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RASSEGNA STAMPA
giovedì 5 febbraio 2015
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SCUOLA
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
del 05/02/15, pag. 1/15
Mattarella
Parole chiare su questioni di fondo
Luciana Castellina
Se anziché valutare il discorso del nuovo Presidente della Repubblica fossimo qui a
giudicare quello del segretario del partito in cui militiamo, o di un primo ministro da
sostenere, avrei voluto molto di più. Avrei richiesto che il sacrosanto dolore espresso per il
bambino ebreo ucciso a Roma nell’odioso attacco alla Sinagoga fosse accompagnato non
solo, come pure ha fatto Sergio Mattarella, da un invito al rispetto di tutte le religioni,
dunque anche di quella musulmana, ma da un richiamo esplicito ai bambini palestinesi
massacrati quasi quotidianamente a Gaza.
Avrei anche voluto che criticasse apertamente gli interventi militari italiani in giro per il
mondo, e non si fosse limitato a citare, sia pure con fermezza, il sempre dimenticato
articolo della Costituzione che bandisce la guerra come strumento di soluzione dei conflitti
internazionali. Anche se ho apprezzato l’invito, questo esplicito, a puntare sulla
cooperazione e il sostegno alla costruzione di società democratiche. E però stiamo
parlando del primo discorso del nuovo Capo dello Stato, che ha istituzionalmente un ruolo
circoscritto, ed è bene che sia così.
Non può, e non deve, intervenire direttamente nelle scelte politiche del paese che
spettano al Parlamento e ai governi che questo esprime. Del resto la scelta di questa
carica è operata da un arco di forze più ampio di quello di una semplice maggioranza e
rappresenta comunque una mediazione.
Se tengo a mente tutte queste circostanze debbo dire che io sono abbastanza contenta
delle parole del presidente Mattarella.
Nei limiti della sua funzione ha infatti mandato un messaggio chiaro su alcune questioni di
fondo. Ha innanzitutto insistito sin dall’inizio del suo discorso sul grande malessere della
società italiana e sulla lacerazione del tessuto sociale prodotte da ingiustizia,
disoccupazione, emarginazione, solitudine e angosce.
Non ne ha parlato genericamente, ma per esprimere un giudizio critico, sia pure, come
non poteva che essere, indiretto, sulle scelte politiche in atto, richiamando il pericolo che le
misure adottate in virtù della crisi economica non abbiano ad intaccare la Costituzione, di
cui ha ricordato con enfasi gli articoli più contraddetti dal sistema in cui viviamo: il famoso
articolo dove si dice che non basta enunciare i diritti, ma occorre anche rimuovere gli
ostacoli che ne impediscono l’attuazione.
Prima di tutto l’obbiettivo dell’eguaglianza, questa parola diventata quasi illegale nella
società capitalistica globalizzata. Come garante della Costituzione, il Presidente ci ha
detto una cosa semplice e chiara: garantirla vuol dire applicarla. Senza retorica.
Sulla elezione di Mattarella, una volta avvenuta, tutti hanno cercato di mettere il cappello.
E gran parte della stampa ha dato corda agli autoelogi. A cominciare da quello di Renzi.
Cui va certo riconosciuta la sua qualità più forte, la rapidità, grazie alla quale ha capito che
se tirava ancora un po’ la corda, il suo partito rischiava di frantumarsi. E così, per una
volta, è stato a sentire quello che suggeriva la sua opposizione interna. La scelta di questo
Presidente della Repubblica penso sia una vittoria di Bersani, della sinistra interna al Pd,
di Sel. Di cui il nostro primo ministro ha alla fine dovuto tener conto, decidendo di correre il
rischio di una incrinatura del patto del Nazareno, piuttosto che quello, più pericoloso, di
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una troppo grave ferita nel suo partito. Purtroppo non credo che questo comporti un
qualche mutamento di rotta del governo sulle sostanziali questioni che sono sul tappeto,
ma è bene sapere che lottare, o almeno resistere, qualche volta serve.
Che Mattarella non sia, come dicono soavemente gli inglesi, la “cup of tea” di Renzi si è
già visto: basti pensare a quanto ha detto nel suo discorso inaugurale: non bastano
generiche esortazioni a guardare al futuro per cambiare. Né si può governare a botte di
voti di fiducia ignorando la dialettica parlamentare. Debbo anche dire che ho apprezzato il
fatto che il nuovo presidente non abbia mai detto la parla “riforme”, che copre ormai
qualunque controriforma.
L’altra straordinaria menzogna sbandierata in questi giorni è quella sulla Dc. E’ vero che
Luigi Pintor, dopo aver sconsolatamente ripetuto «moriremo democristiani», quando arrivò
Berlusconi finì per aggiungere, in un suo editoriale, la parola «magari». Perché al peggio
non c’è mai fine. Ma usare Mattarella per riabilitare il mezzo secolo di governi della balena
bianca è un altro paio di maniche.
L’altro giorno, il 9 gennaio, ho ascoltato alla radio una trasmissione in cui si raccontava
quanto era accaduto, 65 anni prima, a Modena: la polizia di Scelba aveva sparato ad
altezza d’uomo contro il pacifico picchetto operaio che presidiava l’acciaieria Orsi per
protestare contro massicci licenziamenti. Ne uccise 7 e ne ferì gravemente decine. Mi
sono domandata quanti giovani sapessero di quell’eccidio, e dei tanti che nelle campagne
e nelle città hanno segnato per decenni l’esercizio del potere democristiano. Oltre alle
discriminazioni di operai e intellettuali, alla censura, all’intreccio clientelare fra partito e
stato, all’abnorme debito pubblico, quello con cui tutt’ora facciamo i conti.
L’on.Pomicino ha colto l’occasione dell’elezione del nuovo presidente della repubblica per
commentare soddisfatto: nella prima Repubblica c’erano due grandi partiti, il Pci e la Dc, il
primo ha sbagliato sempre, la seconda ha fatto sempre le cose giuste. Per fortuna
Mattarella è stato molte e essenziali volte dalla “parte del torto”. A cominciare dal varo
della Legge Mammì, che ha permesso a Berlusconi di arrivare dove è arrivato.Con tutte le
sue ben note reticenze e ambiguità la sinistra Dc non può esser confusa con le peggiori
malefatte di quel partito. Altro che glorificazione della prima Repubblica!
Da AgoraVox del 05/02/15
Legge d’iniziativa popolare per eliminare il
pareggio di bilancio
di Pressenza - International Press Agency (sito)
La Legge costituzionale n.1 del 2012 ha introdotto il principio del pareggio di bilancio nella
nostra Costituzione. Questo significa che ogni anno, lo Stato italiano deve spendere
unicamente quanto incassa. Un principio sbagliato da ogni punto di vista, che impedisce
allo stato di fronteggiare le crisi economiche e di agire per garantire occupazione e diritti
sociali.
Politico – L’obiettivo centrale delle scelte politiche deve essere il benessere e il pieno
riconoscimento dei diritti delle persone. Il pareggio di bilancio in Costituzione ribalta tale
approccio rendendo i diritti subordinati alle decisioni in ambito economico e finanziario. Al
contrario noi chiediamo che la legge generale sulla contabilità e la finanza pubblica
definisca i “vincoli di bilancio nel rispetto dei diritti fondamentali delle persone”. Prima le
persone, poi la contabilità.
Sociale – Austerità e pareggio di bilancio hanno aumentato la disoccupazione e le
diseguaglianze. Tagliare la spesa pubblica significa meno servizi, ovvero colpire in
particolare le fasce più deboli della Popolazione, che sono costrette a rivolgersi alla scuola
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o alla sanità private pur non avendone i mezzi. Diminuisce il reddito a disposizione, il che
provoca un continuo calo dei consumi.
Economico – Proprio in una fase di recessione come l’attuale, un aumento della spesa
pubblica può permettere da un lato di aumentare investimenti e occupazione, dall’altro le
entrate fiscali, ripagando in buona parte le maggiori spese. Inserire addirittura nella
Costituzione l’impossibilità di indebitarsi durante una fase recessiva, per poi diminuire il
debito nella successiva fase espansiva, significa privare i governi di uno dei più efficaci
strumenti di politica economica a loro disposizione.
Finanziario – Tagli alla spesa pubblica significa meno investimenti e risorse, quindi un calo
del PIL, mentre il crollo dei consumi provoca una diminuzione delle entrate fiscali. Non
solo gli impatti sociali sono disastrosi, ma persino il rapporto debito/PIL continua a
peggiorare.
Giuridico – La Costituzione fissa i grandi principi che regolano l’agire comune, non certo le
singole normative. E’ semplicemente assurdo rendere incostituzionale una scelta di
politica economica. Ed è falso affermare che si è trattato di un obbligo imposto dalla UE,
tant’è che altri importanti paesi, come la Francia, non l’hanno fatto.
Culturale – La colpa della crisi non è dello “Stato spendaccione”, del fatto che “abbiamo
vissuto al di sopra delle nostre possibilità” , come ripetuto dai sostenitori del pareggio di
bilancio. In Italia, dalla metà degli anni ’90 al 2007 il rapporto debito/PIL è costantemente
sceso. E’ solo dopo lo scoppio della bolla dei mutui subprime negli USA che, in Italia come
nella quasi totalità degli altri paesi occidentali, i conti pubblici sono rapidamente peggiorati.
In altre parole è il disastro combinato dalla finanza privata, non certo da quella pubblica,
ad averci trascinato nella situazione attuale.
La tua firma per la legge di iniziativa popolare per eliminare il pareggio di bilancio dalla
Costituzione è una firma contro politiche di austerità disastrose e per un nuovo modello
economico. Non solo per rimediare a una fallimentare modifica della nostra Costituzione,
ma anche per dare un segnale concreto per cambiare radicalmente le attuali politiche
europee e per la costruzione di un’Europa sociale e dei diritti. E’ quindi una scelta contro il
fiscal compact.
Prima ancora, è una firma contro l’inaccettabile dominio della finanza sulle nostre vite. Con
il pareggion di bilancio si dichiara che i diritti fondamentali delle persone sono delle
variabili subordinate a parametri economici del tutto arbitrari. E’ vero l’opposto: a maggior
ragione in un momento di crisi realizzare i diritti delle persone è la bussola per le scelte
politiche e per rilanciare un nuovo modello di sviluppo economico e sociale.
Comitato promotore:
PRESIDENTE DEL COMITATO Stefano Rodotà (giurista), don Vinicio Albanesi (Comunità
di Capodarco), Gaetano Azzariti (giurista), Giorgio Airaudo (deputato indipendente Sel),
Andrea Baranes (Fcre e Sbilanciamoci!), Leonardo Becchetti (Campagna 0,05), Fausto
Bertinotti (già Presidente della Camera dei deputati), Alberto Campailla (Link), Luciana
Castellina (giornalista), Francesca Chiavacci (Arci), Giorgio Cremaschi (sindacalista),
Cecilia D’Elia (Coordinamento nazionale Sel), Monica Di Sisto (FairWatch), Vittorio
Cogliati Dezza (Legambiente), Antonello Falomi (Comitato Operativo Nazionale L’altra
Europa con Tsipras), Roberta Fantozzi (Segreteria nazionale Prc), Stefano Fassina
(deputato Pd), Luigi Ferrajoli (giurista), Nicola Fratoianni (deputato Sel), Mauro Gallegati
(economista), Luciano Gallino (sociologo), Alfonso Gianni (Comitato Operativo Nazionale
L’altra Europa con Tsipras), Patrizio Gonnella (Antigone), Riccardo Laterza (Rete della
Conoscenza), Danilo Lampis (Uds), Maurizio Landini (segretario generale Fiom),Giulio
Marcon (deputato indipendente Sel), Grazia Naletto (Lunaria e Sbilanciamoci!), Mario
Pianta (economista), Felice Roberto Pizzuti (economista),Norma Rangeri (giornalista),
Marco Revelli (politologo), Franco Russo (attivista), Giovanni Russo Spena (dirigente Prc),
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Mario Sai (sindacalista), Riccardo Troisi (ReOrient), Francesco Vignarca (attivista
nonviolento), padre Alex Zanotelli (missionario comboniano), don Armando
Zappolini(Cnca).
