3. Lunedì 20 ottobre 2014. Israele "sposa" infedele

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3. Lunedì 20 ottobre 2014. Israele "sposa" infedele
il dono ulteriore del creatore. Non a caso ogni volta che nella Bibbia si parlerà di
salvezza e di nuova creazione, si impiegheranno le immagini del deserto (Is 43,1621). Anche Gesù cerca il deserto per immergersi in Dio (cfr Mc 1,12s). Anche Paolo
per rigenerarsi nella nuova 'via' alla quale lo chiama la 'seduzione' di Damasco, cerca
il deserto di Arabia (Gal 1,17). Nel deserto Dio «parlerà al cuore» d'Israele. Altra
immagine tipica del linguaggio dell'amore. Più che un incontro intimo, l'espressione
equivale a un serrato e appassionato corteggiamento della donna da conquistare.
«Parlare al cuore» è l'espressione che viene usata per indicare tutto quello che fece
il giovane Sichem per conquistarsi il cuore di Dina alla quale s'era pazzamente
innamorato fino a violentarla (Gen 34, 3), o quel levita che voleva riportare a casa la
moglie fuggita di casa (Gdc 19,3), o il ricco proprietario di Bethleem, Booz, con la
moabita Rut (Rt 2,13). Dio parlerà così al cuore d'Israele nel deserto. Cercherà in tutti
i modi di rifarla sua.
Come l'amore e le nozze, così il frutto dell'amore, la terra, è un dono 'nuovo', un
rinnovato ingresso nel Canaan. «Le renderò le sue vigne e trasformerò la valle di Acòr in
porta di speranza» (v 17). Dalla solitudine del deserto ai verdeggianti e rigogliosi vigneti
del Canaan, attraverso la valle «della sventura» (questo significa in ebraico Acòr)
trasformata in «porta di speranza», Dio riporta Israele in Canaan. Acòr si trova nei pressi
di Gerico ed è una valle attraverso la quale si penetra nell'interno del Canaan.
L'allusione al primo ingresso d'Israele in Palestina attraverso il Giordano di fronte a
Gerico (Gs 3-4) è evidente. Come allora si apriva per Israele il grande capitolo della
conquista, così ora la 'speranza' è intatta, il futuro è tutto da fare, Dio ricomincia e
con lui Israele.
«Là (ella) canterà come nei giorni della sua giovinezza». L'originale ebraico impiega il
verbo ‘anàh che significa in prima istanza 'rispondere'. E questo senso va molto bene
qui. A tutte le avances di Dio, a tutti gli sforzi con cui avrà cercato di riconquistarla, la
'sposa'- Israele risponderà arrendendosi e soccombendo. Come si fa a non riamare
un Dio che ama così? L'amore che Israele riserverà a Dio sarà come quello ch'ebbe
«nei giorni della sua giovinezza». La giovinezza d'Israele è il tempo del deserto, il
tempo immediatamente successivo alla sua uscita dall'Egitto, il tempo della ritrovata
libertà, il tempo dei primi innamoramenti. Israele riamerà dunque Jahvè come ai
tempi in cui egli era il suo primo e unico amore. Il suo passato diventerà così il suo
futuro. Il Dio biblico - ancora una volta - è colui che fa nuove tutte le cose, il Dio della
creazione mai finita, della storia tutta da riscrivere.
In questo contesto il verbo 'ànàh può avere benissimo il significato di 'cantare'. In
questo senso l'impiega Miriam, la sorella di Mosè, dopo la liberazione d'Israele al
Mar Rosso. Dopo aver vissuto quell'esperienza e avervi 'vista' la mano di Dio, Miriam
invita tutte le ragazze d'Israele «a cantare il ritornello: 'Cantate a Jahvè perché ha
mirabilmente trionfato: ha gettato in mare cavallo e cavaliere'» (Es 15,21). II canto è
la 'risposta' del popolo salvato, è il suo riconoscimento, la sua confessione di fede, il
suo amore e la sua gioia.
