre: come si identifica una differenza di natura «culturale»? Chi può
occuparsene senza il rischio di manipolazioni o stigmatizzazioni? Queste pratiche
sono reversibili? Come si può garantire a un individuo il diritto di scegliere di non
appartenere all’identità che gli è stata assegnata per il colore della pelle, per la sua
origine nazionale, o per il suo patronimico? In funzione di quale criterio si
stabiliscono le minoranze che hanno il diritto a essere riconosciute o ad avere un
trattamento preferenziale? È la storia? La profondità di una discriminazione subita?
La schiavitù, che risale a due secoli fa, dà un diritto alla discriminazione positiva
superiore a quello della colonizzazione vecchia solo di 75 anni? Le questioni possono
essere tante, è la risposta non è immediata. Il riconoscimento della legittimità, da
parte del diritto, di rivendicare una differenza sulla base di criteri culturali, o etnorazziali, nello spazio pubblico, solleva dei problemi di un’ampiezza enorme.
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
La comunità politica è fondata su degli interessi comuni che vanno al di là delle
identità culturali, è la sola comunità che permette all’individuo di staccarsi da
qualsiasi appartenenza, di divenire in qualche modo sé stesso al di fuori di ogni
costrizione identitaria. Questa garanzia di autonomia individuale della costruzione di
un’identità composita, propria a ciascun individuo, può permettere di costruire una
società più libera e solidale, poiché meno soggetta alle strumentalizzazione politica
delle peculiarità socio-culturali.
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
5.
Nazionalitarismi e rivendicazioni identitarie
5.1 La nazione
Per più di due secoli, abbiamo vissuto con l’idea di una correlazione necessaria
tra nazionalità e cittadinanza. Un’idea che vede la cittadinanza definita innanzitutto
per l’appartenenza a una nazione. Oggi, alla luce dei processi di globalizzazione
economica e dell’attuale configurazione della politica internazionale, questa relazione
sembra essere messa in discussione.
Il concetto di nazione ha acquisito una crescente rilevanza a partire dal
Settecento. Gli ordini eterogenei e fortemente gerarchizzati, propri della società
feudale, scompaiono, perché qualitativamente e giuridicamente incompatibili con
l’idea di nazione. La terminologia di «nazione» si costituisce nell’ultimo quarto del
XVI secolo. Tuttavia, si deve attendere la Rivoluzione francese per vedere affermasi
in pieno il suo ruolo centrale nella costruzione dell’Europa moderna. La nazione
comporta innanzitutto una dimensione storica e etnica, ma non esiste una definizione
naturale di nazione: il suo aspetto etnico è esso stesso storico e politico. Bisogna
ricordare infatti che il «droit de sang» e il «droit de sol» sono rispettivamente
dipendenti dall’insistenza su l’aspetto etnico e su quello geografico dell’individuo.
All’epoca della Rivoluzione, la nazione francese era pensata come l’unità omogenea
del popolo che ha messo fine alla società degli ordini feudali sconfiggendo la
monarchia.
Il concetto di nazione comporta anche una dimensione giuridico-politica. Essa è
strettamente legata all’istituzione statale fino al punto da costituire un unione
pressoché inscindibile: lo «Stato-nazione». Questo è concepito come un’entità
autonoma che si regge sull’unità della popolazione storicamente definita e residente
sul territorio. La correlazione tra nazionalità e cittadinanza prende corpo proprio nella
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suddetta dimensione: l’appartenenza alla nazione che definisce il cittadino è in effetti
una relazione giuridica (si tratti di «droit du sol» o «droit du sang»).
Naturalmente, la reale affermazione di una cultura nazionale ha dovuto
affrontare un processo profondo e graduale. È stato necessario unificare popolazioni
eterogenee attraverso la creazione di istituzioni comuni, l’adozione di procedure
amministrative spesso stringenti, l’omogeneizzazione del diritto e della lingua. Il
tutto andava a scontrarsi con la moltitudine eterogenea dei costumi e delle varietà
dialettali. La costituzione di miti nazionali suscettibili di forgiare una memoria
comune e l’elaborazione di una storia della nazione che potesse attestarne la perenne
sopravvivenza, hanno giocato un ruolo centrale, soprattutto nel coinvolgimento
emotivo della cittadinanza.
Se si passa dal concetto di «nazione», a quello di «nazionalità» e di
«nazionalismo», si mette l’accento sul suo rapporto potenzialmente conflittuale con
l’idea di straniero. Va da sé che la guerra esisteva prima della nascita delle nazioni, e
esiterà probabilmente anche dopo la loro estinzione, ma è soprattutto nella logica
conflittuale delle relazioni tra nazioni che la gran parte delle guerre internazionali del
XIX e del XX secolo ha trovato il principio di legittimazione. Questo non significa
che l’esistenza delle nazioni sia unicamente una ragion di guerra tra i popoli, a meno
che non ci si riferisca esplicitamente alla dottrina del nazionalismo. Infatti, lo Stato
razzista, non solamente la Germania nazista, costituisce una forma patologica della
nazione in quanto viene a identificarsi con un programma di purezza etnica e
dominazione universale.
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
5.2 L’era post-nazionale
La correlazione tra nazionalità e cittadinanza è messa in discussione, come
abbiamo già sostenuto, da fenomeni che caratterizzano una riconfigurazione del
sistema politico attuale. Un primo fenomeno risiede nella formazione di entità
sovrastatali e sopranazionali, come l’Unione europea. Questo nuovo attore politico
non può conservare intatta la ragion d’essere delle nazioni, per la principale ragione
che l’idea di «sovranità nazionale» viene direttamente messa in causa. Inoltre, la
cittadinanza europea ha necessariamente un senso sopranazionale, o per lo meno
transnazionale. Tuttavia, questa cittadinanza non è esclusiva rispetto a quella
nazionale, esse possono coesistere. Questo non accade in Canada, dove siamo in
presenza di un Stato multinazionale, ossia costituito fin dall’inizio dall’alleanza di più
nazioni; negli Stati uniti, dove gli stati corrispondevano in origine a delle società di
immigrazione; o nello Stato di Israele, dove i palestinesi israeliani sono una
minoranza nazionale. La cittadinanza, in questi casi, si definisce come l’appartenenza
allo Stato e si trova dissociata dalla nazionalità che dipende da un’appartenenza
etnica, culturale e religiosa.
La definizione comunemente adottata di «nazione» è quella fornita da Ernest
Renan alla fine dell’Ottocento: la nazione è essenzialmente un «principio spirituale»,
plasmato dalla convergenza di due elementi, l’uno risiede nel passato, l’altro nel
presente e nel futuro. L’uno è la condivisione di una ricca eredità storica, l’altro è
l’attuale consenso, il desiderio di vivere insieme, la volontà di far valere un’eredità
indivisa. Oggi questi due elementi sembrano essere vivamente contestati: lungi
dall’essere percepita come indivisa e comune, l’eredità appare molto più complessa e
frammentata; quanto al consenso attuale, i cambiamenti demografici e l’emergere
delle rivendicazioni minoritarie, sembrano circoscrivere la validità del «principio
spirituale» all’epoca di Renan. In particolare, l’estensione della democrazia e della
cittadinanza, i nuovi rapporti di forza tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo, e
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
soprattutto l’economia mondiale delle imprese multinazionali, non riconoscono nello
Stato-nazione il modello politico che sia in grado di governarli e disciplinarli.
In un’epoca in cui l’identità politica non viene più concepita entro il quadro
nazionale, ma investe le diversità culturali e i flussi internazionali del capitale umano,
il rapporto tra identità nazionale e «storia» si riduce alla pura erudizione piuttosto che
al ragionamento filosofico intorno alla società attuale. Tuttavia, la relazione ancora
stretta e in gran parte indiscussa tra identità nazionale e storia ufficiale costituisce uno
dei tratti maggiori di una modernità dalla quale non siamo ancora pienamente usciti.
