Rebirth-I-Tredici-Giorni

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Rebirth-I-Tredici-Giorni
Alessia Coppola
Rebirth
I Tredici Giorni
Dunwich Edizioni
Rebirth – I Tredici Giorni
© Alessia Coppola
Codice ISBN: 9788898361915
Dunwich Edizioni, Via Albona, 95 – 00177 Roma
www.dunwichedizioni.it
Cover: Alessia Coppola http://alessiacoppola.wix.com/autrice
Stock Cover: Jessica Truscott http://jessicatruscott.weebly.com/
PREFAZIONE
di Anita Book
Questo romanzo non è per i deboli di cuore. Questo si dovrebbe leggere prima di voltare pagina e cominciare. E non sarebbe un invito a lasciar perdere ma solo a prepararsi, perché
qui, nel libro che proprio ora reggete tra le mani, non ci sono
sconti né censure e i sentimenti sgorgano come acqua sorgiva
dalla roccia natia, come i banchi di nuvole che migrano in
cielo, ininterrottamente.
Ho avuto il privilegio e il piacere di scoprire Rebirth in anteprima e adesso è con altrettanto onore che mi accingo a presentarvelo, nella speranza che siano fugati tutti i vostri scetticismi e che resti un rapace desiderio di lettura.
In questo romanzo non vi sarà raccontata la solita storia.
L’universo creato dalla fervida penna di Alessia Coppola è popolato da personaggi estrosi, insoliti, che appartengono alle
schiere del variegato immaginario collettivo, discendenti di
una mitologia complessa e affascinante, che attinge a uno
studio meticoloso e fondato ma che al contempo suggella un
sodalizio con una fantasia sfrenata e del tutto nuova, scevra da
qualsivoglia schema e confine imposti dal genere.
La scrittura è una carezza di velluto sulla pelle, morbida e
sensuale si insinua nei recessi più profondi dell’animo e vi imprime un segno. L’autrice si serve di un periodare lirico senza
però eccedere, ammanta la sua prosa di un’eco poetica senza
dimenticarne la sostanza. Ed è proprio grazie a questo suo
particolare talento che ci risulta semplice inquadrare l’identità
psicologica dei suoi protagonisti, di quelli che agiscono nel
bene e di quelli che lavorano al soldo del male, ricavandone
così un elaborato e convincente tessuto di situazioni, conflitti e
ispirazioni emotive.
Sarà impossibile liberarvene e passeranno più di tredici
giorni prima che possiate sentirvi meglio.
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Prima che la “maledizione” venga infranta.
Ma per capire di cosa stia parlando, be’, non vi rimane che
iniziare a leggere.
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“La bellezza è l’unica cosa contro cui la forza del tempo sia vana.
Ciò che è bello è una gioia per tutte le stagioni, ed è un possesso per
tutta l’eternità.”
Oscar Wilde
All’Amore senza tempo e senza misura,
quell’amore che spacca le ossa
e fa esondare gli argini del cuore.
Alessia Coppola
Prologo
«Curioso come il Destino intrecci le nostre vite, eh, Dlen?» Una
voce argentea e incorporea venne rinfranta da una fiamma
azzurra che oscillava nel vuoto come un’odalisca. Tremolava.
Lentamente una forma veniva plasmata all’interno. Il suono si
fece più corposo e terreno. L’armoniosa silhouette di un angelo
emerse dalle spire azzurre. Sembrava l’incarnazione di un eroe
mitologico. Solenne ed elegante, fece il primo passo in
quell’oblio cupo in cui annegavano le ombre del mondo. Non
c’era nulla lì, se non il buio perpetuo, irradiato qua e là da
vampe azzurre. Un dedalo di fiammelle ardeva nel vuoto, sussultando e prendendo figure ogni volta diverse.
Era toccato a lui riemergere.
«Il Destino ci usa come pedine, Ayku. Dispone per gli esseri
umani e per noi, tutti. Vita e Morte sono sue spose e noi siamo
frutti dei loro capricci. Nel bene e nel male, è lui a scegliere.»
«Il libero arbitrio, Dlen. Non è sempre il Destino a scegliere.
Manda voi a tentare gli uomini e noi a riportarli sui propri passi.»
«Non credo sia così. Credo piuttosto che provi un insano divertimento in tutto questo. Pensaci, Ayku, quanti di noi hanno
la facoltà di scegliere?»
«Gli umani possono sempre cambiare i disegni del Destino.»
«Ma noi no. Non ci è dato scegliere e non ci è dato conoscere la sua volontà. Ci lascia combattere, pur sapendo che il giudizio finale spetterà a lui.»
«Il Destino ci offre una seconda possibilità dopo la morte, Dlen.»
«Dici bene tu, che sei destinato alla Luce.»
Silenzio. Una lama discese sulle loro teste, mozzando le
parole. Fu Dlen a parlare, sollevando quel palpabile velo di reticenza. «Avanti, a chi sei stato assegnato?» proseguì, mostrando le metalliche pagliuzze dei suoi occhi.
«Dlen, io… Non dovresti essere qui.»
«Non posso essere nemmeno lì. Ho ignorato il mio obbligo,
ricordi? Ora sono destinata al limbo, rinnegata da entrambe le
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fazioni.»
«Sì, ricordo. Ed è stata colpa…»
«No, non dirlo.»
Lo spirito alato abbassò il capo e si avvicinò alla figura che
si teneva a distanza dai bagliori.
Un guizzo di energia palpitò da un’altra fiammella. La
sagoma di una bambina brillava di luce una blu elettrica,
come quella dei neon del Madison Square. Disegnò un cerchio
nell’ombra e si aprì uno squarcio di luce. Svanì.
«Una bambina… anche tu mi apparisti così, Ayku.»
Lo spirito annuì e le rivolse uno sguardo colmo di rammarico.
«Allora, a chi sei stato affidato?» continuò la voce. «Un banchiere? Un accattone, una prostituta in cerca di redenzione e una
vita migliore? Chi si è fatto corrompere questa volta?»
«Un’attrice.»
Per la laconicità con cui vennero pronunciate quelle parole,
Dlen inghiottì la lingua. Un gusto amaro ne ammorbava il
palato. «Chi, Ayku?»
«Lei.»
Quella risposta fu inesorabile come la condanna a morte di
un prigioniero. Gli occhi grigi di Dlen scintillarono per effetto
delle lacrime che si schermarono come un velo sulle sue iridi.
«Non può essere», sbottò.
«Lo è. Per questo ti ho detto che il Destino ci coinvolge in
giochi alquanto bizzarri.»
«Devi salvarla! Promettimelo, me lo devi, Ayku.»
La voce di Dlen rotta dal pianto sfumò come il respiro furioso
di un drago, dopo aver sfiatato l’ultima poderosa fiammata.
Lo spirito annuì, solennemente. «Si sta svegliando. Devo
andare da lei.»
Ayku si voltò e impose una mano nel vuoto. Toccò a lui tracciare il cerchio. Una vampata di luce infuocò la sua pelle e lo
inghiottì.
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1
La Ruga
Il pubblico acclamava il mio nome. Sentivo la sua voce infrangersi sulla porta del camerino, come un’onda impetuosa sulla
scogliera.
I riflettori si spensero e le tende di velluto del sipario calarono come due palpebre stanche.
Mi sedetti sul pouf orlato di organza rosa e mi guardai allo
specchio. Le piccole lampadine che lo incorniciavano si rinfrangevano nei miei occhi, facendoli apparire come due gemme brillanti appena rinvenute dalla roccia secca. Erano d’un verde raggiante, più di quanto non lo fossero lontani dalla luce.
Ma sotto i riflettori e i lustrini ci ero nata.
Avevo sempre sognato di fare l’attrice, quando finalmente il
fato mi aveva concesso l’occasione giusta. E da allora a New
Orleans non si era fatto altro che parlare di me. Dieci anni.
Dieci lunghi anni a lavorare incessantemente e attendere il mio
momento, bussando alle porte, tanto da non sentire più le
nocche. E infine ci ero riuscita.
Mi chiamavo la Venere di Vetro, per via del mio aspetto diafano e delicato. All’epoca le donne andavano di moda così:
snelle e longilinee. Sembravamo tutte libellule. Erano gli anni
’30 e le curve prorompenti dovettero attendere qualche altro
anno prima di esplodere dai corsetti.
Mi alzai e spensi il piccolo lucernario in stile liberty che rimandava spicchi di bagliori multicolore.
Rimasi nella penombra, attirata dalle luci dello specchio,
come una piccola falena.
Accesi una candela alla lavanda. L’odore speziato e dolce
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della cera che sfrigolava e colava sotto la brace dello stoppino
si diffuse nell’ambiente, penetrando nella mia mente come
fosse una spugna.
Mia madre.
Pensai a lei e ai suoi viaggi in Francia. In Provenza, per
l’esattezza.
Mi portava spesso sacchetti di seta al cui interno giacevano
piccole foglioline di lavanda essiccate, pronte a svegliarsi e a
solleticare i sensi.
Lei era francese e per un curioso scherzo del destino conobbe, in un ristorante della Tour Eiffel, mio padre; americano
fino all’osso.
Poi be’, l’amore la condusse qui, nella “palude d’America”.
Soleva definirla così, tutte le volte che discuteva con mio padre.
