Laboratorio intermedio Le parole e la forma - 3
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Laboratorio intermedio Le parole e la forma - 3
Lezione 3 Dove si scopre che i ragazzi si raccontano le loro storie e i vecchi le leggono Diario, scrivo dalla mia camera semibuia tappezzata dalle stampe di Gustave Klimt e dai poster di Marlene Dietrich; lei mi guarda con il suo sguardo languido e superbo mentre scarabocchio il foglio bianco su cui si riflettono i raggi del sole, filtrati appena dagli spiragli delle persiane. C'è caldo, un caldo torrido, secco. Sento il suono della televisione accesa nell'altra stanza e mi arriva la piccola voce di mia sorella che intona la sigla di un cartone animato, fuori un grillo urla la sua spensieratezza e tutto è calmo e mite dentro questa casa. Sembra che tutto sia rinchiuso e protetto da una campana di vetro finissimo e il caldo rende più pesanti i movimenti; ma dentro di me non c'è calma. E' come se un topo stesse rosicchiando la mia anima e in maniera così impercettibile da sembrare dolce, persino. Non sto male e non sto nemmeno bene, la cosa inquietante è che «non sto». Però, so ritrovarmi: basta alzare lo sguardo e incrociarlo con quello riflesso sullo specchio perché una calma e una felicità mite s'impossessino di me. Davanti allo specchio mi ammiro e rimango estasiata dalle forme che vanno man mano delineandosi, dai muscoli che assumono una forma più modellata e sicura, dai seni che cominciano a notarsi sotto le magliette e si muovono dolcemente a ogni passo. A questo punto voi lettori vi sarete divisi tra quelli che hanno capito di cosa si tratta (e qualcuno magari storce la bocca o forse anche il libro) e quelli che si chiedono cosa c'entri con il nostro discorso questo esempio di prosa un po' sdolcinata. Presto detto. È semplicemente il più grosso successo adolescenziale degli ultimi anni. Si tratta di Melissa P. e del suo Cento colpi di spazzola. In questo avvio la giovane protagonista si accorge di avercele, cosa che succede più meno a tutti quando siamo adolescenti. Qui bisogna intendersi, quando diciamo adolescenziale nei nostri tempi intendiamo qualcosa che va oltre l'età dei teen-ager, diciamo che si tratta quasi di uno stato spirituale: Peter Pan for ever. Diciamo che questo tipo di storie parlano di quel momento in cui i giovani si accorgono che diventare adulti fa schifo, idea dalla quale alcuni non si riprenderanno mai più. Di questo parlava anche un testo cardine del movimento giovanile degli anni '70, Porci con le ali, di Lidia Ravera e Marco Lombardo Radice, con un incipit noto per il linguaggio che è osceno e insieme ingenuo, cosa tipica del romanzo giovanile che vuole scandalizzare e non bada a spese, diciamo così. Tappate le orecchie ai bambini in ascolto: Cazzo. Cazzo cazzo cazzo. Figa. Fregna ciorgna. Figapelosa, bella calda, tutta puzzarella. Figa di puttanella. Niente. Una volta con le filastrocche ci venivo, o almeno mi veniva voglia. Dicevo le parolacce e poi ridevo, se ero con i miei amichetti. Se ero sola le pensavo, le dicevo a mezza voce e poi mi infilavo le mani nelle mutandine, rapida rapida, con un occhio alla porta e le orecchie così tese che sentivo fischiare le scale. Era un grande spavento. E la mano poi me la sarei tagliata, ma era bello, una grande felicità bagnata, strappata, un urletto soffocato. Adesso, anche se sono sola è come se fossi in mezzo alla gente: mi viene da ridere. Cioè non è che mi viene da ridere, rido perché non sono mai sola, c'è sempre qualcuno, anche se non c'è nessuno, qualche maledetto coglione che mi giudica. Cazzo gonfio, cazzo duro, con la sua pelle, pelle pellosa e la sua cappella spellata: ne ho toccati già sette. Non mi hanno fatto grande impressione. Però non sono tutti uguali, ce n'è che sembrano malati e che sembrano sani. Quelli tutti rugosi e quelli belli levigati. Uffa, tanto non mi viene: mi levo il pigiama e mi sdraio sulla schiena, come se fossi morta. Ma perché ce la leggiamo questa roba? Che tipo di fascino ha sul lettore? Il fascino del realismo, anzi di più, della verità. Tutto l'interesse pubblico intorno a Melissa P. si è concentrato sulla domanda: sarà tutto vero? Questa ragazzina ha davvero fatto tutto quello che racconta? La stessa domanda che si fece il pubblico di Porci con le ali più di trent'anni fa: sono davvero così i giovani post sessantotto? Forse