Per ulteriori info: http://colpareggiociperdi.it/
http://www.agoravox.it/Legge-d-iniziativa-popolare-per.html
Da Spettacoli-Teatro.it del 05/02/15
Roma: Bandi Arci per le selezioni di
Mediterranea 17- Biennale dei Giovani Artisti
del Mediterraneo
Qui trovate tutti i bandi curati dai comitati dell’Arci soci della BJCEM per partecipare alle
selezioni di “Mediterranea 17” che si svolgerà a Milano dal 22 al 25 ottobre 2015. La
scadenza dei bandi è il 15 marzo 2015. Gli artisti devono avere meno di 35 anni.
Fumetto Nazionale http://bit.ly/18KCtvR
Teatro Nazionale http://bit.ly/1DtL0fw
Gastronomia Emilia R. http://bit.ly/1Koi770
Arti Visive e Video Sardegna http://bit.ly/1LIxOte
Arti Visive Lazio http://bit.ly/1zPRybr
Arti Visive, Narrazione, gastronomia Liguria http://bit.ly/1zyehW8
Letteratura Sicilia http://bit.ly/16xsCbG
Concept della Biennale
NO FOOD’S LAND – il mondo dopo l’EXPO
Il processo del nutrimento prevede uno scambio: qualcosa viene assimilato e consumato
per fornire energia a qualcos’altro. Un ciclo che può essere virtuoso o vizioso, a seconda
di cosa si decide o si ha l’opportunità di consumare. Anche l’immaginario funziona in
questo modo: va nutrito e curato, coltivato, ripulito da ciò che non serve più. Attraverso il
nostro lavoro come artisti, noi nutriamo il nostro immaginario e quello delle persone;
possiamo farlo emozionare, riflettere, considerare, sentire; possiamo lasciare semi che
germoglieranno nel tempo, costituendo il terreno su cui interverranno le generazioni future;
possiamo spostare punti di vista, offrire stimoli, suggerire cambiamenti. Da diversi anni a
questa parte si parla di alimentazione in termini salutistici: è opportuno farlo anche in
senso interiore, invitando alla riflessione su come nutriamo le nostre parti più profonde e
invisibili, su come viviamo in balìa delle nostre abitudini non solo in senso pratico ma
anche mentale ed emotivo: come Shakespeare insegna, “That monster, custom, / who all
sense doth eat, /Of habits devil, is angel yet in this, /That to the use of actions fair and
good /He likewise gives a frock or livery, / That aptly is put on” (Hamlet, III, IV). I linguaggi
dell’arte sono estremamente efficaci in questa direzione, perché sono sempre scambi tra
umani, e spesso si propongono di radunare chi è interiormente vivo e sente il bisogno di
questo scambio. E proprio il bisogno ci pone di fronte a delle domande: col nostro lavoro,
che immaginario offriamo di coltivare? Cosa offriamo a chi ci guarda? Cosa desideriamo
resti in quelle persone? Il nostro processo creativo che effetto sta avendo su di noi?
Questa Biennale è una splendida occasione di mostrare lavori innovativi, sviluppati nella
direzione di una consapevolezza complessiva del proprio operato artistico, inteso come un
processo che si sviluppa prima e dopo l’opera o l’atto performativo; un processo che lascia
segni in noi e in chi condivide con noi il tempo e lo spazio del nostro operare.
Concept a cura di Matteo Lanfranchi Direttore artistico e fondatore di Effetto Larsen
Titolo ideato da Moreno Gentili, Giovanni Maderna, Stefano Giovannoni
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Visualizza questo evento su Evensi
http://spettacoli-teatro.it/rome/roma-bandi-arci-per-le-selezioni-di-mediterranea-17/13681
Da CinemaItaliano.info del 05/02/15
Mediterranea 17 - Biennale dei Giovani Artisti
del Mediterraneo
Bando per documentari / mediometraggi / cortometraggi
Bjcem e il Comune di Milano promuovono Mediterranea XVII Biennale Giovani Artisti, un
evento internazionale multidisciplinare che si svolgerà a Milano, Italia, presso la Fabbrica
del Vapore, Via Procaccini 4, dal 22 al 25 ottobre 2015, e che prevede la partecipazione di
oltre 300 artisti.
L'invito è aperto ad artisti visivi, registi, scrittori, performers, musicisti, designers, stilisti,
cuochi di età inferiore ai 35 anni (nati entro il 31 dicembre 1980) provenienti da uno dei
paesi elencati nel bando di concorso. Gli artisti devono presentare un progetto specifico in
relazione al tema di questa edizione. La partecipazione al bando è gratuita e aperta a tutti,
senza distinzioni di sesso, religione, comportamenti sociali e politici. Gli artisti che abbiano
partecipato a più di una edizione precedente non possono partecipare; verrà data priorità
agli artisti che non abbiano mai partecipato alla manifestazione.
Per la sezione Cinema/Video si possono presentare: cortometraggi, mediometraggi,
documentari, film di animazione. Per la selezione inviare link scaricabile, video via
WeTransfer o altro supporto (chiavetta USB o DVD) avendo cura di precisare cognome e
nome dell’autore e del cast tecnico e artistico, formato dell’opera, anno di realizzazione,
titolo, produzione e distribuzione eventuali, partecipazione a rassegne e festival.
costo d'iscrizione: gratis
scadenza del bando: 15/03/2015
mese dell'evento: ottobre 2015
modalità d'iscrizione:
Per partecipare è necessario inviare al socio BJCEM di riferimento (l'elenco sul bando
pubblicato su www.bjcem.org):
- CV e portfolio con i dati personali dell'artista o del gruppo;
- la scheda tecnica compilata accuratamente in ogni sua parte in lingua inglese e firmata;
- I materiali necessari per meglio documentare il lavoro proposto.
La presentazione della candidatura comporta automaticamente l'accettazione integrale del
presente regolamento e l'approvazione della riproduzione di immagini o video dei lavori
selezionati nei materiali di presentazione e promozione dell'evento o degli artisti
selezionati. Il presente bando è disciplinato dalla legge del paese in cui viene inviata la
candidatura.
link da cui scaricare la documentazione per l'iscrizione:
» http://www.bjcem.org/call-for-participation-mediterranea-xvii/
http://www.cinemaitaliano.info/conc/07170/2015/bando03728/mediterranea-biennale-deigiovani-artisti.html
Da Exibart del 05/02/15
bando Mediterranea 17 - Biennale dei Giovani
Artisti del Mediterraneo
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Bjcem e il Comune di Milano promuovono Mediterranea XVII Biennale Giovani Artisti, un
evento internazionale multidisciplinare che si svolgerà a Milano, presso la Fabbrica del
Vapore dal 22 al 25 ottobre 2015, e che prevede la partecipazione di oltre 300 artisti. Nata
nel 1985, la Biennale si svolge ogni due anni in una città diversa del Mediterraneo,
concentrandosi su giovani artisti e creatori. La Bjcem è una rete internazionale con 58
membri e partner provenienti da Europa, Medio Oriente e Africa che, con il loro sostegno,
rendono possibile l’evento garantendo la partecipazione degli artisti provenienti dai territori
da essi rappresentati.
Questa edizione, dal nome No food's land, pone l'attenzione sugli effetti dei processi legati
alla nutrizione e al cibo, intesi come processi di scambio culturale e creativo e di
formazione degli artisti. L'Arci sul territorio italiano selezionerà, a livello regionale e
nazionale, diversi artisti nei campi dell'illustrazione e del fumetto, delle arti visive, della
musica e della gastronomia, della letteratura, del cinema e dello spettacolo dal vivo.(…)
http://www.exibart.com/forum/leggimsg.asp?iddescrizione=220376&filter=
Da Mescalina.it del 05/02/15
Lanciato il bando per la partecipazione di
giovani artisti a Mediterranea 17
Bjcem e il Comune di Milano promuovono Mediterranea XVII Biennale Giovani Artisti, un
evento internazionale multidisciplinare che si svolgerà a Milano, presso la Fabbrica del
Vapore dal 22 al 25 ottobre 2015, e che prevede la partecipazione di oltre 300 artisti. Nata
nel 1985, la Biennale si svolge ogni due anni in una città diversa del Mediterraneo,
concentrandosi su giovani artisti e creatori. La Bjcem è una rete internazionale con 58
membri e partner provenienti da Europa, Medio Oriente e Africa che, con il loro sostegno,
rendono possibile l’evento garantendo la partecipazione degli artisti provenienti dai territori
da essi rappresentati.
Questa edizione, dal nome No food's land, pone l'attenzione sugli effetti dei processi legati
alla nutrizione e al cibo, intesi come processi di scambio culturale e creativo e di
formazione degli artisti. L'Arci sul territorio italiano selezionerà, a livello regionale e
nazionale, diversi artisti nei campi dell'illustrazione e del fumetto, delle arti visive, della
musica e della gastronomia, della letteratura, del cinema e dello spettacolo dal vivo.
La Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo (BJCEM) è un evento che
occupa un posto d’onore nella mente e nel cuore dell’Arci.
La promozione di giovani artisti, dei loro spazi, del loro tessuto associativo è sempre stata
una sfida continua in tutte le attività dell’Arci, così come il loro “utilizzo” come mediatori per
eccellenza, che li rende attori e protagonisti del dialogo e dello scambio euro
mediterraneo.
Per questi motivi in questi anni l’Arci ha continuato ad investire nella biennale, con progetti
e azioni che incrementassero la formazione della rete tramite le sue relazioni locali e
internazionali, promuovendo dall’interno il dialogo che rappresenta la motivazione e
l’elemento più prezioso per la trasformazione sociale. Il programma nazionale di azioni di
Arte Pubblica la “Ville Ouverte” è una delle evoluzioni della nostra attività che connette
creatività e ruolo degli artisti nel contemporaneo. La Ville Ouverte si focalizza sui diversi
aspetti della relazione tra arte e spazio pubblico nelle città del Mediterraneo,
interrogandosi sulla natura dello spazio e sul ruolo che l’arte può avere nell’attivare forme
di appropriazione della dimensione urbana da parte della cittadinanza.
La Biennale ha dato vita ad un percorso creativo che si è sviluppato in trent’anni attraverso
le edizioni di Barcellona 1985, Salonicco 1986, Barcellona 1987, Bologna 1988, Marsiglia
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1990, Valencia 1992, Lisbona 1994, Torino 1997, Roma 1999, Sarajevo 2001, Atene
2003, Napoli 2005, Puglia 2008, Skopje 2009, Salonicco-Roma 2011, Ancona 2013 e negli
ultimi eventi espositivi come “Disorder” durante il WEYA- World Event Young Artists a
Nottingham(UK) nel 2012 e “La Sovversione del Sensibile” a Milano nel 2014.
Le strutture dell’Arci socie dell’associazione BJCEM che organizzano le selezioni della
Biennale e promuovono progetti di promozione della creatività giovanile sono ARCI Bari,
ARCI Emilia Romagna, ARCI Lazio, ARCI Liguria, ARCI Milano, ARCI Puglia, ARCI
Nazionale, ARCI Sardegna, ARCI Sicilia, ARCI Torino.
