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le Silerchie
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J.D. Salinger
I giovani
Tre racconti
Postfazione di Giorgio Vasta
Traduzione di Delfina Vezzoli
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Copyright © 2014, Three Early Stories originally published
by The Devault-Graves Agency, Memphis, Tennessee,
U.S.A.
© il Saggiatore S.r.l., Milano 2015
Titolo originale: Three Early Stories
Indice
I giovani
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Va’ da Eddie
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Una volta alla settimana
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Postfazione di Giorgio Vasta
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l’opera – L’esordiente e ambizioso scrittore di nome
Jerome David Salinger toccò traguardi molto precoci nella sua carriera. Quasi disperatamente cercò di
pubblicare i suoi primi racconti sul New Yorker, che
riteneva l’approdo più prestigioso nel mondo letterario americano, ma non vi riuscì per diversi anni:
forse il New Yorker non era ancora pronto per quel
giovane autore fin troppo sicuro di sé, con una visione ironica, se non cinica della vita, e uno stile piano
e colloquiale.
Però, mentre il mondo intero procedeva a grandi passi verso il buio del totalitarismo e della guerra, quel
talento nuovo veniva notato altrove. Nel 1940 la rivista Story, a bassa tiratura ma stimata e influente, è la
prima a pubblicare il nome J.D. Salinger e il racconto I giovani, scorcio illuminante della cocktail society di
New York, in cui, a una festa tra adolescenti, si cerca
di mitigare la solitudine con scotch whisky e chiacchiere, la conversazione quasi del tutto priva di senso e scopo. Va’ da Eddie compare per la prima volta su
un giornale universitario del Kansas; pervade il racconto una minaccia sottile, che si fa sempre più invadente man mano che il protagonista maschile rafforza
la sua pressione su una giovane donna dai capelli rossi perché incontri un uomo di nome Eddie. Comparso anch’esso nel 1940, il racconto segue il modello del
retroscena omesso, una tecnica che anche il maestro
Ernest Hemingway adottò con grande successo. Infine, quattro anni più tardi, al termine della sua espe-
rienza bellica, Salinger pubblica, ancora su Story, Una
volta alla settimana, che ritrae un giovane soldato nel
tentativo di raccontare a una zia anziana e non più lucida che sta partendo per il fronte. Una metafora amara di come una famiglia debba o possa prepararsi alla
morte in tempo di guerra.
A distanza di più di settant’anni, il Saggiatore pubblica tre racconti inediti in Italia dell’autore de Il giovane
Holden, il cui mito per decenni è stato alimentato dal
suo ritiro a vita strettamente privata, nel 1965. L’incomunicabilità dei personaggi, che si parlano di continuo senza mai parlarsi davvero; i rapporti parentali,
guastati dal pregiudizio e dall’indifferenza; lo sguardo impietoso sulla società medio-alto borghese, con le
sue leggi non scritte e il suo conformismo incurabile,
sono solo alcuni dei temi dell’arte salingeriana, che ritroviamo in nuce in questi racconti giovanili, e che saranno poi ampliati e portati a compimento nelle opere
successive: non molto tempo dopo il suo esordio, J.D.
Salinger diventerà un simbolo della sacralità della letteratura onorata nel silenzio e, insieme, un narratore amato e celebrato da intere generazioni di lettori.
l’autore – J.D. Salinger nasce a New York nel 1919;
muore a Cornish, New Hampshire, nel 2010.
i giovani
Postfazione
di Giorgio Vasta
Quando leggo Salinger, indipendentemente
dalla pagina che sto leggendo, da quelle che
di volta in volta sono le peculiarità della scena narrata, dal fatto che si descrivano le vicende di Holden Caulfield, di Seymour, Buddy o
Franny Glass, e al di là di trovarsi a New York,
in Florida oppure a Hapworth Lake nel Maine,
dopo poco mi scopro a visualizzare un’immagine, qualcosa che con scene personaggi luoghi
non c’entra nulla, nel senso che non corrisponde alla loro letteralità, ma che allo stesso tempo
ne è una conseguenza, proiezione e sedimento, un nucleo ricorrente che di colpo, leggendo, assume una forma fisica.
Una radura: arbusti che sbucano neri dal
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suolo, la terra umida; al centro, un mucchio di
foglie secche che somiglia a un omino vegetale.
Credo che quanto sto descrivendo sia un
fenomeno che appartiene alla fisiologia della lettura: oltre a visualizzare ciò che la narrazione poco a poco fa accadere, leggendo si
genera un’ulteriore visione trasversale alle visualizzazioni specifiche, una specie di loro denominatore comune, una sostanza affettiva che
scaturisce dal narrato e che può assumere morfologie diverse: nel mio caso, leggendo Salinger, di una radura.
Questa visione, fra l’altro, non è statica.
Mentre la lettura procede, un uomo – non so
chi, lo vedo di spalle – penetra nella radura e
con un rastrello scuote il mucchio di foglie, le
sparpaglia, le dispone ordinatamente a ricoprire lo spazio concentrandosi sui piccoli crateri
da cui affiorano gli arbusti, così che neppure
un centimetro quadrato di terreno resti nudo.