succede perché i giovani sono generalmente sconosciuti agli adulti, che sperano leggendo un libro di capire la figlia che dorme nella stanza accanto. E quindi il racconto adolescenziale deve essere o perlomeno sembrare vero. O forse la risposta la diede diversi anni fa Joseph Conrad nel suo La linea d'ombra: Solo i giovani hanno momenti simili. Non penso ai giovanissimi. No, i giovanissimi, propriamente parlando, non hanno momenti. È privilegio della prima giovinezza vivere in anticipo sui propri giorni, in tutta la bella continuità di speranze che non conosce pause o introspezioni. Si chiude dietro di noi il cancelletto della pura fanciullezza - e ci si addentra in un giardino incantato. Persino le ombre vi risplendono promettenti. Ogni svolta del sentiero è piena di seduzioni. E questo non perché sia una terra inesplorata. Si sa bene che tutta l'umanità ha già percorso questa strada. È il fascino dell'esperienza universale dalla quale ognuno si aspetta una sensazione particolare e personale - un po' di noi stessi. I dolori del giovane Holden Chissà se J.D. Salinger, scrivendo Il giovane Holden, intuiva di dare il via a una nutrita serie di imitatori, che negli anni avrebbero scritto infinite storie di giovanissimi Holden di ogni età, condizione e periodo storico. Infatti, nel tentativo di ottenere una narrazione fluida e divertente, oppure al semplice scopo di imitare un linguaggio che apparire quasi naturalmente originali, molti autori scrivono racconti che utilizzano un lessico e un tono giovanili. Anzi, si può dire che le storie "dei giovani" rappresentano un genere letterario a se stante che sforna a ogni stagione qualche rappresentante (destinato disgraziatamente a invecchiare presto e quindi a essere dimenticato se non diventa molto velocemente "adulto"). Comunque le storie di giovani e ragazzi non nascono certo con Salinger e anzi per chiarire meglio perché e in cosa suoni più originale il giovane Holden conviene cominciare dal vecchio Copperfield col suo famoso incipit: Se mi accadrà di essere io stesso l'eroe della mia vita o se questa parte verrà sostenuta da qualche altro, lo diranno queste pagine. Per iniziare la mia vita proprio dal principio, ricorderò che nacqui (cosí mi hanno informato e cosí credo) un venerdí, a mezzanotte. Si notò che il pendolo prese a battere e io a strillare, simultaneamente. Tenuto conto del giorno e dell'ora della mia nascita, la levatrice, e certe discrete comari del vicinato che s'erano vivamente interessate di me vari mesi prima che ci fosse possibilità alcuna che facessimo una personale conoscenza, dichiararono - primo - ch'ero destinato nella mia vita alla sventura, e - secondo - che avevo la prerogativa di vedere fantasmi e spiriti: doni questi, l'uno e l'altro, che vanno inevitabilmente legati, com'esse credevano, a tutti gli infelici pargoli dell'uno e dell'altro sesso che nascono nelle ore piccole della notte del venerdí. Non è necessario che dica altro qui sul primo punto, giacché nulla meglio della mia storia potrà mostrare se questa predizione fu confermata o contraddetta dagli avvenimenti. È proprio il David Copperfield di Charles Dickens che J.D. Salinger tira in ballo all'inizio delle avventure di Holden per prenderne le distanze in modo irriverente e sgarbato come fanno sempre i giovani innovatori: Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e com'è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non va proprio di parlarne. Primo, quella roba mi secca, e secondo, ai miei genitori gli verrebbero un paio d'infarti per uno se dicessi qualcosa di troppo personale sul loro conto. Sono tremendamente suscettibili su queste cose, soprattutto mio padre. Carini e tutto quanto - chi lo nega - ma anche maledettamente suscettibili. D'altronde, non ho nessuna voglia di mettermi a raccontare tutta la mia dannata autobiografia e compagnia bella. Vi racconterò soltanto le cose da matti che mi sono capitate verso Natale, prima di ridurmi cosi a terra da dovermene venire qui a grattarmi la pancia. Niente di più di quel che ho raccontato a D. B., con tutto che lui è mio fratello e quel che segue. Sta a Hollywood, lui. Non è poi tanto lontano da questo lurido buco, e viene qui a trovarmi praticamente ogni fine settimana. Mi accompagnerà a casa in macchina quando ci andrò il mese prossimo, chi sa. Ha appena preso una Jaguar. Uno