L'Israele-sposa d'Osea lì nel deserto, riconquistata dall'amore di Jahvè, canterà le sue
canzoni d'amore con il cuore di una giovane moglie innamorata.
Sono immagini poetiche, ma anche profetiche: dove c'è Dio tutto è possibile: che i
sogni diventino realtà, che le immagini siano solo delle pallide ombre del futuro, che
l'utopia più ardita venga travolta e superata da una storia più grande.
Catechesi adulti
20 ottobre 2014
Invocazione allo Spirito
Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo Amen
Rit. Spirito di Dio scendi su di noi… Spirito di Dio scendi su di noi!
Vieni Santo Spirito manda noi dal cielo un raggio della Tua Luce.
Vieni padre dei poveri, vieni datore dei doni, vieni luce dei cuori.
Consolatore perfetto, ospite dolce dell'anima, dolcissimo sollievo.
Nella fatica, riposo; nella calura, riparo; nel pianto, conforto.
O Luce beatissima, invadi nell'intimo il cuore dei tuoi fedeli.
Senza la Tua forza, nulla è nell'uomo, nulla è senza colpa.
Lava ciò che è sordido, bagna ciò che è arido, sana ciò che sanguina.
Piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido, drizza ciò che è sviato.
Dona ai Tuoi fedeli, che solo in te confidano, i Tuoi Santi doni.
Dona virtù e premio, dona morte santa, dona gioia eterna
Israele “sposa”infedele: 2,4-17
Nel capitolo primo Dio parla a Osea e, attraverso i simboli del suo matrimonio con
Gomer e dei tre figli che ne son nati, parla a Israele e l'accusa d'infedeltà. Il discorso
è indiretto. Solo in 9b, al termine del capitolo, Dio parla direttamente a Israele: «Voi
non siete mio popolo e io non sono 'Io-sono' per voi». Con 2,4-25 Jahvè si rivolge
direttamente all'intera nazione e l'accusa di prostituzione e di adulterio.
Nel capitolo 2 dobbiamo compiere un paio di trasposizioni. I versetti 1-3 sono
considerati un'aggiunta posteriore e i vv 8-9 hanno un senso logico se spostati dopo
il v 15. Il testo 2,4-25 è come una grande lite che Jahvè intenta, attraverso gli
Israeliti, all'intera nazione accusandola d'infedeltà e d'ingratitudine. La terminologia
è tratta dal linguaggio legale, ma è superata dalla straboccante tenerezza dello
'sposo' che vuole riconquistarsi e far nuovamente sua la 'sposa' infedele.
Il tema dell'accusa è ripreso due volte (v 4 e 7a; 7b e 10); la prima accusa è seguita
da un invito alla conversione, pena lo svergognamento pubblico e la riduzione a
deserto (vv 5-6); la seconda accusa è seguita da un triplice 'perciò' (vv 11.8.16), essi
segnano un cammino ascensionale che porta, attraverso il grande castigo (vv 11-15)
e l'impossibilità concreta di più peccare (vv 8-9), alla riconquista della 'sposa' in un
rinnovato e più fedele matrimonio (vv 18-25). Al ripudio reciso e senza appelli del c.
1, fa riscontro la prospettiva di recupero e di salvezza di questo c. 2. Non c'è
contraddizione in questo. Il c. 1 fa comprendere che cosa meritava l'Israele infedele;
il c. 2 apre il cuore alla speranza perché sulla scena c'è sempre lui, il Dio vivente,
colui che ama ridonare il suo amore in termini di vita per colei che era caduta dal suo
cuore. Se una donna cade dal cuore di un uomo, quasi sempre la sua è una caduta
definitiva, non così per Dio. Come non ha avuto alcun motivo se non il suo amore per
amare la prima volta Israele, Dio non avrà alcun altro motivo se non ancora e
soltanto il suo amore per tornare ad amarlo proprio come se fosse la prima volta.