Per info sulle selezioni Arci, www.arci.it, tel. Direzione Nazionale 06.41609501, mail
[email protected]
Per info generali:
- BJCEM: http://www.bjcem.org
- Ville Ouverte: http://lavilleouverte.tumblr.com
http://www.mescalina.it/musica/news/3590/biennale-dei-gioveni-artisti-del-mediterraneoartmedimex
Da TiscaliNews.it del 05/02/15
L'Arci sceglie i talenti sardi per la Biennale
dei Giovani Artisti dell'Europa e del
Mediterraneo
Un bando rivolto a giovani artisti sardi con l'opportunità della vetrina internazionale
dell'Expo di Milano. E' quello promosso da Arci Sardegna che selezionerà due opere,
categoria cinema/video e categoria arti visive, per la Biennale dei Giovani Artisti
dell'Europa e del Mediterraneo, che che si terrà alla Fabbrica del Vapore a Milano,
nell'ambito dell'Expo, dal 22 al 25 ottobre 2015, e che prevede la partecipazione di oltre
300 artisti.
Il tema della XVII edizione della Biennale è No food's land, con l'obiettivo di porre
l'attenzione sugli effetti dei processi di nutrizione, intesi come processi di scambio culturale
e creativo e di formazione degli artisti.
"La Bjcem - spiega Arci Sardegna - è una rete internazionale con più di 70 membri e
partner provenienti da Europa, Medio Oriente e Africa, che, con il loro sostegno, rendono
possibile l’evento stesso garantendo la partecipazione degli artisti provenienti dai territori
da essi rappresentati.
I termini per la partecipazione al bando scadono il 15 marzo. Possono partecipare
partecipare al bando di selezione, gli artisti visivi e i cineasti di età inferiore ai 35 anni (nati
entro il 31 dicembre 1980) che siano nati o siano residenti in Sardegna. Tutte le info nel
sito dell'Arci.
http://notizie.tiscali.it/regioni/sardegna/articoli/15/02/04/bando-arci-giovaniregisti.html?ultimora
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Da Radio articolo 1 del 05/02/15
ore 12:00
Elleradio
Partecipazione, torniamo all'antico. In studio C. Buttaroni, Tecnè. Intervengono: E. Costa,
Auser; A. Bonomi, Consorzio Aaster; J. Forconi, Arci Firenze; G. Arena, Lapsus; L. Rizzo
Nervo, assessore cittadinanza attiva Bologna
Da Redattore Sociale del 04/02/15
Bologna, al via fino a giugno il centro giovani
Integr-Arci
Il Gruppo Montagnola, costituito nel 2010 da Antoniano onlus e
associazione Arci Bologna, ha attivato, per il secondo anno
consecutivo, il servizio doposcuola-centro giovanile 'Integr-Arci' che
offre ai ragazzi un'attivita' di supporto allo s...
Roma - Il Gruppo Montagnola, costituito nel 2010 da Antoniano onlus e associazione Arci
Bologna, ha attivato, per il secondo anno consecutivo, il servizio doposcuola-centro
giovanile 'Integr-Arci' che offre ai ragazzi un'attivita' di supporto allo svolgimento compiti
scolastici arricchita da laboratori artistico-culturali, all'interno dello spazio verde del parco
della Montagnola.
"Un centro culturale e ricreativo- spiega la nota- per ragazze e ragazzi di eta' compresa fra
gli 11 e i 16 anni frequentanti le scuole secondarie di primo grado e il biennio delle scuole
di secondo grado della citta' di Bologna che, per tutto il periodo scolastico da ottobre a
giugno, tutti i lunedi' e i venerdi' pomeriggio dalle 15 alle 18, con interruzione durante le
vacanze natalizie, offre loro uno spazio ad accesso libero con attivita' sia di tipo ludico e
ricreativo, sia improntate allo scambio e al confronto come imprescindibile occasione di
crescita".
"Nell'anno 2013/2014- aggiunge l'Arci- si e' registrata una media di 27 iscritti con una
frequenza di 20 partecipanti per giornata che hanno iniziato e portato a termine il percorso.
Ad affiancare gli educatori specializzati Arci sia i volontari che i 12 tirocinanti provenienti
dall'Universita' di Bologna e dagli istituti secondari di secondo grado che hanno aderito alla
convenzione proposta dall'associazione Arci Bologna la quale prevede il riconoscimento di
crediti formativi in cambio di un pacchetto orario rivolto al sostegno scolastico. In
quest'ultimo caso si puo' parlare di una vera e propria forma di peer-education, per la
differenza minima d'eta' che e' intercorsa fra i ragazzi-tirocinanti e i ragazzi-utenti".
"Il doposcuola-centro giovanile 'Integr-Arci'- commenta il presidente di associazione Arci
Bologna, Stefano Brugnara- "diventa importante nel supportare le famiglie nella gestione
del tempo extrascolastico dei loro figli, nel favorire la comunicazione e l'interazione fra
coetanei ma anche fra questi e gli adulti, nel favorire l'inserimento scolastico e prevenirne
l'abbandono, offrire strumenti che possano essere utili al raggiungimento di una vita
consapevole e responsabile".
"Le attivita' proposte durante il doposcuola-centro giovanile 'Integr-Arci'- conclude la notasono dunque rivolte al sostegno scolastico e all'ambito culturale, con l'obiettivo di
affiancare costantemente e didatticamente i ragazzi offrendo loro un supporto che possa
aiutarli ad acquisire una metodologia di studio, trovare una tecnica efficiente di
concentrazione, facilitando la comprensione e l'autonomia nello studio, la gestione del
tempo a disposizione e lo sviluppo degli strumenti per il lavoro in gruppo. Oltre a creare un
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luogo di scambio fra pari che permetta, faciliti ed incoraggi la comunicazione e la crescita.
In tal senso sono stati attivati laboratori su temi specifici quali l'educazione all'affettivita' e
alla sessualita' e il riciclo e riuso. (DIRE)
Da Redattore Sociale del 04/02/15
Bando servizi socio-educativi, le coop di
Bologna: “No al massimo ribasso"
La coop Mosaico, che l’aveva vinto con un’offerta inferiore dell’11%
rispetto alla base, si ritira e la gestione torna al consorzio di coop
bolognesi. Ma non si placa la polemica per i bandi al massimo ribasso. I
servizi riguardano 4 quartieri, 40 educatori e 445 minori
BOLOGNA – La gestione dei servizi socio-educativi per l’infanzia e per i minori torna alle
cooperative bolognesi. Ma non si placano le polemiche contro l’amministrazione sul modo
in cui vengono scritti i bandi. “Anche se sulla carta non lo sono, di fatto si possono
considerare al massimo ribasso – dice Giulio Baraldi, presidente della coop Csapsa –. Si
privilegia la parte economica a discapito dell’esperienza nel settore e dalla qualità dei
progetti”. L’appalto era stato vinto dalla cooperativa Mosaico di Fabriano grazie a
un’offerta dell’11 per cento inferiore rispetto alla base di 620 mila euro. Dopo la vittoria
però la cooperativa marchigiana ha scelto di ritirarsi lasciando il campo al consorzio
formato dalle cooperative bolognesi, Csapsa, Open Group, Società Dolce, Il Pettirosso,
Arci, La Carovana, che avevano offerto una riduzione del 6 per cento. Al di là di chi e
come abbia ottenuto la gestione del servizio, ciò che salta all’occhio è il rischio, secondo
Michele Vannini della Fp Cgil Bologna, di veder sparire gradualmente prestazioni legate al
welfare a causa di bandi che privilegiano le offerte “economicamente più vantaggiose”. “Il
problema di questo come di altri bandi fatti dall’amministrazione è che vengono scritti
all’insegna del risparmio – dice Vannini –. C’è una concorrenza giocata solo sul lato
economico e non su quello dell’offerta qualitativa dei servizi”.
Il contestato meccanismo d’assegnazione prevede infatti che a influire maggiormente nella
scelta finale sia proprio l’aspetto legato ai costi. I parametri previsti dal bando sono due:
quello qualitativo che assegna un massimo di 70 punti e valuta i progetti; quello
economico che assegna 30 punti e si riferisce al prezzo del servizio. “Mentre è difficile
avere più punti dal lato della qualità del servizio – spiega Baraldi – perché in questo caso
devi specificare cosa intendi fare, come realizzarlo e che tipo di offerta proponi. Dal lato
economico, basta la differenza di poche centinaia di euro a permetterti di ottenere più
punti. Noi avevamo ottenuto il massimo nella parte qualitativa, poi però davanti a un’offerta
dell’11 per cento in meno siamo stati penalizzati”.
In sostanza il ribasso del 6 per cento proposto dalle cooperative bolognesi comporta una
riduzione di 35 mila euro rispetto al bando. Sui 585 mila euro, previsti per la gestione, le
cooperative dovranno garantire i servizi socio-educativi per 19 mesi in 4 quartieri della
città: Porto-Saragozza, Navile, San Vitale e San Donato, più una parte del quartiere
Savena. A essere coinvolti una quarantina di educatori part-time che svolgono 19
interventi, dalle attività di doposcuola ai laboratori per ragazzi con diverse problematiche,
per circa 445 minori. “Ognuna delle coop ha stabilito quali costi tagliare per continuare a
mantenere questo servizio – conclude Baraldi – e si è scelto di ridurre le spese legate alle
sedi e all’amministrazione. Non abbiamo mai pensato di tagliare il costo dei lavoratori. Ma
se si continua ad andare avanti così si rischia che in futuro nessuno riesca più a fare
nulla”. (Dino Collazzo)
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
del 05/02/15, pag. 13
MUSICA
Caput Mundi, la scena indie conquista Roma
Una tre giorni di musica (6-8 febbraio) organizzato nel cuore di Testaccio a Roma, alla
Pelanda nello spazio Macro all’ex Mattatoio. È Roma Caput Indie, appuntamento che
mescola, incontri, concerti e presentazioni organizzata dal Mei (Meeting delle etichette
indipendenti). E durante la lunga kermesse saranno consegnati anche i Premi per gli
indipenti che sono andati quest’anno a: Riccardo Sinigallia per il miglior album (Per tutti), i
Virginiana Miller e Le luci della centrale elettrica (Vasco Brondi), rispettivamente come
miglior gruppo e miglior solista, i Bud Spencer Blues Explosion (miglior live), e per i loro
video Paolo Benvegnù, Marta sui tubi con Franco Battiato, Mannarino. L’iniziativa
capitolina celebra i 20 anni del meeting e per l’occasione ha messo a punto un programma
fitto di eventi: domani sul palco i Kutso, unica band indie-rock in gara tra le nuove proposte
del Festival di Sanremo, il sette sarà la volta di vincitori del Pimi e del Pivi (Premio italiano
Video Indipendente), che comprendono, fra gli altri, anche i Soviet Soviet (miglior esordio),
i Foxhound (miglior autoproduzione). E ancora fra i premiati oltre a Salva gente di Marta
sui tubi con Franco Battiato e Viva degli Zen Circus, Una nuova innocenza di Paolo
Benvegnù si aggiudica un premio per la fotografia; Space invaders di Salmo per il
montaggio; Captured heart dei Be forest per la regia; Come reagire al presente dei Fast
animals and slow kids per il soggetto; per il miglior video d'animazione Gli animali di
Mannarino. Sabato 7 sarà il giorno degli Stati generali della nuova musica italiana, con
undici tavoli di discussione sullo stato della musica indipendente nel belpaese all’indomani
della chiusura definitiva del Mei voluta dal suo creatore Giordano Sangiorgi: «perché
obsoleta ». Una giornata di confronto a cui interverranno addetti ai lavori e molti fra i
protagonisti della scena indie.