di quei gingilli inglesi che arrivano sui trecento all'ora. Gli è costata uno scherzetto come quattromila sacchi o giù di li. È pieno di soldi, adesso. Mica come prima. Era soltanto uno scrittore in piena regola, quando stava a casa. Ha scritto quel formidabile libro di racconti, Il pesciolino nascosto, se per caso non l'avete mai sentito nominare. Il più bello di quei racconti era Il pesciolino nascosto. Parlava di quel ragazzino che non voleva far vedere a nessuno il suo pesciolino rosso perché l'aveva comprato coi soldi suoi. Una cosa da lasciarti secco. Ora sta a Hollywood, D. B., a sputtanarsi. Se c'è una cosa che odio sono i film. Non me li nominate nemmeno. Voglio cominciare il mio racconto dal giorno che lasciai l'Istituto Pencey. L'Istituto Pencey è quella scuola che sta ad Agerstown in Pennsylvania. Probabile che ne abbiate sentito parlare. Probabile che abbiate visto gli annunci pubblicitari, se non altro. Si fanno la pubblicità su un migliaio di riviste, e c'è sempre un tipo gagliardo a cavallo che salta una siepe. Come se a Pencey non si facesse altro che giocare a polo tutto il tempo. lo di cavalli non ne ho visto neanche uno, né li, né nei dintorni. E sotto quel tipo a cavallo c'è sempre scritto: «Dal 1888 noi forgiamo una splendida gioventù dalle idee chiare». Buono per i merli. A Pencey non forgiano un accidente, tale e quale come nelle altre scuole. E io laggiù non ho conosciuto nessuno che fosse splendido e dalle idee chiare e via discorrendo. Forse due tipi. Seppure. E probabilmente erano già cosi prima di andare a Pencey. Notevole la distanza tra i due, no? E a pagina 144 dell'Einaudi con la copertina tutta bianca come la bara di un bambino, ecco che il nostro protagonista fa la scoperta essenziale di qualunque romanzo giovanile, le ragazze, cioè il sesso: Quando arrivai era ancora un po' presto, sicché mi sedetti su uno di quei divani di cuoio vicino all'orologio nell'atrio e mi misi a guardare le ragazze. Un sacco di scuole erano già chiuse per le vacanze, e c'erano almeno un milione di ragazze sedute e in piedi che'aspettavano di veder comparire i loro belli. Ragazze con le gambe accavallate, ragazze con le gambe non accavallate, ragazze con gambe fantastiche, ragazze con gambe orrende, ragazze che avevano tutta l'aria d'essere ragazze straordinarie, ragazze che avevano tutta l'aria d'essere cagne, a conoscerle. Era proprio un gran bello spettacolo, se capite quel che voglio dire. In un certo senso era anche un po' deprimente, perché uno continuava a domandarsi che fine avrebbero fatta tutte quante. Quando lasciavano la scuola o l'università, dico. C'era da supporre che probabilmente avrebbero sposato quasi tutte dei cretini. Quei tipi che ti raccontano sempre quanti chilometri fa la loro stramaledetta macchina con un litro. Quei tipi che si arrabbiano come ragazzini se li batti a golf, o perfino a un gioco stupido come il ping-pong. Quei tipi che non leggono mai un libro. Quei tipi che ti fanno venire una barba lunga tre metri. Ma in questo devo andarci piano. A chiamare barbosi certi tipi, voglio dire. Io i tipi barbosi non li capisco. Davvero. Amici, scuola, famiglia, ragazze, tipi stupidi che hanno successo con le donne, distanze incolmabili tra noi e gli altri. Se a qualcuno mancasse ancora un argomento per scrivere il buon romanzo giovanile, eccolo: la scoperta malinconica dell'apparente inutilità della vita o perlomeno del tentativo di scoprirne il senso, perché quando cerchi di raccontare qualcosa, invece di fermare i ricordi, aumenti la nostalgia di quel che è stato, che non è stato, o che poteva essere, come ci dice Holden alla fine del suo racconto: Ecco tutto quello che sono disposto a raccontarvi. Probabilmente potrei dirvi quello che feci quando andai a casa, e come mi sono ammalato e via discorrendo, e a che scuola dovrei andare in autunno quando sarò uscito da qui, ma non ne ho voglia. Sul serio. Ora come ora, queste cose non mi interessano molto. Un sacco di gente, soprattutto questo psicanalista che c'è qui, continuano a domandarmi se quando tornerò a scuola a settembre mi metterò a studiare. E' una domanda cosí stupida, secondo me. Voglio dire, come fate a sapere quello che farete, finché non lo fate? La risposta è che non lo sapete. Credo di sí, ma come faccio a saperlo? Giuro che è una domanda stupida. D.B. non è tremendo come gli altri, ma