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J. D. Salinger (1919-2010)
IL ‘GIOVANE HOLDEN’ RIVELÒ CHE NON C’È PIÙ SPAZIO PER L’INNOCENZA
È morto lo scorso 27 gennaio, di un tumore al pancreas, lo scrittore newyorkese
che divenne celebre nel 1951 col romanzo “The Catcher in the Rye”. Dal 1953
si era ritirato nella cittadina di Cornish, in New Hampshire. Nei racconti
successivi al primo libro, imperniati sulla caustica storia della famiglia Glass,
aveva delineato profondi dubbi che investivano le stesse basi ideologiche del
sistema economico e civile dell’Occidente. Colpito da critiche ed attacchi,
decise di smettere di pubblicare a metà degli anni ’60, vivendo pressocché
invisibile e lontano da qualsiasi ambiente letterario e culturale.
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di Piero Sanavio
Protagonista di The Catcher in the Rye, primo grande successo editoriale di J. D. Salinger
(1919 – 2010), è l’adolescente Holden Caulfield. In fuga dal college dal quale peraltro è già
stato espulso e novello cavaliere alla ricerca di un improbabile Graal, conoscerà avventure che
costituiscono i luoghi deputati di quel progresso – l’incontro con i mostri, lo scontro con
cavalieri nemici, l’esperienza con una dame-sans-merci, la finale consapevolezza che non
esiste nessuna coppa fatata da conquistare. Il grande nemico è il mondo dei grandi e Salinger
ne farà una disamina attraverso gli occhi di un innocente, Holden Caulfield, appunto,
insofferente della propria innocenza e alla quale tuttavia non si può sottrarre.
Il romanzo esce negli Stati Uniti nel 1951, in pieno boom postbellico. Sono gli anni
dell’ottimismo generalizzato, la certezza di una crescita economica senza confini, la felicità
identificata con il possesso sempre maggiore di beni materiali – la casa, le case, l’automobile,
le automobili, la barca, le barche, elettrodomestici sempre più perfezionati e più nuovi, gli
oggetti che non si riparano, quando deteriorati, ma si buttano. Espansione economica e
certezza nel futuro si riflettono anche nella crescita demografica, nell’accesso all’istruzione
superiore per tutti o quasi – il futuro lì, a portata di mano, e non chiede che d’essere
conquistato. E tuttavia ombre sinistre si addensano su quel progresso: il pericolo di un
conflitto termonucleare, la crescita di un conservatorismo politico, la caccia alle streghe che
troverà il suo alfiere nel prossimo vicepresidente, Richard Nixon, sinistro presidente dopo i
narcisismi pseudoprogressisti di J. F. K.
Per chi ha combattuto, nel Pacifico o in Europa, l’ottimismo servirà da alibi per scordare certe
esperienze. Non così per J. D. Salinger, uno dei pochi sopravvissuti al massacro di Omaha
Beach, nello sbarco alleato in Normandia, sopravvissuto anche alla battaglia delle Ardenne e
tra i primi a entrare in un campo di concentramento tedesco. Confesserà alla figlia, “È
impossibile non sentire più l’odore dei corpi bruciati, non importa quanto a lungo tu viva.”
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Holden Caulfield non è cosciente della guerra, gli è del tutto estranea anche come ipotesi
storica, sa soltanto che il mondo dei grandi è “fasullo” e “fasulli” sono i loro ideali. Nella sua
ricerca di un’innocenza nella quale poter riflettere la propria, conoscerà soltanto fallimenti –
scontri con compagni di scuola dove ha la peggio, incontri femminili abortiti, la minaccia di
una rapporto omosessuale al quale si sottrae con il cuore in gola, suo solo interlocutore la
sorella di dieci anni, pronta a fuggire con lui non importa dove.
Principali novità, in questo romanzo che non è di formazione e narra piuttosto un’esperienza
nell’angoscia, sono il linguaggio del protagonista la cui truculenza cela insicurezze e paure, e
la crudeltà dell’ironia, resa più crudele da un falso patetismo e che sfocia in situazioni di
esplosiva comicità. Nuova, per quegli anni, e anch’essa contribuì al successo del romanzo, è
la condizione economica del protagonista – non un proletario o sottoproletario come sarebbe
stato qualche decennio avanti (di origini proletarie è anche il fitzgeraldiano Jay Gatsby) ma un
rampollo della medio-alta borghesia di New York.
Nella letteratura americana Holden Caulfield non avrà discendenti ma precursori, notevoli tra
questi Huck Finn e Nick Adams. Suo antesignano, nel mondo di Salinger, è Seymour Glass,
di una famiglia le cui avventure diventeranno argomento principale della prosa dello scrittore;
nel racconto “A Perfect Day for Bananafish” anteriore di qualche anno al romanzo (“Giorno
perfetto per il pescebanana” – apparso nel New Yorker nel 1948, incluso in Nine Stories nel
1953) assistiamo al suo suicidio.