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ESTERI
del 05/02/15, pag. 10
Bce non accetta più titoli greci banche a
rischio, l’euro scivola
Il premier Tsipras vede Juncker, Varoufakis a Francoforte Bruxelles
riduce al 2,6% la stima del deficit italiano. Pil +0,6%
ANDREA TARQUINI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
BERLINO .
«Noi vi proponiamo un piano radicale di lotta a sprechi evasione e corruzione, ma aiutateci
a tenere la testa fuori dall’acqua, e sia la Francia a guidare l’emergenza», hanno detto ieri
il nuovo premier greco Alexis Tsipras al presidente della Commissione europea JeanClaude Juncker e poi al capo dello Stato francese, François Hollande, e nelle stesse ore il
suo ministro delle Finanze Yanis Varoufakis al presidente della Bce Mario Draghi. Anche
se proprio l’Eurotower chiede impegni immediati: la Bce non accetterà oltre l’11 febbraio i
titoli ellenici come garanzia, uno stop che aggraverebbe la crisi di liquidità delle banche.
Solo un accordo politico con Bruxelles in una settimana può salvare la Grecia dall’uscita
dall’euro. All’annuncio dell’Eurotower, ieri sera l’euro è sceso sotto quota 1,1400 sul
dollaro (1,394) La Germania chiede ad Atene di prendere le distanze dalle promesse
elettorali, dice un documento governativo di Berlino secondo cui occorrono dalla
Repubblica ellenica chiare promesse sulle riforme. E in ogni caso, fa sapere la cancelliera
Angela Merkel, «abbiamo posizioni comuni con Hollande e Renzi». Come dire: siamo tutti
contrari a sconti e rinvii. Su questo sfondo Varoufakis si prepara domani al colloquio più
difficile, quello a Berlino col collega tedesco Wolfgang Schaeuble. Con il documento
riservato, la Bundesrepublik ha risposto nel modo più deciso all’offensiva mediatica
(interviste, proposte di grandi piani, rivelazioni) lanciata da Tsipras e Varoufakis in giro per
l’Europa. Atene, dice la Germania, deve accettare la Troika, pagare i creditori come Bce,
Fmi e fondo salva Stati, nonché i creditori bilaterali. Il nuovo governo deve inoltre
riconoscere l’indipendenza della sua Banca centrale. Posizioni molto lontane da quelle di
Tsipras, che vedendo Juncker e poi Hollande ha chiesto un “accordo provvisorio”: in
sostanza dilazioni dei termini di pagamento in cambio dell’impegno ateniese a un
“programma radicale” contro spreconi, corrotti, grandi evasori a casa. Tsipras sfoggia
ottimismo, anche se «l’accordo non c’è ancora», e ribadisce l’intenzione di «rispettare le
regole Ue», impegno chiesto anche dallo stesso presidente francese.
Rispetto delle regole, secondo il paper tedesco, vuol dire che Atene raggiunga un avanzo
primario del 3% quest’anno e del 4,5 l’anno prossimo, che riduca di altre 150mila unità
l’occupazione nel settore pubblico, tagli il salario minimo, àncori più strettamente le
pensioni al pagamento dei contributi, acceleri le privatizzazioni e adatti le tariffe elettriche
ai prezzi di mercato. E non a caso il presidente dell’esecutivo europeo, l’ex premier liberal
polacco Donald Tusk, ha avvertito Tsipras che «i negoziati saranno difficili ». Oggi, intanto,
la Commissione europea renderà note le nuove previsioni economiche 2015 che per
l’Italia confermerebbero una crescita dello 0,6% mentre si avvicinerebbero molto alle stime
del governo sul deficit, visto al 2,6 invece dell’2,7% precedente. In salita la stima
sull’occupazione: dal 12,6 al 12,8%.
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Del 5/2/2015, pag. 1-12
La Bce interviene e scuote la Grecia
«Saranno sospesi i finanziamenti»
La Banca centrale europea avverte la Grecia: non potremo più accettare come collaterali
dalle banche i titoli del vostro debito pubblico. È stato quindi chiuso il «rubinetto» della
liquidità alle banche elleniche. La Bce — il cui presidente Mario Draghi ieri ha incontrato il
ministro delle Finanze di Atene Yanis Varoufakis — giudica a rischio la linea anti troika del
governo Tsipras: «Al momento non è possibile presumere una conclusione positiva della
revisione del programma» di risanamento greco, è scritto nella nota del consiglio diffusa
ieri sera da Francoforte. L’inatteso annuncio ha gelato Wall Street che ha chiuso debole
bruciando nel finale i guadagni della giornata. Scivola l’euro, sceso a 1,13 dollari.
La Bce di Mario Draghi ha lanciato un severo richiamo al governo di Atene, nell’ambito
della trattativa di rinegoziazione del debito e del programma di salvataggio con l’Ue,
depotenziando il valore dei titoli di Stato greci. Dall’11 febbraio le banche greche non
potranno utilizzare come garanzia collaterale per rifinanziarsi presso la Bce «gli strumenti
di debito quotati emessi o garantiti dalla Repubblica ellenica». L’istituzione di Draghi
sostanzialmente fa capire di considerare a rischio il buon esito del piano di salvataggio
della Grecia, che dovrebbe scadere il 28 febbraio prossimo in assenza delle attese ulteriori
proroghe. Per il ministero delle Finanze greche la Bce ha deciso di mettere pressioni
sull’Eurogruppo. Subito dopo l’annuncio di Draghi sui mercati sono riapparsi i timori sul
caso Grecia. L’euro si è deprezzato sul dollaro a 1,13 e la Borsa di Wall Street ha girato al
ribasso. Il premier greco di estrema sinistra Alexis Tsipras ha incontrato i vertici delle tre
principali istituzioni europee a Bruxelles e poi il presidente francese François Hollande a
Parigi per chiedere tempo per elaborare un piano di rilancio dell’economia del suo Paese,
sprofondata nella recessione dopo le misure di austerità imposte dalla troika composta da
Commissione europea, Bce e Fondo monetario di Washington in cambio dei prestiti di
salvataggio. I presidenti europopolari della Commissione europea e del Consiglio dei 28
governi, Jean-Claude Juncker e Donald Tusk, gli hanno anticipato la linea rigida della
cancelliera tedesca Angela Merkel, disponibile alla trattativa se viene garantito il rispetto
dei principali impegni presi dal precedente premier greco di centrodestra. Maggiori
aperture sono arrivate da eurosocialisti come Hollande e il presidente tedesco
dell’Europarlamento Martin Schulz. Ma Merkel ha detto di non ritenere che «la posizione
degli Stati membri sulla Grecia divergano in modo sostanziale», sia sul rispetto degli
impegni, sia sul mantenimento di Atene «nell’area dell’euro».
Tsipras ha spiegato di aver «bisogno di tempo per negoziare senza ultimatum». Vorrebbe
preparare con Ue e Germania un piano quadriennale di rilancio dell’economia reale, tipo
«piano Marshall», con misure «radicali» in grado anche di «combattere la corruzione»,
«attaccare l’evasione fiscale» e «rendere efficace l’apparato pubblico». Hollande ha
condiviso la linea greca antimisure di austerità per «un’Europa più solidale, più politica e
più rivolta alla crescita», esortando Tsipras alla «responsabilità comune». A Berlino
respingono le ipotesi di autoriduzione del debito e gli aumenti della spesa per alleviare
l’impoverimento di milioni di greci. «Questi negoziati saranno difficili e richiederanno
cooperazione, dialogo e sforzi determinati da parte della Grecia», ha detto Tusk. La
trattativa dovrebbe iniziare con un Eurogruppo straordinario l’11 febbraio prossimo. Il
giorno dopo si salirà al massimo livello politico nel summit a Bruxelles dei capi di Stato e di
governo dell’Ue.
Ivo Caizzi
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Del 5/2/2015, pag. 13
Il ministro greco non convince Draghi «Non
possiamo aiutarvi ancora»
L’incognita per gli istituti di credito ellenici: risorse solo dalla banca
centrale nazionale
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
BERLINO La questione greca sta iniziando a prendere contorni più chiari. Dietro a una
retorica forte, il governo di Atene è ora alla ricerca di un compromesso con l’eurozona: i
cambiamenti più radicali li farà a casa, dove ha un mandato popolare. Anche l’incontro di
ieri tra il ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis e Mario Draghi, a Francoforte, è
stato condotto sul piano delle cose possibili: non dichiarazioni di principio pro o contro una
ristrutturazione del debito ellenico.
La situazione rimane comunque critica: a tarda sera la Banca centrale europea ha tolto
alle banche greche la possibilità di utilizzare i titoli di Stato di Atene nonostante abbiano un
rating di «junk bond», ma ha anche assicurato che gli istituti potranno continuare a
finanziarsi per altre vie presso le banche centrali. «La sospensione è in linea con le regole
dell’Eurosistema perché al momento non è possibile presumere una conclusione positiva
della valutazione del programma» scrive la Bce. Che poi aggiunge: «La sospensione non
ha effetto sullo status di controparte delle istituzioni finanziarie greche». Draghi ha chiarito
al ministro greco la posizione della Banca centrale europea: non sarà essa a risolvere i
problemi di Atene, perché non può; ma non farà nemmeno nulla contro, perché non vuole.
Oggi, Varoufakis incontrerà a Berlino anche il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang
Schäuble, uno dei politici europei più decisi nell’escludere la rinegoziazione del debito
greco. Potrebbe risultarne un colloquio importante, forse distensivo: il ministro greco si è
fatto precedere da un’intervista al settimanale «Die Zeit» nella quale riconosce il ruolo
centrale della Germania (vorrebbe un Piano Merkel simile al Piano Marshall); promette
riforme, ma contro il cartello di ricchi greci che non pagano le tasse e alimentano
«nepotismo e corruzione»; assicura che non firmerà «mai, mai, mai» un bilancio in rosso
(interessi sul debito a parte). Detto questo, la situazione rimane complicata.
Nell’incontro di ieri, Draghi ha sottolineato a Varoufakis i limiti operativi della Bce e —
secondo una fonte della banca citata dall’agenzia «Reuters» — ha invitato il governo di
Atene a impegnarsi «costruttivamente e velocemente con l’Eurogruppo per assicurare la
continuazione della stabilità finanziaria», cioè a misurarsi con i ministri delle Finanze e
dunque con i governi europei. Due i punti chiave del colloquio. Il primo riguarda la
proposta fatta circolare dai greci di scambiare i loro titoli di Stato posseduti dalla Bce con
titoli «perpetui», cioè sempre emessi dalla Grecia, che pagano gli interessi ma non vanno
mai a scadenza. Una soluzione che la Bce non può prendere in considerazione: si
tratterebbe del «finanziamento monetario» di un Paese dell’eurozona, così come lo
sarebbe un allungamento delle scadenze del debito ellenico e i trattati lo vietano.
Una soluzione a questo problema di cui si parla a Francoforte — ma non è dato sapere se
sia stata discussa da Draghi e Varoufakis — sarebbe un intervento dell’Esm, il
Meccanismo di stabilità europeo creato dai governi per intervenire nelle situazioni di crisi. I
partner dell’eurozona potrebbero decidere di fare comprare all’Esm i circa 27 miliardi di
titoli di Stato greci in mano alla Bce: a quel punto, potrebbero farne quello che credono.