anche lui continua a farmi un sacco di domande. L'altro sabato è venuto in macchina con quella bambola inglese che prenderà parte al nuovo film che lui sta scrivendo. Era una posatrice fenomenale, ma bella da morire. Ad ogni modo, quando a un certo momento è andata alla toletta delle signore, che sta a casa del diavolo nell'altro reparto, D.B. mi ha domandato che cosa ne pensavo io di tutta questa storia che ho appena finito di raccontarvi. Non ho saputo che accidente dirgli. Se proprio volete saperlo, non so che cosa ne penso. Mi dispiace di averla raccontata a tanta gente. Io, suppergiù, so soltanto che sento un po' la mancanza di tutti quelli di cui ho parlato. Perfino del vecchio Stradlater e del vecchio Ackley, per esempio. Credo di sentire la mancanza perfino di quel maledetto Maurice. E' buffo. Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, finisce che sentite la mancanza di tutti. Lo stopper sul fieno Comunque le tipiche caratteristiche di questa scrittura sono il tono generalmente scanzonato, uno sguardo ironico o autoironico del protagonista, in prima ma anche in una terza persona molto vicina al punto di vista del giovane, l'uso di neologismi che derivano da ambienti genericamente adolescenziali, l'utilizzo attento delle sgrammaticature. Il titolo dell'edizione italiana del romanzo di Salinger, Il giovane Holden, fa pensare più ai Dolori del giovane Werther che a un adolescente degli anni '50, ma questo è un tono un po' pomposo, tipico della nostra idea nazionale «alta» di letteratura. L'originale infatti è The catcher in the rye, che significa: «il ricevitore nella segale», intendendo per ricevitore l'atleta che nel baseball afferra la palla mancata dal battitore, quindi volendo potremmo tradurlo anche: "lo stopper nel fienile" per meglio spiegare il tono giocoso della narrazione. In difesa del traduttore di allora del testo, c'è da dire che "A catcher in the rye" era un verso di una canzone popolare americana, immediatamente comprensibile al lettore, mentre in italiano il ricevitore nel campo di segale sarebbe suonato davvero strano. Però prima o poi qualcuno dovrà restituire a Holden il suo tono giovanile e scanzonato fin dal titolo. Se un diciassettenne di oggi somiglia a uno degli anni '50 Questo tipo di scrittura non cambia molto nel tempo. Ecco che, a distanza di mezzo secolo, un giovane narratore italiano, il diciassettenne (quando lo scrisse) Jacopo Reali, nel suo Solo per caso, usa un linguaggio che sembra la versione aggiornata di quel testo di allora, simile nei temi, solo un po' più arrabbiato e sboccato: Spaccare il mondo. Non nel senso di pazzi dittatori idioti o menomati mentali con baffetti più o meno lunghi, ma nel senso di prendere quel fottutissimo ed emerito coglione e/o tutti quelli che vagamente gli somigliavano e spazzarli via definitivamente; e in quel momento ovunque guardasse il pensiero verso l'emerito stronzo era molto più che ricorrente. La rabbia più profonda, una rabbia allo stato puro, si era completamente imposessata di lui, solitamente calmo e abbastanza riservato. Il mondo del cavolo in cui viveva gli ricordava lo stronzo e gli faceva pensare a quello che aveva fatto. La soluzione? Distruggere lo stronzo, il suo "nemico", e con lui tutto quello che lo circondava, ovvero il mondo. Disintegrarlo fisicamente. Peccato che per Jak questi rimanevano soltanto buoni propositi, in realtà sentiva che l'unica persona che ci rimetteva con quei discorsi era lui. Punto primo: mancava il coraggio (ovvero le palle) per un'azione dimostrativa verso il giulivo coglione; punto secondo: la partita per la conquista di lei l'aveva persa su tutti i fronti. Lei, odiata fino in terza media, rispuntava dopo un anno più che raggiante con i suoi "6 speciale", "6 diverso", "ti voglio un kasino di bene" mentre lui prendeva ingenuamente quegli sms come l'inizio di qualcosa di profondo. E aveva ragione al massimo. L'inizio di una profonda delusione. Cavalcata in groppa al Giovane Definire una volta per tutte elementi e particolarità dello slang giovanile non è solo complicato, è pure inutile. Perché cambia decisamente, da epoca a epoca, anzi quasi di anno in anno, da scrittore a scrittore e da libro a libro. Così quello che possiamo fare è farci una cavalcata saltando in groppa a un giovane puledro dietro l'altro. Cominciamo con Anthony Burgess e il suo