E` il giorno del giudizio e non

Transcript

E` il giorno del giudizio e non
Laurie Notaro
È IL GIORNO
DEL GIUDIZIO
E NON HO NIENTE
DA METTERMI
piemme
Titolo originale: Autobiography of a Fat Bride
© 2003 by Laurie Notaro
Traduzione di Edy Tassi
Realizzazione editoriale: Conedit Libri Srl - Cormano (MI)
I Edizione 2010
© 2010 - Edizioni Piemme Spa
20145 Milano - Via Tiziano, 32
[email protected] - www.edizpiemme.it
Stampa: Mondadori Printing Spa - Stabilimento NSM - Cles (TN)
Non sei tu, sono io
La cretina sono io.
Ben è sul marciapiede, le mani infilate in tasca; i capelli, di solito dritti e lunghi fino ai gomiti, sono ora
una massa sorprendente di treccine fitte fitte, mentre
tiene la testa rivolta verso terra perché l’ho beccato.
L’ho beccato.
Lui è troppo stramaledettamente spaventato per
muoversi e io lo capisco, perché è il mio ragazzo e l’ho
beccato, proprio ora, mentre stava infilando tutte le
sue cianfrusaglie in un merdoso furgoncino da hippy
per andarsene a Seattle a inseguire il suo sogno, che
sarebbe coltivare erba, fumarsela e imparare a suonare
Old Man di Neil Young con la chitarra acustica, come
regalo di compleanno per suo padre, un uomo che non
ha mai conosciuto.
Sta scappando.
Con lei.
Basta spostarsi a destra, ed eccola, in piedi dietro al
furgone, che cerca di nascondersi; la Cagna, la sua ex
ragazza, con addosso un orrendo vestito di mussola e
gli stessi capelli a treccine.
«Ha fatto lei le tendine» borbotta lui, sempre fissando il marciapiede.
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«cosa?» chiedo, scuotendo la testa.
«Le tendine, le ha fatte lei» ripete. «Per il furgone.
Ha venduto la macchina e l’ha comprato.»
Per un istante sono confusa e mi domando cosa ci
si aspetta che faccia. Dovrei azzuffarmi, tirare calci e
gridare, oppure dovrei cercare di oppormi? Non ne ho
idea, perciò non faccio niente. Mi allontano soltanto.
«Non vuoi picchiarmi?» grida lui. «Non vuoi urlarmi che mi odi?» mi strilla dietro.
Io mi limito a scuotere la testa e continuo a camminare.
«Non sei tu!» grida un’ultima volta. «Sono io!»
E questo basta a farmi immobilizzare di botto.
«Davvero?» chiedo, voltandomi. «Sei sicuro che sei
tu? Perché sarebbe fantastico sapere che sei tu e non
io, specialmente dopo che ti ho beccato nel bel mezzo
di un tentativo di fuga. Sei tu? Sei davvero tu, Ben?»
«Be’, immagino di sì, almeno un po’» farfuglia lui,
mentre la Cagna sbircia da dietro le tendine viola facendo tintinnare gli ornamenti delle treccine. «Ma, be’, se
davvero lo vuoi sapere, direi che sì, sei soprattutto tu.»
«Soprattutto io» ripeto. «Sono soprattutto io che ti ho
spinto a inscenare questa pantomima da Figli dei Fiori?
Dio, sembra quasi che Stevie Wonder e Bo Derek vi
abbiano teso un’imboscata in un vicolo per intrecciarvi
i capelli con la forza!»
Lui rimane in silenzio per un attimo a riflettere e poi
annuisce.
«In effetti, sei soltanto tu» afferma con un sospiro.
«Non penso affatto di essere io. No, no, sei tu. Solo tu.
Non sono io, perché i miei chakra mi dicono che è tutta
colpa tua.»
Come se avessi bisogno di una conferma. L’ho già
sentita questa storia del “Non sei tu, sono io”. Anzi, a
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dire la verità ne sono diventata la protagonista ancor
prima che mi spuntassero le tette.
