Le radici psicobiologiche del diritto
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Le radici psicobiologiche del diritto
LE RADICI PSICOBIOLOGICHE DEL DIRITTO Psicoanalisi, psicologia evoluzionistica e neuroscienze: contributi a confronto Riccardo Lancellotti ABSTRACT Il crescente interesse per l’applicazione delle conquiste delle neuroscienze al mondo giuridico sta favorendo la nascita di una nuova disciplina, il Neurodiritto, salutato da alcuni Autori come una promettente branca del diritto stesso. Tale disciplina non può però fare a meno di una più ampia prospettiva psicologica, che valorizzi i contributi che diverse branche della psicologia hanno fornito e continuano a fornire alla riflessione psicologico-giuridica. Il confronto tra un’ipotesi psicoanalitica sulla distinzione tra reati edipici e reati post-edipici, elaborata nel 1971 da Albert A. Ehrenzweig, un’ipotesi psicologico-evoluzionistica sulle cause dell’evasione fiscale elaborata nel 1998 da Grazia Attili e un’ipotesi neuroscientifica sulla diversa percezione dei reati contro la proprietà dei beni materiali e immateriali elaborata da David Terracina nel 2011 fa emergere un denominatore comune, rappresentato dall’intreccio tra fattori filogenetici e ontogenetici nella determinazione del comportamento morale, e apre la strada a una psicobiologia del diritto. Parole-chiave: neurodiritto, psicodiritto, neuroscienze, psicobiologia. 1. Il neurodiritto: una nuova frontiera del pensiero psicologico-giuridico L’applicazione delle conquiste delle neuroscienze al diritto sta suscitando un forte interesse nel mondo giuridico, sia per i risvolti applicativi (se ne trovano tracce in alcune recenti sentenze, anche in Italia), sia per la luce che le neuroscienze possono gettare sulla riflessione teorica intorno ai fondamenti del diritto. L’entusiasmo dei giuristi nei confronti degli scenari che le neuroscienze sembrano aprire nell’ambito psicoforense è confermato da articoli, volumi e convegni. Per una rassegna in merito rinviamo al recente volume “Neurodiritto. Una introduzione”, di Picozza et al. (2011). Tra i contributi più significativi apparsi in questo ambito (limitandoci a quelli italiani) ricordiamo i volumi di Bianchi, Gulotta, Sartori (2009) e Stracciari, Bianchi, Sartori (2010), e il convegno “Le neuroscienze e il diritto”, organizzato dal Centro di Ricerca Interdipartimentale ECLSC dell’Università di Pavia in collaborazione con la Corte d’Appello, il Tribunale di Milano e il Collegio Ghislieri (19 dicembre 2008), i cui atti sono stati pubblicati dalla casa editrice Ibis a cura di Santosuosso (2009). 1 Picozza et al., come abbiamo visto, parlano esplicitamente di Neurodiritto come nascente nuova branca delle scienze giuridiche, e così pure Colorio (2010). Ma anche all’estero il termine è utilizzato (nella letteratura in lingua inglese si trova l’espressione Neurolaw, mentre in quella in lingua tedesca si rinviene il termine Neurorecht). Siamo perfettamente d’accordo, pur condividendo le riserve di Legrenzi e Umiltà (2009) (riportate anche da Cuzzocrea, 2011), i quali affermano che le discipline con il prefisso “neuro” rappresentano un tentativo di scavalcare l’oggetto di studio della psicologia, la mente, definendo “neuroetica”, “neuroeconomia”, “neuroestetica”, ecc., conoscenze accumulate attraverso decenni di studi di psicologia e di neuropsicologia (Legrenzi e Umiltà, 2009). E’ nostra convinzione che l’imponente evoluzione degli studi sul cervello non possa non permeare di sé tutti gli ambiti della psicologia, e che pertanto le neuroscienze non prescindano dalla psicologia, né la scavalchino, ma piuttosto, necessariamente, la integrino. In questo siamo d’accordo con Terracina (2011), che scrive che parlare di neurodiritto non significa sottrarre il relativo campo di studi alla psicologia, bensì trasferire le acquisizioni delle neuroscienze al diritto passando per la psicologia. Noi ci chiediamo, pertanto, se non sia più opportuno parlare di Psicodiritto (ricordiamo al riguardo che Guglielmo Gulotta (2002) già un decennio fa parlava di Diritto psicologico). Uno psicodiritto che assuma in sé anche le dimensioni neurologica e neuropsicologica, evitando insidiosi riduzionismi amplificati dal fascino che la presunta oggettività di una risonanza magnetica cerebrale o l’individuazione di un gene che predispone a un certo comportamento è in grado di esercitare sul mondo giuridico. Ma nell’interesse manifestato per le applicazioni delle neuroscienze al diritto c’è qualcosa che va al di là della possibilità di visualizzare l’attività del cervello attraverso la risonanza magnetica. C’è anche la convinzione che la storia evolutiva della specie umana abbia lasciato nei geni e quindi nell’encefalo i fondamenti di una proto-etica e di un proto-diritto. Ne deriva un’attenzione alla prospettiva evoluzionistica, alla filogenesi del sistema nervoso; un interesse per la ricerca delle radici del comportamento morale non solo nella specie umana ma anche in quelle che l’hanno preceduta nell’evoluzione biologica. Un esempio in questo senso è fornito da Hauser (2007), e, nell’ambito propriamente giuridico, da Colorio (2010). 