Arancia ad Orologeria, meglio noto come Arancia meccanica, dopo il film che ne trasse Stanley Kubrik. Qui il tono è vagamente fantascientifico, leggiamo: -Allora che si fa, eh? C'ero io, cioè Alex, e i miei tre soma, cioè Pete, Georgie, e Bamba, Bamba perché era davvero bamba, e si stava al Korova Milkbar a rovellarci il cardine su come passare la serata, una sera buia fredda bastarda d'inverno, ma asciutta. Il Korova era un sosto di quelli col latte corretto e forse, O fratelli, vi siete scordati di com'erano questi sosti, con le cose che cambiano allampo oggigiorno e tutti che le scordano svelti, e i giornali che nessuno nemmeno li legge. Non avevano la licenza per i liquori, ma non c'era ancora una legge contro l'aggiunta di quelle trucche nuove che si sbattevano dentro il vecchio mommo, cosí lo potevi glutare con la sintemese o la drenacrom o il vellocet o un paio d'altre robette che ti davano un quindici minuti tranquilli tranquilli di cinebrivido stando ad ammirare Zio e Tutti gli Angeli e i Santi nella tua scarpa sinistra con le luci che ti scoppiavano dappertutto dentro il planetario. Dire che Burgess si è buttato sui neologismi è dire poco, no? Molto meno complicato è lo stile di Jack Frusciante è uscito dal gruppo, romanzo d'esordio di Enrico Brizzi. Le prime pagine soprattutto ci presentano molti elementi di linguaggio che è o vuole essere giovanile. presto sarebbe volato via pure quello stupido febbraio e il vecchio Alex si sentiva profondamente infelice ma in modo distaccato, come se la sua vita appartenesse - sensazione fin troppo tipica e cruda ne convengo - a qualcun altro ma non ghignate, per favore, poiché all'epoca il vecchio Alex non aveva ancora compiuto diciott'anni e in quei giorni il cielo di Bologna era espressivo come un blocco di ghisa sorda e da simili espressività non avreste potuto aspettarvi nulla d'esaltante, neppure uno di quei bei temporaloni definitivi che lavano le strade e da quasi due settimane la città giaceva tramortita sotto una pioggia esangue senza nome quale conoscente del vecchio Alex e persona informata dei fatti mi limiterò ad aggiungere che una certa storia con una ragazza gli appariva ormai sfumata nel ricordo, gualcita dallo squallore sbalorditivo della vita di tutti i giorni: essere stato terribilmente felice con lei per quattro mesi gli sembrava - ecco un'altra delle sue sensazioni più crude - non fosse servito a niente ascoltate: fino al giro di boa dei sedici anni e mezzo il nostro minorenne attento pettinato passivissimo - un volenteroso assoluto - era rimasto a marcire a un palmo della cattedra dei profii e prendeva gli appunti, il cuoricino! diligente! servizievole! consacrato! un cadavere di buoni sentimenti scolastici sotto innumerevoli riguardi e le entrate in classe strategiche alla seconda ora? mai! ché i suoi alsaziani sensi di colpa avrebbero finito con l'ucciderlo altrimenti, e le assenze ingiustificate? scherziamo? Si notano subito diversi elementi che servono a farci capire che l'autore è "giovane" quanto il suo personaggio (definito "il vecchio Alex" quasi per citare direttamente Il giovane Holden anche se al contrario): l'assenza di maiuscole, la punteggiatura appena accennata, qualche neologismo (i profii), qualche metafora originale (il cielo di Bologna era espressivo come un blocco di ghisa sorda), qualche riferimento diretto al mondo della scuola (entrate in classe strategiche alla seconda ora), ecc. Continuando nella lettura, il personaggio (il cuoricino! diligente! servizievole!) diventa più "adulto" e anche la scelta linguistica si fa più netta: aveva aperto gli occhi sulle troppe stronzaggini tipo le tabelle dei verbi irregolari gli specchietti sinottici la democrazia fasulla del consiglio d'istituto e il conformismo e la doppiezza dei profii, il modo biforcuto che avevano d'incoraggiare a parole l'indipendenza di giudizio dei ragazzi e la rabbia sottile con cui punivano ogni minimo segnale d'autonomia quei bastardi e in settembre all'inizio della seconda liceo il nostro redento e l'amico Oscar s'erano precipitati su per le scale in testa al gruppo degli alunni sonnambuli e avevano occupato il banco più imboscato dell'aula guizzanti come cani giovani subito a proprio agio nei nuovi panni di neosvegliati e rinselvatichiti, e così l'autunno e l'inverno erano trascorsi ottusi e lenti fra i muri giallognoli del