Gli ingredienti sono già quelli di A Catcher in the Rye: un giovanotto notevolmente più
anziano di Holden, ma posseduto dalla stessa quieta disperazione; una società opulenta
simboleggiata qui da una moglie innamorata, giovane e ricca; una bambina con la quale
Seymour stabilisce un dialogo tra il surreale e il patetico prima di appoggiarsi alla tempia la
canna di una pistola. Come nel romanzo, crudele e ironico è lo stile, le cui reticenze
contribuiscono all’enigmatica drammaticità della situazione.
Neppure nei racconti (o romanzi brevi) che seguiranno, tutti percorsi dalla memoria di quella
morte, i personaggi metteranno mai in chiaro le ragioni del gesto. Esse insorgono
indirettamente dalle pieghe della trama, dai dialoghi interminabili, dalle nevrosi dei
personaggi e li legano altrettanto saldamente di un affetto che nessuna verbale aggressività
riesce a mascherare. Non ci troviamo in un inferno borghese, al contrario, siamo al centro di
una dialettica che nasce dalla coscienza delle inadeguatezze morali di un nucleo famigliare e
una società, e degli errori e arroganze che traspaiono dai loro riti.
La storia dei Glass, argomento, a quanto si sa, anche dei romanzi tuttora inediti di Salinger, si
dipana nei racconti “Franny” (1955), “Zooey” (1957, raccolti in volume nel 1961), “Rise Up
the Housebeam Carpenters” (“Alzate l’architrave, carpentieri” 1955 – il titolo è da un
epitalamio di Saffo), “Seymour: an Introduction” (“Seymour: un’introduzione” 1959) e
“Hapworth 16, 1924”, di qualche anno dopo. Trattano delle avventure di sette tra fratelli e
sorelle (alcuni vivi, altri deceduti), figli di una coppia di attori d’avanspettacolo, lei irlandese,
lui ebreo, e per anni hanno fatto della loro progenie i mostruosi protagonisti di un programma
radiofonico di successo: bambini superintelligenti, capaci di rispondere alle domande più
astruse degli ascoltatori. L’esperienza graverà sulla loro crescita traducendosi in un senso di
colpa e insieme di inadeguatezza: certi che non saranno mai all’altezza della loro conclamata
superiorità, sono anche coscienti della volgarità e il carattere menzognero di quella presunta
superiorità. Ciò ha fatto di loro dei perenni disadattati – incapaci di accettare il mondo esterno
in quanto non è all’altezza degli ideali che gli sono stati inculcati, condannati perciò a un
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isolamento che neppure la coscienza della falsità di quell’atteggiamento gli permetterà di
superare.
“Siamo fenomeni da fiera” dirà Zooey di sé e i suoi fratelli. “Siamo la donna tatuata e non
avremo mai un minuto di pace finché il mondo intero non sarà tatuato come noi.”
Il discorso va aldilà della critica alla società opulenta, anche se certamente non lo esclude,
investe qualcosa di assai più profondo e, per Salinger, intimo anche se non esclusivamente
personale. Come in Kafka, il problema è quello delle radici ed evoluzioni di una cultura.
Di ascendenze insieme ebraiche e irlandesi, Salinger (irlandese era la madre, convertitasi
all’ebraismo con il matrimonio, come il figlio ebbe a scoprire il giorno della sua bar mizvah),
attraverso le avventure dei Glass, affronta una questione che già nella Vienna tra le due guerre
si era rivelata radicale. L’integrazione nella società contemporanea, nello specifico in quella
protestante, formalmente così legata alla Bibbia nel linguaggio e gli ideali, avrebbe permesso
alla minoranza ebraica di conservare i caratteri originari della propria cultura o rischiava di
tradursi in una sua cancellazione? In altre parole: la particolarità del popolo prediletto da dio
in che cosa si traduceva nella civiltà moderna, la superiorità teologica in che cosa si
trasformava? Se la saga dei Glass è, come crediamo, una risposta a questi interrogativi, essa
denuncia una volgarizzazione di quegli ideali, il rapporto con dio diventato un rapporto con il
successo, il danaro, la particolarità teologica ridotta a commerciale attività da baraccone.
I dubbi avanzati da Salinger sui rischi dell’integrazione socioculturale di una minoranza, e la
mercificazione dei suoi ideali, investivano le basi ideologiche del sistema economico sul
quale per secoli si era basato lo sviluppo dell’Occidente. In New England, quel cuore
dell’America, già l’inizio del XVIII secolo aveva conosciuto la trasformazioni dei dettati del
Libro in una sorta di baedeker del profitto, il successo economico considerato segno tangibile
del favore di dio e certezza per l’anima di un’eterna salvezza. In questa prospettiva, il
discorso di Salinger risultava assai più pericoloso di quello proposto dai marginali del Village
e le osterie letterarie di San Francisco, gli sciamannati beatnicks (“Howl” è del 1955, On the
Road del 1957), assorbibili e in effetti presto assorbiti nelle meccaniche del sistema. Con lui,
l’attacco veniva dall’interno dell’opulenza e con il linguaggio dei figli opulenti di quel
sistema.