2 Colorio, nel suo saggio, si prefigge lo scopo di esplorare le origini neurobiologiche dello sviluppo di un cervello capace di creare il fenomeno giuridico (Colorio, 2010). L’Autore menziona le ricerche di Atahualpa Fernandez (2005), studioso brasiliano che ha indagato la questione delle origini del diritto da un punto di vista evoluzionistico, e afferma la necessità di verificare in che modo l’evoluzione abbia condotto allo sviluppo di un sistema di prescrizioni impositive di determinati comportamenti che hanno costituito le norme primordiali (Colorio, 2010). In realtà non c’era bisogno dell’esplosione delle neuroscienze per fare ipotesi in questo senso, peraltro già formulate dalla psicologia evoluzionistica e dall’etologia, nonché dalla psicoanalisi sia freudiana che (con premesse teoriche in parte diverse) junghiana. Ma, anche qui, il fascino esercitato dalla “materia” cerebrale che il prefisso “neuro” evoca esplicitamente, e dalla genetica del comportamento, ha rinvigorito l’interesse per questi argomenti, soprattutto tra i giuristi. Per una trattazione di alcuni aspetti del rapporto tra ontogenesi e filogenesi del comportamento morale, che tenta una sintesi tra psicoanalisi ed etologia, rinviamo a un nostro precedente lavoro (Lancellotti, 2008). Abbiamo fatto questa premessa di carattere epistemologico allo scopo di introdurre l’argomento che intendiamo in questa sede trattare, e che intende dimostrare come le prospettive aperte dall’applicazione delle neuroscienze in campo giuridico possano far tornare alla ribalta ipotesi formulate molti anni fa, gettando su di esse una nuova luce. Ci riferiamo, in particolare, alla teoria dei “reati edipici” e dei “reati post-edipici” elaborata nel 1971 da Albert A. Ehrenzweig, giurista, docente universitario di diritto pubblico e di filosofia del diritto e cultore di psicoanalisi, e pubblicata in Italia nel 1982. Cercheremo quindi di individuare alcuni interessanti punti di contatto tra l’ipotesi di Ehrenzweig, una teoria sulle cause psicologico-evoluzionistiche dell’evasione fiscale (Attili, 1998) e una teoria sulla diversa percezione soggettiva dei reati contro la proprietà dei beni materiali e immateriali recentemente proposta da Terracina (2011). 2. Il parricidio e l’origine della legge Ehrenzweig ipotizzò l’esistenza di una differenza sostanziale tra due tipologie di reati (che definì, come abbiamo detto, reati edipici e reati post-edipici) che trae fondamento dalla teoria di Sigmund Freud sul parricidio. 3 Per comprendere il ragionamento di Ehrenzweig è pertanto necessario accennare brevemente alla teoria di Freud sull’origine dello Stato e del diritto. Il celebre filosofo del diritto Hans Kelsen riteneva che il fondamento della scienza giuridica non fosse da ricercarsi né nella natura, né nella società. Avvicinandosi di fatto alla posizione espressa da Kant nella Critica della ragion pratica sostenne che il fondamento del diritto risiede in una “norma originaria” (Urnorm), non definibile in base al contenuto, bensì alla sua forma: un puro “dover essere”, in altri termini, che ricorda l’imperativo categorico su cui si fonda la morale kantiana. Tale “dover essere” corrisponde, secondo Kelsen, a una prescrizione, a una obbligazione, a un atto di imputazione. Ricordiamo, incidentalmente, che il concetto di atto di imputazione consente di distinguere la norma giuridica dalla norma statistica, che si basa invece sulla frequenza di un fenomeno (Landman, 2000). Hans Kelsen propugna dunque un formalismo giuridico. Al riguardo, Paul Laurent Assoun (1999) sostiene che la Urnorm di Kelsen è l’atto fondativo dell’obbligo giuridico originario, che non dipende né dalla “materialità” sociale né dal “Diritto naturale”, essendo un puro “dover essere”. In questo senso, sempre secondo Assoun, la Norma originaria è il principio regolatore di tutto l’ordinamento giuridico. Sigmund Freud, nell’applicare allo studio della società le sue scoperte sulla dinamica intrapsichica, immaginò che qualcosa di simile a quello che si verifica in modo fantasmatico nel corso dello sviluppo individuale con il complesso di Edipo sia accaduto realmente nelle società tribali primitive. Il bambino, com’è noto, supera il complesso di Edipo (amore nei confronti della madre e gelosia nei confronti del padre associata alla paura della vendetta di questo) immaginando di eliminare il genitore per non avere più rivali che possano contendergli l’amore della madre. Ma questo inconscio impulso omicida genera un forte senso di colpa, che viene superato identificandosi con il padre e introiettando la legge di cui egli è portatore nel proprio apparato psichico: è la nascita del Super Io post-edipico, ovvero dell’istanza normativa, morale che agirà, per tutta la vita dell’individuo, come giudice interiore. L’introiezione della figura paterna rappresenta così, per l’individuo, la legge, impersonata dal Super Io. Freud immagina che qualcosa di simile sia avvenuto, ai primordi della società umana, a livello collettivo. Nella società tribale il padre era il capo dell’orda, aveva 4 potere di vita e di morte sui membri del gruppo, che erano i suoi figli, e li tiranneggiava. Finché, un giorno, questi lo uccisero. Questo delitto originario, secondo Freud, diviene l’atto fondatore della civiltà. Morto il padre, infatti, i figli sono assaliti dal senso di colpa, che genera un meccanismo di difesa che, come ricorda Assoun, fonda il diritto. La formazione reattiva è il meccanismo di difesa attraverso il quale l’Io trasforma nel suo opposto una pulsione inaccettabile per la coscienza. Ebbene, il pentimento per quel grave atto di violenza originaria, il parricidio, genera il suo opposto: la riconciliazione con il padre attraverso l’introiezione, in tutti i membri del gruppo, della legge che egli incarnava e rappresentava. Questa legge si manifesta in forma di impegno a non ripetere più l’atto di violenza (secondo Assoun è un meccanismo analogo a quello del bambino che dice: “non lo faccio più”), e viene rafforzata dalla creazione di un oggetto materiale, il totem, eretto e venerato allo scopo di commemorare la riconciliazione con il padre assassinato e di farlo rivivere attraverso un oggetto sacro che ne è in qualche modo la reincarnazione. L’obbedienza alla legge del padre morto rappresenta dunque il