Da una tesi di laurea

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Da una tesi di laurea
Gragnana e la studentessa australiana
Queste poche pagine sono state estrapolate da un volume contenente una
tesi di laurea in antropologia sulla comunità dei lavoratori delle cave fatta
nel 1993 da una ragazza australiana, Alison Leitch.
Alison parla, fra le altre cose, di Gragnana e descrive le impressioni sulla
gente e sulla vita del paese, che lei ha avuto nel contatto con una realtà
che non era la sua.
Alcuni anni prima del mio periodo di lavoro a Carrara, ho vissuto per due anni a
Empoli, vicino a Firenze. Una volta, andando in treno verso Genova, i miei compagni
di viaggio indicarono, verso est le Alpi Apuane macchiate di bianco, che sbucarono
all'improvviso dalla costa piatta. Come spesso accade, quando si viaggia sui treni
italiani, si fa conversazione. In un italiano impeccabile una signora di Siena ci
illustrò, con tono enfatico, la bellezza e la fama del marmo di Carrara, mentre mi
diceva: ”Quella è la terra dove vivono gli anarchici”.
Un anno capitai a Carrara il 1° Maggio con un amico. Camminando per le strade
deserte fummo dispiaciuti di sapere che il corteo dei lavoratori si era svolta la mattina
presto e gli anarchici, con tutta probabilità, stavano facendo un pic-nic sulle
montagne a ridosso della città. Ci consolammo con un pranzo in un ristorante locale
- trippa e cinghiale - e nel pomeriggio abbiamo ripercorso le strade, per accertare la
presenza di anarchici in città. Fu allora che vidi un monumento in Piazza d'Armi
dedicato al sindacalista anarchico Alberto Meschi, che io conoscevo come una figura
centrale nelle lotte sindacali locali. Mentre stavamo guardando il monumento fummo
colpiti da una donna vestita di nero, una vedova, che deponeva dei fiori alla base del
monumento e mentre noi osservavamo in silenzio, lei con nostro stupore cominciò a
cantare: “Date fiori ai ribelli caduti – con lo sguardo rivolto all'aurora – al gogliardo
che lotta e lavora – al veggente poeta che muor”.
Soltanto un anno dopo capii che questa canzone è il tradizionale inno alla memoria,
cantato ogni anno il 1° maggio davanti al monumento di Meschi. La mia esperienza
nell'udire questa donna che lo cantava, senza capire tutte le parole o conoscere molto
della storia della città, è stato forse l'avvenimento che ha generato il mio interesse
per questa terra.
Durante questo stesso periodo ho vissuto per un anno a Milano dove ho incontrato
Aurora, la figlia di un anarchico siciliano che alla fine del 1945 era emigrato a
Carrara; è a lei che ho chiesto di aiutarmi nella mia ricerca su Carrara e, grazie al suo
interessamento, sono venuta a Gragnana, il paese dove ho vissuto e lavorato per quasi
tre anni.
Guardando la conglomerazione indiscriminata di case ed edifici grigi e decrepiti, la
mia prima impressione di questo paese fu piuttosto negativa. Come previsto andai a
prendere le chiavi della casa dove dovevo vivere da una donna che divenne una delle
mie più intime confidenti nel paese: Alda che, come dirò più avanti, fu lo strumento
che mi fece capire le sfumature della vita del paese e dalla cui famiglia fui adottata.
All'inizio, comunque, mi sentivo abbandonata, nervosa, intimidita, fra me e il paese
sentivo un muro impenetrabile.
Una delle mie prime impressioni fu il modo in cui i paesani spesso comunicavano fra
loro, gridando, uno dalla casa e l'altro dalla strada, scambiando messaggi e saluti fra
le abitazioni attraverso le finestre adiacenti.
“Affacciati!”, “vieni alla finestra!” era il modo in cui i miei vicini mi chiamavano a
casa loro per un caffè mattutino. Nel tardo pomeriggio e la sera prima di cena, il
livello di rumore aumentava, quando gli uomini che bevevano vino e giocavano a
carte in uno dei numerosi bar o circoli politici del paese, urlavano insulti e burle, si
colpivano l'un l'altro e davano pugni sul tavolo quando vincevano una mano
particolarmente buona di briscola.
I ricordi della vita e del lavoro delle generazioni passate erano spesso espressi anche
attraverso riferimento a suoni particolari: il tintinnare degli scarponi da lavoro
chiodati sui ciottoli quando gli uomini camminavano attraverso il paese nel loro
percorso verso il lavoro nelle prime ore del mattino; le canzoni che le donne
cantavano mentre facevano i lavori di casa. Oggi la nostalgia per il passato è
evidente, infatti Caterina, una vicina di casa di 60 anni ricorda:
gli uomini erano soliti cantare, alle quattro del mattino potevi sentire le persone che
andavano per la via. Ora senti il bus, tutto qui. Ma prima cantavano gli stornelli
quando si andava a letto. Ma ora?!. Le donne usavano cantare mentre facevano i loro
lavori. Ma ora?! Chi canta più?.