Appena ha terminato – e a quel punto è terminata anche la lettura – si ferma, si guarda intorno e poi, sempre dandomi le spalle, va via,
e io me ne resto da solo a contemplare la radura, gli arbusti neri, lo strato di foglie che ricopre tutto, il loro moto inerte e sottile, il fruscio
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leggero che sembra un respiro, avvertendo un
senso di sgomento e un’incontenibile leggerezza, qualcosa di attivo, di fertile e di febbrile.
Mi sono interrogato su questa visione. Ho riletto Il giovane Holden e i Nove racconti, ho ricomposto la storia della famiglia Glass attraverso
Alzate l’architrave, carpentieri, Seymour. Introduzione e Franny e Zooey, ho recuperato e letto Hapworth 16, 1924. Mi sono un po’ chiarito le
idee, ma a rendere davvero nitido il nesso tra
la scrittura di Salinger e la visione della radura
sono stati i tre racconti de I giovani.
In ognuno, i personaggi non fanno altro
che conversare. Nel primo, quello eponimo, la
conversazione ha luogo durante un party, più
esattamente durante il tentativo tragicomico di
innescare un flirt tramite uno small talk che fa
risaltare l’ostinazione disperata di Edna, la sua
euforia derelitta mentre cerca di mantenere vivo il contatto con Bobby; in Va’ da Eddie, il dialogo coinvolge fratello e sorella nella camera
da letto di lei, Helen che galleggia tra bagno
specchio spazzola e limetta, Bobby che prova
a modificarne l’orbita sollecitandola invano ad
andarsi a cercare un posto da ballerina – il tono
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secco di lui al quale corrisponde la voce infantile di lei, il bamboleggiare come strumento per
permanere a tempo indeterminato nella stasi; e
infine la conversazione innerva le due scene di
Una volta alla settimana, dove Dickie preparandosi a partire per il fronte – è il 1944 – discute prima con sua moglie Virginia – chiosatrice
di gran vaglia che alterna postille a sbadigli – e
poi con la zia Rena, memoria puntuale e svagata delle origini del nipote – le scarpe da ginnastica sporche, la collezione di francobolli, il
cartello si prega di non disturbare appeso alla porta della camera; ma soprattutto, anche lei,
una notevole inclinazione esclamativa.
Perché per i personaggi di Salinger conversare
significa più di ogni altra cosa accentuare, caricare, ribadire. La lingua, nella sua nuda referenzialità, è troppo fragile e inadeguata; inoltre
l’interlocutore sta sempre per svanire e dunque
per trattenerlo (ovvero per riuscire a percepirlo, ovvero per farsi da lui percepire) è necessario che le parole si trascendano marcando e
alludendo, in una sistematica esondazione del
senso (l’«esse est percipi» berkeleyano è per
questi personaggi angoscia e movente).
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«Erano passati tre anni e non aveva ancora
smesso di parlargli in corsivo» precisa la voce
narrante di Una volta alla settimana quando per
l’ennesima volta Virginia si rivolge a Dickie
sottolineando un termine della battuta. L’enfasi – una coazione più che un desiderio governabile – come parte integrante del legame.
Viene in mente la Winnie di Giorni felici e
il flusso ilare di parole – nonché di bamboleggiamenti gestuali che passano per la continua
manipolazione di pettine rossetto limetta spazzolino – a cui Samuel Beckett la condanna. «Un
altro giorno divino» esclama la donna sepolta
fino alla vita nel cumulo di sabbia dal quale durante il secondo atto affiorerà solo la testa, felice e spensierata, ancora il tempo smisurato di
una giornata da riempire di linguaggio. Vale a
dire di una corrente linguistica che scaturisce
dalla sua bocca articolandosi in fiotti spruzzi
e zampilli e che se all’apparenza – procedendo per scrupoli e raccomandazioni, per appelli
e proponimenti – aderisce a un senso logico, in
realtà non fa che fingere e fingersi dando suono a qualcosa che è soltanto silenzio.
Ma non c’è niente da fare, Winnie deve parlare, e come lei devono parlare Virginia e Edna
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e, in un modo meno linguistico e più mimico, anche Helen, ognuna procedendo metodicamente a casaccio, la lingua in folle, sempre
garrule, querule, mobili, nervose, corsive, sempre attente a non smettere mai di dire e di dirsi
perché – ancora Beckett, L’innominabile – «bisogna dire delle parole, sin che ce ne sono, bisogna dirle, sino a quando esse mi trovino, sino
a quando mi dicano, curiosa pena, curiosa colpa, bisogna continuare».
Smaltito il rumore di fondo, ciò che resiste è
proprio questa necessità di far scaturire parole dalla bocca, di processare linguaggio, ininterrottamente e tenacemente, ignorando a forza
(dove ignorare a forza è un modo di sapere) che
– sempre L’innominabile – le parole-formiche
non recano nulla, non portano via nulla, sono
«troppo deboli per creare un solco».
È utile a questo punto domandarsi perché i personaggi de I giovani usino il linguaggio a partire da qualcosa, istinto e strategia, che appare la
declinazione concreta del principio: «Loquor,
ergo sum, ergo percipior».
Prendiamo Edna Phillips nel racconto che
dà il titolo alla raccolta.
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