Il mio ruolo è sempre stato quello della Ragazza Idiota, quel genere di ragazza capace di scovare il sociopatico più affascinante con cui uscire e che non impara
mai che se vede avvicinarsi un tornado, specialmente
uno che lavora in un negozio di dischi e la cui unica
ambizione è mixare i bootleg dei Grateful Dead, deve
correre a nascondersi sotto il tavolo fino a quando la
turbolenza non passa.
È cominciato tutto al quinto anno, quando mia madre mi comprò una scatola di biglietti di San Valentino
da Kmart. Avevo scovato un biglietto di Holly Hobbie
perfetto, che rappresentava un contadinello completo
di grembiulone impegnato a mungere una mucca, da
dare al ragazzino con il quale avrei voluto mettermi al
sesto anno. Solo alcuni giorni prima mi aveva passato un biglietto tutto appallottolato che diceva: «Che
sciampo usi? I tuoi capelli hanno un profumo incredibile». Praticamente una dichiarazione d’amore che mi
avrebbe resa felice per il resto della vita o, se non altro,
fino alle vacanze estive. Sul retro del biglietto di San
Valentino avevo scritto nel mio corsivo migliore: «A
Paul, uso lo shampoo della Breck una volta alla settimana. Con amore, Laurie» e per aggiungere un pizzico
di malizia femminile, avevo disegnato dei cuoricini al
posto dei puntini sulle i, giusto per fargli capire che
ormai ero una donna, e che donna!
Ora, capisco che un messaggio di quel tipo potesse
essere abbastanza raccapricciante da indurre un ragazzino a rifiutare bruscamente l’amore di una bambina
con i capelli unti e in piena preadolescenza, ma non al
punto da spingerlo ad alzarsi in piedi durante la pausa
pranzo e urlare a squarciagola: «non sono il tuo ragazzo!
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A me piace Melissa Crow, perché ha i capelli lunghi
fino al sedere e i cavalli!».
Quando cominciai le medie, avevo già una cotta paurosa per Mike Smithfield, che aveva frequentato con me
il sesto anno, e avevo trascorso tutta l’estate aspettando
di rivederlo. Avevo iniziato a pettinare i capelli con la
riga a sinistra per solidarietà nei suoi confronti, che era
mancino, un subdolo handicap fisico che lui sopportava coraggiosamente in un crudele mondo di destrimani
ma che, allo stesso tempo, rendeva più difficile agli altri
copiare durante i compiti in classe. Se ero riuscita a capire che Mike Smithfield era un campione di coraggio
e superiorità solo dal modo in cui affrontava la sfida
di quella matita n. 2 che Dio gli aveva piazzato nella
mano sinistra, allora significava che eravamo destinati
a essere due anime gemelle. E che lui era un potenziale
marito perfetto. In suo onore, mi esercitavo instancabilmente nel mio sorriso più carino, che sotto una certa
luce, secondo me, era identico a quello di Elizabeth ne
La famiglia Bradford: bastava piegare verso il basso gli
angoli della bocca e poi far sporgere, innocentemente
ma strategicamente, i due denti davanti. Trovavo che
fosse una perfetta espressione di vulnerabilità e del fanciullesco bagliore di un risveglio sessuale in spaventoso
ritardo ma ancora possibile. Mia madre, però, aveva
assistito a una dimostrazione prematura del sorriso di
Elizabeth un giorno in cui era piombata in bagno, interrompendo bruscamente le mie prove.
«Accidenti!» aveva esclamato con il suo accento di
Brooklyn. «Se avessi avuto quella faccia il giorno in cui
ti ho portata a casa dall’ospedale, non avrei più toccato una sigaretta per tutte e due le gravidanze delle tue
sorelle. Ora, non so cosa diavolo ti sei sniffata, ma te lo
dico chiaro e tondo: devi smetterla di respirare la verni10
ce o di mangiare colla o quello che è, e da oggi, quando
faccio benzina, tu te ne rimani chiusa in macchina!! Se
ti dovesse venire voglia di fare respiri profondi, sappi
che ti tengo d’occhio! Per tua informazione, qui non
siamo dai Linkletter! In questa casa nessuno si imbottisce di droga e poi si lancia dal mio dannatissimo tetto!