Ancora mi sembra di vederla con i suoi capelli rubino, furente
dalla rabbia, con le mani sui fianchi. Non aveva un caratterino
facile. Ma il suo uomo le dava ben ragione di sfoggiare le unghie
e, più di qualche volta, le lacrime. Quando gliele vedevo sbocciare dalle iridi, mi veniva l’insana voglia di raccoglierle e cullarle
tra le dita. Ma la lasciavo ai suoi silenzi, interrotti dal tonfo della
porta d’ingresso sbattuta da mio padre. Non posso dire che non
si amassero; ma ciascuno dei due amava il proprio sogno più
dell’altro. Ogni volta la vedevo raccogliere i cocci delle stoviglie
che gettava contro lo stipite o quelli del suo cuore, rattoppato
mille volte. Non capii mai chi avesse torto tra i due. Ancora
adesso mi arrovello cercando di comprendere. I miei genitori
erano acqua e fuoco. Dove regnava uno, si estingueva l’altro. No,
non erano fatti per stare insieme.
Quando eravamo sole, mia madre parlava di Parigi e di
quanto fosse folle e meravigliosa. Mi promise che mi ci avrebbe
portato, quando sarei stata più grande. Non accadde mai. Non
vidi mai Parigi, un po’ per caso, un po’ per scelta. Non volevo visitarla senza Madlene e non volevo che mi mancasse quanto
mancava a lei. Eppure, ci pensavo lo stesso. Immaginavo di passeggiare per le vie disseminate di artisti e fascinosi bohémien; di
vibrare come il colore di una tela variopinta; di sognare sulle
note dei violini nostalgici degli artisti di strada; di bagnarmi i
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piedi nella Senna e addentare calde baguette dal sapore rassicurante. Era strano: come potevo arrogarmi il diritto di rimpiangere
un luogo che non avevo mai visto, se non attraverso le cartoline
che Madlene mi faceva avere?
Mi spostavo per necessità, perché il lavoro me lo imponeva.
Avevo viaggiato tanto, da avvertire fin sotto la pelle la mancanza
delle mura del mio appartamento in New Orleans. Vivevo all’ultimo piano di un condominio residenziale. Avevo scelto quel posto
perché mi ricordava qualcosa. Non seppi con esattezza cosa,
mentre firmavo il contratto con la mia stilo. Era confortevole e mi
apparteneva, pur non avendoci mai messo piede prima. Avevo
visitato altri alloggi, ma quello era l’unico in grado di farmi rimpiangere casa. L’agente immobiliare dovette essersi reso conto
della mia attenzione, perché aumentò l’ammontare della cifra,
adducendone un notevole valore storico. Mi disse che quelle
mura avevano ospitato Mark Twain. Dubitai che così fosse, nonostante mi facesse piacere immaginarlo alla scrivania del soggiorno mentre scriveva il suo Vita sul Mississippi. Alla fine potevo
permettermi di pagare quell’appartamento e conclusi, concedendo all’agente quanto mi chiedeva.
Non avevo bisogno di altri luoghi per avere l’impressione di
essere più ricca o migliore, come presume di sentirsi la gran
parte della gente che si muove di continuo. Viaggia e troverai te
stessa, era il motto di Gary. Credo fermamente che mentisse o
che semplicemente non lo pensasse sul serio. Da che pulpito, poi;
proprio lui, in perenne conflitto con se stesso. Come ci si può ritrovare altrove? Per quanto ci si possa allontanare, non si può
sfuggire a noi stessi. Lo smarrimento che mi albergava dentro
non si sarebbe fugato se avessi viaggiato. Mi apparteneva e lo
trascinavo con me per le strade del mondo. Tanto valeva che rimanessi lì dov’ero. Ero convinta che, se proprio fosse esistito un
luogo in grado di riappacificarci, sarebbe stato solo uno: casa. La
mia, quella che forse non avevo mai avuto ma che ho trovato
nella mia città.
New Orleans.
Adoravo i suoi sobborghi, l’aria frizzante e dolciastra che
saliva per le vie, i fischi dei battelli e le luci vanitose che si spec100
chiavano sull’acqua cobalto del Mississippi. Amavo far fluire lo
sguardo sui solchi increspati delle sue onde, rimanendo stregata
da un effluvio che sapeva di ruggine e promesse.
E i colori… New Orleans era un carnevale. E quando c’era
davvero il Carnevale, la città sembrava una sorta di Corte dei
Miracoli.
Mi ubriacavo delle note che scivolavano via dalle trombe
dorate dei jazzisti.
Le bevevo e cantavo.
Contrariamente al mio aspetto, la mia voce aveva corpo; era
piena, rotonda, sensuale. Nera.
Forse aveva influito l’essere cresciuta nelle vicinanze di un
ghetto.
Ogni domenica sentivo i canti gospel che risuonavano oltre
le finestre multicolore di una chiesa: la Christ Church Cathedral. Da qualche decennio era divenuta cattedrale e ospitava
numerose comunità e minoranze. Era famosa all’epoca, per la
celestiale musica jazz sulla quale il coro cantava. Non pochi
erano coloro che si avvicinavano a quelle mura, grazie al
canto. E posso dire che altrettanti furono coloro i quali si convertirono alla fede, attirati dai sermoni del reverendo Wilson.
Non facevo parte di quest’ultima schiera di persone. Non
credevo a nulla, se non a me stessa. Ne avevo passate troppe,
per credere che un Dio misericordioso mi attendesse con la
mano tesa. Andavo lì perché a mio modo mi rigeneravo. Era la
musica a farlo. E se un Dio esisteva in qualche dove, era proprio in quelle voci.
Come erano gravi, eppure leggere. Arrivavano alla bocca
dello stomaco. Mi sconvolgevano, mi facevano andare in subbuglio l’anima e mettevano centimetri di cielo sotto le mie
scarpe. Inferno e Paradiso, in un canto.
Donna Williams, la direttrice del coro, bussava spesso alla
porta di casa nostra, affinché i miei genitori mi concedessero il
permesso di unirmi alle voci della Christ Church.
Donna mi sentì la prima volta quando avevo otto anni. Ero
seduta sull’ultimo gradino della chiesa. Avevo la testa tra le
mani e singhiozzavo per l’ennesima lite dei miei. Stavo pian100
gendo, ma in realtà cantavo.
Un donnone nero mi si avvicinò, proiettando una grande
ombra sulle mie scarpette rosse di vernice. E prima ancora che
potessi alzare lo sguardo e guardarla in faccia, mi disse:
«Questo è soul, bambina.»
Amavo cantare e credo fossi brava, benché non avessi mai studiato. Sapevo di avere la passione che mi smuoveva dentro, come
un demone. Il mio era un canto che scuoteva l’anima, ruggiva
nelle ossa e faceva implodere i cuori. Il canto e la recitazione mi
elevavano da quell’inferno che vivevo ogni giorno.
Tornai allo specchio.
Spostai le onde sinuose dei miei rossi capelli su un lato, rivelando il candore della spalla sinistra. Sotto le luci sembrava
una sfera levigata e brillante.
Intinsi un batuffolo di cotone in uno struccante e cominciai
a passarlo lungo i tratti del viso.
Le prime a stingersi furono le labbra vermiglie che si spensero come la fiamma di un cerino.
Poi passai alle guance che ritrovarono il loro pallore e infine
agli occhi. L’ombretto verde scuro colò in una maschera di petrolio che di colpo spolverò via l’incanto fittizio della bellezza.
Senza i trucchi di scena non ero poi così eccezionalmente avvenente, come mi ritraevano i manifesti e le locandine dei teatri.
O forse sì, lo ero comunque, come diceva Gary. Eppure non mi
riconoscevo più senza il trucco. Ne avevo bisogno per non sentirmi nuda, per non sentirmi la piccola ragazzetta di New Orleans
che elemosinava ingaggi da quattro soldi e ramazzava i pavimenti dei camerini per avvicinarsi alle attrici e ai produttori.
Bastava un’ombra di cipria e di ombretto, per infondermi
una sicurezza che mi faceva sentire splendida. Ed era giusto
che così fosse. Dovevo esserlo, non potevo avere rivali. I compensi talvolta erano discontinui e, benché fossi all’apice del
mio successo, il lavoro era precario. Mi sentivo un’equilibrista.
Ero sul filo, sempre.
Il mio successo era la combinazione di due fattori: il talento
e la giovinezza.
Persa la seconda, avrei potuto solo interpretare ruoli di vec100
chie matrone shakespeariane imbronciate.
Il cerone era tutto sul piumino e, con esso, l’illusione di irretire il tempo.
Mi avvicinai alla superficie riflettente e serrai gli occhi. Percorsi il contorno delle palpebre nude con un dito. Mi fermai lì
dove indugiano le lacrime. E la vidi.
Una ruga.
Se il direttore del teatro non avesse preteso il risarcimento,
avrei infranto lo specchio. Dio, una ruga. Sul mio volto.
Avevo solo ventisei anni. Ma all’epoca, a trent’anni si era
finiti. Per lo spettacolo, intendo.
Mi restava ben poco e presto la mia immagine sulle locandine sarebbe stata sostituita da quella di qualche giovanissima
ballerina di cabaret con il caschetto nero e lucido come una
palla da bowling e un corsetto capace di afferrare al lazo gli
occhi degli uomini in tribuna.
