Anatomia della fame Stefano Pini La Vita Felice, 2011 La poesia di

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Anatomia della fame Stefano Pini La Vita Felice, 2011 La poesia di
Anatomia della fame
Stefano Pini
La Vita Felice, 2011
La poesia di Stefano Pini (classe 1983) è scavata almeno tre volte. È scavata perché viscerale,
obbedisce a una connotazione nascosta molto più che a una denotazione evidente (i referenti nei
quali è facile specchiarsi subito). L’esperienza è già stata attraversata prima della stesura del testo,
che la conserva in forma quasi irriconoscibile: quello che conta è restituirne gli impulsi iniziali e le
precarie conclusioni di cui una riflessione sofferta è stata capace. È scavata da un punto di vista
compositivo, perché i testi esibiscono una essenzialità di scheggia, coi loro spigoli duri a fine verso
e la distesa della pagina bianca tutt’attorno. È scavata, infine, a livello tematico, perché la fame di
cui il libro si propone un’anatomia (un’analisi, un ritratto, una vera e propria dissezione) richiama
l’aggettivo nei suoi tratti di incompletezza, di fragilità, di mancanza, tutte parole-chiave
nell’universo poetico di Pini.
Questa estrema compattezza attitudinale, stilistica e tematica è sostenuta da una consapevolezza
strutturale che fa di questa raccolta un vero e proprio libro. Le quattro sezioni (“Stanze”, “Istruzioni
primarie”, “Gli occhi del padre” e “Terra emersa”) sono precedute ciascuna da un duplice esergo:
alle definizioni lessicali di “dissipazione”, “idiosincrasia”, “infrazione”, “caos” seguono citazioni
letterarie interrelate da Fitzgerald, Merini, Camus, Nietzsche. La convivenza di vitalismo e paralisi,
di irrazionalismo e lucidità, conferisce ai testi di Pini una forte tensione interna, che si concretizza
in una precarietà sempre esposta eppure, a suo modo, votata alla permanenza, alla resistenza.
L’acuta ed empatica prefazione di Sebastiano Aglieco sottolinea la presenza del corpo (solitamente
più associato a una linea “femminile” di poesia) e la sospensione del tempo nella raccolta, nonché
l’origine emotiva della sua scrittura: “La poesia di Stefano Pini, dunque, nasce scritta nella
consapevolezza di un disincanto formale – della forma della vita e della scrittura”.
Nelle “Stanze” della prima sezione, la persona poetica e gli interni della casa si compenetrano
grazie ad accostamenti mirati, solo in apparenza stranianti: “Questo pavimento non porta date,
ricorrenze / non è la solitudine eppure ho le braccia tese / ad afferrare fotografie, pose inaridite”.
La compenetrazione può essere più esplicita (“Il giallo delle pareti / è la cifra di nervi scoperti”),
tramutarsi in estraneità verso se stessi (“Io non so niente delle scarpe all’ingresso / delle pareti
scritte negli anni”) o perfino dentro un corpo dissociato (“le tue paure osservano / il resto del corpo
sorridere”). L’altro filo conduttore è la scrittura, già allusa dalle “stanze” (stanze poetiche) e
richiamata da una serie di sue metonimie (“I bordi della pagine insonni”, “le pareti scritte”, “i
monologhi provati allo specchio”, “la dorsale di un quaderno”, e altre ancora).
Lo spazio non mi consente di analizzare le altre sezioni come meriterebbero (né è questo, credo, lo
scopo di una recensione), per cui offrirò una rapida panoramica, nell’augurio che il lettore
approfondisca da sé. Nella seconda sezione (“Istruzioni primarie”) tutti i testi sono introdotti da un
lacerto decontestualizzato di dialogo, un atto illocutivo (“Tu, ricordi?”, “Ridi”…) al quale il testo
risponde rivolgendosi in lingua obliqua a una seconda persona. La terza (“Gli occhi del padre”) è un
dialogo in absentia, e scava nel legame tra padre e figlio, a livello non solo personale ma archetipico
(il padre come autorità: “sei la sola legge viva che conosco”). L’ultima sezione, “Terra emersa”,
lascia apparire i segni del presente e del mondo fisico (i vari riferimenti a Milano, gli abbozzi di
narrazione), dopo l’attraversamento delle altre. Questa maggiore distensione rappresenta,
probabilmente e come mi auguro, il punto di partenza per le future opere di Pini.
Da tutti i versi citati, credo, comincia a emergere la cifra stilistica dell’autore: un espressionismo
sempre ad alta temperatura, una grammatica che concede statuto di soggetto a referenti solitamente
inanimati (“risposte che spingono la sera”, “il caldo obbliga una tregua”, qui con uso intransitivo,
deviante, del verbo “obbligare”), collocazioni insolite (come “bocche limitrofe”) e un uso
metaforico memore delle analogie corpo-casa (“le pareti della gola”, “le braccia di un cortile”, per
esempio) che richiamano alla mente Dylan Thomas, e più in generale tutta una poetica neoromantica che ha in Italia Milo De Angelis come suo maggiore esponente. Non a caso, l’influenza
di De Angelis non può passare inavvertita al lettore accorto, che scorgerà vere e proprie
“ossessioni” lessicali: “ordine”, “terra”, “padre”, “grammo”, “labbra”, “vene” e altre ancora.
Eppure, la ripresa del modello/padre – certo sottoposto a esigenze e declinazioni personali – sembra
la forma necessaria dell’espressione di una stessa geografia intellettuale (il pensiero irrazionale, il
surrealismo), spirituale (un’affinità del sentire) e perfino fisica (la Lombardia). Richiamano De
Angelis e forse, in genere, la linea estetica adottata da “La Vita Felice” (una realtà editoriale di
prestigio, attenta alla poesia di qualità) anche la presenza di un soggetto poetico biologico molto più
che storico e che sfuma spesso in un “noi” talora duale (noi di coppia), talaltra collettivo (ma
privato di referenti precisi).
Voglio dire che, sebbene si possa e si debba discutere la poetica che sottostà a certe scelte forse
discutibili (a mio parere un uso troppo insistito della metafora, una cadenza troppo spesso assoluta,
sentenziosa, un’intransigenza che rischia di escludere altre inflessioni di voce), è innegabile che ci
troviamo davanti a un’operazione consapevole e probabilmente necessaria. Il libro, poi, offre
passaggi di una intensità emotiva notevolissima (come “Posso scegliere di ricordare, di non tradire
/ così come si può tornare all’imperfezione”, oppure “L’assenza è la qualità prima della morte,
ripeto: / voi, e non io”: ma altri esempi si potrebbero fare) e non soffre di evidenti sbavature o
cadute espressive (tutt’al più, di qualche vezzo stilistico che rischia l’auto-indulgenza). In più, la
grande materia di non-detto, la valenza enigmatica di molti testi rende inversamente proporzionali
la durata fisica della lettura (una, due ore massimo) e la durata della lettura intesa come
assimilazione e profonda comprensione (mesi, forse anni, e molte riletture).
Tutti motivi più che validi per accostarsi all’esordio di Pini e, chissà, esplorare tutto un arcipelago
di autori interessanti ma preclusi al pubblico non specialistico (per le ragioni più varie:
dall’educazione alle difficoltà di reperimento in libreria), scoprendo che la poesia contemporanea,
quando è di valore, può insegnarci un altro modo di guardare.
Pubblicato su www.criticaletteraria.org
Davide Castiglione