Nei primi mesi del mio lavoro la gente nel paese sembrava osservare la mia presenza
in maniera ambivalente; camminando nel dedali di vicoli, io mi sentivo spesso
sgomenta quando i miei tentativi di saluti amichevoli incontravano sguardi duri.
Mentre le mie vicine di casa erano molto ospitali e spesso mi invitavano a mangiare
con loro o a vedere la TV di sera nelle loro case, le altre persone mi guardavano con
sospetto e parlavano di me in terza persona chiedendo agli altri: “Chi è questa
figliola?”. Io cominciai a sentire che la terribile previsione degli amici di Carrara
“che non sarei sopravvissuta alla durezza dei Gragnanini” si sarebbe avverata.
Ricordavo la lastra di marmo, murata all'ingresso della villa Fabbricotti sulla strada di
Gragnana, che profeticamente ammoniva: “Bada alli affari tui e non ti impiccià degli
altri”.
Dopo un po' realizzai che questa riserva nei miei confronti era in parte dovuta al
modo di fare, una reticenza con le parole, soprattutto nella conversazione casuale con
gli stranieri.
Il mio stato di straniera, così come la mia posizione di donna che viveva da sola,
rendeva difficile la comunicazione, come avevo già sperimentato vivendo in altre
parti d'Italia.
Col tempo, quando cominciai a esser vista come una residente stabile e i paesani
poterono associarmi alla rete di parentela dei miei vicini, anch'io divenni oggetto
delle loro simpatiche canzonature, spesso anche un po' volgari, che caratterizzano la
comunicazione fra le donne del paese. Questo processo fu grandemente facilitato
dall' amicizia verso di me della mia vicina di casa Alda, che mi portava con sé a fare
acquisti e a visitare i suoi parenti e amici nel paese.
La casa di Alda divenne casa mia, ma io ero pur sempre un ospite; anche se fui
gradualmente inclusa in questa famiglia, io continuai a vivere da sola. Durante i primi
mesi di lavoro mangiavo con la famiglia di Alda quasi tutti i giorni e, all'ora di
pranzo, non vedevo l'ora di seguire le soap-opera televisive che erano seguite
assiduamente da tutte le donne del paese. Divenni un'esperta delle debolezze e dei
difetti di tutti i protagonisti di queste serie americane e potevo narrare le trame
proprio con la stessa facilità delle altre donne del paese. Alda e le sue amiche,
specialmente Eliana, mi insegnarono a cucinare le specialità del paese, anche se non
ho mai provato a fare la gigantesca torta di riso che viene preparata nelle occasioni
festive e arriva a nutrire sino a venti persone.
Amavo guardare il piacere sensuale sulle facce di queste donne, quando rotolavano e
riarrotolavano le palle di pasta fino a ridurle in sfoglie trasparenti modellandole in
forme complicate con le loro mani.
Anche quando iniziai il mio progetto di ricerca sulle cave i miei primi contatti furono
proprio con le donne. Inizialmente mi sentivo frustrata per la difficoltà di indurre gli
uomini a prendere sul serio me e la mia ricerca. Non sono stata la prima persona ad
interessarsi dei lavoratori delle cave di marmo, che erano già stati descritti
romanticamente da molti osservatori, ma io ero una donna e questo mi toglieva la
possibilità di accedere alle cave. E' stato attraverso i miei contatti con le moglie dei
cavatori che ho potuto passare un po' di tempo con gli uomini al lavoro.
Dopo mesi che vivevo nel paese ho potuto andare con Elio, il marito di Alda, nella
cava di “Calacata”, dove ho passato molti giorni osservando il processo di lavoro e
parlando sia con i cavatori che con coloro che venivano per acquistare il marmo.
Poi andai al Polvaccio, dove lavorava il marito di Eliana, e infine tutti mi chiedevano
di andare a visitare le loro cave; mi consideravano una “mascotte”,
soprannominandomi “Madonna dei cavatori”.
Gli abitanti di Gragnana mi hanno reso familiare il dialetto locale che non viene
insegnato a scuola; tutti capiscono e parlano l'italiano ma, abitualmente fra di loro
usano il dialetto.
I dialetti locali variano da paese a paese e, mentre sono diventata brava nel parlare il
gragnanino, non capisco il colonnatese o il montignosino.
Per fortuna i paesani sono stati pazienti ed io sono molto obbligata ad Alda che, senza
conoscere una parola di inglese, in mia assenza è stata capace di comunicare dove mi
trovassi a chi mi telefonava dall'Australia.
Questa tesi è un insieme di voci di cavatori, donne e anarchici e di voci
di storici e sociologi, nell'intento di evocare qualcosa dell'esperienza di
vita dei cavatori.