Lo abbiamo appena fatto catramare!»
Mia madre era convinta che il mio destino fosse
di gettarmi dal tetto come aveva fatto la figlia di Art
Linkletter, che nel 1969 aveva volteggiato incontro alla
morte buttandosi da un edificio di sei piani, dopo essersi imbottita di droga. Sono certa che quello è stato
un momento agghiacciante per mia madre, la quale,
mentre ascoltava le notizie deve avermi con tutta probabilità guardata borbottando «Dovrai passare sul mio
cadavere!», nonostante allora non fossi ancora in grado
di masticare, figurarsi padroneggiare le capacità motorie necessarie per assemblare una siringa e iniettarmi
nel braccio una bella dose di eroina. Le lezioni su “La
figlia di Art Linkletter” erano cominciate presto, quando avevo più o meno nove anni. Accadde il giorno in
cui mia madre mi fece scendere dalla nostra Country
Squire station wagon davanti a scuola e vide un ragazzino del sesto anno che indossava una maglietta di quelle
tinte in casa. «Vedi quello?» disse, afferrandomi per un
braccio e indicando la figura color arcobaleno che si arrampicava sulla palestrina di metallo. «Scommetto che
i suoi sono gente che si fa. Hippy! Sai cosa mangiano
gli hippy per cena?»
Scossi la testa. «Carne il venerdì?» azzardai.
«No!» mi informò mia madre. «Spazzatura! Gli hippy
mangiano spazzatura! Rovistano nei bidoni dei vicini e
mangiano cibo avariato perché sperperano tutti i loro
soldi in droga e colori a olio! D’ora in poi, non accettare
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una gomma o una caramella da nessuno tranne che da
Non prendere mai un’aspirina e non bere mai dalla
lattina di qualcuno tranne che dalla mia! Ci sono persone là fuori, come quel piccolo hippy, che vogliono che
provi la droga per farti diventare come loro. Un giorno,
a ginnastica, accetti da una ragazzina una gomma che ti
fa sembrare tutto più luminoso e più bello, e il giorno
dopo ti ritrovi senza biancheria intima a mangiare gli
avanzi putrefatti del polpettone che la signora Kelch ha
buttato nel cassonetto. Quella è una vita senza regole!
La figlia di Art Linkletter si è buttata dal tetto dopo
che qualcuno le ha dato qualcosa da masticare, e anche
se nessuno lo dice, scommetto che anche lei mangiava
spazzatura. È questo il tipo di vita che vuoi? Una vita
senza regole? Davvero?»
Per un sacco di tempo ho creduto che un pacchetto
alterato di Juicy Fruit, una lattina di Mr. Pibb corretta
con l’aspirina o una caramella spruzzata di fenciclidina
avrebbero scatenato in me l’impulso irrefrenabile di localizzare la scala a pioli di mio padre, arrampicarmici
sopra e gettarmi dal tetto di casa nostra come una vergine sacrificale, spiaccicando la pianta di yucca di mia
madre come una ninfea. Onestamente, con il senno di
poi, non credo che fosse tanto la possibilità che morissi per droga a trafiggere mia madre fino al midollo
con una lama di paura, quanto quella di diventare «la
signora Notaro, quella con la figlia che si è buttata giù
dal tetto». Comunque, poiché pensavo che la maggior
parte delle persone che frequentavo stessero cercando
di farmi precipitare da un tetto (fino a quando cioè non
ho compiuto venticinque anni e ho finalmente capito
che nessuno distribuisce gratuitamente droga alle persone che non conosce, perché prima vengono sempre
gli amici), dovetti affrontare un evidente dilemma amome!
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roso quando rividi Mike Smithfield il primo giorno di
scuola media.
Lo individuai appoggiato al bidone dell’immondizia
della caffetteria, con il vassoio nella mano sinistra, e
corsi a salutarlo. Lui annuì, sorrise appena e io rimasi a
fissarlo imbambolata.