liceo Caimani ma elettrici e veloci via dalla schifa galera fuori in compagnia di Depression Tony e l'Helios Nardini e quel kranio fosforescente del vecchio Hoghe l'unico uomo al mondo persuaso (vi giuro ci vollero mesi per convincerlo dell'errore) che la dizione esatta di blue-jeans era blugìnx con la inx finale Il riferimento a Salinger è più o meno diretto, in ogni caso si può notare qui l'uso dell'aggettivo "schifa" che compare anche nelle prime righe di Holden. Comunque, dopo queste pagine d'esordio anche "il vecchio Alex" pur mantenendo il suo linguaggio "da giovane", mette la punteggiatura e le maiuscole, se non la testa, a posto e il resto del romanzo somiglia più da vicino a un tradizionale testo di narrativa. Continuiamo con un importante autore americano, Don DeLillo, e il suo Underworld : Parla la tua lingua, l'americano, e c'è una luce nel suo sguardo che è una mezza speranza. È un giorno di scuola, naturalmente, ma lui non c'è proprio, in classe. Preferisce star qui, invece, all'ombra di questa specie di vecchia carcassa arrugginita, e non si può dargli torto questa metropoli di acciaio, cemento e vernice scrostata, di erba tosata ed enormi pacchetti di Chesterfield di sgimbescio sui tabelloni segnapunti, con un paio di sigarette che sbucano da ciascuno. C'è il tempo di dare un'occhiata alla Beat generation e a uno dei suoi profeti, Allen Ginsberg. Leggiamo il celeberrimo Urlo: Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi per strade di negri all'alba in cerca di droga rabbiosa, hipsters dal capo d'angelo ardenti per l'antico contatto celeste con la dinamo stellata nel macchinario della notte, che in miseria e stracci e occhi infossati stavano su partiti a fumare nel buio soprannaturale di soffitte a acqua fredda fluttuando sulle cime delle città contemplando jazz, che mostravano il cervello al Cielo sotto la Elevated e vedevano angeli Maomettani illuminati barcollanti su tetti di casermette che passavano per le università con freddi occhi radiosi allucinati di Arkansas e tragedie blakiane fra gli eruditi della guerra, che venivano espulsi dalle accademie come pazzi & per aver pubblicato odi oscene sulle finestre del teschio che si accucciavano in mutande in stanze non sbarbate, bruciando denaro nella spazzatura e ascoltando il Terrore attraverso il muro È il momento di soffermarci su un vero capolavoro di scrittura a metà tra infanzia e adolescenza: Amabili resti di Alice Sebold, un romanzo che è costruito a partire da un punto di vista originale. Un'adolescente, Susie, viene uccisa e comincia a raccontare, dopo morta, ciò che avviene dopo il suo omicidio cercando di influenzare le indagini per la scoperta del suo assassino. Mi chiamavo Salmon, come il pesce. Nome di battesimo: Susie. Avevo quattordici anni quando fui uccisa, il 6 dicembre del 1973. Negli anni Settanta, le fotografie delle ragazzine scomparse pubblicate sui giornali mi somigliavano quasi tutte: razza bianca, capelli castano topo. Questo era prima che le foto di bambini e adolescenti di ogni razza, maschi e femmine, apparissero stampate sui cartoni del latte o infilate nelle cassette della posta. Era quando ancora la gente non pensava che cose simili potessero accadere. Nel diario delle medie avevo ricopiato un verso di un poeta spagnolo, Juan Ramón Jiménez; era stata mia sorella a farmelo conoscere. "Se vi danno un foglio squadrato, scriveteci sopra dall'altro lato". Ecco quindi una sequenza tutta al femminile: A volte penso sia stata la luna a partorirmi tra spasmi di cosce pallide sapientemente allargate tra le stelle proprio in alto. Così appesa sopra un concerto di David Bowie lei si apriva lasciandomi cadere. Io sono Demon e la luna è mia madre. Ci sono pareti bianche e angeli dalle piccole ali in volo attorno a noi abbracciate nello stesso letto con poca luce e il suo respiro sopra che ascolto stringendola in una delle tante nottiluminal con Davi-dolce accanto che ora avvicina le sue labbra alle mie sussurrandomi saremo amiche per l'eternità. Questa è la storia di Demon e Davi. (Luminal, Isabella Santacroce) Quella paracula della mia amica, la Monica, ne ha combinata un'altra delle sue. Ore nove e tre quarti mattutine e quella tutta isterica e schizzata c'ha già una parlantina da stenderti secca. Io ancora in coma per il risveglio pessimo, bocca impastata, pensieri allucinati, e lei a urlare