Il tempo era sabbia tra le mie dita. Più lo stringevo, più esso
si divincolava in una folle danza incontro al vento.
Sfuggiva. Senza che io avessi occasione di invitarlo a ballare
con me.
Mi avrebbero amata quando il tempo si fosse ricordato di riscuotere il mio pedaggio? Quando le mie chiome avrebbero
perso il mogano dei ciliegi? Quando avrei salpato dalle sponde
della bellezza?
Forse la domanda era: mi sarei amata quando lo specchio
sarebbe stato stanco di riflettere la mia giovinezza?
Mi spogliai, lanciando furiosamente gli abiti dietro il paravento
in vimini intrecciato. Una cascata di stelle piovve nel buio.
Mi rivestii: una camicetta di seta rosa a pois neri e una gonna
a tubino nera. Infine uscii, richiudendo la porta alle mie spalle.
Piansi.
Credevo di non essere più in grado di piangere, eppure mi
infransi.
E pioveva.
Come se le mie lacrime non fossero state sufficienti a bagnare New Orleans.
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2
Lo Sconosciuto
Scesi i gradini sul retro del teatro e mi immisi in strada. Il
temporale aveva fatto dileguare i passanti. Mi strinsi nel mio
cappottino in tweed bordeaux e sollevai il bavero.
A poco servì, perché mi bagnai da capo a piedi, come un
cencio immerso in una vasca.
Pioveva così copiosamente che il tintinnio dell’acqua sui
marciapiedi era quasi più forte di quello dei miei tacchi.
«Ho visto il suo spettacolo, questa sera. È stata divina», disse
una voce alle mie spalle. Aveva un suono ruvido e profondo.
Non mi aspettai che ci fosse qualcuno nelle vicinanze. Mi
voltai e vidi un uomo.
Era vestito di nero. Indossava un cappotto di cachemire
lungo fin sotto al ginocchio, un paio di stringate nere lucide
come scarafaggi e un cappello a falda larga. Aveva il volto
coperto per metà da una sciarpa, nera anch’essa. Lì per lì
pensai fosse appena rientrato da un funerale in pompa magna.
Sgocciolava acqua come una vecchia grondaia. Doveva esser
stato colto alla sprovvista dal cambio repentino del tempo,
come me, perché non aveva un ombrello con sé.
«La ringrazio», mi affrettai a rispondere e mi voltai, imboccando la 14th in Mason Avenue.
«Ha fretta?»
Mi fermai. Ero abituata a scocciatori notturni. Trovarsi ammiratori ovunque, anche nei posti più impensati, era un rischio
del mio mestiere. Una volta avevo dovuto inscenare uno svenimento con tanto di ambulanza a sirene spiegate. Era la prima
di Sogno di una Notte di Mezza Estate e il pubblico si era innamorato della mia Titania. La folla si era accalcata all’uscita se100
condaria. Gary aveva convenuto con me che l’unico modo per
uscirne sarebbe stato inscenare un malore. A volte Gary era
geniale. Non per nulla era il mio produttore.
«Sì», risposi. «Sono stanca e vorrei tornare a casa. Se desidera un mio autografo può tornare domani sera. Berny, al botteghino, li distribuisce in cambio di un penny.»
Mi voltai nuovamente e non lo vidi più.
Pensai fosse meglio così. Ero davvero stanca e avvilita.
Volevo solo sprofondare nella seta delle lenzuola e dormire
fino a quando il sole non avesse bussato alla mia finestra.
Mi svegliai di soprassalto. Dovevo aver fatto un incubo. Ma
non riuscii a rammentare nulla. Un velo cupo e pesante era
calato sui miei i sensi. Li sentivo rallentati, offuscati. Ero nel
mio letto ed ero altrove. Mi sentivo confusa e la stanza mi rollava attorno, come fosse il ventre di una nave in preda a una
mareggiata. Una parte di me avrebbe voluto rimanere nella
stretta delle lenzuola. Non ero pronta per il mondo. Ma dovetti trascinarmi fuori dall’abbraccio ristoratore del letto e affrontare la giornata.
Quella mattina c’erano le prove di un nuovo spettacolo che
avremmo dovuto mettere in scena la sera stessa. Gary ci
teneva che fossimo tutti puntuali. Specialmente io. Be’, non per
niente la stella più grande tra quelle affisse alle porte dei camerini era la mia.
Preparai il caffè, esalando l’aroma avvolgente a pieni polmoni. Il liquido borbottava, richiamando a gran voce la mia
attenzione sulla fiamma. Aprii il beccuccio e fui pervasa dalla
corroborante carezza di quel velluto nero. Ogni volta che la
moka mi donava quell’estasiante esperienza dei sensi mi ricordavo dell’Italia. Lì sì, ci ero stata.
Avevo conosciuto un ragazzo siciliano che affittava camere
ai turisti. Mi aveva fatto scorgere la bellezza del Sud Italia e il
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verde del mare e dei suoi occhi. E del fuoco dei suoi baci, roventi come pomici esplose di netto dalla bocca dell’Etna.
Ma questa è un’altra storia.
Bevvi. Il calore della bevanda scaldò ogni angolo del mio
corpo. Spiegò le grinze del mio cuore, rattrappito e intorpidito. Fu allora che mi svegliai del tutto.
Feci un bagno caldo, sprofondando nella voluttà della schiuma, ovviamente alla lavanda.
Da quando mia madre se n’era andata, cercavo ovunque
frammenti di lei e qualunque cosa fosse in grado di riportarla
a me. Gli odori avevano un gran potere. Se chiudevo gli occhi,
la lavanda mi offriva l’illusione di essere stretta tra le braccia
di Madlene.
Uscii poco dopo e mi vestii. Mi truccai e indossai la solita
maschera che ero abituata a portare, l’unica con la quale la
gente mi conosceva: quella della diva.
Il pubblico doveva pensare che lo fossi, doveva acclamarmi
e amarmi. Dietro le scene ero una persona con un forte senso
pratico, a cui non piacevano fronzoli o volant. La gente invece
mi voleva tutta luccichii e falpalà.
Arrivai puntuale, come sempre.
Gary mi venne incontro a braccia aperte come un sipario.
«Oh, cara. Sei un vero splendore questa mattina. Ora sì che
può iniziare la giornata. Non siete d’accordo?» Fece mezzo
giro in direzione degli altri della compagnia, che mi guardarono di sottecchi. Non nutrivano particolare simpatia per me.
Onestamente, non mi importava.
Le cinque attrici del nostro gruppo si contendevano l’attenzione di Gary come fossero cuccioli bramosi di latte materno.
Eppure tre di queste avevano marito e figli. Nondimeno, le
vedevo scodinzolare con i loro abitini in crêpe attorno alle sue
spalle o ai moduli di contratto, in cerca di una parte più in
vista nello spettacolo. Ma non ce n’era per nessuno. Lui voleva
me e me soltanto come interprete principale. Era rapito dal
mio talento o, semplicemente, dal mio aspetto.
Le prove furono estenuanti e fui sul punto di andarmene
quando Betty Cooper modificò una battuta, così da farmi sba100
gliare l’entrata.
Intercettai lo sguardo di Gary che mi rassicurò, mostrandomi
un sorriso dai suoi baffetti neri tirati all’insù. Era un punto fermo,
per me. L’unica persona al mondo che fosse in grado di farmi ragionare, di farmi tornare sui miei passi. Forse perché il mio sostentamento dipendeva dai contratti che lui mi faceva firmare.
Finite le prove, trascorse qualche ora prima che si alzasse di
nuovo il sipario.
La sala era gremita. Sembrava un formicaio brulicante di teste.
Attesi nel camerino e, quando fu il mio momento, percorsi
decisa il corridoio. La sentivo da lì: «Grace Matthews, Grace
Matthews!» La folla chiamava il mio nome a gran voce.
Le sontuose tende scarlatte si levarono, mostrandomi al
pubblico. Uno scroscio di applausi mi piovve addosso, mi
stordì quasi, facendomi dimenticare le battute iniziali.
Dopo qualche istante in cui galleggiavo come una piuma nel
vuoto, mi riebbi e ricordai tutto: quella sera, per i miei ammiratori, ero Ophelia.
E io, la più infelice e derelitta
delle donne, ch’ho assaporato il miele
degli armoniosi voti del suo cuore,
debbo mirare adesso, desolata,
questo sublime, nobile intelletto
risuonare d’un suono fesso, stridulo,
come una bella campana stonata;
l’ineguagliata sua forma, e l’aspetto
fiorente di bellezza giovanile
guaste da questa specie di delirio…
Me misera, che ho visto quel che ho visto,
e vedo quel che seguito a vedere!
Mentre i versi di Shakespeare sbocciavano sulla mia bocca,
mi sentii così vicina alla folle Ophelia. Ma io non ero innamorata, non ancora, almeno. Ci accomunava la miseria delle
nostre esistenze. Misero era il mio passato. Tuttavia, mi bastò
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approdare al presente per ricordare chi fossi. Mi capitavano
spesso momenti di smarrimento come quello. Ma credo fosse
normale. Talvolta amavo tanto i miei personaggi da sentirmi
parte di essi e dimenticare me stessa. Li amavo perché sovente
ci accomunavano le tragiche sorti.
Era appena iniziata una nuova tournée di sette date al
Theatre Savoy. La prima tappa aveva registrato il pienone.
Gary si sfregava già le mani da dietro le quinte.