modo per alleviare il senso di colpa per averlo ucciso, e agisce come formazione reattiva che completa il percorso che dal delitto originario conduce alla colpa originaria che si trasforma, a sua volta, nella norma originaria che si esprime nel divieto di uccidere. Tale norma originaria diventa la legge su cui si fonda la civiltà e, dunque, il Diritto. La norma originaria, la Urnorm, che Kelsen poneva a fondamento del diritto su un piano formale, per Freud ha un fondamento psicobiologico: ecco il punto di contatto tra i due grandi studiosi. Assoun (1999, pag. 189) individua quindi nel “diritto paterno” originario la norma originaria che, poggiando sul “patto col padre”, costituisce l’“inconscio del diritto”. Questa tesi, sostenuta da Freud in “Totem e tabù” (1912-1914/1985), fu poi ripresa in “L’uomo Mosè e la religione monoteistica” (1934-1938/2002). In questa opera egli considera gli Ebrei il popolo della legge, in quanto la loro civiltà si è costituita sulla base del senso di colpa generato dall’uccisione dell’egiziano Mosè. 5 3. Il parricidio in psicoanalisi e nel diritto romano Il diritto è dunque, per Freud, la formazione reattiva a un parricidio. Questo ci induce a chiamare in causa il terzo protagonista della nostra argomentazione: il diritto romano. I romani distinguevano, nel diritto penale, i “delitti pubblici” dai “delitti privati”. I delitti pubblici erano quelli contro i quali lo Stato interveniva direttamente, senza bisogno che il danneggiato chiedesse giustizia, perché li considerava crimini contro l’ordinamento sociale (oggi li definiremmo reati perseguibili d’ufficio). I delitti privati erano, invece, quelli contro i quali lo Stato interveniva solo a seguito di richiesta della parte lesa, perché erano considerati crimini contro l’individuo e non tali da compromettere l’ordine sociale. Per questo anche le pene erano molto meno severe (oggi li definiremmo reati perseguibili a querela di parte). E’ da notare, però, che nel diritto romano più antico la sfera dei delitti pubblici era limitatissima, al punto da comprendere solo due crimini, e precisamente l’alto tradimento e il parricidio, e solo in periodi successivi la pena inflitta per il parricidio fu estesa all’uccisione con dolo di qualsiasi uomo libero. Ebbene, perché mai gli antichi romani consideravano il parricidio un crimine così grave da essere considerato, insieme soltanto all’alto tradimento, un delitto pubblico e perseguibile d’ufficio, in quanto tale da mettere in pericolo l’ordinamento sociale? La spiegazione data dai giuristi (tra gli altri de Francisci, 1969) è che, in una società che aveva come nucleo fondante la famiglia, intesa come gruppo allargato di individui legati da vincolo di sangue e governati e dominati da un pater (corrispondente al capo-orda di cui parlava Freud a proposito della società primitiva), l’uccisione di questi avrebbe scatenato una guerra tra gruppi che avrebbe messo a repentaglio l’ordinato svolgimento della vita pubblica. Ma, alla luce delle considerazioni fatte da Freud, la collocazione del parricidio tra i delitti pubblici, capaci di mettere a repentaglio l’ordinamento dello Stato, è un evidente segno rivelatore, a nostro avviso, di quel senso di colpa originario che generò, nei primi uomini, la venerazione del padre ucciso, e che li indusse, sulla base di quel senso di colpa, a edificare lo Stato, che con il padre dunque si identifica e che, di conseguenza, non può tollerare il parricidio, che lo mina nella sua essenza. 6 4. I reati edipici e i reati post-edipici Come sopra accennato, la concezione freudiana del parricidio ha ispirato a Ehrenzweig la teoria sui reati edipici e i reati post-edipici. L’Autore sostiene che per i primi, più che la sanzione, agirebbe come deterrente il senso di colpa generato dal fatto che si tratta di reati che derivano dal desiderio del bambino, durante la fase edipica, di uccidere un genitore e commettere incesto con l’altro. Anche quando il reato non si consuma nei confronti di un genitore o di un familiare (parliamo, ad esempio, dell’omicidio o dei reati di violenza, anche a sfondo sessuale), lo scenario è comunque sempre quello. I reati post-edipici, al contrario, secondo Ehrenzweig non vengono commessi, dai più, solo per timore della sanzione in quanto, non essendo legati a uno scenario edipico, la loro trasgressione genera sensi di colpa meno forti (l’autore cita a titolo esemplificativo i reati contro la proprietà). 4.1. I reati edipici I reati edipici, afferma Ehrenzweig, sono quelli legati allo scenario che culmina, nell’ontogenesi dell’individuo, nel superamento del complesso di Edipo e nell’identificazione con il genitore del proprio sesso. Il genitore viene introiettato sotto forma di istanza morale, o Super Io (ricordiamo che Melanie Klein ha teorizzato l’esistenza di un Super Io arcaico pre-edipico, molto più precoce). Il Super Io si arricchisce nel tempo di componenti dell’altro genitore e delle altre autorità che, nel corso della vita, svolgono un ruolo assimilabile in qualche modo a quello genitoriale (maestri, superiori, ecc.). Come ha efficacemente sintetizzato Guglielmo Gulotta (1973/2005, pag. 265), il Super Io è determinato non solo dall’introiezione delle figure genitoriali, ma anche “da qualsiasi figura di adulto che appaia al bambino potente e autorevole”. L’omicidio, come altri delitti contro le persone, è impedito, prima che dalla paura della punizione reale, dalla repressione interiore operata dal Super Io. Siamo nella sfera dei reati che Ehrenzweig chiama edipici. Contro di essi non è molto efficace il deterrente rappresentato dalla sanzione penale, perché, mentre per la maggior parte delle persone è sufficiente la repressione interiore, per le persone in cui l’omicidio si realizza l’impeto è talmente incontrollabile da non poter essere bloccato da valutazioni razionali (l’Autore si riferisce in particolar modo agli omicidi passionali). Secondo Ehrenzweig, infatti, la paura della sanzione esterna in questi casi “è troppo 7 debole sia per rimpiazzare la normale repressione edipica sia per competere con istinti sufficientemente forti da superarla” (Ehrenzweig, 1982, pag. 185). In generale potremmo dire, con Anna Marina Clerici (2000), che l’angoscia morale può nascere per il timore di essere scoperti e, di conseguenza, ci si attiene alla regola solo per evitare l’eventuale punizione (obbedienza formale alla legge); oppure si rispettano le leggi per obbedienza a un’autorità interiorizzata (il Super Io), che è di solito più severa dell’autorità esterna. 