nella cornetta: Oè, testona, che fine hai fatto? Che stavi facendo, porcate? Io dico: Niente, due esercizi di danza del dragone... CHEEEE??! Ripeto: Danza del dragone. E lei: Danza del dragone! Adesso si chiama così? (Mai sentita così bene, Rossana Campo) Non ho mai sognato il Principe Azzurro. E, dalle mie parti, chi non sogna il Principe Azzurro o sogna il Re dei Cieli o non sogna proprio. Io ho sognato il Re dei Cieli da quando avevo cinque anni e mi dicevano che quel barbuto fra le nuvole, con gli occhi erranti e l'indice maestoso, era mio padre. Non ho mai amato mio padre, quello terreno, perché mi diceva di non portare i pantaloni e di non far vedere le gambe; invece quel Padre che dall'alto mi proteggeva mi dava la speranza di poter un giorno indossare i pantaloni, come mio fratello, e di far vedere le gambe, come Angelina, la figlia dell'ingegner Carasotti. (Volevo i pantaloni, Lara Cardella) Non può mancare nella nostra galoppata in groppa al Giovane un autore ormai maturo, che ha spesso coinvolto giovani e bambini nelle sue storie: Niccolò Ammaniti. Stavo per superare Salvatore quando ho sentito mia sorella che urlava. Mi sono girato e l'ho vista sparire inghiottita dal grano che copriva la collina. Non dovevo portarmela dietro, mamma me l'avrebbe fatta pagare cara. Mi sono fermato. Ero sudato. Ho preso fiato e l'ho chiamata. - Maria? Maria? Mi ha risposto una vocina sofferente. - Michele! - Ti sei fatta male? - Sì, vieni. - Dove ti sei fatta male? - Alla gamba. Faceva finta, era stanca. Vado avanti, mi sono detto. E se si era fatta male davvero? (da Io non ho paura) è finita. Vacanze. Vacanze. Vacanze. Per tre mesi. Come dire sempre. La spiaggia. I bagni. Le gite in bicicletta con Gloria. E i fiumiciattoli di acqua calda e salmastra, tra le canne, immerso fino alle ginocchia, alla ricerca di avannotti, girini, tritoni e larve d'insetti. Pietro Moroni appoggia la bici contro il muro e si guarda in giro. Ha dodici anni compiuti, ma sembra più piccolo della sua età. È magro. Abbronzato. Una bolla di zanzara in fronte. I capelli neri, tagliati corti, alla meno peggio, da sua madre. Un naso all'insù e due occhi, grandi, color nocciola. Indossa una maglietta bianca dei mondiali di calcio, un paio di pantaloncini jeans sfrangiati e i sandali di gomma trasparente, quelli che fanno la pappetta nera tra le dita. (da Ti prendo e ti porto via) Martedì 31 dicembre 199... 1. CRISTIANO CARUCCI Ore 19:00 Cristano Carucci aveva in testa tre possibilità per sfangare quella maledettissima notte. Uno. Andare con gli altri della comitiva al centro sociale Argonauta. In programma quella sera c'era la megaspinellata di capodanno e il concerto degli Animal Death. Ma quel gruppo gli stava profondamente sulle palle. Dei fottuti integralisti vegetariani. Il loro gioco preferito era tirare braciole crude e bistecche grondanti sangue sulla platea. L'ultima volta che era andato a un loro concerto era tornato a casa tutto inzaccherato di sangue. E poi facevano uno schifo di rock anconetano... Due. Chiamare Ossadipesce, prendere la 126 e andare a vedere che si diceva in centro. Casomai imbucarsi a una festa. Sicuramente a mezzanotte si sarebbero fermati da qualche parte, nel panico del traffico, ubriachi lessi e avrebbero brindato all'anno nuovo in mezzo a un mare di stronzi sovreccitati che suonavano i clacson. Oddio che tristezza! (da L'ultimo Capodanno) Giovani Holden non crescono Funziona talmente tanto, a livello editoriale, lo schema del linguaggio «da giovane», lo slang dell'adolescente medio, che alcuni autori devono il successo alla sua applicazione anche a dei personaggi che hanno lasciato l'adolescenza da tempo. Paolo Nori, per esempio, nel suo romanzo d'esordio, Bassotuba non c'è, descrive con buoni effetti ironici un personaggio dalla vita sentimentale abbastanza complicata, aspirante scrittore, traduttore dal russo, che lavora in un magazzino, ha trentacinque anni, ma parla come uno studente di liceo. Io sono quello che non ce la faccio. Io sono stanco, anzi, stanchissimo. La vita moderna ha dei ritmi e delle pretese che tenerci dietro, io non ce la faccio. Oppure no. Io sono esaurito. Ho finito, nel breve volgere di sette lustri, l'energia vitale che mi è stata concessa. Sono scarico. Sembro vivo, ma sono morto. Oppure no. Io sono un martire della letteratura. Ho scritto un romanzo che