Alla fine del primo atto l’eco degli applausi mi rimase addosso fino a che non terminammo l’intera opera.
Vedevo ammirazione dipinta sui volti degli spettatori. Mi veneravano. Mi sentii una dea su un podio dorato.
Tornai euforica nel camerino.
L’idea di specchiarmi non mi fece poi così tanta paura. Il
pubblico mi amava ugualmente. Una ruga non lo avrebbe fatto
disinnamorare di me all’improvviso.
Rividi il mio riflesso smagliante. Mi sedetti. Il tempo si
fermò per qualche istante. Poi tutto si infranse come fine vetro
di Murano sbalzato a merletto. Ero io che stavo disinnamorandomi di me. Quel solco era lì, a sottendere il confine tra la
giovinezza e il tempo che mi rimaneva.
Non mi struccai. Volli mantenere quella fatua illusione fino
a quando il trucco non si fosse tatuato sul cuscino.
Uscii.
«Anche questa sera è stata strepitosa. Mi ha visto?»
Non mi stupii di trovare l’uomo della sera prima sotto la
luce di un lampione. La soffusa luminescenza avvolgeva la
figura come fosse un mantello dorato.
«Non l’ho vista, mi dispiace. Ero intenta a recitare.»
«Sta tornando a casa?»
Mi accigliai. «Scusi, cosa desidera?»
«Credo sia lei a desiderare qualcosa da me.»
Non lo assecondai e fuggii per la 14th, lasciandomi dietro
l’eco dei miei tacchi che sfumava nel buio.
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3
Il Patto
Quell’uomo tornò a farmi visita altre sere, dopo gli spettacoli.
Cominciai sul serio a temerne la presenza. Tanto che chiesi
a Gary di affiancarmi qualcuno che mi potesse accompagnare
fin sotto casa.
Mi propose di scortarmi lui stesso. Ma non volevo che entrasse nella mia vita più di quanto non lo avesse già fatto in
qualità di agente e produttore. Non desideravo alimentare in
lui vane speranze. Gary mi amava, a modo suo. Io no. Credo
di aver amato poche persone nella mia vita. Ero indipendente
e la sola idea di legarmi a qualcuno mi opprimeva. Mi serrava
la gola e lo stomaco. No, meglio da sola. Anche se a volte non
lo pensavo sul serio.
Rifiutai l’offerta di Gary e accettai una scorta pagata da lui.
Mi affibbiò un ragazzotto dinoccolato. Mi ammirava con
occhi da triglia che si intravedevano tra i ciuffi di una zazzera
scarmigliata e stopposa come paglia. Guardandolo pensai che
non sarebbe di certo stato in grado di sferrare un gancio. Si
chiamava Goeffrey.
Io avrei sicuramente saputo battermi meglio. Qualcosina me
l’aveva insegnata mio padre, Tyler Matthews. Un pugile.
Quando dopo l’ennesimo incontro, tornò pesto come la
mezzanotte, mia madre se ne andò. La vidi fare la valigia, raccattando le poche cose che aveva e lanciarle dentro alla rinfusa. Si diresse verso l’uscita e mi lanciò uno sguardo che non
seppi tradurre. Mi baciò sulla testa e si chiuse la porta alle
spalle. Mio padre non provò nemmeno a fermarla. Madlene
non tornò più, se non per qualche visita di cortesia.
Continuò a farmi sentire la sua presenza attraverso cartoli100
ne e regali, ma a me non bastava.
E, quando si spense, divenni unicamente figlia della città.
Trascorrevo le giornate a osservare gli attori e i cantanti da
sotto le tribune.
Amavo le scarpe scintillanti di lustrini e i boa di struzzo che
si annodavano morbidamente attorno al collo delle belle e disinibite soubrette.
A tredici anni decisi che quello sarebbe stato il mio posto, la
mia casa. La mia famiglia.
Era già trascorsa una settimana dalla Prima. Quella sera inscenammo l’Amleto per la settima volta consecutiva. Sarebbe
stata l’ultima e poi avevo già pronto un altro ingaggio. Ma in un
piccolo teatro, in periferia. Un musical. Meglio di niente, pensai.
Ero stanca, me lo si leggeva negli occhi vacui e spenti.
Appiattii i polpastrelli contro lo specchio e nella luce gialla,
rividi quella ruga. Ancora…
«Darei l’anima per restare sempre giovane», sbottai.
Colpii con un braccio i trucchi di scena sulla tolette in
radica, sollevando lo stridente rumore dei vetri rotti che pungolò il mio udito. Mi alzai, furiosa come la tempesta.
Dovevo avere i capelli arruffati, lo sguardo perso e le lacrime a fior di iride.
Bastò poco perché mi infrangessi in un pianto che mi
spezzò il respiro.
Sul retro del teatro due inservienti stavano affiggendo una
nuova locandina.
L’immagine con i colori sgargianti ritraeva una ragazza
stretta in un corsetto nero che lanciava un bacio dalla mano
paffuta. Grondava opulenza e giovinezza da tutti i pori. Poteva
avere vent’anni al massimo.
Ormai le donne erano solite svestire la pelle per sopperire
alla pochezza dei pensieri. Mi sentii indignata e delusa.
Il manifesto così diceva: Loren Allen, la nuova stella del
Theatre Savoy.
Una ragazzetta.
E con il caschetto nero per giunta. Cos’è, i capelli rossi non
100
andavano più di moda?
La mia voce era ancora in quel teatro a echeggiare tra le tribune, da sotto le tende, tra i sedili in cui premeva ancora l’impronta
di chi era seduto poco prima, che già una nuova stella mi sostituiva. Ero già eclissata. Caduta. Come una cometa.
Non sarebbe passato molto tempo da quando avrebbero cominciato a dimenticarsi di me.
Aspettai che gli inservienti si allontanassero con il loro furgoncino che esalava puzza di benzina e scoppiettava come un
vecchio bollitore.
Strappai via la locandina.
Lo feci con furia, disperazione, soddisfazione.
Lembi di carta ancora appiccicosa mi rimasero tra le
unghie. Non smisi, finché vidi il volto di Loren Allen sfigurato
dagli strappi.
Ebbi pace, per un istante.
«Oh, non servirà a nulla ridurlo in brandelli. Domani quella
graziosa fanciulla allieterà gli spettatori che le sono appartenuti fino a questa sera.»
Un brivido mi percorse la schiena. Mi voltai e lo vidi di nuovo.
L’uomo in nero. Annaspai nel silenzio. Credo che mi si accelerò il
battito cardiaco, perché sentii un brusio confuso nel petto. Trassi
un lungo respiro. Chi mi avesse guardata negli occhi vi avrebbe
letto furia e, al contempo, sconfinata rassegnazione.
Aveva detto una cosa vera, però: il mio pubblico le sarebbe
appartenuto. Mi sentii crollare, liquefare. Sì, mi sarei sciolta e
sarei colata su quel marciapiede come melassa se non avessi
avuto le ossa a sorreggermi. La frustrazione bruciava in me
come se mi fosse stato infuso fuoco liquido nelle vene.
«Cosa vuole da me? Sparisca!» gli urlai.
«Perché dovrei? Posso darle qualcosa che lei desidera.»
«Non può darmi nulla. Se ne vada o chiamo un agente.»
Mossa stupida la mia, perché nei paraggi non c’erano poliziotti.
«Cosa desidera, Grace?»
«Non lo direi certo a uno sconosciuto. Mi scusi, ma devo
andare.» Mi stupii della mia ingenuità. Ero diffidente con tutte
100
le persone incontrate in vita mia. Ma ero rimasta ad ascoltare
quell’uomo. Era come se tra me e lui si fosse appena scoperto
un filo invisibile e magnetico. Mi sentivo un pezzo di metallo
attratto da una magnetite.
Il mio sguardo brancolò in cerca di Goeffrey, ma il giovane
sembrava essersi volatilizzato. Proprio quando avevo bisogno
del mio accompagnatore, questi era sparito o aveva perso
tempo in qualche bisca. Sarà pure stato un ragazzotto
dall’aspetto ingenuo e provinciale, ma giocava d’azzardo e perdeva le sere al MoonDrive di Parson Street. Probabilmente
mentre io reclamavo la sua presenza, aveva in mano una manciata di fish. O forse stava ancora allacciandosi le scarpe. Non
brillava di intelligenza, ecco. Mi ero stupita infatti quando Gary
mi aveva detto che era un abile giocatore di poker. Solo, aveva
preso l’abitudine di perdere negli ultimi tempi e quindi tanto
bravo non era più. Il mio produttore lo pagava per accompagnarmi, proprio per fargli saldare i debiti di gioco.
Gary aveva un gran cuore, devo ammetterlo. E in
quell’istante, quando la presenza dello sconosciuto mi faceva
raggelare il sangue, avrei voluto averlo accanto. Forse sì, avevo
bisogno di qualcuno.
L’uomo mi trafisse con il suo sguardo, pungente come uno
spillo. «Non vuole nemmeno la giovinezza?»
Mi fermai. Sospirai.
Volsi il capo e lo guardai da sopra una spalla. Il suo cappotto nero sembrava un drappeggio nella notte. «Che ne sa lei di
ciò che voglio?» gli domandai.
«Oh, lo so. Vuoi essere giovane e bella, Grace. Sempre.»