La coscienza che i popoli hanno di essi stessi si è forgiata nella maniera in cui
ciascun popolo si rappresenta secondo la storia riconosciuta dalle proprie istituzioni,
la fa propria e la contrappone a quella di altre popolazioni. La presa di coscienza di sé
da parte di un popolo presuppone l’affermazione della specificità del proprio destino
storico, della sua lingua e della sua cultura. Ma questo processo, in cui la storia gioca
un ruolo fondamentale, tende a fissare la nazione entro un’identità eterna e
immutabile, sempre alle prese con le contraddizioni e i mutamenti della sua società.
L’istituzionalizzazione delle particolarità culturali attraverso il perdurare di
un’identità, sia essa nazionale o minoritaria, tende perciò a generare un fantasma di atemporalità.
Nell’attuale e nascente epoca post-nazionale, la storia non è mai stata così tanto
oggetto di interesse. Il ruolo sociale dello storico si è trasformato: è passato da quello
dell’insegnante dei valori nazionali e repubblicani a quello dell’esperto, e più
recentemente a quello del portavoce delle culture dei vinti, di coloro che sono stati
trascurati o esclusi dalla storia ufficiale. L’eccesso di memoria che interessa l’attuale
dibattito politico e sociale è una conseguenza di questo processo: lo storico viene
convocato per parlare in nome dell’oggettività e per correggere le derive della
memoria, ma talvolta anche per nutrirle e trasformarle in arma militante. La memoria
è divenuta la nuova ideologia contemporanea. La competizione memoriale sembra
aver rimpiazzato la rivalità tra le specificità nazionali.
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
Prima di considerare le nazioni definitivamente svuotate della loro forza politica,
conviene però esaminare il rapporto ancora attuale e complesso tra politica, identità e
storia.
5.3 La costruzione dell’identità nazionale nell’Africa post-coloniale
Dalla fine degli anni Cinquanta, molti storici e leader politici africani hanno fatto
della rottura con la storiografia coloniale il cavallo di battaglia del loro programma
politico, spesso nazionalista, panafricano e anti-imperialista. Ma, in certi casi, questo
revisionismo storico è servito a creare le condizioni di legittimazione del carattere
egemonico dei nuovi poteri nati dalle indipendenze, in nome di un ritorno alla
«autenticità» e alla «tradizione». Questa «svolta indipendentista» della riscrittura
della storia, ha costituito uno dei principali fili conduttori della costruzione delle
identità nazionali. Mentre si distingue generalmente il ruolo dello storico da quello
del produttore o del fornitore di memoria, dove si suppone che i primi producano una
storia sapiente e relativamente obbiettiva, e i secondi una «sapere memoriale» al
servizio di un gruppo o di un’ideologia, questa distinzione è lungi dall’essere
evidente nel contesto della costruzione dell’indipendenza nazionale di un territorio. Il
processo di indipendenza presuppone la sfida, per la nuova generazione di storici
africani, di riappropriarsi dalla propria storia in
movimento dialettico della
decostruzione della storia coloniale e della riscrittura di tale storia. In altri termini, si
tratta di contribuire alla decolonizzazione dell’Africa attraverso la decolonizzazione
della sua storia. Tra le università africane impegnate in questo processo, la Scuola
storica di Dakar è stata una delle più proficue.
Nei primi anni della costruzione dell’indipendenza, molti leader politici africani
si sono cimentati in questa strategia del ricorso alla tradizione alla autenticità,
sforzandosi di presentare l’epoca coloniale come una parentesi. Una delle
manifestazioni più spettacolari del ricorso all’autenticità è stata la politica detta di
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
«zairizzazione dei nomi». Il Congo diviene Zaire, e i congolesi abbandonano i loro
nomi, spesso di ispirazione cristiana, in cambio di altri nomi che fossero in grado di
ristabilire l’autenticità del linguaggio e dell’identità.
Diversamente dalla gran parte delle popolazioni africane, che hanno affrontato il
processo di decolonizzazione mettendo in discussione la storiografia imposta dai
colonizzatori, gli storici e i manuali scolastici rwandesi hanno continuato, dopo
l’indipendenza del 1962, a diffondere e legittimare la griglia di lettura etnicistica che
ha contrapposto le popolazioni degli hutu e dei tutsi: un modello razziale che si regge
sull’idea che l’origine «straniera» dei tutsi giustificherebbe la consegna dell’intero
territorio del Rwanda ai «veri» rwandesi, gli hutu, di origine bantù. Il razzismo di
stato dell’Hutu Power e il genocidio perpetrato nel 1994 contro i tutsi si spiegano a
causa della riattualizzazione della storiografia coloniale.
Pertanto, se la storia può essere strumentalizzata per legittimare i discorsi
identitari di esclusione, essa può essere anche utilizzata al fine di rappacificare o
costruire una coesione sociale tra le popolazioni in seguito a un periodo di
sottomissione e divisioni. L’obbiettivo della storia e dell’istituzionalizzazione di
un’identità nazionale, è quello di ricucire le ferite che hanno riguardato il passato di
una popolazione. Uno degli esempi più rappresentativi di questo utilizzo della storia è
senza dubbio quello dell’Africa del Sud post-apartheid, con l’instaurazione nel 1995
di una Commissione sulla Verità e la Riconciliazione, che consiste in due programmi
intitolati «Educazione per la riconciliazione» e «Memoria e guarigione», il cui scopo
è quello di contribuire alla transizione post-apartheid attraverso un lavoro di
riscrittura della storia.
5.4 Identità nazionale e Unione europea
Se il discorso d’azione politica orientato alla costruzione dell’unità nazionale e
dell’unità dello Stato, ha avuto luogo per la prima volta in Europa, questo continente
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
è divenuto oggi una sorta di laboratorio del superamento del concetto stesso di
nazione, principalmente in seguito all’istituzione dell’Unione europea. Una tale
evoluzione trova diverse spiegazioni, innanzitutto il carattere fluido delle frontiere
naturali che dividono gli Stati al loro interno, e la stessa Unione europea dai paesi che
ancora non vi appartengo, ma che sono suscettibili di una progressiva integrazione.
Inizialmente costituita intorno al progetto di stabilire la pace tra gli ex-Stati
belligeranti di Francia e Germania attorno a una comune politica industriale, oggi,
l’Unione europea poggia sulla volontà di istituzionalizzare le regole di uno spazio
economico e sociale, e su quella di armonizzare le prerogative nazionali. Una tale
evoluzione non è necessariamente in contrapposizione con il riconoscimento delle
sovranità dei singoli Stati, ma è inevitabile che, soprattutto sul piano economico, la
realtà del mercato transnazionale degli scambi non può essere facilmente disciplinata
finché il quadro normativo della produzione di beni e servizi rimane circoscritto
all’ambito nazionale.
Mentre l’Unione europea cerca di costruire la convergenza delle politiche
nazionali in vista di una più solida politica comunitaria, gli Stati europei vedono la
loro sovranità minacciata anche dall’interno della loro stessa popolazione. Essi
devono far fronte a una nuova e crescente spinta nazionalitaria da parte di
«comunità» che rivendicano una lingua, una storia, delle tradizioni e dei valori
differenti da quelli della nazione a cui ufficialmente appartengono, rivendicano il
diritto all’autonomia, o all’indipendenza, poiché si sentono dotati di una particolare
personalità politica. Il criterio distintivo dell’identità nazionale sembra dunque
dislocarsi dal nazionalitarismo di Stato a altre unità di base, che si tratti di comunità
che si definiscono «popoli» (per esempio, in Francia, la sovranità piena e intera dello
Stato è spesso contestata dal popolo corso) o «nazioni» (le decisioni dello Stato
spagnolo e di quello francese sono messe in discussione dalle rivendicazioni della
nazione basca). Il regionalismo politico consiste sempre più nel mirare verso una
soluzione separatistica: si pensi per esempio alla Catalogna e alle modificazioni
recenti del suo statuto in seno allo Stato spagnolo. Si è tentati perciò di affermare che
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
la gran parte dei paesi europei stanno andando incontro a un’epoca in cui viene messa
in discussione la sovranità tipica dello Stato-nazione.