Improbabile, ma comunque un’ipotesi da discutere semmai nell’Eurogruppo, che sulla
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vicenda greca terrà una riunione straordinaria l’11 febbraio. Il secondo punto del colloquio
avrebbe riguardato i dieci miliardi di buoni del Tesoro (a breve scadenza) che Atene
vorrebbe emettere per dotarsi di un finanziamento ponte per i mesi successivi a quando il
vecchio programma di aiuti finirà, con febbraio: dal momento che il nuovo governo non lo
vuole prolungare, la Grecia non riceverà più denaro dai creditori e quindi rischia di essere
insolvente di fronte ad alcune scadenze. Anche su questo aspetto, Draghi avrebbe chiarito
a Varoufakis che non può fare nulla. Ovviamente, il governo di Atene può emettere i titoli,
con il fine di farli comprare alle banche elleniche che poi li userebbero come collaterale per
ricevere finanziamenti dalla Bce. Il problema è che i titoli greci hanno un rating troppo
basso (junk bond) e per accettarli la banca centrale deve avere una dispensa speciale
(waiver). Ma la dispensa, eliminata ieri, viene accordata come parte degli accordi di
salvataggio di Atene, proprio quegli accordi che il governo greco dice che rifiuterà dalla
fine del mese. Altra materia da discutere nell’Eurogruppo, insomma. Perché — ieri lo si è
visto bene a Francoforte — la soluzione è politica, tutta politica.
Danilo Taino
del 05/02/15, pag. 11
Asse tra Berlino, Roma e Parigi su Atene cala
il gelo del rigore
ANDREA BONANNI
BRUXELLES . Il silenzio di Juncker e Draghi, il riserbo di Renzi, le smentite Fmi. E poi le
scarne parole di Angela Merkel che suonano come una sentenza: «Ho parlato al telefono
con il premier italiano e il presidente francese. Sulla Grecia le posizioni degli Stati membri
non differiscono nella sostanza». L’offensiva diplomatica tra Roma, Bruxelles, Parigi e
Francoforte di Alexis Tsipras ha prodotto un frastuono di dichiarazioni ottimistiche che
però non ha trovato eco nei loro interlocutori. «I negoziati saranno difficili», ha detto il
presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, unica autorità comunitaria a rilasciare un
commento dopo l’incontro con Tsipras.
Roma, Bruxelles, Francoforte e Parigi hanno mandato lo stesso messaggio, dunque:
nessuna conferenza internazionale per rinegoziare il debito, nessuna cancellazione più o
meno occulta dei 240 miliardi prestati, nessun trattamento di favore da parte di Fmi e Bce.
L’unico tavolo negoziale al quale si devono rivolgere i nuovi governanti di Atene è quello
dell’Eurogruppo. E devono farlo in fretta perché, senza un accordo dell’Eurogruppo,
neppure la Bce sosterrà le banche greche già svenate dalla fuga di capitali.
Accolti dovunque con grandi sorrisi, baci, abbracci e pacche sulle spalle, Tsipras e
Varoufakis sono tornati ieri sera ad Atene con ben poca farina nel sacco. E difficilmente se
ne aggiungerà oggi, durante l’incontro che Varoufakis avrà a Berlino con il Finanzminister,
Wolfgang Schauble. In una intervista a Repubblica, il ministro greco aveva annunciato di
aver «avviato un negoziato» con il Fondo monetario internazionale per una dilazione del
debito. Circostanza che l’Fmi ha smentito seccamente. In compenso si è saputo che
Varoufakis ha incontrato nel week-end a Parigi il responsabile europeo del Fondo, che
guardacaso è quel Poul Thomsen odiatissimo dai Greci perché per anni a capo della
Troika e dei suoi ultimatum. I due, dice un breve e perfido comunicato Fmi, «hanno fatto
conoscenza ed evocato le sfide a cui la Grecia deve far fronte».
Pure tra coloro che Tsipras considerava i suoi potenziali alleati, come Renzi, Hollande e il
presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, il leader greco ha trovato sorrisi,
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comprensione, ma anche una linea di demarcazione netta: la premessa per qualsiasi
negoziato è che Atene si impegni a rispettare le regole europee e gli obblighi assunti. «Se
la Grecia modifica unilateralmente gli accordi, l’altra parte non è più obbligata a rispettarli,
pertanto lo Stato non sarà più in grado di finanziarsi», dice Schulz in una intervista a
Handesblatt.
Intanto i tedeschi hanno fatto trapelare un loro “documento di lavoro” presentato agli altri
governi dell’Eurozona in cui chiedono non solo che la Grecia garantisca di rimborsare il
debito, ma che mantenga anche tutti gli impegni di tagli, riforme e privatizzazioni che i
precedenti governi avevano concordato con la Troika. Ma questo, evidentemente, fa già
parte della complicata partita negoziale che si aprirà oggi con l’incontro di Varoufakis e
Schauble e che entrerà nel vivo l’11 febbraio alla riunione dell’Eurogruppo che precederà
di un giorno il vertice dei capi di governo della Ue, quando finalmente Tsipras incontrerà la
cancelliera Merkel.
In tanta freddezza, è anche vero che l’Europa deve e vuole negoziare con Atene per
scongiurare una bancarotta greca e un primo, pericolosissimo sfaldamento dell’Unione
monetaria. E lo stesso premier greco sa bene che anche l’Europa dovrà fare concessioni
importanti. Perché Tsipras è oggi l’unico, esile filo che tiene attaccata la Grecia all’Europa.
del 05/02/15, pag. 7
Donetsk, bombe sull’ospedale
Simone Pieranni
Ucraina. Oggi incontro Kerry-Poroshenko. Gli Usa valutano l'invio di
armi. Merkel: «Bastano le sanzioni». Ucciso, mentre combatteva per
Kiev, comandante ceceno
Ieri a mezzogiorno, ora di Kiev, l’ospedale numero 27 nel quartiere di Tekstlishchik di
Donetsk è stato bombardato; secondo i primi testimoni, i colpi di artiglieria avrebbero
provocato dai 5 ai 15 morti.
In serata, in un altro quartiere della città orientale, è toccato a un palazzo residenziale
finire nel mirino dei bombardamenti: almeno 10 i feriti. Come accade sovente dallo scorso
aprile, mese d’inizio della guerra tra Kiev e i filorussi, queste macabre addizioni al numero
totale delle vittime del conflitto (5.358 persone sono morte e 12.235 ferite) riaccendono i
fari internazionali sul Paese.
C’è un conflitto, con combattimenti e morti quotidiane, che periodicamente riportano
l’Ucraina tra le prime notizie di giornata.
E come in altre occasioni, di fronte a queste tragedie, si aprono nuovi scenari, anche
immediati; come si ricominciasse da capo ogni volta, ogni parte in causa tenta di arraffare
quanto possibile. Approfittando della rinnovata attenzione internazionale, il governo di Kiev
con il presidente Porosehnko in prima linea chiede armi, aiuti, sostegni «veri», che
possano cambiare l’inerzia della guerra.
I filorussi fanno la stessa cosa con Mosca, cercando appoggi per approfittare di una
situazione che li vede militarmente in vantaggio, per ora. Inoltre, come già altre volte,
anche nel caso degli ultimi due bombardamenti, non ci sono i responsabili. Kiev accusa i
ribelli, che rispondono accusando Kiev. Se si eccettua Odessa, dove immagini, video e
testimonianze hanno mostrato le responsabilità di neonazi e ultras, nell’agguato e nel rogo
in cui sono stati uccisi almeno 48 pacifici dimostranti «separatisti», ogni altra tragedia di
questa guerra rimane sospesa nello scontro di propaganda, iniziata già dalle prime
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molotov di Majdan, e proseguita — tra i casi più eclatanti — con un aereo di linea
abbattuto e con la morte del giornalista italiano Andrea Rocchelli.
Le notizie che arrivano dal fronte, inoltre, mischiano i contesti, creando la sensazione di
essere immersi, prima di tutto, in un brodo di natura criminale: ieri si è appreso della morte
del comandante ceceno, già a capo della guerriglia cecena negli anni Novanta, Isa
Munaiev. Combatteva per Kiev, come capo del battaglione che prende il nome, guarda il
caso, di Dzhokhar Dudaiev.
Non sembra avere un comportamento migliore, chi questo conflitto per procura sembra
gestirlo fin dalla sua nascita. Gli Stati uniti dovrebbero in primo luogo riflettere su come sia
possibile che ogni «rivoluzione» — colorata o araba — nata (o aizzata) con l’intento di
abbattere un mostro, finisca spesso per crearne di altri, perfino peggiori. Poroshenko (che
da ieri non è più il quinto presidente del paese, bensì il quarto, perché la Verkhovna Rada,
il parlamento ucraino, ha privato il deposto capo di Stato Viktor Yanukovich del titolo di
presidente) nel silenzio generale dell’amministrazione Obama, non ha realizzato nessuna
delle promesse (pace compresa) fatte per ottenere gli aiuti economici necessari a un
paese diviso e in bancarotta.
Oggi a Kiev Poroshenko incontrerà il segretario di Stato Kerry, (dopo aver parlato alla
conferenza sulla sicurezza a Monaco di Baviera, con il segretario generale della Nato Jens
Stoltenberg). Secondo i media ucraini, al termine dell’incontro con Kerry, ci sarà una
dichiarazione congiunta, con la quale il segretario di Stato Usa confermerà l’appoggio
incondizionato a Kiev, oltre a dover discutere di «riforme» insieme ai parlamentari ucraini.
Non si sa ancora, per quanto Poroshenko ci speri ardentemente e se ne dica «certo», se
Kerry aprirà anche alla possibilità paventata nei giorni scorsi dall’amministrazione di
Washington, di inviare aiuti militari.
La novità infatti è che Obama (che appare il più scettico) e quei funzionari che hanno
messo in piedi questo appoggio incondizionato, via Nato, si ritrovano a pensare alla
possibilità di mandare armi «letali» a Poroshenko, per consentirgli di arrivare, quanto
meno, a una tregua dignitosa.
Al riguardo Putin nicchia, messo all’angolo da altri problemi (le sanzioni, la guerra del
petrolio) e cerca di mantenere alta la confusione. Comunque la si pensi, il filo sottile che
mantiene questa guerra in moto è il paventato rischio, ormai palese nelle intenzioni da
parte americana, di un’adesione dell’Ucraina alla Nato. Un gesto che finirebbe per sancire
un momento decisivo della guerra e che ne determina scossoni anche solo se paventato.
Come sottolineava un editoriale di Le Monde, Obama starebbe realmente pensando a
un’accelerazione, mentre l’Europa appare totalmente in balia degli eventi. Ieri — a
proposito — è intervenuta Merkel: «Non ritengo che sia fallito il tentativo di combinare le
sanzioni nei confronti della Russia con il dialogo, anche se non conduce così in fretta ai
risultati che ci auguriamo e la situazione è effettivamente di nuovo diventata molto più
seria».
del 05/02/15, pag. IV (inserto)
Più agenti e controlli ai confini
Così gli Stati corrono ai ripari
Via libera al ritiro dei documenti agli individui sospetti
Marco Zatterin
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All’ingresso delle istituzioni europee è appeso un cartello con la scritta «livello di allerta
giallo». Dopo i fatti di Parigi gli uomini della Sicurezza controllano chiunque entri nei
palazzi dell’Unione, anche i funzionari che sinora andavano e venivano a piacimento.
Dinnanzi al palazzo del Consiglio stazionano due soldati in assetto da guerra. Un’altra
coppia è schierata all’ingresso del garage della Commissione, analogamente a quanto
succede sulla porta dell’ambasciata norvegese e di quella britannica. C’è anche un
furgone della Polizia belga e un pugno di agenti armati sino ai denti. «La minaccia
terroristica è seria - ammette una fonte europea -, tanto che non sappiamo se tutto questo
possa servire, ma non abbiamo scelta». L’attacco a Charlie Hebdo ha spaventato
l’Europa. Ha dato la massima esposizione a una realtà nota a molti. Nel disagio sociale
delle grandi aree urbane si annida il peggio: populismo, xenofobia, terrorismo. Così, in
attesa della ripresa economica che potrebbe dare una mano a rimettere insieme i pezzi
del vecchio mondo, i ministri degli Interni e i responsabili dei Servizi hanno avuto un inizio
di anno movimentato. Inevitabile. Basterà?