è piaciuto molto a due editori, uno dei quali molto importante. Molto colpiti. Originale, mi han detto. Ti chiamiamo entro fine luglio, mi han detto. Oggi è l'otto di agosto e sono qui in casa che aspetto. Non succede niente. Questo niente mi ammazza. Oppure no. Io sono deperito da una lunga dieta e dalla delusione che l'ha seguita. Non entravo più nelle braghe e mi son messo a dieta. Sono stato a dieta otto mesi. Dimagrivo pochissimo, ma costantemente. Un chilo al mese. Un bel giorno, sono entrato nel paio di braghe più stretto che avevo. Sono uscito di casa, la cintura stretta nell'ultimo buco, e vedevo riflessa nelle vetrine l'immagine di un uomo agile e fresco. I pantaloni fasciavano elegantemente una vita sottile. Il ventre piatto del pugilatore. Ero diventato cordiale e piacevole, parlarmi insieme. Se ne accorgevano tutti, quelli che mi incontravano. Ma come stai bene, come sei in forma. Sono stato magro tre giorni. E' lì che mi sono abbattuto. Oppure no. Come si può vedere, il testo è costruito con sapienza, gioca con la lingua presentando frasi ripetute a effetto (io sono... oppure no... mi han detto...), rappresenta con efficacia la noia e l'abbattimento del protagonista, eppure presenta fin dalla prima frase un linguaggio che senza la copertura di un carattere immediatamente riconoscibile come "giovanile" sarebbe stato considerato inesatto, errato, inadatto al personaggio, del quale ci rivela subito l'età non proprio da ragazzino (sette lustri). Eppure la frase d'esordio: "Io sono quello che non ce la faccio" suona molto simile all'ormai proverbiale "Io speriamo che me la cavo", titolo del libro che Marcello D'Orta ha tratto dagli strafalcioni trovati nei temi dei suoi alunni (ma si trattava di bambini). Ma ecco qualche altro esempio tratto da Paolo Nori: Mia nonna Carmela si chiamava Carmela. Carmela non era un nome molto diffuso nella nostra regione, tuttavia mia nonna si chiamava Carmela. I suoi genitori a un certo punto devono essere stati a corto di nomi; mia nonna Carmela era la sedicesima di diassette fratelli e sorelle. Le sue amiche non si sono mai potute abituare a un nome così apertamente estraneo alla nostra regione e allora la chiamavano Carmen, o Carmelina, o Carmencita. Io, subito dopo che mi son trasferito a casa di nonna Carmela, rispondevo al telefono e mi chiedevano C'è la Carmen? Mi veniva da dire Avete sbagliato numero, ma mi trattenevo. (da Le cose non sono cose) Allora è proprio vero. Eh, sì. Hanno ragione loro. Senti senti. Accidenti. Che lavoro. Ma dài. Ma siamo sicuri? Senti qua. Cosa ti sembra, a te? È quella. L'avevano detto, loro. Niente da dire. Si sente appena, ma c'è. Che roba. Questo fatto, adesso che lo so, la mia vita passata la rivedo a una luce completamente diversa. Avevano ragione loro. Aveva ragione anche quello là, nel novantadue. Che nel novantadue c'era uno che mi diceva Sei un imbroglione. No, gli dicevo io. Sì, mi diceva lui. Che litigata, quella volta lì. Be', aveva ragione lui. Sono un imbroglione. (da Diavoli) Una volta ero piccolo ho vinto la medaglia d'argento a un concorso di poesia. Un concorso dell'associazione Ignazio Silone di Parma. Che gli avevo mandato quattro poesie che io quando ero piccolo scrivevo anche delle poesie. Che come diceva De André Fino ai diciotto anni scrivono tutti poesie, dopo i diciotto anni solo i poeti e i cretini, diceva Benedetto Croce, diceva De André. Io le mie poesie avevo undici anni. E quella che avevan premiato non era neanche la più bella che avevo mandato. (da Pancetta) In fondo, però, proprio la scelta di questo stile linguistico adolescenziale, applicato ai contenuti esistenziali di un uomo di oltre trent'anni anni, può raccontare molto di più di altre forme d'indagine (sociologiche, giornalistiche, ecc.) sulla generazione dei trentenni negli anni '90, oltre a ottenere un sicuro effetto comico. Esercizio 3 Come potrebbe sembrare ormai ovvio, questa volta è giocoforza scrivere una cartella di un monologo in prima persona di un "giovane" che utilizzi un tipico slang adolescenziale per raccontare la propria condizione. Il linguaggio usato deve essere realistico, sia che venga tratto da vere conversazioni tra ragazzi, sia che si utilizzino frasi e termini inventati per l'occasione. Il tono dovrebbe essere scanzonato e divertente, anche nel trattare temi quotidiani o addirittura tristi.