Dopo un istante lungo e teso, di punto in bianco
mi disse «Ehm, ti va una Snoball?» e indicò la sfera
rosa ricoperta di granella al cocco in bilico sul bordo
del vassoio, un millisecondo prima che raggiungesse
un hamburger freddo e bruciacchiato che l’aspettava
ansioso in cima al mucchio di spazzatura sottostante.
“Una cena hippy a quattro stelle” ricordo di aver pensato.
Visto che comprendevo il potenziale pericolo di un
dolcetto avvelenato, ero istintivamente guardinga. Ma
quella consistenza spugnosa da marshmallow e quella spumosa cremosità rappresentavano un autentico
canto di sirena per i miei ormoni frustrati. No, Mike
Smithfield non era mia madre. Questo era vero. Ma
era mancino. Uno svantaggiato. Uno storpio sociale.
Lui comprendeva il dolore, lo conosceva bene. Chi
piange è l’ultimo a provocare lacrime. Ero convinta
di potermi fidare di lui. Inoltre, se per dimostrargli il
mio amore avesse avuto bisogno che mi lanciassi da
un tetto, ero disposta a librarmi nell’aria leggera come
uno struzzo.
Annuii e lentamente sollevai lo sguardo, mentre mi
lanciavo nel sorriso di Elizabeth, sporgevo i miei due
dentoni asinini e afferravo la Snoball con la mano sinistra. Sapevo che quell’omaggio zuccherino era il segnale inequivocabile di un tenero affetto e, forte del
fatto che indossavo i miei jeans Dittos color mattone
nuovi di zecca, chiamai a raccolta tutto il coraggio con
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un unico profondo respiro e dissi: «Ti va di venire con
me alla festa di Sadie Hawkins venerdì?».
«No» rispose lui laconico, ma io non gli credetti.
Sapevo come stavano le cose. I ragazzi sono timidi.
Hanno paura dell’amore, mi dissi, bisogna convincerli,
mostrare loro la luce. Così lo seguii in palestra con il
sorriso di Elizabeth congelato sulla faccia, chiedendogli in continuazione «Perché? Perché non ci vieni con
me? Perché?» fino a quando non arrivammo al campo
da baseball e lui se la diede a gambe di corsa, guardando indietro da sopra la spalla per vedere se stavo
ancora cercando di tampinarlo. Io rimasi lì un bel pezzo, e pian piano compresi che le Snoball, per quanto
rosa e morbide, non sempre significano amore. In quel
preciso istante, Patti Herman, la prima ragazza della
scuola ad aver fumato e quella che con più probabilità
avrebbe potuto convincerti a mangiare un chewingum
allucinogeno nel bagno delle femmine, mi passò accanto e gridò: «Ehi! Sicura che i tuoi pantaloni siano
abbastanza stretti, Vulva al Vento? Se ti piace mettere
così in mostra la pagnotta puoi anche fare a meno di
infilarteli!».
E nemmeno dopo questo episodio le cose sarebbero
migliorate.
La mia vita sentimentale prese una piega violenta
durante il secondo anno di liceo. Stavo guardando con
adorazione Jim Kroeger, uno dei senior, che giocava a
basket in palestra, quando lui mi chiamò per la prima
volta per nome. Io mi voltai e lo abbagliai con il mio
più grande e luminoso nuovo sorriso da coniglio alla
Chrissy Snow, quella di Tre cuori in affitto, proprio nel
momento in cui la palla da basket mi rimbalzava con
violenza sulla testa. Mi alzai, rintronata ma sempre sorridente, in mezzo alle risate che risuonavano intorno
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a me e continuai a sorridere fino all’infermeria, dove
osservarono il bassorilievo livido e rotondo sulla mia
fronte e mi chiesero se ero spesso soggetta a crisi di
quel genere.