Questa tendenza si trova rinforzata da un neo-regionalismo di ispirazione
economica, che si è affermato insieme alla globalizzazione economica mondiale e
che rivendica sempre più lo smantellamento dello Stato-nazione, in favore di una
«Europa delle regioni» o «dei popoli», intesa come un mercato entro il quale questi
ultimi scambierebbero i loro beni e le loro competenze in maniera sovrana.
Alla luce delle rivendicazioni autonomistiche e identitarie, la componente etnopolitica è quella che suscita maggior entusiasmo tra i militanti. La componente etnica,
alla base della definizione dell’identità collettiva, dipende da una proiezione «nel
passato» del discorso politico attuale: una comunità qualunque si sente maggiormente
consapevole della propria specificità allorché istituzionalizza memoria e tradizioni
per mezzo di una propria storiografia. La componente etnica dipende inoltre da una
proiezione nel presente e nel futuro: ogni comunità ha bisogno di dotarsi di un
progetto politico «nazionale» che, a sua volta, esige un riconoscimento istituzionale
particolare, come l’autonomia, l’indipendenza o la partecipazione regolamentata da
uno Stato-nazione.
L’Europa sta vivendo una fase di transizione in cui le identità nazionali si
scontrano con le nuove prospettive politiche e economiche globali, e soprattutto con
la natura del concetto stesso di nazione che antepone l’appartenenza a un territorio, a
una lingua e a delle tradizioni, rispetto ai diritti dell’individuo e alle libertà
fondamentali, questioni indubbiamente prioritarie nell’ambito della politica
dell’Unione europea e degli organismi internazionali come le Organizzazioni nongovernative. La libertà di movimento delle persone rappresenta uno dei nodi della
politica internazionale attuale: mentre viene considerato un diritto inalienabile dalla
Dichiarazione dei diritti umani del 1948 e, dunque, da tutte le società liberaldemocratiche, il principio di sovranità nazionale e l’assenza di una giurisdizione
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sopranazionale vincolante, fanno sì che il diritto a migrare (emigrare e immigrare)
non sia effettivamente un diritto assoluto della persona valido erga omnes.
5.5 Maggioranze e minoranze culturali
La costruzione di un’identità nazionale oggettiva, sia essa unilaterale secondo il
modello francese, o multiculturale secondo quello canadese, comporta una sclerosi
progressiva della coscienza di sé da parte della popolazione. La reificazione di
un’identità nazionale come una rappresentazione fissa, unitaria e culturalmente
marcata rischia di contrapporre i simboli propri di una o più culture maggioritarie a
quelli di una o più culture minoritarie. I media, assieme alla politicizzazione della
cultura, sono all’origine di questa sclerosi, che nel tentativo di affermare e divulgare i
concetti, le immagini e gli stereotipi propri dell’identità nazionale, si scontrano con
una realtà storica complessa, controversa e in continua trasformazione. Questa
mediazione, che istituzionalizza un’identità nazionale, consiste nella legittimazione di
discorsi che mettono l’accento sui particolarismi storico-culturali condivisi che, nel
lungo periodo, divengono progressivamente anacronistici e decontestualizzati dalla
realtà attuale. Questo processo ha per conseguenza due fenomeni che si contendono
la sfera pubblica e la legittimazione politica: «l’imperialismo culturale», ossia la
concettualizzazione dell’identità nazionale che tende ad arginare o celare
l’eterogeneità intrinseca alla società, e «le derive comunitaristiche», di cui abbiamo
già largamente discusso, che riguardano la frammentazione della società sulla base di
criteri identitari minoritari.
Pretendere una riconoscenza politica totalizzante di una o più culture nazionali
significa far fronte a uno scontro infinito con le rivendicazioni identitarie di una o più
parti della popolazione. In altri termini, la maggioranza culturale non può avere
coscienza della propria identità che in relazione a una qualche minoranza, e
inversamente,
quest’ultima
non
può
accedere
all’autocoscienza
che
in
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
contrapposizione a una cultura ufficiale che ne limita il riconoscimento politico. Una
sfera pubblica che non identificasse lo stato di diritto e l’apparato politico con una
precisa cultura nazionale, ma che costituisse lo strumento e il luogo entro il quale
permettere alle culture di esprimersi, di mutare, di nascere ed estinguersi, non
darebbe senso ad alcuna distinzione tra maggioranza e minoranze più o meno
riconosciute e legittimate.
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
5.6 Una riscrittura dinamica della storia
Nel momento in cui l’identità nazionale ha cessato di essere una semplice presa
di coscienza di sé da parte della popolazione, come è accaduto all’origine dell’epoca
moderna con la fine della monarchia e come accade in certe regioni dell’Africa postcoloniale, ecco che compare il sentimento di esclusione: l’identità nazionale diventa
un insieme di discorsi e di stereotipi insistenti che alimentano ulteriori
rappresentazioni identitarie suscettibili di minacciare l’unità della società, condizione
indispensabile per la salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali
dell’individuo.
La storia è il processo attraverso il quale si costituisce l’identità nazionale, e
quest’ultima diviene esclusiva e asimmetrica rispetto alla sua popolazione allorché
una delle sue interpretazioni si impone come un paradigma alla luce del quale vanno
letti e determinati gli eventi futuri. Per lottare contro la reificazione progressiva
dell’identità nazionale, che sta all’origine del sentimento di esclusione, bisognerebbe
trovare il modo di re-storicizzare le rappresentazioni dell’identità nazionale stessa,
ossia di rigenerarle secondo una dinamica permanente orientata a squalificare i miti
che si impongono e a dar voce ai movimenti storici e culturali che riguardano la
società nel suo divenire. Se l’identità nazionale fosse costituita da una molteplicità di
discorsi, controversi, e arricchiti da una costante rilettura storica, la reificazione e
l’esclusione dei particolarismi non avrebbero ragion d’essere, in quanto la
molteplicità culturale non sarebbe più percepita dall’esterno, ma al contrario sarebbe
costitutiva dell’identità nazionale stessa.
L’obbiettivo di una riscrittura permanente della storia di un paese non è quello di
rimpiazzare una visione storica secondo un nuovo paradigma, soppiantando quello
che l’ha preceduto e riordinando l’insieme degli eventi passati e presenti in una
rappresentazione unica. La riscrittura dinamica della storia presuppone, al contrario,
una critica dell’unicità della rappresentazione storica e la coscienza che non esiste
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una storia nazionale, ma delle storie, che sono tante quante sono le interpretazioni
possibili di una stessa realtà.
Con il passaggio da una storia nazionale unitaria a delle diverse riletture storiche
emerge il riconoscimento della molteplicità culturale costitutiva di un paese. Il
riconoscimento della diversità dentro un’identità nazionale non può dunque avvenire
con l’imposizione di una legge o un’interpretazione unica della realtà nazionale come
avviene in Canada, ma può emergere esclusivamente da una presa di coscienza della
conflittualità delle interpretazioni e delle riscritture della storia nazionale.
Se l’idea stessa di nazione continuerà a veicolare il significato di netta e univoca
corrispondenza tra territorio, sovranità giuridica e politica, cultura e etnia, questo
processo di apertura al pluralismo culturale non si compirà facilmente. È probabile,
invece, che le nuove e crescenti spinte identitarie dell’epoca post-nazionale
costituiscano uno stimolo per gli Stati-nazione a cedere parte della loro sovranità agli
organismi sopranazionali, come l’Unione europea, e a inaugurare una nuova epoca in
cui le culture riconosciute finora dalle istituzioni politiche centrali si relazionino alla
pari con quelle ancora definite «minoritarie».