4.2. I reati post-edipici Le infrazioni che Ehrenzweig definisce “tecniche”, come i furti, i delitti contro i beni pubblici (tra i quali noi riteniamo possa collocarsi anche l’evasione fiscale) e quelle che egli definisce “semplici infrazioni”, sono invece reati post-edipici in quanto derivano da desideri che l’individuo ha imparato a reprimere dopo il superamento della fase edipica, e il Super Io agisce, in questo caso, in modo più debole. Contro i reati post-edipici, secondo il nostro Autore, la paura della sanzione è un deterrente abbastanza efficace, perché in questo caso la repressione interiore presenta il vantaggio, a differenza di quanto avviene prevalentemente cosciente anziché nei reati edipici, di essere inconscia, e pertanto suscettibile di essere rinforzata dalla paura cosciente della sanzione. 5. Implicazioni teoriche e pratiche della teoria di Ehrenzweig L’ipotesi di Ehrenzweig richiede certamente delle verifiche, come del resto riconobbe lo stesso Autore, ma è certamente suggestiva e interessante a livello criminologico. Ma, soprattutto, ha due pregi: uno teorico e uno applicativo. Il valore teorico consiste nel fornire un’ipotesi esplicativa dei fondamenti psicologici del diritto e, prima ancora, della morale. In questo senso, l’ipotesi di Ehrenzweig individua reati che nella percezione soggettiva dell’individuo hanno un fondamento etico profondo (i reati edipici), e altri (i reati post-edipici) che, invece, incontrano una resistenza minore da parte dei freni inibitori del Super Io. E fonda la radice di questa differente percezione in un evento, il parricidio, che, svoltosi effettivamente (secondo Freud) nell’orda primordiale (e appartenente dunque alla storia naturale della specie umana), si ripete simbolicamente in ogni individuo nel corso del suo sviluppo ontogenetico, con il complesso di Edipo e con il suo 8 superamento che conduce alla costituzione del Super Io, censore morale che, come abbiamo argomentato in altra sede, avendo una struttura innata ma contenuti appresi, e costituendosi in un periodo specifico (che possiamo definire periodo sensibile) può essere identificato in una forma di imprinting (Lancellotti, 2008). Quella di Freud e di Ehrenzweig si configura, quindi, come una vera e propria psicobiologia della morale e del diritto. In senso applicativo, l’ipotesi di Ehrenzweig offre indicazioni ai legislatori e a coloro che a livello istituzionale devono prevenire e reprimere i comportamenti antigiuridici. Come abbiamo visto nel par. 4, infatti, prevenire e reprimere i reati edipici è cosa ben diversa (se l’ipotesi è giusta) che prevenire e reprimere i reati postedipici. Vale a dire: l’impulso aggressivo, o addirittura omicida, salvo che in un delinquente per professione, dipende da fattori regolativi interni più che esterni. Se il Super Io è in grado di frenare tali impulsi, il timore della sanzione esterna non serve. Mentre, se il Super Io è debole, il timore della sanzione esterna non basta a impedire l’atto. Per i reati post-edipici, invece, il discorso è diverso: i freni inibitori a livello morale sono più deboli, ed è proprio il timore della sanzione esterna a funzionare efficacemente come deterrente (come dire: non parcheggio l’auto in divieto di sosta per paura della multa e non per un freno inibitorio morale, per un divieto del Super Io). Come vedremo qui di seguito, non mancano ipotesi teoriche, anch’esse con risvolti applicativi in ambito psicogiuridico, di matrice non psicoanalitica. 6. L’etica di piccolo gruppo e l’evasione fiscale La psicologa sociale Grazia Attili (1998) ha formulato una teoria dell’evasione fiscale improntata su base etologica, che si colloca pertanto nell’ambito della psicologia evoluzionistica. L’argomentazione dell’Autrice prende le mosse dalle seguenti considerazioni: perché chi evade il fisco non si sente in colpa? Perché, nell’immaginario collettivo, si tende a stigmatizzare come delinquente chi ruba un portafoglio e non lo stimato professionista che non paga le tasse? Eppure, chi evade il fisco deruba un cittadino di beni e servizi pubblici che le sue tasse contribuirebbero a finanziare, privandolo di qualcosa che gli appartiene come il portafoglio che ha in tasca. 