Più tardi, sempre al liceo, provai a uscire con un ragazzo più grande, prossimo al diploma, che veniva da
Los Angeles e che lavorava con me da Pizza d’Amore,
nel centro commerciale. I nostri occhi, a parte uno dei
suoi che era un po’ pigro, si erano incontrati sopra le
sfere di pasta e i dadini di mozzarella che sprizzavano
scintille di romanticismo da tutte le parti. Ma quando si
fermò davanti a casa mia quella sera, su una Chevy verde con i finestrini dipinti di nero, mia madre lo scacciò
agitando uno strofinaccio e gridando: «Ingrana la retro
e vattene, Mr California! Non metterai le tue zampacce
unte di pizza sulla mia bambina!».
Al college, avevo ormai accumulato abbastanza
esperienza da prestare attenzione alla bandiera rossa
che cominciava a sventolare ogni volta che saltava fuori un appuntamento, specialmente se, quando andavo
a prenderlo, il ragazzo di turno era già sbronzo. Era
sempre un brutto segno, perché se io avevo avuto il
buon senso di rimanere sobria durante la parte più
promettente dell’appuntamento, lui avrebbe quanto
meno potuto fare lo stesso. Uno di questi potenziali
fidanzati, che i miei amici avevano ribattezzato “l’Orrido Todd”, era un ragazzo che avevo conosciuto a
un corso di diritto delle comunicazioni. Quando ero
andata a prenderlo non era solo ubriaco, ma letteralmente privo di sensi. Dopo che i miei colpi alla porta
lo avevano svegliato, mi aveva accompagnata a cena e
si era messo a mangiare un cheeseburger intero senza
usare le mani. Ogni tanto guardava in su, la faccia impiastricciata di ketchup, carne e brandelli di lattuga,
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e ridacchiava come una iena che banchetta sopra una
carcassa.
Io, da parte mia, ero determinata a far funzionare le
cose. Così cercai di fingere meglio che potei che tutto fosse a posto, dicendo cose tipo «Allora, quanto ci
hai messo a fare quell’arcobaleno... oh, scusa, prisma
di luce... con le bottiglie di birra nel tuo soggiorno?»,
«È fantastico che tu sappia suonare tutte le canzoni di
Dave Matthews soffiando in una bottiglia di birra», «Ci
vuole un certo talento per riuscire a fare uscire un rutto
da una bottiglia di birra» e «No, Todd, davvero non
credo che riuscirai a infilartela su per il naso, visto che
è una bottiglia di birra».
Poi cominciai a uscire con un altro tizio che avevo
incontrato in un bar, fino a quando non lo trovai impegnato in un incontro di sesso occasionale con una
cameriera adolescente della Dairy Queen, con il suo
piccolo grembiulino rosso appallottolato in fondo
al divano. Ma non fu un problema, perché da quando avevo scoperto in camera sua una medaglia delle
Special Olympics per i ritardati mentali, stavo già comunque cercando una via di fuga. Anzi, così mi fornì l’opportunità di restituirgli la versione in Lego del
Millennium Falcon, che io avevo sempre considerato
un regalo piuttosto stravagante e la manifestazione di
uno strano senso dell’umorismo, piuttosto che del suo
effettivo sviluppo mentale. Finalmente compresi che
forse, dopotutto, non soffriva di un serio problema con
l’alcol e decisi che sarebbe stato saggio prendere appuntamento con un avvocato per elaborare una linea di
difesa. Quanto al mio successivo ragazzo, piantò il suo
seme in un utero che non era il mio e io superai la cosa
dimagrendo di sette chili e uscendo con il suo migliore
amico, il quale scelse proprio quel momento per deci16
dere che, tutto sommato, le ragazze gli facevano venire
la nausea.
Così terminai il college con una laurea in giornalismo,
pronta a trovare il lavoro dei miei sogni nella redazione
di un quotidiano, e un uomo decente che possedesse
una macchina sua e fosse certo della sua sessualità: i
miei due nuovi, rivisitati criteri di valutazione di un potenziale fidanzato.
Ma ho avuto l’eccezionale sfortuna di entrare nel
mondo del lavoro nel momento esatto in cui il quotidiano del mattino rilevò quello del pomeriggio, fuse le
due testate e duecentocinquanta giornalisti ed editor
si ritrovarono di botto senza impiego. E, sebbene io
avessi messo a segno un bel colloquio per la rubrica di
necrologi di un altro piccolo giornale, alla fine venni
scartata in favore di un ex editor specializzato in servizi di approfondimento con vent’anni di esperienza alle
spalle.