5.7 Verso una nuova politica delle identità
Il futuro è delle società che accettano il pluralismo culturale. La diversità
costituisce una ricchezza perchè incrementa la creatività di una società. Soprattutto le
politiche nel campo dell’educazione dovrebbero tenere conto di questa diversità e
contribuire al suo sviluppo. La cultura intesa come creazione dell’immaginario
collettivo non può che essere disciplinata e circoscritta all’interno della sfera privata.
La sfera pubblica si occupa di garantire la libertà di espressione, di confronto e di
diffusione delle produzioni culturali senza stabilire una gerarchia o un’appartenenza
ad alcuna di esse. La sfera privata è quella delle libere associazioni e delle libere
scelte individuali di appartenenza o meno a ognuna di esse. L’identità culturale si
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forma sulla base delle esperienze sociali dell’individuo e non più per assegnazione da
parte di alcun istituto della memoria o della storia nazionale.
La produzione culturale e le stesse identità culturali vanno affidate all’attività
associazionistica spontanea. I gruppi sociali e gli individui possono confrontarsi
creativamente solo in una condizione di interdizione di ogni forma di
strumentalizzazione politica delle loro preferenza culturali. Il concetto stesso di
nazionalità, nella sua accezione culturale, deve necessariamente decadere in vista di
una politica che renda l’individuo libero di agire e costruire il proprio percorso
formativo, lavorativo e relazionale. Le preferenze culturali non possono che risiedere
nell’insieme delle esperienze vissute dall’individuo, o da gruppi di individui, sulla
base di libere, spontanee e mutevoli attività della vita associativa.
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6.
Soluzioni locali per una sfida globale
6.1 Equilibrio demografico e integrazione
I flussi di lavoratori migranti sono in costante crescita. Nell’ambito dei paesi
dell’OCSE, sono pressoché tre milioni l’anno, i migranti del lungo periodo, senza
contare quelli temporanei e illegali. Come il capitale, il lavoro è più libero di
muoversi rispetto al passato, le frontiere sono state abolite, o ridotte, in molte parti
del mondo. E come il capitale, che va alla ricerca di opportunità di profitto attraverso
il globo, i lavorati sono interessati a quei luoghi dove possono accrescere i loro
standard di vita. Il potere di attrazione esercitato dalle economie avanzate è notevole,
accresciuto dall’assai diffuso accesso alle tecnologie della comunicazione e i media
che progettano prospettive di benessere e prosperità. Le rigide misure che sono prese
in certi paesi per prevenire l’immigrazione illegale non sembrano scoraggiare molte
persone dal prendersi le proprie chance di una vita più dignitosa.
L’immigrazione offre un certo numero di evidenti benefici alle economie
avanzate. Considerato l’invecchiamento della popolazione che risulta dal basso tasso
di nascite, la crescita naturale della popolazione in molti paesi dell’OCSE è troppo
lenta per assicurare gli standard di vita attuali in un prevedibile futuro. Si prevede che
la popolazione nell’insieme dei paesi sviluppati rimanga immutata fino al 2050, con
vari paesi che subiranno il declino, mentre la popolazione in molti paesi meno
sviluppati si prevede che raddoppi o triplichi. In molti paesi, un certo numero di
settori dell’economia sta già risentendo dell’assenza di lavoro e competenze che li
sono utili per andare incontro alla domanda. L’immigrazione incoraggia il rinnovo
delle società e dell’economia, stimola l’innovazione e porta nuove idee. Come
risultato, i paesi, le regioni e le organizzazioni competerebbero sui lavoratori su scala
globale.
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D’altra parte, sebbene vi siano molte spinte positive nei confronti
dell’immigrazione, l’integrazione è oggi fonte di preoccupazioni. Le varie ondate di
immigrati attirate dal boom delle economie avanzate dopo la Seconda Guerra
Mondiale e fino agli anni Ottanta, sono stati integrati regolarmente nel mercato del
lavoro, perlomeno temporaneamente. Inoltre, in molti paesi, la situazione del mercato
del lavoro degli immigrati ha iniziato a deteriorarsi negli anni Novanta, con i loro
tassi di disoccupazione che soppiantavano quelli della popolazione nativa. Gli
immigrati sono oggi sempre più costretti alla disoccupazione nel lungo periodo e
all’esclusione sociale. Persino nei paesi dove gli immigrati presentano un tasso di
occupazione pari a quello della popolazione nativa, gli immigrati sono più
probabilmente esposti alle condizioni di mancanza di lavoro e all’impiego
temporaneo. Una mancanza di integrazione danneggia non solo i meno specializzati
ma anche i più esperti, poiché si riflette nelle difficoltà associate alla ricognizione
delle qualificazioni estere.
Con l’allargarsi della popolazione che deve andare incontro ai problemi di
integrazione nel mercato del lavoro, il problema stesso dell’integrazione diventa più
complesso. Gli immigrati che patiscono una povertà che è frutto dell’esclusione dal
mercato del lavoro possono concentrarsi in aree dal basso costo della vita, e che sono
spesso isolate dalle opportunità di impiego. Nei casi più estremi, gli immigrati
diventano “ghettizzati” in aree di privazione, con associati alti tassi di
disoccupazione, alti tassi di evasione scolastica e problemi di disaffezione. I problemi
associati all’esclusione sociale ed economica formano in tal caso una serie di barriere
aggiuntive per gli immigrati che cercano di entrare nel mercato del lavoro.
Il problema dell’integrazione, divenuto tanto complesso, va oggi affrontato.
Questa è una questione che riguarda la coesione sociale delle nostre società così come
il funzionamento dell’economia. La sua urgenza si deve sia al declino che si è
registrato tra gli esiti dell’integrazione, che alla crescente importanza che viene data
all’immigrazione nel contesto delle scure previsioni intorno al declino della
popolazione.
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
Quali operatori bisognerebbe coinvolgere e come poter massimizzare il loro
contributo? Come vanno investite le migliori risorse? Si dovrebbero targetizzare gli
immigrati, o la politica dovrebbe sviluppare una strategia orientata all’intera
comunità? Come si può sostenere l’innovazione al livello locale? Qual è il ruolo delle
partnership locali rispetto al problema, e quale dovrebbe essere il focus di tali
partnership?
6.2 Un duplice problema di governance
Il problema dell’integrazione degli immigrati, delle loro famiglie e dei loro
discendenti può essere compreso entro due questioni di governance. Il primo è la
contropartita tra politiche di immigrazione e integrazione. Il secondo è la multisfaccettata natura della coordinazione delle politiche impiegate.
6.3 Il gap politico e l’importanza di una buona gestione delle competenze
Esiste una chiara contropartita tra politiche di immigrazione e integrazione in
molti paesi, con politiche dell’amministrazione dell’immigrazione che sono
raramente accompagnate da forti politiche di supporto all’integrazione. Sebbene
molti paesi forniscono sostegni specializzati all’arrivo degli immigrati, in particolare
laboratori formativi, dopo questo periodo iniziale di intergrazione nel mercato del
lavoro, si percepisce generalmente la responsabilità delle politiche di mainstream del
mercato del lavoro.
Lo scopo della politica del mercato del lavoro è quello di assicurarne l’efficienza
e di accrescere la produttività dei lavoratori. Di solito il mercato del lavoro deve
adempiere a due oneri: integrazione nel mercato del lavoro e sviluppo dell’impiego
51
MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
della forza lavoro. Programmi per soddisfare queste proposte includono la
sistemazione, il counselling, i sussidi al lavoro per fornire work experience,
vocational training e assistenza al self-employement. Gli immigrati dovrebbero poter
accedere a questi servizi, come chiunque altro, se soddisfano i requisiti richiesti.