Nessuno prima di Osea e forse nessuno dopo di lui nell'AT aveva puntato il suo fascio
di luce e scrutato l'abisso insondabile dell'amore di Dio. Ma se grande e sconfinato è
l'amore di Dio, non minore è la gravità del peccato d'Israele, nel c. 2 Osea ne traccia i
contorni e ne scandaglia le profondità.
1. «ACCUSATE VOSTRA MADRE, ACCUSATELA»: 2,4-7.10
La nazione ebraica è qui presentata come una madre e i singoli israeliti come i figli.
Passando da 1,2-9 dove la madre è Gomer la prostituta con i tre figli generati ad
Osea, il profeta fa una trasposizione introducendo Dio che si rivolge agli israeliti (i
figli) perché intentino una lite e aprano un processo contro la propria madre (la
nazione) accusandola d'infedeltà al proprio marito (Jahvè). C'è un non senso
evidente. Israeliti e nazione formano un tutt'uno e sono pertanto tutti colpevoli. Ma
il profeta è indotto a mantenere la distinzione perché passa da Gomer, realmente
distinta dai figli, a Israele al quale contrappone 'i figli', i suoi cittadini. Non è il caso di
vedere, in questi «figli che accusano», gli Israeliti onesti che non si sono macchiati dei
crimini della nazione. Per Osea il popolo in quanto tale è tutto peccatore.
La ragione dell'accusa è da ritrovarsi nel fatto che la nazione in forza della sua
infedeltà non è più 'moglie' di Jahvè e di conseguenza egli non più 'marito'.
L'espressione «tu non sei più... e io non sono più...» sembra appartenere al
linguaggio tecnico del divorzio secondo il diritto orientale; qui ha più il valore di una
costatazione: Israele s'è messa fuori del matrimonio con Jahvè, lo ha abbandonato.
Non c'è stato dunque ripudio da parte del 'marito', questi anzi le rivolge un invito
perché torni quella di prima: «Si tolga dalla faccia i segni delle sue prostituzioni e i
segni del suo adulterio dal suo petto» (v 4b). Diversamente è prevista la pena per la
sposa infedele, il denudamento, in termini più realistici la riduzione a deserto della
sua terra (v 5), senza prospettive di vita. Come dire che Dio cesserebbe di aver
compassione (cfr 1,6) dei suoi figli (v 6).
Nel v 7 è ripresa l'accusa ed è fatta nel linguaggio figurato che conosciamo. Se è vero
che Iahvè-Israele-Baal sono nella figura rispettivamente marito-moglie-amante, i
donativi fatti dal marito ma supposti dall'amante sono concreti: il pane e l'acqua
(l'alimento), la lana e il lino (gli indumenti), l'olio e le bevande inebrianti (ciò che
rende piacevole la vita). In tutto questo discorso si passa facilmente dal simbolo alla
realtà. Così è perché i culti baalistici son quelli tipici di una religione della fertilità e
della fecondità dove Baal è considerato il Dio del temporale che feconda la terra con
la pioggia (il suo 'seme') e che viene propiziato dal rito della prostituzione praticata
nei suoi santuari e per questo detta 'sacra'.
Il peccato d'Israele è consistito in «non aver saputo» (primo accenno alla
'conoscenza' così importante per Osea), in un non 'voler' capire (v 10) da quale fonte
gli derivasse il suo benessere. Proprio perché non «ha capito», ha finito per
«dimenticare» Jahvè (v 15b) e andare dietro agli 'amanti' come ai suoi veri
benefattori, che in verità non sono tali.