Così la mia carriera da Brenda Starr cominciò in veste
di impacciata receptionist per un piccolo distributore
musicale. Ci lavorava già la mia amica Kate, nell’ufficio contabilità, la quale mi raccontò che l’ultima receptionist era stata licenziata dopo che l’avevano trovata
nuda alla scrivania, intenta a parlare con clienti immaginari. Era un lavoro facile. Non c’era bisogno che mi
vestissi bene, bastava che rimanessi vestita, e non appena assicurai al direttore generale che non avevo mai
sentito, né tanto meno risposto a voci che mi chiamavano dall’aldilà e che mi ordinavano di spogliarmi, venni
immediatamente assunta. Il lavoro aveva due vantaggi:
uno sconto ai dipendenti del 25 percento su tutti i dischi, e la possibilità di non indossare il Wonderbra se
non ne avevo voglia. Anzi, venni perfino incoraggiata a
lasciarlo a casa nel cassetto.
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C’erano un sacco di bei ragazzi che lavoravano in
magazzino, ma pensavo che non fosse saggio imbarcarsi
in insidiose storie da ufficio. Tanto più che il più bello
di tutti – quello con un paio di seducenti occhi dolci –
mi rivolgeva a stento la parola, sebbene io cercassi disperatamente di impressionarlo con la mia competenza
e destrezza davanti alla fotocopiatrice. Dopotutto, ero
una laureata. Aveva un sorriso caldo e quegli occhi incredibili che evitavano sempre ogni contatto con i miei,
neanche fossi stata una specie di zecca che cercava di
succhiargli fuori l’anima a colpi di sguardi. Un giorno
cercai di rompere il ghiaccio approfittando del fatto
che le sue fotocopie si erano inceppate. Saltai subito
su per intervenire chirurgicamente sulla fotocopiatrice e liberai con successo il foglio ribelle. Gli mostrai
il colpevole e richiusi la macchina, ma la sua reazione
fu molto più tiepida della reverente soggezione che mi
aspettavo. Mi guardò per un misero istante, mi strappò
di mano il foglio e scomparve di nuovo in magazzino.
Più tardi raccontai l’episodio a Kate, che rise, mentre io inorridii quando lei mi fece notare la caccola nella
narice sinistra che mostrava la sua testolina lattiginosa
da vermicello ogni volta che espiravo. Dopo il lavoro ci
incontrammo per l’happy hour e Kate mi offrì un drink
per brindare al fatto che il muco si era dimostrato una
fantastica misura preventiva contro le storie da ufficio.
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La Ragazza Idiota:
la triste e solitaria storia
della principessa “Fa’ pure non importa”
Ben era scappato dallo stato neanche io fossi stata uno
dei khmer rossi, il partito comunista cambogiano. Ma
ero stata avvisata.
Infatti, mi aveva già tirato un bidone al nostro primo
appuntamento.
«Non ce l’ho fatta. Non sono riuscito a trovare un
passaggio» era stata la scusa di Ben, perché, ovviamente, non aveva la macchina.
Il nostro secondo appuntamento si era svolto in un
parco, perché a quanto pareva ci stavamo nascondendo dalla sua ragazza, della cui esistenza io, allora, non
sapevo ancora niente; il terzo appuntamento aveva
avuto luogo (altro nascondiglio) dietro il bancone del
negozio di dischi in cui lavorava, mentre mangiavamo
gli Whopper al formaggio che avevamo comprato con
un’offerta due per uno e ci dividevamo le patatine e
la bibita che, bisogna ammettere, non erano formato
gigante. Ora, a chiunque verrebbe spontaneo pensare che ormai avrei dovuto afferrare il concetto, invece
continuavo a crogiolarmi nella mia beata ignoranza, affascinata dal suo pizzetto.
Sono una stuupida, proprio il tipo di ragazza stuupida con due u.