Sfortunatamente i programmi di mainstream del mercato del lavoro non aiutano
sempre e realmente gli immigrati nell’accesso al mercato del lavoro. Questo è dovuto
a degli ostacoli specifici a cui gli immigrati devono andare incontro: assenza di
referenze locali e di work experience, mancanza di conoscenze circa la valutazione
delle conoscenze, la mancanza di familiarità con le reti sociali locali, la mancanza di
capacità di linguaggio. In aggiunta, certi immigrati si sbaglieranno nel credere che le
qualifiche ottenute nel paese d’origine vengano riconosciute, e troveranno
difficoltoso adattare le proprie competenze alle esigenze locali. I servizi per
l’impiego, non sono ben equipaggiati per valutare le qualifiche straniere e creare dei
profili delle capacità degli immigrati, e trovano difficile fornire dei giusti consigli.
La transizione dal mercato di lavoro nativo a quello straniero può essere molto
lunga. Durante questo processo di collaudi ed errori, la motivazione può deteriorarsi
mentre le competenze si possono svalutare. Le esigenze finanziare possono indurre
gli immigrati ad accettare il primo lavoro disponibile e accessibile per assicurarsi la
sussistenza, anche se questi lavori non sono commisurati con il livello delle loro
competenze ed esperienze. Chiaramente le competenze possono essere perdute nel
corso di un simile processo. Quando ciò accade, la perdita è subita dall’intera società:
è una perdita per i paesi ospiti così come per gli individui e per il paese d’origine.
Inoltre, si rischia di danneggiare gli standard di vita dell’immigrato, si possono avere
conseguenze nel lungo termine per quanto riguarda le prospettive di integrazione per
la sua famiglia e i suoi discendenti.
6.4 Un problema di coordinazione
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
Il secondo problema dei governance è relativo alla questione della
coordinazione. L’integrazione degli immigrati al livello locale è principalmente una
questione di management of change. L’effettiva integrazione nel mercato del lavoro
consiste nell’aiutare gli immigrati a gestire i rapidi mutamenti che hanno interessato
la loro esistenza, questo impegno deve essere assolto dalla comunità locale che
elabora e risponde ai cambiamenti della sua popolazione e del suo fabbricato urbano.
Gli immigrati necessitano di chiare mappe che li sappiano guidare tra i vari servizi
che li supporteranno nella transizione verso una nuova esistenza. Questo significa che
c’è bisogno di una buona coordinazione e di un accesso ai servizi locali che andranno
incontro ai loro vari bisogni.
Come detto sopra, gli immigrati e i loro discendenti spesso devono far fronte a
molteplici barriere all’ingresso del mercato del lavoro. La soluzione richiede azioni
da intraprendere in aree diverse come l’educazione, il vocational training, lo sviluppo
economico, l’assistenza sociale, la sanità e la sicurezza. Si necessita di un approccio
integrato, che coinvolga trasversalmente i settori della coordinazione politica e della
pianificazione strategica. In particolare, quando gli immigrati e i loro figli si
concentrano in aree urbane degradate, essi vanno incontro a problemi sociali ed
economici che tendono a complicarsi nel lungo periodo. Solo un’azione intensiva e
coordinata nel lungo periodo potrà permettere di affrontare con successo tali
questioni.
Tuttavia, tale coordinazione non è un semplice compito per la politica. La ricerca
per vantaggi competitivi che è una guida chiave per il progresso nelle nostre
economie globalizzate ha avuto un impatto significativo su come la politica è
designata e effettuata. Come il settore privato, i servizi pubblici sono gestiti oggi
perseguendo stretti principi di efficienza. I servizi pubblici sono amministrati sulla
base di obbiettivi, il che significa che la prestazione è valutata sulla base del loro
perseguimento. Per raggiungere questi obbiettivi, le agenzie governative collaborano
con il settore privato e con le organizzazioni non-profit. Inoltre, un certo numero di
responsabilità politiche vengono decentrate verso le autorità locali e regionali, che
53
MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
spesso svolgono i loro programmi complementari (nell’area della politica sociale e
dell’impiego per esempio). In conclusione, la politica pubblica nel suo complesso
viene perseguita attraverso una complessa serie di organizzazioni che operano su vari
livelli e legate per mezzo di diversi meccanismi bilaterali.
La realtà attuale dimostra come l’integrazione fallisca a causa del complicato
sistema di dipartimenti governativi, che costringono l’immigrato a una continua
ricerca dei servizi che vengono delegati da un organizzazione a all’altra, senza una
sufficiente chiarezza, e secondo logiche prive di una reale razionalizzazione
dell’erogazione dei servizi. Mentre il progresso di una politica dell’integrazione
dovrebbe combinare le azioni del pubblico settore al livello nazionale e locale,
sviluppando efficaci meccanismi politici, un’ampia varietà di altri attori ha iniziato a
giocare nuovi ruoli, inventandoseli, a causa dell’assenza di azioni effettive da parte
del settore pubblico. Un’ampia gamma di organizzazioni del settore non-profit,
particolarmente, offre servizi a gruppi etnici e immigrati. Molti di questi servizi
possono essere raggruppati in due categorie:
i) sviluppo dell’individuo e delle
competenze; e ii) accesso e reti. La prima categoria di servizi vuole essere
complementare ai servizi erogati dal governo. Comprendono corsi di lingua,
vocatianal training, e corsi per stimolare l’acculturazione. La seconda categoria di
servizi mira a fornire dei buoni contatti tra le comunità degli immigrati e altri
operatori, o stakeholder (agenzie governative, organizzazioni per l’impiego, ONG), e
ad accrescere l’accesso alla disponibilità dei programmi. Loro servono come
organizzazioni sostenitrici e gruppo di pressione per nuovi programmi o per
cambiamenti da apportare ai programmi pubblici esistenti per migliorare la
risoluzione delle esigenze degli immigrati e dei loro discendenti. Loro sostengono
misure anti-discriminatorie e grandi campagne per incoraggiare i datori di lavoro ad
accogliere gli immigrati.
Sebbene entrambe le categorie di iniziative possono aiutare a far incontrare i
bisogni di un certo gruppo e influenzare l’implementazione di programmi di
mainstream, il lieve numero di iniziative locali contribuisce a una nuova
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
frammentazione dell’ambiente politico locale. Vengono inaugurate iniziative in molte
aree della politica: inclusione sociale, sviluppo della comunità, assistenza alle
imprese, educazione e formazione. Questi servizi sono spesso su scala relativamente
ridotta, legati a gruppi dal target limitato e erogati in singole zone, e ripetono ciò che
altre organizzazioni o i servizi pubblici già fanno. Hanno poche risorse da investire
nella loro formazione per accrescere le loro capacità. La loro competenza nell’ambito
del mercato del lavoro locale e i loro legami con i servizi per l’impiego sono
particolarmente deboli. Sebbene le iniziative siano talvolta organizzate su moduli di
partnership relativamente inclusive, loro sono raramente effettivamente abili nel
coordinare rilevanti aree politiche.
Questo non è un fallimento specifico delle organizzazioni che si occupano di
questioni relative all’immigrazione. In un certo numero di aree locali, le partnership
legate a un determinato territorio (= area-based) sono state create con l’intenzione di
affrontare le sfide imposte dalla frammentazione della politica di sviluppo economica
e dell’impiego, ma queste non sempre hanno riscosso successo se non erano sostenute
da altre misure politiche. Come mette in chiaro lo studio dell’OECD sulle Partnership
Locali (i partenariati), la creazione di partnership area-based non è una condizione
sufficiente per una coordinazione politica. Le partnership hanno in media un impatto
marginale sulla capacità dei servizi per l’aggiunta di forze e per intraprendere un
approccio integrato ai problemi locali. La limitata condivisione delle responsabilità
che restringe gli impegni presi dalle organizzazioni e le isolate richieste di gestione
della prestazione dei singoli servizi, incoraggiano le singole agenzie e organizzazioni
a intraprendere ristretti approcci all’implementazione politica, come abbiamo visto
sopra. Per poter riscontrare un impatto sulla governance locale – e stimolare la
coordinazione politica, la soddisfazione delle esigenze locali e la partecipazione delle
società civiche e imprenditoriale nella formulazione delle misure politiche – le
partnership necessitano di essere sostenute da meccanismi per incoraggiare la
convergenza di obbiettivi politici a livello nazionale.