Belgio
I belgi sono stati rapidi. Il premier Charles Michel ha fatto passare la possibilità di ritirare la
carta di identità o il passaporto a individui considerati una minaccia, mossa mirata a
bloccare i «foreign fighters» che si dicono islamici, più di trecento del regno di Filippo. Il
governo ha stanziato 300 milioni per rafforzare la sicurezza e ha deciso di usare l’esercito
per pattugliare i luoghi a rischio, a partire dal museo ebraico di Bruxelles, già attaccato in
maggio. Il sistema politico è stato compatto nell’interesse comune, le retate sono state
frequenti.
Francia
I francesi lo hanno seguito. Il presidente Hollande ha replicato il modulo belga, facendo
attenzione a consolidare le forze di polizia che l’austerità aveva ridotto. In poche ore ha
deciso il rafforzamento dell’intelligence, la distribuzione di nuovi caschi e giubbotti alla
Polizia, 2680 assunzioni per il ministero degli Interni e un’azione «culturale» che
comprende la formazione di 60 nuovi Imam. Non si poteva far di meno. Con un piano
antiterrorismo da 736 milioni in tre anni si vuole dimostrare la «determinazione
implacabile» nel combattere i criminali della «Jihadosfera». Come il Belgio, anche Parigi
ha optato per la possibilità di ritirare il passaporto a chi fosse in odore d’essere un
combattente della Jihad. È una pratica sulla cui regolarità molti hanno dubbi, ma su cui
Bruxelles ha fatto sapere di non aver nulla in contrario.
Gran Bretagna e Italia
Il Regno Unito, al cui appello mancano 600 cittadini che si ritiene siano in Siria o Iraq, ha
rafforzato le misure di sicurezza, in particolare i controlli alla frontiera con la Francia e le
misure per assicurare la tutela della comunità ebraica. L’Italia ha messo in cantiere un
decreto il cui iter, però, appare più lento del previsto e dell’opportuno. L’Ue alimenta il
fuoco con la legna che ha. La Sicurezza non è una competenza che le attribuiscono i
Trattati. La Commissione difende la libertà di circolazione secondo i Patti di Schengen
(«inutile parlarne se i terroristi sono nazionali»), ma spinge per rafforzare i controlli alle
frontiere esterne dove passano i «foreign fighters». Il parlamento Ue approverà presto il
Pnr, il registro dei nomi dei passeggeri, un’arma in più, benché relativa. «Ci sono gelosie
fra i servizi d’informazione», ha rilevato l’alto rappresentate per la politica Estera, Federica
Mogherini.
Il problema trova in questa mancanza di fiducia le sue radici più profonde. Se gli Stati non
si scambiano i dati, i terroristi avranno gioco facile. L’Ue deve ripartire dall’obbligo di
cooperare per far la forza. Più Unione, non meno. Qui come altrove.
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del 05/02/15, pag. 12
La Giordania impicca due jihadisti
Raid su Mosul: “Guerra implacabile”
La reazione per il pilota bruciato vivo: bombardata la roccaforte dell’Is
in Iraq
FABIO SCUTO
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
GERUSALEMME .
Sono accese e resteranno accese tutta la notte le luci del grande ministero della Difesa
alle porte di Amman. Re Abdallah II rientrato in gran fretta dagli Usa presiede un vertice
dopo l’altro con i suoi fedeli generali, i ministri più vicini, e promette «una guerra
implacabile» al Califfato islamico. Il regno hashemita è sotto shock, ha subito un
contraccolpo che ha lacerato gli animi, acceso la rabbia della piazza e la voglia di vendetta
per l’esecuzione di Moaz al Kaseasbeh, il giovane pilota catturato dall’Is la vigilia di Natale
e bruciato vivo in un horror-movie destinato proprio a impressionare il popolo di Amman.
Non si è fatta attendere la prima risposta del governo giordano. All’alba, è stata giustiziata
la kamikaze mancata, Sajida al Rishawi, la terrorista irachena di cui l’Is chiedeva la
liberazione in cambio degli ostaggi, nel carcere di massima sicurezza di Swaqa, 70
chilometri a Sud della capitale dove di solito avvengono le esecuzioni. È stato impiccato
anche un altro jihadista filo-qaedista, Ziad al Karbouli. Altre tre esecuzioni di terroristi
islamici sono attese nelle prossime ore. E ieri sera l’aviazione giordana ha bombardato
postazioni dell’Is a Mosul, la roccaforte irachena del Califfato.
La Giordania reagisce e prova ad affrontare uno dei suoi momenti più difficili. Il piccolo, e
debole regno, è scosso dalle tempeste che sconvolgono la mappa del Medio Oriente. Da
retrovia americano per la guerra in Iraq, la Giordania è ora in “prima linea” nella guerra
contro il Califfato, e ne è profondamente segnata: quasi un milione di profughi siriani,
altrettanti iracheni, i rifugiati palestinesi degli anni ‘70; e poi le Forze speciali Usa, gli
addestratori americani, i contractor, le compagnie di sicurezza. Re Abdallah vede il suo
regno scivolare verso la guerra contro Al Baghdadi. Dall’altro lato, l’Is vuole espandere la
sua portata regionale e la Giordania è l’unica apertura disponibile.
Al rientro nel Paese a lutto, Abdallah è stato accolto all’aeroporto di Amman da migliaia di
manifestanti con bandiere nazionali, foto del pilota e ritratti del monarca, a sottolineare
l’unità del Paese di fronte alla minaccia jihadista. «La nostra risposta sarà decisa e farà
tremare la terra», fanno subito trapelare dal vertice con il sovrano. Ieri la famiglia di
Kaseasbeh — membro di una influente tribù — ha ricevuto le condoglianze nel villaggio
natale di Ay, nella regione di Karak. In una tenda tradizionale ornata con la foto ritratto del
giovane pilota 28enne, l’incontro è stato anche una dimostrazione di sostegno per re
Abdallah, che ha affrontato non poche critiche sulla crisi degli ostaggi. Centinaia di
giordani si sono riuniti dal mattino a porgere le condoglianze. Tra questi ex funzionari della
Corte Reale, ministri e leader di tribù che formano il più importante pilastro del regno
hashemita, e forniscono le forze armate e di sicurezza con giovani reclute affidabili.
Le autorità cercano di dare la percezione di un Paese unito. Ma il ruolo nella guerra contro
l’Is ha finora goduto di poco sostegno interno. I giordani sono preoccupati per l’instabilità
alle frontiere, temono il “contagio”, il ritorno del terrorismo interno. I più critici si chiedono
se la campagna guidata dagli Stati Uniti sia davvero la loro lotta, poco convinti
dall’argomento di re Abdallah che Stato islamico sia una minaccia per la Giordania e per
l’Islam.
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Il “fronte interno” giordano, infatti, non è meno pericoloso, e il terrorismo — jihadista prima
e salafita poi — ha lasciato dagli Anni Novanta una lunga scia di sangue. «Più di due
milioni di stranieri sono arrivati qui in un anno, come non pensare che ci siano state
infiltrazioni jihadiste? E poi 9.000 jihadisti giordani combattono in Siria e in Iraq», dice
Oraib Rantawi, direttore dell’Istituto Al Quds per gli Studi politici. Segnali inquietanti ci
sono stati a Zarqa e Maan, appena tre mesi fa, con le marce dei salafiti e bandiere dell’Is
per le strade. Governo e servizi di sicurezza giordani dicono che la minaccia è esagerata,
ma gli estremisti attirano seguaci con promesse di cambiamento, di una società più giusta
mentre molti non trovano lavoro e si sentono abbandonati dalla classe dirigente filooccidentale. Il sovrano hashemita, il 43° discendente del profeta Maometto, affronta i
giorni più difficili del suo regno.
del 05/02/15, pag. 3
La Giordania sul filo del rasoio
Michele Giorgio
Stato Islamico. Gli analisti prevedono che, passato lo sdegno per
l'esecuzione del pilota Muaz al Kassasbeh, il paese si spaccherà in due.
Il premier giordano Abdullah Ensour ieri ha ribadito la validità della scelta fatta dal regno
hashemita di partecipare alla campagna aerea della Coalizione anti-Isis guidata dagli Stati
Uniti.
«Il crimine commesso (l’esecuzione del pilota Muaz al Kassasbeh da parte dell’Isis, ndr)
dice con chiarezza che la Giordania ha avuto ragione a prendere parte alla guerra contro il
terrorismo e le organizzazioni terroristiche, perché è la nostra guerra, la guerra degli arabi
e dei musulmani prima ancora che dell’Occidente», ha proclamato Ensour. Poco prima
erano stati impiccati i due “terroristi” Sajeda al Rishawi e Ziad al Karbouli per assecondare
il desiderio di vendetta della famiglia del pilota giustiziato e di molti giordani.
Il governo e soprattutto la monarchia provano a cavalcare l’onda dello sdegno popolare,
per raccogliere consensi. Nei mesi scorsi molti dei sudditi di re Abdallah avevano criticato
la partecipazione ai raid aerei. I giordani non approvano le stragi dell’Isis ma, allo stesso
tempo, non guardano con favore ad operazioni militari, guidate dagli Stati Uniti, che
prendono di mira i musulmani sunniti. Vorrebbero piuttosto che la monarchia seguisse
l’esempio degli Emirati che hanno interrotto, senza annunciarlo, gli attacchi aerei contro i
jihadisti.
Quali saranno gli sviluppi nel Paese una volta che si sarà esaurito lo sdegno per
l’esecuzione del pilota, alla luce dell’intenzione proclamata dalle autorità di proseguire i
raid aerei assieme al resto della Coalizione? «Passati lo sdegno e il desiderio di
rappresaglia, l’accaduto non potrà che accrescere la polarizzazione dell’opinione pubblica
giordana», prevede l’analista politico Mouin Rabbani, «accanto a quelli che approveranno
un maggiore impegno militare contro l’Isis, non mancheranno di far sentire la loro voce
coloro che pensano che quello in corso non sia altro che un nuovo conflitto americano
contro arabi e musulmani e che, pertanto, la Giordania dovrebbe abbandonare la
Coalizione». Rabbani non esclude, sul lungo periodo, una crescita delle simpatie verso lo
stesso Stato Islamico. Se da un lato l’islamismo in Giordania fa capo soprattutto ai Fratelli
Musulmani, movimento politico spesso preso di mira dai servizi di sicurezza, dall’altro il
jihadismo salafita, al quale si ispira l’Isis, ha diverse roccaforti nel Paese. Senza
dimenticare che il padre fondatore, una dozzina di anni fa, dello Stato Islamico in Iraq, Abu
Musab al Zarqawi (ucciso nove anni fa da un drone Usa), proveniva dalla città giordana
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(con campo profughi palestinese) di Zarqa e che non sono pochi i giordani che si sono
uniti all’Isis e ora combattono in Siria e Iraq contro i governi “infedeli” di Damasco e di
Baghdad.
Jihadisti che in prevalenza partono dalla città di Maan, storico punto di riferimento del
radicalismo religioso e da sempre spina nel fianco della monarchia hashemita. Secondo gli
esperti, i problemi economici che da tempo affronta la Giordania stanno accrescendo il
sostegno per l’Isis.