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La nostra relazione non è durata più della stagione
degli uragani e ha provocato abbastanza danni da far
dichiarare lo stato d’emergenza. Nell’arco di una settimana, il nostro rapporto è passato dagli appuntamenti
clandestini al parco alla mia nomina a sua “deliziosa
ragazza”.
Non è mai un buon segno.
Come poi si è scoperto, Ben aveva un difetto decisamente grosso.
Una sera stavamo andando a una festa, quando Ben
cominciò a parlarmi dell’instabilità della sua ragazza.
Io ero pronta a lanciarmi in un discorsetto tipo “L’incidente che mi è capitato quando sono andata a sbattere
contro un palo della luce durante una gita nei campi il
terzo anno, che mi ha fatto diventare molto più sensibile come persona, il che, sai, non significa essere instabili” quando mi resi conto che non si stava riferendo
a me.
Attente: “la ragazza” è sempre una storia noiosa, che
di solito salta fuori durante il Terzo atto di “Non sei tu,
sono io”, perciò bisogna dire che la ex di Ben ha recitato il suo cameo piuttosto in anticipo. Le ex sono sempre
una combriccola sgangherata. Non sono mai biochimiche, maghe della finanza, o professoresse di inglese. La
maggior parte delle volte si stanno sottoponendo a un
qualche tipo di terapia contro le alterazioni del comportamento o sono in prova per qualche lavoro. Quelle
con cui ho avuto la sfortuna di imbattermi io non avevano neanche terminato il liceo, figuriamoci avere una
prospettiva di carriera. La ex di Ben è stata la più vicina
ad averne una, grazie al suo posto di pettinatrice in un
salone di bellezza per cani.
«Cosa vuol dire che hai un’altra “ragazza”?» gli chiesi mentre arrivavamo a destinazione. «Non puoi averne
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più di una, perché so che non sei né un mormone né
uno sceicco. Non possiedi nemmeno una macchina,
dove li troveresti i soldi per mantenere un harem? Non
hanno ancora inventato le offerte di Whopper tre al
prezzo di uno, sai?!»
Ben si avventurò in una balbettante spiegazione secondo la quale non erano proprio insieme insieme; la
storia si era esaurita, ma continuavano a vivere nello
stesso appartamento perché nessuno dei due poteva
permettersi di traslocare.
Onestamente, non mi era suonato così strano, visto
che la mia amica Jamie aveva vissuto nello stesso scomodo modo per sei lunghi mesi, fino a quando cioè
non era tornata a casa un giorno e aveva scoperto che
il suo ex ragazzo, ora solo coinquilino, aveva dato in
beneficenza la maggior parte delle sue cose perché era
venuto a sapere che lei aveva cominciato a uscire con
qualcun altro.
Ben poi si offrì subito di dimostrarmi che non erano
più davvero insieme insieme.
«Puoi chiamarmi ogni volta che vuoi» disse con sicurezza mentre bussava alla porta. «Per lei non è un
problema. Le ho parlato di te.»
Quella era una buona dimostrazione, piuttosto solida, pensai. Ma, pensai anche, se la nuova ragazza del
mio ex ragazzo telefonasse a casa mia, io probabilmente le riattaccherei il telefono in faccia e chiamerei immediatamente l’Esercito della Salvezza.
La Cagna doveva essere molto comprensiva, ragionai mentre mi univo alla festa, pur avendo ancora
qualche difficoltà ad assimilare fino in fondo il concetto. Ma nel giro di dieci secondi rimasi ancora più
sconcertata quando, dopo aver fatto un tiro da una
sigaretta a dir poco sospetta, Ben cominciò a esibir21
si in un’interpretazione dance di Tear the Roof off the
Sucker di George Clinton & Parliament’s. Mentre mi
facevo piccola in un angolo, lui si aggirava baldanzoso per tutta la stanza come uno di quei cavalli della
Budweiser, ancheggiava come Gypsy Rose Lee, e poi
trangugiava un’intera ciotola di salsa alle cipolle raccogliendola con le dita.