9 L’uomo, afferma Attili, riprendendo un concetto del fondatore dell’etologia umana Irenaus Eibl-Eibesfeldt (1996), è predisposto a vivere in piccolo gruppo, perché all’inizio questa era la dimensione in cui conduceva la sua vita sociale. Questo gruppo era formato da pochi individui, tutti legati da un vincolo di sangue perché imparentati tra loro. L’altruismo, già presente in quel contesto, era agito esclusivamente in favore dei membri del gruppo, con un duplice vantaggio: la preservazione di un patrimonio genetico comune e la probabilità che un atto di solidarietà nei confronti di persone con cui si viveva in stretto contatto sarebbe stato, all’occorrenza, prontamente ricambiato. Desmond Morris (1994), anch’egli etologo, sostiene che se esaminassimo l’agenda telefonica di qualsiasi abitante di una città vi troveremo il gruppo tribale del proprietario dell’agenda. E ci accorgeremmo che, per la maggior parte di noi, il numero di persone inserite nell’agenda corrisponde al numero di individui che formavano le tribù dei nostri antichi progenitori. Lo sviluppo della civiltà ha condotto l’uomo verso una dimensione sociale molto più allargata, come quella di una grande città o, addirittura, dello Stato o dell’intero pianeta. Ma l’altruismo non si è allargato come la società. In altri termini: l’uomo di oggi continua a ragionare come un uomo primitivo, e a sentire obblighi di solidarietà solo nei confronti della ristretta cerchia, familiare o poco più, che considera il suo “gruppo di appartenenza”, non comprendendo, però, che la rete di relazioni sociali ed economiche in cui è immerso fa sì che anche da un gesto di solidarietà a favore di individui che non conosce potrebbe derivare un vantaggio per lui o per il suo gruppo ristretto. Pagando le tasse, infatti, migliora la qualità degli ospedali o delle scuole, a vantaggio di persone che non conosce, ma anche a vantaggio proprio o dei suoi parenti e amici, che potranno usufruirne. La tendenza innata a considerare come in-group, gruppo di appartenenza, la ristretta cerchia familiare, e a considerare out-group, e potenziali nemici, tutti gli altri, lavora contro la solidarietà sociale e favorisce l’evasione fiscale. Grazia Attili parla al riguardo di “etica di piccolo gruppo”, che ci rende filogeneticamente predisposti a essere altruisti, cooperativi e solidali con i membri del nostro gruppo familiare e del piccolo gruppo sociale con il quale abitualmente interagiamo, ma non a fare altrettanto con il gruppo allargato che costituisce nel suo insieme la società. Anche l’ipotesi di Attili ha il duplice pregio già poc’anzi riconosciuto all’ipotesi di Ehrenzweig. Essa, infatti, da un lato contribuisce all’individuazione di 10 un fondamento psicobiologico, addirittura filogenetico, della morale e del diritto; dall’altro suggerisce attività educative che, per arginare il fenomeno dell’evasione fiscale, dovrebbero essere volte allo sviluppo dell’empatia e della solidarietà sociale e alla promozione di un sentimento di appartenenza alla più vasta comunità nazionale e internazionale. Ci preme sottolineare un aspetto della teoria di Attili che, pur partendo da presupposti diversi da quello della psicoanalisi, non è lontano dall’ipotesi, sopra discussa, di Ehrenzweig. Ci sembra infatti di poter affermare che Ehrenzweig inserirebbe l’evasione fiscale nel gruppo dei reati post-edipici, da lui definiti “tecnici”, i quali non susciterebbero, nei più, sensi di colpa, e, più che ai divieti interiori del Super Io, sarebbero sensibili al timore delle sanzioni esterne. Ricordiamo, per la cronaca, che l’articolo di Attili di cui parliamo è la sintesi della Prolusione da lei tenuta in occasione dell’inaugurazione dell’Anno di studio 1998 della Scuola Sottufficiali della Guardia di Finanza dell’Aquila. E appartenente alla Guardia di Finanza è anche Salvatore Randisi, dottorando di ricerca in psicologia sociale e coautore, con Luigi Ferrari, di un volume (il primo sull’argomento almeno in Italia, per quanto a nostra conoscenza) che inaugura una nuova branca della psicologia economica, la Psicologia fiscale (2011). 7. La percezione dei reati contro la proprietà dei beni materiali e immateriali L’evasione fiscale è certamente assimilabile a un furto. Al di là dell’ipotesi di Grazia Attili, secondo la quale tale infrazione può non essere percepita come moralmente riprovevole perché perpetrata ai danni di un’entità sociale non percepita come gruppo di appartenenza, resta da chiedersi se vi siano anche altri possibili motivi che facciano sì che a molti appaia più riprovevole, da un punto di vista morale, rubare con destrezza un portafoglio che pagare meno tasse del dovuto o non pagarle affatto. Questo problema ci induce a chiamare in campo l’ipotesi di David Terracina (2011) sulle cause della diversa percezione soggettiva dei reati contro la proprietà dei beni materiali e immateriali. Terracina, giurista interessato all’apporto delle neuroscienze al diritto, esordisce con una considerazione sul ruolo giocato dall’emozione nell’osservanza di una norma, affermando che la probabilità che una norma venga rispettata è tanto 11 maggiore quanto più forte è la percezione del disvalore e dell’illiceità della condotta relativa (Terracina, 2011). Anche lo psichiatra Vittorino Andreoli (1984) concorda nel riconoscere un ruolo fondamentale alle emozioni nel comportamento morale, in quanto sia l’adeguamento che l’opposizione ai valori suggeriti o imposti dal gruppo sociale di appartenenza prevede una risposta emotiva intensa. Queste considerazioni di Terracina e di Andreoli richiamano alla memoria la suggestiva teoria sul ruolo delle emozioni nei comportamenti legali elaborata dallo psicologo giuridico russo Lev J. Petrazhickij. Indubbiamente le norme, morali, sociali o giuridiche, devono essere comprese a livello cognitivo, ma ciò che spinge ad osservarle è la loro capacità di agire fortemente sul sistema emozionale. Freud ha collocato la coscienza morale nel Super Io, che agisce a livello emozionale suscitando il senso di colpa. Petrazhickij, i cui scritti si collocano tra il 1893 e il 1913, ha sostenuto, come ricorda Alessandro Vitale (2000), che la legge non è la regola ufficiale di condotta sancita dallo Stato, perché lo Stato presuppone l’esistenza della legge, senza la quale la sua stessa esistenza sarebbe illegale. Per lo psicogiurista russo il diritto è connaturato alla psiche individuale in quanto, quando parliamo di diritti