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
Si richiede del tempo per organizzare un’effettiva partnership che sappia
affrontare il complesso problema dell’integrazione degli immigrati. L’esercizio può
comportare la creazione di relazioni con organizzazioni di cultura amministrativa
differente (municipi, branche del servizio pubblico nazionale, organizzazioni di
impresa, organizzazioni della società civile), il che significa che un importante
sguardo d’attenzione può richiedere di essere rivolto a questioni di governance e
comunicazione. Le agenzie che lavorano in differenti aree politiche (formazione,
assistenza sociale, crescita economica) perseguono agende differenti con le loro
proprie priorità.
6.5 Un’informazione efficace ed esaustiva
L’assenza di comunicazione tra le differenti istituzioni che si occupano di
integrazione può ridurre la capacità di sviluppare una risposta locale strategica e
coerente. I fornitori di servizi rischiano di trovarsi isolati, riducendo così la loro
capacità di guidare i migranti verso altri importanti aiuti e nuove opportunità. Esiste
spesso una mancanza di informazione tra le organizzazioni coinvolte nell’offerta e
nella domanda del mercato del lavoro. Considerata la rapidità dei mutamenti del
mercato del lavoro, è fondamentale il fatto che le organizzazioni siano messe al
corrente delle ultime domande provenienti dal mercato del lavoro, in modo tale da
poter guidare più efficacemente gli immigrati verso un reale impiego.
Il gap tra migrazione e integrazione può essere colmato per mezzo di una
combinazione di azioni al livello locale e al livello centrale. L’esame delle pratiche
locali mostra che esistono certi meccanismi che sembrano essenziali nelle iniziative
politiche che riescono a integrare gli immigrati e le loro famiglie. Uno di questi è la
raccolta e l’analisi di informazioni sul mercato locale, sulla struttura della domanda di
lavoro e la carenza di competenze in relazione alla popolazione migrante. Ogni
azione efficace ha bisogno di basarsi su questa analisi locale delle informazioni. Un
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
altro meccanismo è l’intermediazione tra gruppi di immigrati e i datori di lavoro, i
servizi per l’impiego e le organizzazioni di vocational training per fare incontrare la
domanda con l’offerta di lavoro. Entrambe queste azioni sono determinanti per
spiegare se un’iniziativa politica è vincente o meno nell’ottenere a lungo termine esiti
nell’impiego degli immigrati a un livello commisurato alle loro competenze.
Tali azioni sono state adottate in pochi luoghi, e i mezzi messi a loro
disposizione sono ancora insufficienti. La sfida per i governi è di trovare i modi per
sostenere questi meccanismi di risorse relativamente intensive e incorporarli nelle più
ampie iniziative politiche. Questo può essere ottenuto non solo fornendo sostegni
finanziari all’intelligence e agli intermediari del mercato locale ma anche fornendo
utili strumenti che il mercato non riesce a dare e che possano aiutare gli stakeholder
locali a condurre azioni efficaci. I “job profile” rappresentano uno strumento che può
aiutare gli stakeholder – datori di lavoro, servizi per l’impiego, consulenti, community
college e gli immigrati stessi – a prendere le giuste decisioni. Questi profili aiutano a
rendere il mercato del lavoro più trasparente fornendo concrete informazioni sulle
diverse abilità richieste per determinati lavori, e approssimando il livello di
competenze richiesto per ciascuno di essi. Tali informazioni sono d’aiuto nella
preparazione dei test per la valutazione delle capacità che possono essere impiegate
dai datori di lavoro, con il supporto di un intermediario locale, per stabilire se i
lavoratori immigrati sono adatti al mestiere. Questo è particolarmente utile dove gli
immigrati non hanno referenze locali e loro precedenti qualifiche non sono
riconosciute. Dove l’informazione è resa più ampiamente accessibile, questo può
inoltre aiutare gli immigrati a nutrire le giuste aspettative quando decidono di
emigrare e a munirsi delle adeguate qualifiche.
6.6 Targeting
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
Ci sono esempi di approcci di targeting al livello locale che cercano di
massimizzare il loro impatto mettendo a fuoco su specifiche caratteristiche di certi
gruppi presenti nella popolazione degli immigrati. Per esempio, un certo numero di
iniziative è indirizzata alle donne immigrate a causa del loro basso tasso di
integrazione nel mercato del lavoro. Altre iniziative sono indirizzate a immigrati
differentemente conformi ai livelli delle loro capacità. Alcune iniziative si rivolgono
a determinati gruppi etnici o comunità, per il fatto per esempio di essere guidati da
una stessa associazione, con ciò traendo profitto da una maggiore sensibilità
culturale. Ci sono comunque delle preoccupazioni che tali politiche possano in ultima
analisi creare delle competizioni tra le differenti comunità piuttosto che una maggiore
integrazione. Altre politiche insistono sull’idea di dover rivolgersi all’insieme degli
immigrati come a un gruppo separato, per esempio, trattando i problemi che hanno
interessato gli immigrati come “problemi di esclusione” piuttosto che come
“problemi particolari in cui sono andati incontro gli immigrati”. Perciò, alcuni esperti
ammoniscono i fautori delle politiche di targeting rispetto alle loro conseguenze,
come per esempio il racialising della povertà come un fenomeno sociale, sostenendo
che quando la povertà viene associata a degli individui che provengono da particolari
background e culture, la gente dimentica che in realtà si sta osservando un fenomeno
ben più complesso e strutturato.
6.7 Accrescere la flessibilità delle politiche di mainstream
Per poter affrontare le barriere a cui vanno incontro gli immigrati e i loro
discendenti,
può
essere
perciò
più
efficace
accrescere
la
flessibilità
nell’amministrazione delle politiche sviluppate a livello nazionale, o di mainstream,
relativamente ai problemi dell’integrazione nel mercato del lavoro (cioè formazione e
educazione, politica del mercato locale e crescita economica) piuttosto che generare
nuove iniziative politiche e stabilire nuovi fornitori e nuove partnership a livello
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
locale. Le politiche della formazione e del mercato del lavoro devono essere
commisurate alle esigenze della popolazione locale, inclusi gli immigrati.
Raccogliere e analizzare le informazioni sul mercato del lavoro locale e sulle
competenze possedute dai gruppi di immigrati, è un compito realizzabile. Le
opportunità offerte dall’immigrazione possono figurare direttamente in ogni esercizio
di pianificazione strategica su questioni di crescita economica. I meccanismi che
accrescono le competenze migliorando o promovendo opportunità di far carriera per
gli immigrati già integrati sono altrettanto cruciali dal momento che riducono il
tempo che gli immigrati sono costretti a spendere fuori dal mercato del lavoro in riformazione. Scegliere il momento opportuno è particolarmente importante nella
governance delle iniziative rivolte all’integrazione degli immigrati. I datori di lavoro,
in particolare, sottolineano che gli immigrati potrebbero non essere al di fuori del
mercato del lavoro per un così lungo periodo dopo il loro arrivo, restando in contatto
con i settori di lavoro pertinenti e le loro capacità non verrebbero atrofizzate.
6.8 I partenariati
I partenariati sono stati riconosciuti da circa vent’anni come un valido strumento
per aiutare le comunità locali a risolvere i problemi specifici alla loro regione. I
partenariati facilitano la concertazione, la cooperazione e il coordinamento. In
sostanza, sono strumenti destinati all’edificazione del buon governo.