2. «PERCIÒ...»: NECESSITÀ DI UN CASTIGO: 2,11-15.8-9
Affinché Israele «sappia» qual è la vera sorgente della sua vita, Iahvè si vede
costretto a togliergli gli alimenti: «tornerò a riprendere il mio grano e il mio vino» (v
11a), lo priverà degli indumenti e dell'onore: «ritirerò la lana e il lino.., e scoprirò le
sue nudità» ( 11b-12a), spegnerà le luci di tutte le sue feste ed essiccherà tutte le
fonti della sua gioia e dei suoi piaceri (vv 13-15), anche se vorrà ancora andare in
cerca degli amanti, si troverà la strada sbarrata (vv 8-9). Una volta sola, sentirà la
nostalgia del suo primo amore: «Ritornerò al mio marito di prima perché ero più
felice di ora» (9b).
Si risente in queste parole la decisione del 'figliol prodigo': «Mi alzerò e andrò da mio
padre e gli dirò... prendimi come...» (Lc 15,18s). Bisogna toccare con mano quel che
si diventa senza Dio per sentirne struggente il bisogno. L'esperienza del peccato può
essere la migliore premessa a un ritrovarsi in Dio e alla giusta valutazione del suo
dono. Può essere... Ma perché lo sia di fatto è necessaria un'azione preveniente di
Dio. Il peccatore può dormire sonni tranquilli sul suo peccato e non avvertire alcun
bisogno di Dio, né sentir disagio o vergogna di sé.
Dio ha sbarrato tutte le strade che portano agli 'amanti', ma non basta: deve
tracciare la via che attraverso il deserto riporterà Israele nelle sue braccia.
3. «PERCIÒ...»: PROSPETTIVE DI SPERANZA: 2,16-17
Il linguaggio di questi due versetti è tra i più arditi: «Ecco, la sedurrò, la condurrò nel
deserto, le parlerò cuore a cuore» (v 16).
Il primo verbo qui impiegato, nei vari usi della Bibbia ha quasi sempre una
connotazione di violenza esercitata con parole, pressioni, azioni per ottenere il
consentimento di qualcuno. Viene pertanto usato per indicare la seduzione di un
innamorato nei confronti di una ragazza (Es 22,15), o viceversa le moine di una
prostituta per carpire il segreto all'amante (Gdc 14,15), o quell'arte segreta e
irresistibile con cui Dio induce un uomo a parlare in nome suo nonostante la difficoltà
della missione e la riluttanza del profeta. In questo senso Geremia in un momento di
sconforto esploderà in questi termini nei confronti di Dio: «Mi hai sedotto Jahvè, e io
mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso» (Ger 20,7).
Proprio questa violenza, insieme dolce e irresistibile, impiegherà Dio per 'sedurre'
nuovamente sua 'moglie', divenuta prostituta e adultera. Ogni uomo è consapevole
di agire in libertà, di essere responsabile delle proprie decisioni e azioni. La fede dice
che Dio non è estraneo in tutto il nostro operato. Osea fa capire che la presenza e
l'azione di Dio in noi rivestono i caratteri di quel fenomeno così misterioso, pressante
e insieme liberante, che è l'amore. Egli conquista e seduce, e l'uomo è felice di
lasciarsi conquistare e sedurre.
Una volta sedotta, Jahvè si porterà l'Israele-sposa «nel deserto». Il deserto di cui si
parla evoca tante cose al profeta. Più che come luogo geografico, desolante e
invivibile, rimasto nella memoria d'Israele come figura della sofferenza e della
continua prova (Es 15,25; Dt 2-4), il deserto è assunto da Osea come il tempo della
situazione ideale d'Israele, nel deserto il popolo visse la sua stagione di totale
dipendenza da Jahvè; egli era il suo Signore, l'unico sposo, l'unico datore di vita.
Riportare Israele nel deserto equivale per Jahvè a ripristinate il rapporto d'allora,
dare un nuovo inizio alla storia e alla vita del suo popolo. Riportare nel deserto ha
allora il senso di un atto creativo. Adamo, secondo il racconto jahvista, è creato in
pieno deserto (Gen 2,4b-7): l'assenza di vita intorno a lui dimostrerà all'evidenza che
tutto quello che verrà dopo, il giardino verdeggiante, gli animali, la donna (2,8- 23) è