Fu quando si accorse delle pericolose implicazioni di quella lucida prosa che la critica
ufficiale americana, mai del tutto tenera con Salinger, peraltro, aprì il fuoco, Mary McCarthy
e John Updike in prima fila tra i fucilatori. In Italia, gli attacchi vennero da Agostino
Lombardo, pur con tutt’altre e più superficiali motivazioni. Diversamente dai beatnicks,
Salinger, i cui più cari nemici erano all’interno della rivista che gli dava da vivere, il New
Yorker, (eccezion fatta per Shawn, il direttore) non aveva un movimento dietro di sé, sicché
risultò facile zittirlo anche se non a impedirgli di scrivere.
La decisione, di fronte a quegli attacchi, di non pubblicare alcunché se non dopo la morte,
però, non fu una fuga alla Holden dalla violenza del sistema ma l’aristocratico rifiuto di
adeguarsi a logiche che non condivideva. “La sola preoccupazione dell’artista” lasciò scritto,
ancora in “Franny and Zooey”, e non importa se fosse cosciente o meno di parafrasare Marcel
Proust, “è di mirare a una qualche perfezione, nei termini propri e di nessun altro.”
Ci si chiede cosa vedessero mai in Salinger, in particolare nel Giovane Holden, i giovanotti
che assicurarono anche nel nostro Paese il successo di una scrittura così profondamente
americana – in un senso del tutto diverso, però, da quella “barbarica” (o supposta tale) degli
autori della precedente generazione. Affrontava questioni del tutto estranee al Zeitgeist
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nazionale, in piena foia consumistica, e a far da tramite cultural mondano non c’era nessuna
Fernanda Pivano.
L’impressione è che Il Giovane Holden, pur nella commendevole traduzione di Adriana
Monti, così attenta ai risvolti ironici e le crudeltà di certi pseudo-patetismi del testo (ben
diversamente dalle approssimazioni di Ruggero Bianchi e R. C. Cerrone, che volsero in
italiano il volume Franny e Zooey), fosse letto essenzialmente come un moderno Cuore.
Come quell’esaltazione intimista di una borghesia “buona”, problematica ma affascinante,
inevitabilmente nel giusto, che costituisce il dettato di Lessico Famigliare e le pièces
postsessantotine di Natalia Ginzburg.
Potrebbe confermare questa ipotesi il fatto che Il giovane Holden non figliò epigoni nel nostro
Paese; a meno che non si vogliano far passare per tali il quasi coevo (1963) L’età del
malessere, così patetico nei suoi calchi saganiani, o quella che resta la più arrogante,
narcisistica testimonianza di una sottocultura che coniugando rivoluzione con copulazione
cercava un suo politico riscatto, Porci con le ali..
Non diversamente dai beatnicks, o di alcuni tra essi, e ai quali in qualche modo aprì la strada,
anche Salinger, nella sua insoddisfazione con la realtà socioeconomica in cui si trovava a
vivere, metteva in dubbio non soltanto le premesse ma le stesse articolazioni del pensiero
dell’Occidente. La sua sfiducia nella logica e il concetto meccanicistico del reale, e nell’idea
della coincidenza di logica e progresso, lo avrebbero portato ad avvicinarsi alle religioni
orientali, un percorso di Kriya yoga completo di esercizi di respirazione, meditazione,
consuetudini alimentari, nella certezza o speranza che la via all’illuminazione passa per il
celibato e il distacco dalle responsabilità umane. Senza entrare nel merito del valore o meno
di queste ricerche, esse erano il suo antidoto alla disperazione e compaiono in falsariga nei
racconti dove, specificamente in “Zooey” e “Seymour: an Introduction”, i dialoghi dei
personaggi assumono a volte la dimensione di una discussione filosofica, pur temperata da
ironie e autoironie. In “Seymour”, il discorso si colora di irresistibili comicità per lo scarto tra
i punti di vista dei personaggi – la furibonda irritazione della famiglia di una sposa, e la stessa
sposa, che Seymour ha piantato sulle soglie del matrimonio, e le argomentazioni del fratello
di Seymour che cerca di spiegare le ragioni di quell’improvvisa defezione.
È un mondo di impermanenze, quello dei fratelli Glass, il suicidio di Seymour monito del
destino non tanto o non soltanto di un gruppo famigliare o una classe, neppure di una
minoranza, ma dell’intero Occidente. Come già avevano indicato Hemingway e Fitzgerald,
non c’è più spazio per l’innocenza – qualcosa di ben diverso da quell’immaturità di cui il
polacco Gombrowicz si sarebbe fatto sfiatato cantore.
La realtà si autodistrugge non appena percepita e la speranza, non appena anelata, si rivela un
inganno. In questo pessimismo totale, neppure lo zen, né peraltro la droga, rappresentano una
soluzione effettiva, alla fine, e la “santità” di Seymour, di cui parla Salinger, è tale in quanto
implica una distruzione del mondo attraverso la propria distruzione.
Soltanto la morte è coscienza.
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