e di doveri non facciamo altro, in realtà, che proiettare in essi le nostre caratteristiche psichiche. La legge è, dunque, “una specifica esperienza psichica”. Precisamente, afferma Petrazhickij, la legge è composta da due elementi: un’emozione specifica, che può essere passiva (come il sentimento) o attiva (come la volontà), e un’idea di determinati indirizzi di azione che costituiscono le regole. Anche per Petrazhickij, dunque, la componente emozionale della legge è predominante rispetto alla componente cognitiva: i dati cognitivi, infatti, indirizzano la condotta, ma è l’emozione specifica suscitata dalla norma a muovere l’individuo all’azione (Vitale, 2000). La predominanza della componente emozionale della norma e i rapporti tra questa e la componente cognitiva, intuiti da Petrazhickij come del resto, in altra forma, da Freud, trovano oggi conferme nella ricerca neuropsicologica. McCoy, Crowley, Haghighian, Dean e Platt (2003) hanno addestrato due esemplari maschi di scimmia rhesus (Macaca mulatta), nel cui cervello erano stati impiantati degli elettrodi a livello della corteccia cingolata posteriore, a indicare con lo sguardo alcune luci colorate, ricevendo in premio quantità di succo di frutta che variavano a 12 seconda di dove guardavano. Gli elettrodi registrarono un’attivazione della corteccia cingolata posteriore quando gli animali attendevano la ricompensa, dimostrando che il compito di questa parte del cervello è valutare il beneficio che si può ottenere comportandosi in un certo modo. Ma l’attivazione neuronale si verificò anche quando al comportamento corretto dell’animale non seguiva il premio che avrebbe meritato, il che fa ipotizzare un ruolo di questa area cerebrale, appartenente al sistema limbico, anche nel giudicare se le conseguenze del comportamento corrispondono alle attese. Non a caso la rivista “Mente e cervello” ha intitolato la sintesi della ricerca pubblicata nel 2004 “Un giudice nel cervello”. Da queste ricerche si deduce che il giro posteriore del cingolo è una sorta di giudice interiore, che valuta i risultati di un’azione. E il fatto che il cingolo appartiene al sistema limbico, che è la struttura cerebrale, situata al di sotto della neocorteccia, che presiede ai comportamenti emozionali, ci dà una conferma del ruolo dell’emozione nella valutazione che un individuo dà delle proprie azioni. Torniamo a Terracina, che, come abbiamo visto, afferma che esisterebbe una sostanziale differenza nella percezione soggettiva, da parte della maggior parte degli individui, dei reati contro la proprietà dei beni materiali e immateriali. Ebbene, l’Autore attribuisce questa differenza proprio alla componente emozionale, che si attiverebbe in maniera molto maggiore in relazione alle condotte aventi per oggetto beni materiali, e molto minore in relazione alle condotte aventi per oggetto beni immateriali. Quindi, il furto di un bene materiale determinerebbe un coinvolgimento a livello emozionale che, invece, non agirebbe, o agirebbe in misura molto minore, nel furto di un bene immateriale (quale per esempio la proprietà intellettuale, tutelata dal cosiddetto diritto d’autore). Chi duplica illegalmente un’opera dell’ingegno (un CD musicale, un DVD, un libro, ecc.), per fare un esempio, spesso non percepisce l’illiceità dell’atto, che pure è sanzionato dal codice penale. A nostro avviso (e non a caso ne abbiamo parlato nel par. 6 del presente lavoro) questa ipotesi può valere anche per l’evasione fiscale che, pur essendo un furto, consistente nel trattenere denari che in base alla legge dovrebbero essere trasferiti allo Stato o a un altro ente pubblico, non viene percepito come tale forse proprio perché, nonostante la concretezza del denaro, nell’evasione l’atto non ha, nella percezione soggettiva, la stessa materialità che appartiene a una sottrazione di denaro dalla borsa di qualcuno o dal cassetto di un negozio. 13 L’ipotesi considerata da Terracina prende le mosse da Zak (2006), secondo il quale il senso della proprietà è più forte per gli oggetti materiali, e da Goodenough e Prehn (2005), i quali ipotizzano che la differenza sia dovuta alla componente emozionale, che difetterebbe nei confronti dei beni immateriali, e aggiungono che nei confronti dei beni materiali e tangibili opererebbe, a livello morale, un “primitivo cognitivo”. E’ come se, continua Terracina citando Stake (2006), il concetto di proprietà fosse già inscritto nel cervello umano, ed esso fosse antecedente alle norme istituzionalmente codificate per tutelare la proprietà stessa (non a caso, ci sentiamo di aggiungere, la proprietà rientra nella sfera dei diritti tutelati dalla Costituzione italiana, e i diritti non vengono istituiti dalla carta costituzionale, bensì riconosciuti come preesistenti a essa). Ma il concetto di proprietà di cui sopra riguarda la proprietà di beni materiali, e non quella di beni immateriali. E ciò appare logico se si fa riferimento alla storia evolutiva della specie umana. Secondo Terracina (2011), infatti, il diritto alla proprietà si è caratterizzato all’inizio in relazione a beni tangibili come la terra, i prodotti della terra, il bottino della caccia, gli utensili, e così via, e di conseguenza gli ordinamenti giuridici hanno sempre riconosciuto il possesso come condizione assimilabile alla proprietà. Terracina fa un opportuno riferimento al Diritto romano, per la minuziosità con la quale aveva regolamentato il possesso, la proprietà e la compravendita. Terracina conclude la sua argomentazione ipotizzando che il fatto che per millenni gli ordinamenti giuridici abbiano regolato la proprietà dei beni materiali (per evitare lotte e conflitti tra i singoli) abbia influenzato il modo di funzionare del cervello. E’ molto probabile che le cose siano andate effettivamente così. Noi aggiungiamo una considerazione attinente alla storia naturale dell’uomo e, più ampiamente, alla psicologia comparata. Il possesso è un comportamento atavico, che si rinviene anche in altre specie animali: difendere il proprio territorio, non consentire ad altri di accedere alla propria preda, o comunque al proprio pasto, e così via, costituiscono forme di possesso comuni nella scala zoologica. Peraltro, anche la difesa della prole può essere considerata una forma di possesso, come pure quella del partner sessuale. Ma essa non si estende, ovviamente, a beni immateriali! Sul piano psicobiologico, quindi, possiamo affermare che il sentimento di possesso di oggetti materiali sia comparso ben presto nella scala zoologica e sia 14 giunto fino all’Homo sapiens primitivo, il quale, evolvendosi non più biologicamente ma culturalmente (con il progredire della civiltà), lo ha trasformato in una serie di regole scritte (diritto formale) e lo ha molto più recentemente esteso anche ai beni immateriali. Ma la tutela del diritto di proprietà sui beni immateriali è troppo recente, appunto, nella storia dell’umanità, per poter avere, a livello emozionale, lo stesso impatto del possesso degli oggetti materiali. Concludiamo il paragrafo accennando alle conseguenze sul piano pratico dell’argomentazione di Terracina, il quale si chiede cosa potrebbe accadere nell’ambito del diritto penale qualora si dovesse dimostrare che l’assenza di empatia nei confronti di alcune condotte non dipende da una patologia psichica ma dalla struttura normale del cervello, e conclude auspicando che le misure di contrasto alla pirateria intellettuale non si riducano alla sola sanzione penale, ma consistano anche in strategie che accrescano la partecipazione emotiva in relazione a tali reati. 8. Conclusioni Le tre teorie discusse nel presente lavoro, al di là delle diverse matrici culturali di riferimento dei rispettivi Autori (un giurista cultore di psicoanalisi nel caso di Albert A. Ehrenzweig, una psicologa sociale di orientamento etologico nel caso di Grazia Attili, un giurista cultore di neuroscienze nel caso di David Terracina) e dei diversi periodi ai quali risalgono i lavori citati, appaiono collegate da un filo conduttore che le riconduce tutte a una comune matrice neuropsicologica ed evoluzionistica, capace, da un lato, di contribuire a una fondazione (o, meglio, rifondazione) del diritto su basi psicobiologiche; dall’altro, di aiutare i legislatori, i governi e le istituzioni educative a prevenire e a fronteggiare gli atti illeciti attraverso strumenti e strategie che tengano conto della struttura cognitiva ed emozionale della mente umana. La mente umana è il risultato dell’interazione costante tra geni e ambiente, ovvero tra biologia e cultura, e il cervello si modifica anche strutturalmente in rapporto alle stimolazioni ambientali: ciò avviene nel corso dello sviluppo individuale (Andreoli, 1980), ma anche nel corso della storia dell’umanità, come insegna la scuola storico-culturale (Vygostskij, 1931/2009; Luria, 1973/1977; Mecacci, 1977). Questo vale anche per le norme morali, e abbiamo già sostenuto in altra sede la necessità di superare anche in questo ambito il dualismo tra 15 innatismo e ambientalismo attraverso l’adozione di una prospettiva costruttivista (Lancellotti, 2008). E’ però indubitabile che l’evoluzione biologica, nel salvaguardare la plasticità comportamentale specialmente negli animali più evoluti, per favorire il loro adattamento a mutevoli condizioni ambientali, abbia fissato, anche nell’ambito destinato a diventare quello delle scelte etico-morali, alcune predisposizioni comportamentali di base che si sono rivelate maggiormente funzionali alla loro sopravvivenza. Il pensiero corre al denominatore comune delle tre teorie considerate: il riferimento ai primordi del comportamento umano, a quella che possiamo definire una “paleopsicobiologia del comportamento morale”. Albert A. Ehrenzweig, abbiamo visto, ci riconduce al parricidio perpetrato dall’orda primitiva, descritto da Freud, da cui discende il senso di colpa che genera la promessa di non commettere più quel delitto, e l’edificazione della Legge e dello Stato come materializzazioni del divieto di uccidere e come regolatori dei rapporti sociali. Ne consegue la distinzione tra reati edipici, che incontrano una repressione interiore molto più forte dei reati post-edipici, perché evocano inconsciamente quella scena originaria, e questi ultimi, sui quali agisce una repressione interiore molto più debole. Anche Grazia Attili, per spiegare le radici psicobiologiche dell’evasione fiscale, ci proietta nel mondo del gruppo tribale primitivo, empatico e solidale al suo interno ma non nei confronti dei gruppi esterni. Oggi, gli sforzi educativi non bastano, evidentemente, a contrastare un fenomeno come l’evasione fiscale, perché nella parte più atavica (e dunque meno plastica) del nostro cervello permane una concezione di gruppo di appartenenza che non rende spontaneo privarsi di qualcosa a beneficio di una comunità allargata, una comunità di sconosciuti. Anche lo scenario dipinto da David Terracina è quello dell’uomo primitivo, interessato al possesso (che ha secondo noi radici istintive filogeneticamente determinate) e delle prime civiltà che hanno avuto la necessità di regolamentare il possesso al fine di evitare scontri e conflitti. Al possesso, e dunque alla proprietà di beni materiali corrisponde una forte attivazione emozionale che ne inibisce la violazione, ma non altrettanto avviene quando in gioco è la proprietà di beni 16 immateriali, entità astratte e troppo recenti per suscitare emozioni della stessa forza. Le somiglianze