Il modo in cui era passato a un tono colloquiale mi fece
rabbrividire, assieme al tono mellifluo della sua voce. Era
come se mi fossi immersa in una vasca colma d’acqua ghiacciata. I pori della mia pelle si rizzarono per lo spavento.
«Chi non lo desidera… Adesso se ne vada.» Mi voltai di
nuovo.
Allungò una mano guantata e la protese verso di me. «Posso
darti ciò che vuoi.»
«Lei è pazzo», ringhiai.
100
«Forse non saresti ancora qui se lo credessi sul serio. Ammettilo, Grace. In cuor tuo speri che io offra sul serio la soluzione ai tuoi problemi.»
Aveva colto nel segno, di nuovo. Lo speravo e lo sentivo.
Tornai a fissarlo, soppesando i respiri.
«Posso permettere che tu non invecchierai di un giorno.»
«Come?» Mi voltai e lo vidi uscire dal bagliore giallo del
lampione. Strinsi gli occhi a due serrature, tentando di scorgere i tratti del suo viso.
«Stringimi la mano, Grace.»
Quello era un balordo. Non c’erano dubbi. Eppure come
una sciocca, indugiai. Sì, restai e mi avvicinai. Possibile che
credessi sul serio che mi avrebbe donato l’eterna giovinezza?
Me lo chiedo ancora. Che potere hanno le speranze. Riducono
in poltiglia la ragione.
Lo guardai in volto. I suoi occhietti neri brillavano come
piccole ossidiane.
Mi tese di nuovo la mano, elegantemente fasciata da un
guanto in pelle nera.
Gliela strinsi.
Percepii una sottile scossa sottopelle. Come una scarica
elettrica.
Goeffrey mi chiamò e mi voltai nella sua direzione. Mi
venne incontro e mi prese sottobraccio, come fanno quelle
donne di provincia o gli amanti teneri e gelosi. Suppongo che
potessi associarlo meglio alle prime. Quello era sul serio un
giocatore d’azzardo? Avevo i miei dubbi.
«Non posso lasciarla un minuto, Miss Matthews. Venga. La
accompagno a casa», disse.
Allentai la presa e feci per voltarmi. «Stavo parlando con…»
«Con?» domandò lui, allungando il collo.
Tornai a guardare l’uomo.
Era sparito.
«Nessuno, Goeffrey. Nessuno.»
Durante la strada per raggiungere la 34th pensai all’accaduto. Quel pazzo doveva essere fuggito mentre la sagoma di
100
Goeffrey affiorava alle mie spalle. Eppure stavo stringendogli la
mano nello stesso istante in cui era arrivato il mio accompagnatore. Possibile che avessi immaginato tutto?
Nel silenzio di New Orleans, vestita del suo drappo di stelle,
avvolsi me stessa. Tacqui per le ore successive. Non avevo
voglia di parlare, non ne avevo la forza.
100
4
Paure
Goeffrey mi scortò fino a casa.
Era discreto, però, bisognava ammetterlo. Se ne andò salutandomi con un gesto frettoloso della mano.
Salii i gradini in marmo e percorsi con le dita il corrimano
in mogano intagliato come il ricciolo di un violino, fino al
grande portone.
Inserii la chiave d’ottone nella toppa.
Nel gabbiotto poco illuminato, se ne stava Neil, il portiere.
Teneva la testa ficcata tra le pagine di un giornale locale.
Vedevo solo i suoi ciuffi bianchi spuntare scapigliati dalle
pagine stampate. Riuscivo a sentirne l’odore di inchiostro
fresco. Doveva essere l’edizione della sera.
Sollevò lo sguardo oltre il giornale e ammiccò con il suoi
occhietti miopi. «Buonasera, Miss Matthews.»
Si rifiutava di portare gli occhiali. Non accettava che il
medico gli avesse detto che non vedeva più come un tempo. Si
sentiva ancora gagliardo. Ma si accorgeva di non essere più
giovane, ogni qualvolta una vecchina gli chiedeva di portar su
la spesa, quando costretta a prendere le scale. Se ne tornava in
portineria chino, con la mano su un fianco a imprecare con il
suo curioso accento scozzese.
Ecco, non ero la sola a non accettare lo sfacelo del tempo.
Neil faceva parte della squadra.
Lo salutai con un sorriso sghembo e chiamai l’ascensore.
Quando atterrò, aprii la cancellata di ottone ed entrai, facendomi avviluppare dal calore della radica delle pareti. La
moquette sotto i piedi sembrava inghiottire il suono dei tacchi.
100
Com’era confortante quella sensazione di pace, silenzio. In
quello spazio stretto mi sentii come in una bolla d’aria che
fluttuava silenziosa. La bolla si ruppe quando arrivai al mio
pianerottolo. L’ascensore si fermò bruscamente, facendomi
stridere le orecchie con il suono metallico delle carrucole e
della cancellata che sbatacchiava.
Entrai nell’appartamento pensando a quel singolare incontro avvenuto poco prima sotto il lampione.
Gettai le chiavi sulla consolle dell’ingresso e mi diressi nel
salone.
Passai in rassegna con lo sguardo i vinili esposti nella teca
di legno pregiato e ne presi uno.
Posai il disco di pece sul piatto del grammofono e posizionai la punta. Carezzai il dorso dorato del cono e sprofondai
sulla poltrona in velluto verde, bardata di drappi persiani con
le frange che terminavano in piccoli cristalli.
Accanto c’era un tavolinetto in mogano, su cui erano poggiati una bottiglia di bourbon, una scatola in argento di sigarette alla vaniglia e un bocchino in avorio.
Il disco gracchiò, come un cantante che scalda la voce
prima di un’impegnativa esecuzione.
Ed eccolo. Debussy.
La musica si diffuse nella stanza come un balsamo e me ne
sentii umettata dai piedi, ai capelli. Le palpebre si chiusero e
gustai quel frammento di fiammeggiante bellezza, di perfezione. Di immortalità.
Presi una sigaretta dalla scatola, soffermandomi a percorrere con i polpastrelli i fini ricami cesellati sul coperchio. La infilai nell’imboccatura del bocchino e la accesi.
Gary mi ripeteva spesso di non fumare. Diceva che mi
avrebbe rovinato la voce. Personalmente credevo che fosse
stato anche il tabacco a contribuire a quel mio suono grave e
corposo. Al pubblico piaceva il mio timbro, dubito che potesse cambiare.
Inspirai e sbuffai una voluta d’argento che si mise a danzare
sopra la mia testa. Altri nastri azzurrognoli si accavallarono in
un’acrobazia nell’aria.
100
Forse lo facevo perché la visione del fumo gonfio e incorporeo mi trasmetteva un insolito senso di pace. E raramente mi
sentivo tranquilla. Ero un mare in tempesta. Vivevo nel caos e
forse in esso mi rigeneravo.
Ero maledettamente incline al cambiamento. Una maledizione.
Lasciavo che la luna mi influenzasse come fa con le maree.
Gettai la testa indietro e mi lasciai andare a quella vertigine.
Clare de lune sapeva rendere il tempo denso, caldo, intimo.
Come una nappa di velluto che abbraccia.
Il disco andava e tornavo con il pensiero a sparpagliati
frammenti della mia vita.
Che ne sarebbe stato di me?
Il pubblico mi faceva sentire il suo calore con regali, fiori e
applausi, ma fondamentalmente ero sola.
Olive, la cameriera del Black Queens – un pub in periferia
in cui cantava un’attrice nera della mia compagnia – aveva già
due bambini a ventitré anni.
Non mi vedevo a far da balia e nessuno. Ammiravo le vite
degli altri attori, però. Sembravano così… felici.
Forse c’era in me qualcosa di sbagliato.
Mi portavo dentro dal mio primo vagito un sentimento
antico che aveva radice in notti senza tempo. Era la malinconia. Sì, ero un essere profondamente malinconico.
E avevo paura che il mio viaggio finisse miseramente.
Non che io avessi mai avuto timore della solitudine. L’amavo, in effetti. Nonostante gli altri lo trovassero singolare.
Ero dell’idea che gli amanti della solitudine non avessero
scelta. Si impara ad amarla, perché sarebbe più difficile amare
una versione di sé che gli altri approverebbero.
E non mi vedevo nemmeno moglie devota. Non credevo
all’amore. Pensavo fosse polvere gettata negli occhi dei sognatori.
«L’amore ci rende migliori», mi aveva detto una volta Gary,
che in più di qualche occasione aveva tentato di conquistare
un podio d’onore nel mio cuore.
E io avevo replicato alla sua affermazione, deludendone lo
slancio. «Potrà anche esserlo ma la solitudine ci rende perfetti.»
100
Avevo visto il suo sguardo infrangersi e ridursi in polvere.
Da allora non aveva più provato a conquistarmi, non platealmente, almeno.
Ma a quel tempo la pensavo così.
Fino a quando non conobbi lui… e tutte le mie certezze si
sgretolarono. Bastò un solo, fottuto istante. E quei suoi occhi
mi avvinsero, come la più temibile delle mareggiate. Annegai,
semplicemente. Non avevo mai creduto ai colpi di fulmine, fino
a quando un tuono non lacerò il tessuto del mio cuore e
giunse al fulcro, sciogliendolo. Ma forse lo conoscevo già, in
un’altra vita, in un altro sogno, in un altro tempo.