Fu esattamente una settimana dopo che sorpresi Ben
e la Cagna mentre impacchettavano le sue cose nel furgoncino da hippy e lui mi disse che era tutta colpa mia.
Mentre ritornavo verso la mia macchina, mi venne in
mente una sola cosa da dire.
«Ma davvero?» urlai. «Be’, allora voi due mangia
spazzatura siete proprio fatti l’uno per l’altra, visto che
lui non riuscirebbe a riconoscere una forchetta neanche in un confronto all’americana!!!»
È meglio così, continuavo a ripetermi mentre salivo
in macchina e ingranavo la marcia, lasciandoli tutti e
due in piedi sul marciapiede vicino al furgoncino. È
meglio così.
Che razza di uomo esce con una Testa Tutta Treccine? mi chiedo.
Che razza di ragazza viene mollata per una Testa Tutta Treccine?
Immagino il mio scalpo suddiviso, sezionato e intrecciato come un cestino di vimini e rabbrividisco.
Il mio ragazzo se ne è solamente andato. In un altro
stato. Con Medusa.
Forse aveva assunto della droga scadente.
Le droghe scadenti possono sicuramente far fare
quel genere di cose a una persona; guarda cos’è successo dopo un solo tiro di marijuana: si è trasformato
nel cantante dei Van Halen! E mio cugino una volta,
mentre era sotto l’effetto degli acidi e stava scassinando
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una casa, ha ucciso un gatto perché era convinto che
fosse un leone.
Le droghe scadenti possono indurre il tuo ragazzo a
lasciarti.
Sii realistica, ordinai a me stessa. Nessuna droga,
buona o scadente, avrebbe potuto trasformare quelle
treccine in qualcosa di diverso da delle treccine. Un
gatto può diventare un leone, ma una treccina resta
sempre un’orribile pettinatura.
È davvero colpa mia, mi dico. Ho bisogno di imparare a individuare e riconoscere i segnali di pericolo
quando li vedo, e non liquidarli come “eccentricità”,
“adorabili stravaganze” o “il segno che lui è alla disperata ricerca dell’aiuto e del conforto di una compagna
codipendente che solo io, la principessa Fa’ pure non
importa, posso offrirgli”. I cattivi ragazzi non cercano
giustificazioni; a questo ci pensano le loro ragazze. E
anche io mi ero macchiata di questa colpa. Un cattivo
ragazzo rimarrà tale, mentre solo raramente, molto raramente, un bravo ragazzo si alzerà una mattina pronto a cedere alle forze del male. Allo stesso modo, un
cattivo ragazzo non si sveglierà mai una mattina miracolosamente trasformato in un bravo ragazzo. Ci sono
più probabilità di trovare un ratto dentro una lattina di
aranciata e di diventare milionari con il risarcimento.
Un cattivo ragazzo non cambierà mai, perché, semplicemente, non vede nulla di cui vergognarsi.
Eppure dovrebbero esserci delle conseguenze, bisognerebbe introdurre delle punizioni: racconta una
balla, ed è possibile assistere mentre gli tatuano addosso, preferibilmente sulla fronte, le parole “Attenzione:
pericolo di gravi danni emotivi. L’utilizzo di questo
prodotto potrebbe causare cecità temporanea, isteria,
irrazionalità, bassa autostima, che richiederebbero l’in23
tervento di uno specialista psichiatrico per un costo di
120 dollari all’ora”.
Ero io la cretina.
Sono io la cretina.
Perciò feci l’unica cosa possibile. Prima che il sole
sorgesse ero già a bordo di un aereo diretto a Portland,
Oregon, dove il mio eterno ragazzo di scorta mi stava
aspettando all’uscita. Ma la nostra ritrovata felicità durò approssimativamente trenta minuti, fino a quando,
cioè, lui non fermò la macchina sul viale di casa e disse:
«Giusto perché tu lo sappia, la mia ex era davvero a
corto di soldi e si è trasferita da me. Ma non preoccuparti, non andare in paranoia, okay, perché non c’è
problema. Le ho raccontato tutto di te».
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