con la teoria di Attili sono evidenti: le tasse sono percepite come un bene immateriale. Le somiglianze con la teoria di Ehrenzweig sono ancora più evidenti. Il sentimento di proprietà di beni materiali, come i reati edipici, ha un’origine antica, suscita emozioni forti, gode di una capacità di repressione interiore più forte della paura della sanzione esterna. Così non è per i beni immateriali e per i reati post-edipici, per i quali la repressione interiore è debole, mentre può essere più efficace il timore della sanzione esterna. Poco rileva, ai fini di questo discorso, il fatto che Ehrenzweig collochi il furto tra i reati post-edipici: è, questa, una differenza di impostazione che non mina la validità del confronto, che rivela una sostanziale somiglianza tra le due teorie. A questo riguardo è peraltro da considerare che Gulotta (1973/2005) ricorda come, secondo la psicoanalisi freudiana, la pulsione libidica (e dunque la componente sessuale) possa costituire la motivazione inconscia anche di crimini come il furto. Questo dato è confermato anche in ambito etologico da Eibl-Eibesfeldt (1997), il quale riferisce che molte donne cleptomani provano eccitazione sessuale durante il furto (anche se attribuisce questo fenomeno alla paura, collegata a sua volta a fantasie di sottomissione). Queste considerazioni indurrebbero a correggere l’ipotesi di Ehrenzweig sul furto, che potrebbe pertanto, in diversi casi, essere classificato tra i reati edipici. In tutte e tre le teorie considerate, infine, ha un ruolo determinante la componente emozionale. Terracina lo afferma esplicitamente, ricordando che il furto di beni immateriali è facilitato da un deficit emozionale, mentre la componente emozionale agisce fortemente nei confronti del furto di beni materiali. Attili suggerisce l’educazione all’empatia per indurre a considerare il gruppo allargato meritevole di solidarietà come il ristretto gruppo di appartenenza. Infatti è proprio l’empatia a fare la differenza, agendo, a causa dell’atavismo sopra ricordato, più facilmente nei confronti di membri del proprio gruppo. Nella teoria di Ehrenzweig il ruolo delle emozioni è evidente: i reati edipici le suscitano in modo molto forte perché essi si riconducono a un gravissimo delitto originario. 17 Abbiamo anche richiamato il concetto di legge come emozione elaborato da Lev Petrazhickij. Ci piace concludere il presente lavoro, e chiudere il cerchio del nostro ragionamento, ricordando che le neuroscienze stanno dimostrando, attraverso le tecniche di neuroimaging (risonanza magnetica funzionale, ecc.), la validità dell’intuizione di Petrazhickij. La parte più evoluta della corteccia cerebrale (e l’ultima che si forma nel corso dello sviluppo ontogenetico, ma anche filogenetico) è la corteccia prefrontale, sede deputata al ragionamento astratto e al pensiero. Ebbene, una parte della corteccia prefrontale, la corteccia prefrontale ventromediale, è collegata con il sistema limbico, la struttura paleoncefalica, sottocorticale, deputata alle emozioni (il cosiddetto cervello emotivo). La corteccia prefrontale ventromediale collega, quindi, ragione ed emozioni (Damasio, 2000; Marmion, 2011). E’ evidente che è quella la sede del senso morale. Il fatto che il “cervello morale” (se così lo possiamo chiamare) abbia sede nella parte della corteccia cerebrale prefrontale (e dunque deputata alle funzioni superiori del pensiero e del ragionamento) ventromediale, e pertanto a contatto con la corteccia limbica, che è la sede anatomica delle emozioni (si ricordi anche l’esperimento di McCoy, Crowley, Haghighian, Dean e Platt con le scimmie rhesus descritto nel par. 7), appare rivelatore “oltre ogni ragionevole dubbio” dell’inscindibile legame che esiste, nel giudizio e nel comportamento morale, tra cognizione ed emozione. Pensando alla struttura anatomica della corteccia prefrontale ventromediale e ai suoi collegamenti con il sistema limbico, e immaginando di veder rappresentato visivamente il suo funzionamento sullo schermo di un computer durante l’effettuazione di una risonanza magnetica funzionale, ci sembra di vedere materializzarsi il Super Io che Sigmund Freud descrisse in un’epoca in cui ben altro era il livello di sviluppo delle neuroscienze. Queste considerazioni ci inducono a concludere affermando l’ormai ineludibile necessità, per le scienze del comportamento, di accogliere il contributo delle neuroscienze, e questo anche nelle loro applicazioni al mondo del diritto. Ben venga, dunque, il Neurodiritto, a condizione che esso si configuri come una psicobiologia del diritto, che sappia integrare, ripensandoli quando 18 necessario, i contributi dei vari ambiti della ricerca psicologica e psicologicosociale al mondo giuridico. Riccardo Lancellotti, psicologo e dirigente scolastico, si è formato in psicologia giuridica presso l’Istituto di Alta Formazione (IAF) di Roma. Cultore della materia di Psicologia dello sviluppo presso la Facoltà di Medicina e Psicologia dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, ha pubblicato lavori sul comportamento sociale, sulle basi biologiche del comportamento, sulla legislazione scolastica e sull’educazione alla salute. Recentemente ha pubblicato Il Super Io come imprinting. Ontogenesi e filogenesi del comportamento morale tra psicoanalisi ed etologia (Edizioni Universitarie Romane, 2008) e, con Angela Guarino e Grazia Serantoni, Bullismo. Aspetti giuridici, teorie psicologiche e tecniche di intervento (Franco Angeli, 2011). BIBLIOGRAFIA ANDREOLI V. (1980), La terza via della psichiatria, Mondadori, Milano (ripubblicato in ANDREOLI V. (2007), L’uomo folle, Rizzoli, Milano) ANDREOLI V. (1984), La norma e la scelta. 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