Facevo parte di quella schiera di persone folli e mi piaceva
il mio isolamento, a meno che non trovassi persone per le
quali valesse la pena sottrarmi del tempo. La mia immagine riflessa era la sola compagnia che degnassi di attenzione. I più
mi avrebbero definito superficiale, eludendo il senso di profondità insito invece nell’amare se stessi.
Ma per quanto avrei amato la solitudine? L’avrei amata
quando gli applausi non sarebbero stati più per me?
Persino il vecchio Tyler mi aveva lasciato.
Ricordo ancora la sera del suo ultimo match. Non se la
sentiva di combattere. L’incontro della settimana precedente,
con un giovane pugile di colore, gli aveva incrinato due costole. Era al tappeto, ancor prima di salirci. Ma ci serviva
denaro. Gli avevano promesso una grossa somma se avesse
vinto. I suoi sostenitori avevano scommesso a suo favore e le
aspettative erano alte. Ma io non ne avevo, sapevo che non
era in forma. Mangiava minestra da giorni, perché il medico
gli aveva detto di evitare i cibi solidi. Ah già, era andato
anche il fegato.
La sera dell’incontro, cercai di dissuaderlo, ma fu inutile.
Era troppo orgoglioso per assecondarmi. Andò così a combattere quello che fu il suo ultimo incontro. Avevo diciassette anni
quando vidi i suoi occhi spegnersi in un pugno di sangue.
Rimase spalmato sul ring e lì lasciai anche il tempo della mia
adolescenza. Il gong dell’arbitro continuò però a suonare nella
mia testa, un rimbombo distorto. Rimasi in tribuna fino a che
100
gli inservienti non mi cacciarono.
Mi chiedevo come mai entrambi i miei genitori avessero
amato le loro passioni più di me. Non era bastato loro perdersi
per lo stesso motivo: avevano replicato l’errore con me.
Forse per quello non volevo avere figli. Sapevo che avrei
amato il teatro più di loro. E avrei trovato ingiusto tradire i
loro bisogni con la mia aspirazione. Non volevo avere altra responsabilità se non per me stessa. E non potevo nemmeno dire
di essere poi così responsabile.
Guardai la luna dalla finestra versare latte sui vetri e sulle
foglie tenere delle piante sul mio terrazzino.
Mi alzai, decisa a fare un bagno. L’acqua scorreva dai rubinetti in ottone scrosciando, cantando. Avvinghiata a quella visione, ricordai le estati in cui mia madre mi bagnava con la
pompa del giardino. Sguazzavo nell’erba umida, con i piedi
sporchi di fango e illusione. Ero una piccola zingara felice,
finché Madlene decise che amava di più la Francia. E immagini come quella furono solo un ricordo.
Agitai nell’acqua un pugno di sali alla lavanda. Quindi scivolai all’interno, come se volessi tornare al mondo. Come se
volessi tornare nel ventre di Madlene, per ricominciare. Tutto.
La schiuma mi avvolse come un pomposo abito bianco del
‘600. I capelli si lasciarono andare e incresparono l’acqua.
Inspirai di nuovo dal bocchino e vidi la piccola brace far
sfrigolare la cenere che cadde in polvere nell’acqua.
Spensi la sigaretta in una nuvola di schiuma e lasciai che il
fumo si levasse e con esso i miei pensieri.
Uscii e mi avvolsi in un accappatoio. Mi gettai sul letto e
non so quanto tempo impiegai prima che i miei occhi si
adombrassero, come l’obiettivo di una macchina fotografica
oscurato.
100
5
Il Biglietto
Dovevo aver dormito parecchio, a giudicare dal mio fresco risveglio. Mi sentivo sprezzante e viva. Rinata.
Con la tazza fumante di caffè nella mano, iniziai a ripassare
le parti del musical.
Alle nove di sera il teatro era pieno. Dopotutto, avevo
ancora il mio fascino sugli spettatori.
Per tutto il tempo del recital mi sentii come la prima volta in
cui calpestai il palco. Eccitata, euforica e non so cos’altro. Ero
assorta in una felicità confusa e delirante. Ed era tanto che
recitare non mi rendeva così felice. Forse mi piaceva l’idea di
interpretare il ruolo di Dorothy. Mi era sempre piaciuto Il mago
di Oz e inscenarlo era un’idea che mi elettrizzava. Avrei voluto
anch’io attraversare un ciclone e finire in un mondo smeraldo.
Nel camerino trovai svariati mazzi di fiori e un biglietto ripiegato in due.
Mi sedetti alla toletta e mi struccai. La stanza era decisamente più piccola di quella del Savoy, ma era meglio illuminata. Ero così radiosa nello specchio da avere l’impressione di
stare ancora sotto gli occhi di bue del teatro.
Un guizzo di gioia palpitò nel mio cuore come le ali di una
farfalla quando mi soffermai sul riflesso. La ruga era sparita. E
non solo: il viso sembrava di cera, levigato come il marmo. Riposare per tutto quel tempo mi aveva fatto bene. Pensai che probabilmente avrei dovuto dormire di più e pensare di meno.
Nell’alzarmi dalla consolle, sfiorai il biglietto. La curiosità è
donna e io non ero certo una voce fuori dal coro.
Lo aprii.
Le lettere nere vergate da una calligrafia attenta, così dice100
vano: Hai tredici giorni.
Sussultai. Tredici giorni per cosa?
Appallottolai il pezzo di carta e lo cestinai.
Pensai fosse uno di quei classici biglietti minatori che i fan,
giunti all’orlo dell’ammirazione, inviano alle celebrità.
Uscii dal teatro, ripetendo tra me e me: tredici giorni.
«Hai letto il mio biglietto, allora.»
Conoscevo quella voce, ormai. Alzai lo sguardo e me lo
trovai davanti.
«Sì, l’ho letto. Non capisco dove voglia arrivare.» Tremai,
scossa da brividi incontrollati. Feci uno sforzo immane per non
mostrare a quell’uomo quanto mi sconvolgesse vederlo.
«A nulla. Ho già ottenuto ciò che volevo», mi rispose,
togliendosi il cappello e mostrandomi un cranio liscio e lucido,
tanto che la luce soffusa del lampione sembrava scivolarci
sopra come lame di pattini su un lago ghiacciato.
Incurvai un sopracciglio. Non capivo, sul serio. Mi sentii
smarrita.
«Sono solo tornato per avvertirti», proseguì.
«Di cosa?» lo incalzai.
«È vero ciò che si dice sulle attrici. Sono sciocche e fatue.
Hai tredici giorni prima che torni e ti porti via, Grace.»
Non aveva idea di quanto fosse fuori pista. Io sciocca e fatua?
La rabbia ribollì in me come la lava. La mia libreria ospitava i
pensieri di Shakespeare, Wilde, Baudelaire. La mia mente era
ubriaca del suono mistico e dolce di quelle parole. Erano l’unico
conforto in notti senza stelle e in letti senza abbracci.
Urlai.
L’uomo sparì di nuovo. Continuai a gridare. Attirai così
l’attenzione di qualcuno nelle vicinanze. Furono subito chiamati degli agenti che mi presero in custodia e tentarono di
tranquillizzarmi. Passai quasi tutta la notte alla stazione di po100
lizia alla 16th. Avevo pianto così a lungo da sentire i bulbi
oculari gonfi e secchi. Chiudere le palpebre quasi mi doleva.
Denunciai l’accaduto. Mi interrogarono, spremendo ogni
barlume di lucidità dalla mia testa.
La luce giallognola del piccolo lucernario della stazione di
polizia oscillava sulla mia testa, dandomi il voltastomaco. Le
ombre dei poliziotti danzavano sulla parete e tutto divenne
opaco e lontano. Le voci divennero distorte e la mia attenzione calò numerose volte. A stento ricordavo il nome dell’agente
che mi chiedeva continuamente di descrivergli il balordo.
Rutherford. Credo si chiamasse così. Era un uomo corpulento che portava un pancione appeso sopra una cinta forse
troppo stretta. «Sa come si chiama il tizio che l’ha
minacciata?» mi domandò, picchiettando con la punta del cappuccio della stilografica sulla scrivania.
«No, non so lo so.»
L’altro batteva a macchina ogni mia sillaba, alla postazione
alla mia destra.
«Sa descrivermi il suo volto?»
«No, non saprei.»
L’uomo in uniforme si strofinò il mento con la mano grassoccia.
«Sa almeno dirmi perché non ha subito chiamato la polizia?»
«No, non lo so perché», sbottai, tenendomi la testa fra le mani.
Non sapevo più niente. Non ero più certa di nulla, neanche
della mia stabilità mentale. E credo che anche i due agenti
avessero seri dubbi a riguardo. Già immaginavo i titoli dei
giornali locali: Grace Matthews in preda a una crisi di nervi.
L’altro poliziotto continuava a scrivere, dandomi il tormento.
La stanza era umettata dall’odore di fumo. Riuscivo a immaginarne la sagoma avvinghiarsi ai braccioli delle sedie e annidarsi nelle trame delle divise, come uno spettro sinistro. Dovevano averci fumato di recente.
Rutherford fece un cenno al suo secondo. «Le metteremo
una scorta, signorina Matthews», disse infine. «In genere non
seguiamo questa procedura. Ma dato che si tratta di lei, potremmo fare un’eccezione. Non vorremmo mai che accadesse
qualcosa alla nostra stella.»