In passato, l’iniziativa di creare partenariati nasceva principalmente dalla
necessità di rispondere a un grave problema che comportava una minaccia per un
determinato territorio. Per esempio, il declino di un’industria vitale per una regione,
richiedeva la mobilitazione delle risorse disponibili, per farvi fronte nel modo più
adeguato. Oggi, gli attori locali desiderano essere associati più regolarmente
all’elaborazione delle strategie concernenti la propria regione. Tale desiderio di
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
maggiore coinvolgimento a livello locale è nato dai mediocri risultati ottenuti da
politiche che non hanno tenuto conto delle specificità locali.
L’OCSE ha studiato quali sono state le risposte fornite dalle iniziative fondate
sul partenariato al problema della crescita della disoccupazione. Lo studio ha
mostrato che le iniziative locali di creazione di posti di lavoro erano più efficaci
quando gli accordi sia formali sia informali, erano conclusi fra i vari livelli di
governo, il settore privato e il settore associativo. In assenza di partenariato, le
opportunità di successo sono più deboli. Oggi, nella maggior parte dei Paesi
dell’OCSE, i governi sostengono reti di partenariato che raggruppano attori dei settori
pubblico, privato e associativo, rappresentanti dello Stato, datori di lavoro e l’insieme
della società civile. Il perimetro geografico dei partenariati varia inoltre in modo
considerevole: alcuni partenariati coprono vaste regioni mentre altri operano a un
livello più sub-regionale, locale. Non esiste quindi un modello universale di
partenariato.
Nonostante la popolarità di cui fruiscono i partenariati da qualche tempo, i
meccanismi per il tramite dei quali essi contribuiscono allo sviluppo economico,
all’inserimento sociale, o ad ogni altro obiettivo perseguito, non sono ancora
abbastanza conosciuti. I partenariati sono spesso paragonati ad una “scatola nera”: le
risorse utilizzate e i risultati sono visibili, mentre non lo sono i meccanismi che
consentono di ottenere i risultati a partire da risorse utilizzate. Nella fattispecie, le
risorse utilizzate sono gli attori locali che accettano di partecipare alle attività di
partenariato, i programmi pubblici che i partenariati possono utilizzare a vari livelli e
i fondi pubblici messi a disposizione per operazioni e eventualmente progetti. I
risultati consistono nel numero di posti di lavoro creati, nelle persone orientate verso
posti vacanti, nelle imprese create di recente, e nelle persone che riprendono gli studi.
È difficile stabilire un legame diretto tra risultati e risorse utilizzate. Il grado di
utilizzazione delle varie fonti di finanziamento, la distribuzione delle responsabilità
per l’attuazione dei programmi, il ruolo dei vari attori locali e il grado di
partecipazione delle istituzioni non sono parametri noti, così come i fattori esogeni
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
suscettibili d’influire sui risultati ottenuti. Di conseguenza, non è semplice valutare
l’efficacia dei partenariati, e è altrettanto difficile formulare raccomandazioni volte a
migliorare i metodi di lavoro utilizzati dai partenariati. Il Consiglio nazionale
economico e sociale irlandese, rappresentante e portavoce di un sistema di
partenariati che OCSE considera tra i più efficienti al mondo: “Contare il numero di
soggetti e di gruppi, e definire il loro profilo non fornisce in nessun caso indicazioni
su ciò che accade realmente nell’ambito di un partenariato, né sull’efficienza che ha
consentito di giungere a ciò che è accaduto”. I sistemi di gestione delle performance
utilizzati non rendono pienamente conto dei meccanismi in atto nei partenariati, è
necessario perciò studiare l’attività dei partenariati per comprendere come essi
contribuiscono a raggiungere obiettivi d’intervento pubblico in vari campi. Un tale
studio dovrebbe consentire un migliore monitoraggio dei risultati dei partenariati e
facilitarne pertanto l’analisi.
I partenariati locali hanno tuttavia un punto debole: la loro struttura. Essi non
possono avvalersi di una legittimità istituzionale e democratica e sono confrontati a
problemi di coordinamento, sia sul piano orizzontale (fra partenariati) sia sul piano
verticale (fra partenariati e amministrazione centrale). Per aiutare i partenariati a
definire il loro ruolo e a mantenere la propria capacità innovativa, è necessario creare
un assetto d’intervento più stabile. Una delle raccomandazioni in merito, è stata
quella di rafforzare il quadro d’imputabilità dei risultati, continuando nello stesso
tempo a lasciare ai partenariati un ampio margine di manovra nella gestione delle
attività locali. Realizzare una struttura d’imputabilità dei risultati stringente ed
efficace in un ambito decentrato rappresenta tuttavia una vera e propria sfida, come lo
testimoniano i risultati ottenuti da numerosi Paesi che sperimentano attualmente il
decentramento. Resta tuttavia il rischio che la molteplicità dei partner e intermediari
può accompagnarsi da una diluizione delle responsabilità, da lacune nella gestione
delle performance, e rendere difficile il perfezionamento di un accordo su una
struttura d’imputabilità politicamente accettabile dai vari livelli di governo
interessati.
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
I poteri pubblici – che sono spesso il principale promotore – hanno assegnato
una “missione di governo locale” ai partenariati, indipendentemente dalle strutture
degli organismi interessati. I quattro orientamenti di tale missione sono:
1. Prefiggersi un obiettivo d’intervento pubblico stimolando lo sviluppo
economico, promuovendo la coesione sociale, migliorando la qualità della vita;
2. Adoperarsi a raggiungere tale obiettivo in via prioritaria, aumentando il grado
di coordinamento tra politiche e programmi attraverso vari servizi e livelli
d’amministrazione, adattandoli al contesto locale;
3. Se il risultato di un miglior coordinamento è insufficiente, creare nuovi
progetti e servizi;
4. Intervenire a livello locale al fine di coinvolgere gli attori locali, in particolare
la società civile, nella definizione delle priorità e nello sviluppo di progetti e sfruttare
le risorse e le competenze locali.
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
7.
Una politica del divenire
La questione dell’immigrazione è una questione che riguarda il futuro. Tutti gli
Stati europei sono divenuti paesi di immigrazione. L’America ha costruito la sua
società governando l’immigrazione per quote e secondo una spartizione del territorio
fra le popolazioni di provenienza europea. Solo vent’anni dopo la fine della seconda
guerra mondiale gli Stati Uniti hanno messo fine alla politica di gerarchizzazione
delle origini della popolazione. La Convenzione di Ginevra del 1951, come
conseguenza della fine della Seconda guerra mondiale e in linea con la Dichiarazione
dei diritti umani del 1948, protegge tutte le persone che chiedono asilo sul territorio
dei paesi firmatari. Ma la sovranità dello Stato domina sulla Convenzione: non vi è
un obbligo vero e proprio. Lo Stato ha inoltre il diritto di imporre delle condizioni per
l’attuazione del diritto di raggruppamento familiare.
Le difficoltà a cui l’Unione europea va incontro, quando si tratta di armonizzare
le politiche migratorie nazionali, sono diverse: per esempio, la differenza nelle
attività di controllo e riconoscimento della popolazioni da parte dei diversi paesi
(l’Inghilterra per esempio rifiuta categoricamente l’idea di dover obbligare i suoi
cittadini a possedere e mostrare una carta di identità). Oppure, sulla base di statistiche
demografiche elaborate dai centri di ricerca delle Nazioni Unite, ogni paese può trarre
beneficio dall’apertura delle frontiere agli immigrati se si rientra entro certe cifre: tra
il 2000 e il 2050 l’immigrazione necessaria per mantenere il livello demografico
attuale in ciascun paese, sarebbe di 5,5 milioni per la Francia (100.000 all’anno), 25
milioni per la Germania (500.000 all’anno) e 19 milioni per l’Italia (circa 400.000
all’anno). Questo può avere un certo impatto sulla possibilità di armonizzare le
politiche, perché ci vorrebbero delle regole ad hoc per la Francia, la Germania e
l’Italia.