Nel Califfato proclamato da Abu Bakr al Baghdadi, tanti giovani giordani residenti a Maan,
vedono la soluzione a problemi causati dalla linea filo occidentale adottata dalla dinastia
hashemita. Il sindaco di Maan, Majed al-Sharari, è preoccupato per il futuro della sua città
dove da tempo, su alcuni edifici, sventolano le bandiere nere del Califfato di al Baghdadi.
«La partecipazione giordana ai raid aerei e i problemi economici sono un concentrato di
tensioni, la catastrofe esploderà molto presto, nel 2015», ha avvertito il sindaco al-Sharari.
Si teme una nuova rivolta simile a quella divampata a Maan una dozzina di anni fa contro
l’aumento del prezzo del pane. Una sommossa che diede l’opportunità a formazioni
religiose radicali di innescare violente proteste contro la monarchia. Secondo il ministro
dell’informazione Mohammad al-Momani, invece la pericolosità dell’Isis in Giordania
sarebbe limitata. «Abbiamo pochi giordani che esprimono la loro simpatia per il terrorismo,
le organizzazioni terroristiche e l’ideologia fondamentalista, ma pensiamo che questo
fenomeno sia sotto controllo», spiega al Momani.
Quali saranno gli sviluppi futuri nessuno può dirlo. Di sicuro Amman non cambierà politica
nei confronti di Damasco nonostante l’appello lanciato dal ministero degli esteri siriano per
unire le forze contro lo Stato Islamico e al Nusra (al Qaeda). Secondo l’analista Maher Abu
Tair, del quotidiano al Dostour di Amman, la Giordania (che già offre appoggio logistico ai
programmi statunitensi di addestramento dei “ribelli” siriani e lascia passare aiuti, pare
anche armi, per le formazioni anti Assad) si preparerebbe a dare maggior sostegno
militare ai miliziani islamisti impegnati nel sud della Siria.
del 05/02/15, pag. 12
L’ira del mondo arabo contro il Califfato
“Crocifiggete i terroristi”
Al Azhar: “Solo Allah punisce con le fiamme” Ma la Rete insorge: no
alla legge del taglione
ALBERTO STABILE
BEIRUT
LA CATTEDRA più ascoltata e riverita della dottrina sunnita, l’Università egiziana Al
Azhar, ha lanciato la sua condanna inappellabile contro il «satanico gruppo terrorista». I
governi della regione, anche quelli che hanno favorito la causa jihadista con aiuti
economici e militari, sono scossi dalla paura. Persino il re saudita Salman, ha levato la sua
voce contro «il crimine efferato che contraddice la tolleranza della nostra nobile religione».
Ma già all’indomani della cattura del pilota giordano Moaz al Kaseasbeh, precipitato col
suo aereo nei cieli di Raqqa e poi arso vivo in una gabbia di ferro dai suoi carcerieri, la
coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti contro lo Stato Islamico aveva perso un
tassello importante: gli Emirati Arabi Uniti si erano ritirati dallo schieramento. E ieri la
Giordania ha giustiziato due terroristi.
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Tutto questo, a livello ufficiale, ha provocato il supplizio inflitto a Moaz al Kaseasbeh. Ma
l’orrore di quelle immagini dove si vedono dei musulmani uccidere in maniera orrenda un
altro musulmano che effetti provocano tra le masse, nelle case, per le strade, nelle scuole
delle capitali arabe?
«La maggior parte della gente è orripilata da quelle scene», dice a Repubblica uno dei più
apin prezzati osservatori del mondo arabo, il docente di Relazioni internazionali
all’American University of Beirut ed editorialista di diversi giornali, Rami Khouri. D’accordo,
ma al disgusto seguirà una reazione? Faranno sentire la loro voce? «Vede, in generale, la
reazione dell’opinione pubblica araba all’ascesa dell’Is è stata in passato alquanto
bizzarra. I governi della regione hanno aspettato che si muovesse Obama per decidere di
agire. Ma quel video terribile è entrato nelle case della gente. Per cui penso che ci sarà un
maggior consenso e una maggiore determinazione a combattere l’estremismo jihadista.
Naturalmente, a molti continueranno a non piacere gli Stati Uniti e la loro strategia. Ma
questo è un altro discorso».
Quindi è possibile che quest’episodio provochi una svolta quello che finora è sembrato un
atteggiamento attendista, alla “vediamo come andrà a finire”? «Sì, io penso che ci sarà un
cambiamento deciso nell’opinione pubblica araba. Intendiamoci, la pratica sistematica
dell’orrore da parte dell’Is non è una novità. Hanno crocifisso, hanno decapitato, hanno
lapidato, hanno fatto eccidi di massa. Ma stavolta, forse, possiamo parlare di un salto di
qualità nell’uso della violenza a scopi intimidatori e ritengo che un salto di qualità ci sarà
anche nelle reazioni della gente. Naturalmente è da vedere in che misura...».
«Non bisogna aspettarsi manifestazioni come quelle di Parigi, all’indomani del massacro di
Charlie Hebdo », dice Michael Young membro dell’ editorial board del giornale libanese in
lingua inglese, Daily Star. «La gente ha visto ed è rimasta scioccata. Ma il fatto che non
mostri pubblicamente i propri sentimenti di avversione non vuol dire connivenza o
complicità. Questa sarebbe un’impressione sbagliata».
Naturalmente, in un ambiente in cui la religione gioca un ruolo essenziale e dove il
sermone dell’imam, alla preghiera del venerdì, è per milioni di persone il mezzo essenziale
e spesso unico per interpretare la realtà, non si possono trascurare i risvolti religiosi, oltre
che propagandistici, che gli stessi jihadisti hanno voluto dare all’esecuzione di Moaz al
Kaseasbeh. E quasi a voler giustificare la barbarie, ammantandola di teologia, nel famoso
filmato diffuso sul web hanno incluso l’editto in cui sostengono che nel caso di Moaz,
hanno applicato il qisas, la legge del taglione prevista dal Corano in determinati casi. Lui
ha bruciato e bombardato, dun- que subirà la stessa sorte, verrà bruciato e sepolto sotto le
macerie.
Mai e poi mai, hanno invece ribattuto i saggi di Al Azhar il Corano permette che un
prigioniero venga arso vivo. Solo Dio può infliggere una punizione con le fiamme. Per cui,
secondo il grande Sheik dell’Università, Ahmed al Tayeb, gli stessi assassini meritano di
«essere crocifissi, o le loro braccia e gambe vengano amputate». In una sorta di
interminabile ciclo di punizioni atroci. «Così ci mettiamo allo stesso livello dei boia»,
commentano però in molti sulla rete. «Qual è così la differenza tra noi, uomini civili, e
quegli animali? ».
In realtà, gli obbiettivi della brutale macchina della morte messa in piedi dai jihadisti, erano
e sono del tutto mondani, politici. «I terroristi hanno usato fino all’ultimo la vita del povero
pilota per premere sul governo giordano affinché si ritirasse dalla coalizione internazionale
contro lo Stato Islamico», dice l’analista Hassan Abu Hannyeh. «E seppure non sono
riusciti, hanno comunque aggravato le divisioni all’intero dell’opinione pubblica giordana e
forse araba». Non a caso, dice, tra i manifestanti scesi in piazza ad Amman c’era chi
gridava: «Non daremo più i nostri figli all’America, questa non è la nostra guerra».
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del 05/02/15, pag. 2
“Ma le esecuzioni non sono la risposta”
Amnesty International
La crudele uccisione sommaria del pilota giordano Muath al-Kasasbeh, bruciato vivo in
una gabbia dal gruppo armato Stato islamico, è per Amnesty International un crimine di
guerra e un'efferata azione contro i principi più elementari di umanità.Muath al-Kasasbeh,
pilota d'aviazione, era stato catturato nel dicembre 2014 quando il suo aereo si era
schiantato al suolo nei pressi di Raqqa, in Siria, nel corso di un'operazione militare contro
lo Stato islamico.
In quello che è apparso in tutta evidenza un atto di vendetta, il 4 febbraio 2015 le autorità
giordane hanno messo a morte due cittadini iracheni legati ad al-Qaeda, Sajida al-Rishawi
e Ziad al-Karbouli.
Al-Rishawi era stata condannata a morte per aver preso parte, nel 2005, a un attentato
nella capitale giordana Amman, che aveva provocato 60 morti. Il suo avvocato difensore
aveva inutilmente chiesto una perizia psichiatrica. Secondo un rapporto del relatore
speciale delle Nazioni Unite sulla tortura, che nel 2006 aveva visitato la Giordania, la
detenuta era stata torturata nel corso di un mese di interrogatori ad opera dei servizi
d'intelligence del paese.
Al-Karbouli era stato condannato a morte per appartenenza a un'organizzazione illegale,
possesso di esplosivi che avevano causato la morte di una persona e omicidio. Secondo il
suo avvocato, era stato torturato per costringerlo a confessare."Le autorità giordane hanno
tutto il diritto di provare orrore per l'uccisione del loro pilota, ma la pena di morte è la
sanzione più estrema, una punizione crudele, disumana e degradante che, per di più, non
dovrebbe mai essere usata come strumento di vendetta" - ha dichiarato Philip Luther,
direttore del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International.
"L'uccisione di Muath al-Kasasbeh ha mostrato di quanta e quale ferocia sia capace un
gruppo come lo Stato islamico. Ma non dovrebbe essere permesso alle sue brutali tattiche
di alimentare un ciclo sanguinoso di esecuzioni per vendetta" - ha aggiunto Luther.
Dopo otto anni di sospensione, nel dicembre 2014 la Giordania aveva ripreso a usare la
pena capitale, mettendo a morte 11 prigionieri. Amnesty International ha sollecitato il
governo a istituire immediatamente una moratoria sulle esecuzioni in vista dell'abolizione
della pena di morte.
del 05/02/15, pag. 1/2
Dall’orrore nazista dell’Isis alla barbarie
«moderata»
Marco Bascetta
Terrorismi. La Convenzione di Ginevra imporrebbe magliette con la
scritta «Je suis Moath»
Occorre davvero far ricorso a tutte le risorse etiche e razionali di cui disponiamo per non
relegare un intero pezzo di mondo nelle tenebre della barbarie più efferata e auspicarne
l’annientamento a qualsiasi costo, «danni collaterali» compresi.
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La tentazione è forte. All’orribile morte tra le fiamme di Moath al-Kasasbeh, decisa magari
«dal basso» dagli umori infami del popolo jihadista consultato sulla rete, fa seguito la
reazione squisitamente kappleriana della monarchia di Amman, che fa immediatamente
impiccare Sajida al-Rishawi, la terrorista detenuta nelle carceri giordane dal 2005 e che la
Giordania era disposta fino a ieri a scambiare con il suo pilota, e un altro detenuto
qaedista iracheno, Ziad al-Karbouli.
In realtà circolava voce che altri cinque detenuti sarebbero stati giustiziati, ma non è chiaro
quale sia la proporzione della rappresaglia ritenuta adeguata dalla monarchia hashemita.
Ci auguriamo inferiore a quella delle Fosse Ardeatine. Intanto da quel santuario di
saggezza islamica «moderata» che è l’università coranica di Al Azhar si leva l’invito a
«uccidere, crocifiggere e mutilare» i terroristi. Questo Islam potrebbe piacere perfino, per
l’occasione, alla destra islamofoba.
Lasciando per un momento da parte ogni considerazione geopolitica, ci troviamo di fronte
tutti gli elementi di una «guerra interfascista» (per usare l’espressione suggestivamente
applicata da Franco Berardi Bifo alla guerra in Ucraina).
L’orrore abita diversi luoghi nel mondo, in proporzioni numeriche più o meno spaventose
dal Pakistan alla Nigeria, pervade legislazioni, forme politiche e sociali di molti regimi fidati
alleati dell’Occidente.