100
Mi sentii sollevata. Non mi credevano folle del tutto, allora.
E la mia popolarità contava qualcosa.
Gary accorse in mio aiuto. Lo vidi irrompere a occhi sgranati nella stanza. I suoi capelli neri sempre composti e pettinati da un lato, come un divo del cinema muto, erano un groviglio. Venne verso di me, cercando le mie mani. La luce della
lampada proiettava ombre tremolanti sul suo viso, scomposto
dalla paura. «Grace, cara. Come stai?»
Si inginocchiò e io lo pregai di alzarsi. «Sto bene, Gary.
Sono solo un po’… confusa.»
«Goeffrey non era con te, vero?»
«No, Gary. Questa sera non era solo in ritardo, ma era del
tutto assente. Non mi è stato di alcun aiuto, stavolta.»
Fece un cenno col capo e si rialzò. «Avrei dovuto scortarti io
stesso.»
«Lei è il fidanzato della signorina Matthews?» domandò l’agente.
Prima che aprissi bocca per dissentire, Gary mi precedette: «Sì.»
Ero troppo stanca per protestare o lanciargli addosso qualcosa. Se fossi stata nel pieno nelle mie energie, Gary si sarebbe
visto arrivare dritto in faccia la macchina da scrivere. Ma capii
che voleva solo proteggermi. Probabilmente era l’unica persona che mi avesse a cuore. Non gli importava che non lo degnassi di attenzione: era così invaghito di me da non avvertire
i colpi che assediavano il suo orgoglio.
Dopo una notte passata sulla seggiola della stazione a
ripetere innumerevoli volte la mia versione, gli agenti mi lasciarono andare.
Rutherford mi presentò la mia scorta personale: l’agente
Sullivan.
Uscimmo dalla Centrale, il poliziotto scortò l’automobile di
Gary, con l’auto di ordinanza. Nell’abitacolo regnava il silenzio.
Vedevo le strade della mia New Orleans imbellettate di luci come
certe donne ingioiellate. Era splendida e caotica, magica e folle.
Aprii il finestrino e sciolsi i miei capelli al vento.
Mi sentii sfiorare la spalla. Era la mano di Gary. «Qualsiasi
cosa possa fare per te, la farò. Non hai che chiedere, Grace.»
«Grazie, Gary. Non ho bisogno di nulla. E non ho bisogno
100
che ti spacci per il mio fidanzato.»
La sua mano si ritrasse e tornò ferma sul volante. «Volevo
che gli agenti non pensassero che fossi sola, ecco.»
«Non ce n’era bisogno.»
«E poi, riflettici, Grace. Sono la cosa più vicina a un fidanzato che tu abbia.»
Lo guardai e a stento soffocai una risata. «Esserci vicino
non significa esserlo. Gary, per favore. Potremmo continuare il
tragitto senza parlare? Ho trascorso una nottata terribile,
vorrei solo silenzio e risposo.»
Fui brusca, lo riconosco. Gary serrò la mascella e strinse
forte il volante, le nocche gli divennero bianche. Lo avevo
ferito. Ma in quel momento, non me ne importava.
Arrivammo al complesso condominiale in cui si trovava il
mio appartamento. Scendemmo dall’auto.
L’agente Sullivan rimase sul marciapiede. Sembrava una
guardia inglese. Tutto impettito e fiero. Probabilmente era il
suo primo incarico, a giudicare dalla giovane età e dal modo
in cui ostentava sicurezza. Ma almeno aveva un distintivo e
una pistola e questo mi faceva sentire meglio.
Salutai Gary, carezzandogli una guancia. Vidi un fremito di
gioia esplodere come un fuoco d’artificio nei suoi occhi.
Appena mi voltai in direzione del portone, mi pentii del mio
gesto. Non avrei voluto creare in lui false aspettative in
quell’occasione. Infatti mi strinse le dita e le portò sul suo
petto, facendomi voltare.
«Una possibilità, Grace. Dammi una sola possibilità», disse,
mentre si portava il dorso della mia mano alle labbra.
Mi avvicinò a sé e mi sfiorò la tempia con il mento. Sentii il
raschio dei suoi baffi e mi si rizzarono i peli sulla nuca. Lo allontanai, premendogli un palmo sul petto. «Buonanotte, Gary»,
risposi. Mi voltai e chiusi il portone.
Forse, dopo quel brusco saluto, non lo avrei visto più o non
avrei più recitato nella sua compagnia. Non ero certa di ciò
che facevo. Volevo solo dimenticare tutto.
Salii al piano del mio appartamento e mi affacciai dalla finestra del soggiorno.
100
Vidi l’auto di Gary mettersi in moto e partire a gran velocità. L’agente continuava a sostare sotto la mia abitazione e il
solo fatto di vedere la sua ombra proiettata sul marciapiede mi
faceva sentire al sicuro.
Eppure non era così, non lo ero davvero. Lo sentivo.
Il mio inconscio riproduceva nella testa quella frase: Hai tredici giorni prima che torni e ti porti via. Che voleva dire e chi
era? Ma era poi reale?
Chiusi a doppie mandate l’uscio dell’appartamento. Raramente lo facevo. Serrai le finestre e persino la porta della mia
camera da letto.
Mi addormentai confusa, tra le braccia delle mie paure.
100
6
L’Incubo
Fui felice di svegliarmi, perché avevo sognato quell’uomo.
Accesi il fornello della cucina e misi a bollire la moka. Sentii
un fruscio serpeggiare dietro di me. Pensai fosse il vento.
Regolai la fiamma e lo sentii di nuovo. Mi voltai. Un fungo
di fumo nero era apparso nella cucina. Si gonfiava e si espandeva. Si alzò come una colonna di alabastro fino al soffitto.
Urlai, ma dalla mia bocca non uscì alcun suono. Mi sentii
strozzare e fui sul punto di svenire. Le ossa divennero roventi e
iniziai a sudare. Caddi carponi, mentre vedevo quell’informe
massa prendere corpo. Spostai alcune ciocche di capelli che si
erano appiccicate sulla fronte e lo vidi.
Era l’uomo in nero.
Mi chiesi se stessi sognando. Cose del genere non capitavano
nemmeno in certi film in stile Dracula con tanto di Bela Lugosi
che sbucava da dietro una parete. Devo riconoscere che mi fece
un certo effetto quel film. Andai alla prima con Gary e, per tutto
il tempo, tremai come una foglia. Ecco, avrei gradito di gran
lunga la presenza di Lugosi. Invece, lui era lì e mi fissava.
Si tolse la sciarpa che gli premeva contro il mento. Lo vidi
in faccia e potei giurare che avrei preferito svenire.
Aveva la pelle raggrinzita come una roccia calcarea. Gli
occhi che mi sembravano ora di un giallo magnetico erano
piccoli, tondi e lucidi. La bocca era un abisso da cui spuntavano guglie nere.
Si tolse anche il cappello. Una cascata di ciocche di fuoco
gli infiammò la testa e gli scese giù per le spalle come una
colata di vernice cremisi.
Era un mostro e io probabilmente stavo sognando.
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«Mi hai costretto a venirti a trovare», sibilò come un serpente tra quei denti aguzzi come vetri rotti.
Lo stomaco mi si ritorse ed ebbi l’impressione di dover rimettere. «Cosa vuoi da me?» urlai tra le lacrime.
«Te.»
Mi spinsi indietro pedalando con le gambe, finché urtai
contro il pensile. «Avevi detto di non voler nulla da me.»
«Ah be’, ho mentito.» Inclinò la testa e la sua chioma infuocata sembrò appiccarglisi sul viso. Ma non lo fece.
Mi sollevai e impugnai un coltello che era sul bancone alle
mie spalle. «Vattene.»
Lui rise. La sua risata era vischiosa come l’eco che uggiola
nelle caverne umide. «Non puoi ammazzarmi, Grace. Non
posso essere ucciso.»
«Chi sei veramente?»
«Puoi chiamarmi Nephisis. Sono un Chronat, un demone. O
meglio, voi umani ci avete dato questa connotazione. In effetti
noi, be’… non apparteniamo all’Inferno e, come evidentemente
puoi vedere, nemmeno al tuo mondo né al Paradiso. Siamo
figli della Morte, Grace.»
Mi ripetevo che tutto era così assurdo da non poter essere
reale. Eppure le lacrime che rigavano il mio volto bruciavano.
Spilli di fuoco ardevano sulla mia pelle.
«Ammettiamo che io creda a ciò che hai detto. Cosa vuoi?»
domandai, senza abbassare la lama.
«Per adesso avvertirti. Poi verrò a pretendere la tua anima,
se…»
«Se?»
«Se non riuscirai a sfuggirmi nei prossimi tredici giorni. È
una stupida legge, lo so. Qualcuno lassù, per impedirci di fare
razzie di anime, stipulò con la Morte un contratto. Una condizione, più che altro. E, per il benestare dell’equilibrio tra le fazioni, la Morte accettò. Le persone che stringono patti con noi
hanno a disposizione tredici giorni per tentare di sfuggirci. Se
prima di quel lasso di tempo il Chronat trova la sua vittima,
ha il diritto di prenderla con sé e rubarne l’anima.»
«E cosa ve ne fate?»
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«Le anime reclamate diventano Chronat a loro volta.»