Esistono tre forme legali del flusso immigratorio: l’asilo politico, l’unione
familiare e il lavoro. Le destre nazionali europee tendono negli ultimi anni a attuare
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
un restringimento delle concessioni al diritto d’asilo e all’unione familiare, e a
privilegiare un’immigrazione professionale. Le sinistre tendono a rispettare i diritti
fondamentali dell’asilo politico e della famiglia. Poiché la domanda d’asilo è
divenuta, in certe parti dell’Europa, un mezzo per aggirare la regola
dell’immigrazione di lavoro, i governi si sono uniti nella lotta contro l’abuso delle
procedure d’asilo (punto di convergenza tra gli stati). Il raggruppamento familiare
costituisce invece un punto di divergenza tra i paesi poiché non rappresenta un
discorso sul piano della sicurezza nazionale, ma su quello dei diritti e dunque rientra
a pieno titolo nell’ambito delle competenze dei governi nazionali.
L’Italia, paese nuovo all’immigrazione, probabilmente affascinato dalla politica
migratoria degli Stati Uniti, ha deciso di adottare una politica di quote. Patrick Weil
sostiene che il sistema delle quote, per quanto riguarda la disciplina
dell’immigrazione qualificata e non qualificata, sia un sistema superato, un sistema
che ha fallito, poiché i governi sono sempre stati accusati di non riuscire a portare
avanti una gestione efficace dell’immigrazione stessa. Le quote consistono nel
prevedere le esigenze delle imprese e del mercato del lavoro, una previsione già di
per sé ardua e improbabile. Il risultato fallimentare della politica di immigrazione in
Italia si è espresso recentemente con delle regolarizzazioni periodiche: 1986, 1990,
1995, 1998, 2002. L’ultima regolarizzazione ha interessato 700.000 domande: la più
grande regolarizzazione dopo la regolarizzazione americana del 1986, un dato di
rilevante importanza se si considera che l’Italia è un paese con una popolazione
cinque volte inferiore a quella degli Stati Uniti. Come spiegare questo debordare di
regolarizzazioni da parte del governo italiano? È il sistema delle quote che non
funziona. Per esempio, un giovane dell’Africa o dell’Europa dell’Est, che viene a
conoscenza del reclutamento di 80.000 stranieri per l’anno seguente si reca in Italia
con la speranza di essere uno dei fortunati; ma i candidati non sono 80.000, il sistema
delle quote si trasforma in una lotteria, nel 2002 l’Italia ha dovuto fare i conti con
milioni di nuovi arrivi. Coloro che non vengono selezionati, frustrati dalle spese del
viaggio e dalla disillusione, scelgono tuttavia di non abbandonare il paese e “si
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MIGRAZIONE E COOPERAZIONE Una nuova governance locale per il pluralismo, la libertà di movimento e lo sviluppo
accontentano” di vivere nell’illegalità. Il sistema delle quote è, dunque, un sistema
che attira più immigrati di quanti il governo vorrebbe accoglierne. L’Italia, tuttavia,
ha un bisogno enorme di immigrati per il suo mercato del lavoro. È un problema di
gestione, e il sistema delle quote è, per l’appunto, inadatto.
Colpisce in Italia quanto siano differenti le regolarizzazioni apportate nel 2002,
da quelle del 1998: rumeni e ucraini rappresentano la maggioranza dei regolarizzati
(nel 2002), rispetto a marocchini e albanesi (nel 1998). È un caso che l’Italia abbia
chiuso le frontiere al Mediterraneo (marocchini e albanesi) e le abbia invece aperte
all’Europa (rumeni e ucraini)?
Il fenomeno delle migrazioni interessa tutti i ministeri, è un fenomeno
complesso. Un fenomeno che va regolamentato ma che, come ogni altro fenomeno,
può presentare degli squilibri. Può aiutare un paragone con il pagamento e il controllo
delle tasse: eliminare i controlli o irrigidirli eccessivamente provoca degli squilibri e
delle irregolarità. Quando arriva un imbarcazione di clandestini alla frontiera le
reazioni della destra e della sinistra sono rispettivamente quelle di sostenere il
bisogno di un rafforzamento dei controlli (chiusura delle frontiere) e quella
dell’inutilità di questi ultimi (apertura delle frontiere). La politica delle migrazioni è
una politica dell’avvenire. Certi paesi dell’UE hanno bisogno di una politica
demografica importante, ma soprattutto, i cittadini dei paesi democratici e non,
vogliono circolare, vogliono avere delle esperienze in altri paesi, vogliono stabilirsi,
per ragioni lavorative o affettive, in un paese straniero. Gli stati democratici devono
provvedere ad adeguare le nuove politiche a queste nuove esigenze. L’immigrazione
nel XXI secolo, va dunque gestita in maniera differente da quanto è stato fatto nel
XX secolo. Molti politici, molti statisti demografici, chiedono che le persone siano
“qui o altrove” in condizioni di stabilità. Si andrà incontro, nei prossimi anni, a molti
“vai-e-vieni” dei lavoratori stagionali. Il diritto al “vai-e-vieni” è qualcosa di utile e
importante anche per l’immigrazione qualificata. Ciò che permette all’Europa di
competere con gli Stati Uniti e il Canada in materia di migrazione e crescita della
società alla luce delle esigenze attuali, è quella di istituire il diritto al “vai-e-vieni”,
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poiché molti giovani, diplomati, laureati, desiderano di poter mantenere un legame
con il paese d’origine. Attualmente, la loro condizione di stranieri non gli permette di
mantenere e sviluppare questo tipo di legame. Per un giovane laureato francese è più
semplice poter fare un’esperienza di studio o lavoro negli Stati Uniti, piuttosto che
per un giovane laureato africano. Il processo di accesso alla nazionalità è anch’esso
un tassello fondamentale della progettazione di una politica del divenire, per
stabilizzare le condizioni giuridiche e evitare i rischi di espulsione, di poter
partecipare alle attività politiche a pieno titolo.
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8.
Conclusione
Le differenti analisi affrontate, hanno cercato di esprimere la complessità del
fenomeno della globalizzazione delle identità culturali; la problematica correlazione
tra i principi etici, condivisi dagli organismi internazionali, e le politiche di attuazione
vincolate alla discrezionalità dei singoli Stati-nazione; inoltre, abbiamo messo in luce
le crescenti spinte identitarie e le pericolose derive comunitaristiche; le rivoluzioni
demografiche e le prospettive di crescita legate a una maggiore libertà di circolazione
degli individui. Il problema del riconoscimento di tale libertà risiede, come abbiamo
visto, sulla legittimazione indiscussa del principio di sovranità nazionale che vincola
l’individuo a «un» territorio e «una» cultura, e contrappone la logica
dell’istituzionalizzazione dell’appartenenza identitaria, a quella di una libera
costruzione dell’identità culturale. Solo una sfera pubblica che non identifica lo stato
di diritto e l’apparato politico con una precisa cultura nazionale, ma che costituisce lo
strumento e il luogo entro il quale permettere alle culture di esprimersi, di mutare, di
nascere ed estinguersi, può costituire il fondamento di una società in cui il libero
movimento delle persone costituisca, come la libertà di espressione del pensiero, un
semplice diritto e non più una minaccia.
L’integrazione degli immigrati è una questione che tutti gli attori, al livello
locale e globale, hanno l’interesse di affrontare con successo. Questa è un’area
politica complessa e impegnativa. Richiede coraggio politico, e la buona volontà di
indirizzare certe complesse questioni locali nel quadro delle questioni politiche
sollevate dagli organismi sopranazionali come l’Unione europea, le Organizzazioni
non-governative e il diritto internazionale.
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