Sentii un retrogusto di bile e mi piegai in due. Mi premetti
una mano sulla bocca e strozzai un urlo. «E se invece dovesse
sfuggirvi?»
«Oh, non ci si riesce facilmente. E quando accade, be’,
siamo costretti a ripiegare e cercare altre vittime.»
«Ma io non ho stretto alcun patto.»
«Oh, sì. Grace, proprio non ricordi? Davanti allo specchio,
cos’hai detto?»
Mi portai una mano alle tempie e sistemai nervosamente indietro altre ciocche di capelli. Il mio corpo era colto da spasmi
che non riuscivo a calmare. Era vero. Avrei barattato la mia
anima per essere giovane. Ma chi non aveva mai detto una
frase simile?
«Occorre una firma o il sangue perché il patto si suggelli»,
protestai, sforzandomi di sembrare risoluta.
«Mi hai stretto la mano. Credo sia più che sufficiente», disse
languidamente l’altro.
«Ma io non sapevo.»
«Lo avresti fatto ugualmente, Grace.»
Mi sentivo finita. E il peggio era che lui aveva ragione.
Quella notte ero così disperata che avrei accettato ugualmente,
pur conoscendo le conseguenze possibili.
«Quindi, ho tredici giorni per fuggire?»
«Sì… Nasconditi, viaggia. Fa’ ciò che ti pare. Ti cercherò
ovunque. Se non ti troverò, sarai giovane e bella per sempre e
non mi vedrai più. Se ce la farò… morirai. E la tua anima cambierà forma. Diventerai come me.»
Rise, mentre si metteva in mostra, camminando su e giù per
la cucina.
Immaginai che la Morte avesse un bell’esercito, a giudicare
da quante persone si lasciassero corrompere, seppur inconsapevolmente.
Esaminò gli artigli di una mano e per la prima volta la vidi
a nudo. Sembrava la zampa di un’iguana, solo che l’incarnato
era grigiognolo e venato da solchi scuri.
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Ebbi una nuova vertigine allo stomaco. Ci avrei rimesso il
senno se avessi continuato a guardarlo.
Sembrò comprendere forse il mio terrore, perché quando
alzai lo sguardo, non vidi che fumo.
Il demone era svanito.
Mi occorsero svariati minuti perché capissi cosa fosse
appena successo.
Forse ero solo stanca e avevo avuto un’allucinazione.
Un’altra. Forse dovevo risposare. Era vero ciò che avevo visto?
La moka borbottò, riportandomi al presente.
Mi versai una tazza e bevvi, senza far caso al sapore. Il
calore della bevanda non scaldò il gelo che attraversò il mio
corpo come un fantasma. Vacillai.
Mi sentivo indifesa e a un passo dalla follia.
Il vento pungolò contro la finestra del salone e la spalancò.
Il fruscio della tenda che si gonfiò come una vela mi portò al
punto di non ritorno. Mi strinsi tra le spalle e mi misi a oscillare avanti e dietro.
Tutto mi dava il tormento, persino l’oscillare del pendolo e il
ticchettio delle lancette. Ogni suono benché flebile mi sembrava il rimbombo di un martello su un’incudine di piombo.
Il ronzio di una mosca mi fece balzare in piedi e con un gesto
rapido e incontrollato feci rovesciare la caffettiera sul piano cottura. Il caffè bollente cadde anche per terra e in quella pozza
scura vidi riflesse le mie angosce. Le solide certezze che avevo
costruito annegarono in una macchia marrone.
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7
Sulle Tracce
Aveva ricominciato a piovere, quando uscii di casa con
l’ombrello e l’impermeabile blu. Stavolta la pioggia non mi
aveva colto di sorpresa.
L’agente Sullivan era davvero poco sveglio. Non mi vide
perché era intento a scartare una ciambella, seduto sul sedile
anteriore dell’auto. Se fossi stata sul serio inseguita da un
serial killer, non avrei avuto speranze.
Mi allontanai, stringendomi nel soprabito.
Decisi di non farmi scortare da nessuno, anche perché
chiunque avrebbe cercato di dissuadermi.
Ero persa nei pensieri, tanto da non accorgermi di un tram
che mi passò davanti, schiaffeggiandomi il viso con l’aria che
aveva sollevato.
Mi aggiravo per le strade con la sensazione di essere seguita. Mi guardavo attorno e cercavo di tradurre ogni sguardo che
mi sfiorasse.
Qualsiasi persona sana di mente si sarebbe tenuta a debita
distanza dalla zona nord-ovest di New Orleans. Ma pensavo
continuamente a quella visione e dovevo trovare qualcuno che
mi spiegasse cosa diamine stesse accadendo e che fosse anche
in grado di proteggermi. Mi serviva una strega. Forse avrei
dovuto sul serio sottopormi a qualche seduta di psicanalisi.
Ormai andava di moda anche quello. Io, da sempre scettica e
indolente verso certe credenze, stavo per rivolgermi a una
strega. O, quantomeno, avrei trovato qualcuno che ne sapesse
più di me. La magia non era una novità a New Orleans, chiamata Nola dalla maggior parte di noi.
Mi diressi in Bourbon Street e sperai vivamente che la fortu100
na mi arridesse. Ci ero cresciuta in sobborghi come quello, a
grattare il fondo dei bidoni in cerca di qualcosa da mangiare,
quando ero rimasta senza una famiglia. Tuttavia, non mi ci ero
abituata mai del tutto.
I privilegi della mia nuova condizione mi piacevano e fu un
grande sacrificio per me inoltrarmi per quelle strade. Liquami
dall’odore indefinibile gorgogliavano dai tombini. Due topi si
contendevano un tozzo di quello che una volta doveva essere
pane; ma non ne ero certa, dato il colore verdognolo assunto
dalla crosta. Una sinistra atmosfera galleggiava attorno alle
case e saliva fin sopra le finestre, dalle quali sventolavano
tende rattoppate più volte.
Continuai a camminare, provando un’insostenibile commiserazione per quei mendicanti che mi guardavano da sotto i
loro baschi di lana ispida. Uno di loro mi sorrise, mostrandomi una fila di denti neri come il carbone, tra cui brillava una
piccola placca d’oro.
«Che ci fa una cosetta come te in questo posto?» mi domandò uno, sollevando la sua bottiglia di whiskey dei più scadenti.
Era seduto sul porticato sgangherato di una casa, parandosi
dalla pioggia che scrosciava come una cascata dal tetto in
tegole di ardesia.
Mi fermai, seppure non fossi certa di fare la cosa giusta.
«Sto cercando qualcuno.» L’acqua tamburellava sul telaio del
mio ombrello come fosse la membrana di un tamburo, percossa da dite frenetiche.
«Chi?»
Mi guardai attorno e mi strinsi nuovamente nel soprabito,
come se quel gesto mi infondesse una sorta di sicurezza che non
avevo più. «Sto cercando una strega», dissi con voce misurata.
L’uomo scoppiò a ridere e ingollò un abbondante sorso
dalla bottiglia. «Sei certa di ciò che vuoi?»
No che non lo ero. Ma avevo paura ed ero stanca. «Sì», risposi, tremando.
«E che genere di strega ti occorre?» Mi fece l’occhiolino e
notai che uno dei suoi occhi era velato di bianco. «Posso darti
delle informazioni, se vuoi.»
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«E scommetto che in cambio vorresti del denaro, non è
così?»
«Mah, se non ti disturba, lo accetterei volentieri.» Mandò
giù un altro sorso, fino a esaurire il liquido.
Misi una mano nella borsetta e sfilai una banconota da un
dollaro, sperando vivamente che il caro Roosvelt non venisse
sperperato acquistando altro alcol.
Gliela porsi e scorsi un lampo di malizia nei suoi occhi. Indietreggiai, ma non feci in tempo, perché mi afferrò per il
polso con la sua mano unta di grasso. Se fossi morta in quel
vicolo, nessuno lo avrebbe mai saputo. Cominciai a tremare e
il cuore mancò numerosi battiti.
Il barbone allentò la presa e mi tirò verso di sé. Ebbi un capogiro, perché sentii il suo alito. Quello lì faceva un baffo al
proibizionismo. Come faceva uno come lui a procurarsi tanto
alcol? Contrabbando, non avevo dubbi. E io con la mia banconota stavo contribuendo a quello scambio illecito. Cercai di
non pensarci. In quel momento volevo solo fuggire.
«Non voglio farti del male», bisbigliò. «Ma c’è chi te ne farebbe. Non fidarti della gente di queste parti.» Strizzò l’occhio
e mi lasciò andare del tutto.
Cacciai un sospiro e mi tastai il polso. «Dove posso trovare
una strega?» ripresi.
«Bambina, sei nella terra delle streghe!» Rise ancora e fui
quasi certa che qualunque cosa avesse detto, sarebbe stata a
dir poco delirante. Era ubriaco e non potevo cavarne nulla. Mi
allontanai e la sua voce mi seguì.
«French Quarter, 724 di Dumaine St.», disse e prese a esaminare la banconota, accarezzandola e lisciandole i bordi.
Gli feci un cenno e mi allontanai, mentre le nuvole si aprivano, lasciando spazio a un cielo serale velato di stelle.
Chiusi l’ombrello e lo lasciai gocciolare, mentre proseguivo
per la via indicatami. Diceva il vero? Lo avrei scoperto solo se
ci fossi andata.
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