In un luogo specifico, però, quello militarmente occupato dall’Isis, l’orrore si è «fatto stato»
senza diplomatici velami. Uno stato che esercita il suo potere in forme tanto feroci da far
impallidire l’Afghanistan crudelmente tribale e «tradizionalista» del Mullah Omar. Vi si
bruciano libri ed esseri umani in stile più nazista che «medioevale».
Questo stato deve essere cancellato dalla carta geografica, prestando però molta
attenzione a che non se ne disperdano le spore. Ma è questa una ragione per tollerare la
barbarie «moderata» che frequenta la city nel timore che possa diventare «estrema»,
probabilmente senza smettere di frequentarla?
Le ragioni economiche e geostrategiche non abbisognano, si sa, di giustificazioni morali.
Ma il discorso pubblico e anche la retorica democratica non possono farne a meno. E
tacere sui sistemi di brutale oppressione esercitati dagli alleati dell’Occidente in casa
propria.
E’ di ieri la condanna all’ergastolo di centinaia di militanti del movimento che spodestò
Mubarak in Egitto.
Non si vedono in giro per il mondo cartelli e magliette con la scritta «Je suis Moath».
Certo un pilota che bombarda, tutt’altro che chirurgicamente, i territori dominati dall’orrore
è ben diverso da vignettisti assassinati per le loro opinioni ed eletti a simbolo della libertà
di espressione, sebbene tutti vittime della medesima barbarie. Le bombe, questo è certo,
non sono parole.
Eppure dovrebbero esserci, nonostante tutto, queste magliette e questi cartelli, perché la
Convenzione di Ginevra, per non parlare dei più elementari principi di umanità, contiene
diritti non meno importanti da difendere. E anche chi partecipa a una guerra, una volta
prigioniero non può subire la sorte terrificante toccata al pilota giordano.
C’è un problema però.
Anche le vittime della rappresaglia giordana, e cioè di una logica fascista, meriterebbero la
stessa attenzione. Capisco quanto sarebbe imbarazzante indossare una maglietta con la
scritta «Je suis Sajida», una fanatica terrorista che ha partecipato a un attentato che ha
provocato 60 morti, ma nel momento in cui non è più in grado di nuocere e diventa la
pedina inerme e torturata di un mostruoso gioco di immagini, l’oggetto di una vendetta al
servizio della propaganda hashemita, forse bisognerebbe avere il coraggio e lo stomaco di
farlo.
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Ma solo da quel momento in poi. Prima gli uomini dell’Isis, come già gli eserciti
nazionalsocialisti, non possono che essere combattuti con le armi e i loro complici
«moderati» e silenziosi costretti a gettare la maschera e a rendere conto delle proprie
azioni.
del 05/02/15, pag. 16
L’Egitto cancella la primavera araba
Ergastolo al blogger di Piazza Tahrir
Pugno duro del governo Al Sisi contro le menti della rivolta Ahmed
Douma condannato insieme ad altri 229 attivisti
FRANCESCA CAFERRI
L’IRONIA che lo ha accompagnato durante tutte le fasi della primavera egiziana non l’ha
persa neanche ieri Ahmed Douma: quando il giudice Mohammed Nagi Shehata ha letto il
verdetto che lo condanna all’ergastolo per aver manifestato contro la giunta militare nel
dicembre 2011, si è messo a ridere e ha battuto le mani, tanto da provocare la rabbia del
magistrato che lo ha minacciato di un’ulteriore pena di tre anni. Ahmed ha continuato a
sorridere e si è girato per uscire dall’aula: «Va bene così, va bene così», ha sussurrato a
chi gli stava intorno secondo il racconto dei testimoni. Ma non era che una pietosa bugia.
Il ragazzo di 26 anni condannato a passare i prossimi 25 anni (tanto prevede la legge
egiziana per l’ergastolo) in una prigione, non è un pericoloso criminale, né un assassino o
uno stupratore: Ahmed Douma è un blogger, un attivista politico, un laico, fatte salve tutte
le ambiguità che questo termine porta con sé nel mondo arabo.
Nel 2011, quando il profumo dei gelsomini della Tunisia arrivò anche in Egitto e un gruppo
di ragazzi iniziarono la protesta che avrebbe rovesciato Hosni Mubarak dopo 30 anni di
potere, Ahmed era lì. Insieme a Ahmed Maher, Mohamed Adel e Alaa Abdel Fatah - amici
e compagni di lotta anche loro oggi in carcere - e moltissimi altri si accampò in piazza
Tahrir, incitando il paese alla rivolta: quando dopo 18 giorni il presidente si dimise, il
mondo pensò che quei giovani testardi e idealisti riuniti intorno al Movimento 6 aprile, da
anni spina del fianco del regime egiziano, avevano vinto.
Valutazione errata: dopo quei giorni vennero quelli della controrivoluzione, dei militari al
potere. Poi quelli del timore della dittatura religiosa dei Fratelli musulmani e infine quelli
della restaurazione definitiva targata generale Mohamed Al Sisi.
In tutte queste fasi, scandite da un pesante tributo di sangue, Ahmed Douma era lì: con il
suo sorriso e il suo pugno alzato al cielo, a giurare ai giornalisti occidentali che la
rivoluzione non era finita, che «il popolo voleva ancora la fine del regime», come recita
uno degli slogan più famosi della rivoluzione, che il tempo avrebbe dato giustizia a lui e
agli altri egiziani che chiedevano giustizia e libertà. O meglio: c’era e non c’era. Perché
come Alaa Abdel Fatah, noto al mondo come @Alaa su Twitter, un’altra delle voci chiave
dell’Egitto di oggi, Ahmed ad ogni cambio di potere è finito in carcere: arrestato dalla poÈ
lizia di Mubarak prima, dai militari poi, dagli uomini dei Fratelli musulmani in seguito e
adesso dai poliziotti del governo di Al Sisi.
Difficile però pensare questa volta che in piazza Tahrir tornerà presto, come i suoi amici:
insieme a Maher e Adel stava già scontando una pena di tre anni per aver organizzato una
manifestazione lo scorso anno, in violazione di una legge contestata da tutte le più grandi
organizzazioni internazionali. Alaa, arrestato per lo stesso motivo a inizio 2014, è stato
rilasciato dopo qualche mese, solo per essere di nuovo imprigionato a ottobre. Nei giorni
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scorsi, al secondo mese di sciopero della fame, è stato ricoverato in un ospedale militare
in condizioni serie.
Tornare a Tahir: per cosa poi? L’attivista e poetessa Shaimaa el-Sabbagh che nel quarto
anniversario della rivoluzione aveva provato a mettere fiori sulla piazza in memoria dei
ragazzi uccisi, è stata freddata da un colpo sparato da un militare a volto coperto. Le
immagini della sua morte, riprese da un fotografo della Reuters, hanno fatto il giro del
mondo. Più di un analista le ha usate per decretare la fine di ogni speranza sulla
Primavera egiziana: difficile dargli torto, anche alla luce di quello che è successo a Ahmed
Douma.
Di certo c’è da constatare che questa fine è avvenuta senza reali reazioni da parte
dell’Occidente: ieri un portavoce del dipartimento di Stato Usa si è detto «molto turbato »
dall’accaduto. Come dargli torto? Il risultato del processo di massa che ha avuto Ahmed
Douma come principale protagonista ha visto altri 229 ragazzi condannati alla stessa pena
per le medesime ragioni: 39, in quanto minorenni, dovranno scontare “solo” 10 anni di
carcere. Ci saranno altre proteste, forse: ma la realtà è che nessun governo è pronto a
mettere in discussione le relazioni con un alleato chiave come l’Egitto.
Del 5/2/2015, pag. 18
In Libia i miliziani conquistano un pozzo della
Total
Mistero sulla sorte di un tecnico francese: per il governo di Tripoli è
stato rapito, Parigi smentisce
TUNISI Puntano al petrolio. Tanto e subito. Mentre i due governi di Libia hanno deciso
dopo un mese di trattative dove forse s’incontreranno — per negoziare non si sa bene che
cosa, visto che la guerra civile ha superato questa settimana i tremila morti e i 400mila
sfollati: praticamente, un libico su sei — gl’islamisti duri conquistano uno dei grandi pozzi
della Sirte. Lo dice il governo dei Fratelli musulmani: Al Mabruk, gestito dalla Total, 40mila
barili al giorno, sarebbe sotto il controllo dell’Isis. Venti blindati hanno attaccato il campo
martedì pomeriggio, «fatto proclami religiosi» e in poche ore ammazzato quattro contractor
stranieri. Tre sono filippini, legati a una ditta italiana, il quarto forse è un tecnico francese
che secondo altre fonti — smentite dal governo di Parigi e confermate da quello libico —
sarebbe stato invece sequestrato con tre nigeriani che lavoravano al pozzo. Total dice che
il campo era chiuso da dicembre, quaranta dei 60 dipendenti sono riparati ieri a Tripoli:
non è chiaro che ne sia degli altri.
Una domanda su tutte: chi s’è impadronito d’Al Mabruk? Dire Isis, è dire tutto e nulla.
Proprio nelle ore dell’attacco, al Pentagono si teneva una riunione sul caos libico e il
generale Vincent Stewart della Dia, lo spionaggio militare americano, elencava le venti
organizzazioni fra Egitto, Libia e Algeria che nelle ultime settimane sono passate agli
ordini dello Stato islamico.
C’è il Califfato di Derna, impegnato in una furibonda battaglia con l’esercito lealista del
generale Khalifa Haftar e, pare, con rivolte popolari in varie zone della città. C’è la nuova,
misteriosa falange di Tripoli che rivendica d’essere collegata ad Al Bagdadi e che dieci
giorni fa ha tentato d’ammazzare il premier islamista all’hotel Corinthia. C’è l’inafferrabile
«Bin Laden del Sahara», Mokhtar Belmokhtar, 5 milioni di dollari la taglia che da vent’anni
pende sulle sua testa: dal 2013, guida Al Qaeda Maghreb nella Libia sud-occidentale.
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Chiunque comandi Al Mabruk, destinato ora a estrarre per il mercato nero che finanzia
anche l’Isis, l’obbiettivo è lo stesso di chi sta combattendo per i porti di Sidra e Ras Lanuf:
mettere le mani sul tesoro d’un Paese che sotto Gheddafi produceva 1,6 milioni di barili al
giorno, tre mesi fa era sopra i 500mila e ora è precipitato a 363mila (solo 200mila
esportati), perdendo 180 miliardi in tre anni.
Anche gli scontri armati intorno alla filiale di Bengasi della Banca centrale libica, istituzione
finora al di sopra delle parti, sottintendono proprio questo: il controllo dei 100 miliardi di
petrodollari ancora nelle riserve. I francesi, riuniti in Ciad i Paesi dell’area, qualche giorno
fa paventavano che la Libia si frantumi in tanti covi di jihadisti quanti sono i suoi pozzi. Un
incubo: si rischia il collasso d’un intero Stato, avverte Angela Merkel. Forse ci siamo già.
Francesco Battistini
Del 5/2/2015, pag. 21
Sud Sudan
Migliaia in fuga dalla guerra
Soltanto 4 mesi per salvarli
Una catastrofe umanitaria tra le peggiori al mondo si sta consumando in sordina, lontano
dagli occhi del mondo, nel più giovane Stato della Terra, il Sud Sudan. Sono due milioni e
mezzo gli sfollati, in fuga da una feroce guerra civile con nessun porto franco. Migliaia i
profughi massacrati anche nei posti dove avevano cercato rifugio: il campo Onu, chiese,
moschee. La metà dei suoi 8 milioni di abitanti sono oggi a rischio fame e malattie, 50 mila
bambini potrebbero morire per mancanza di cibo prima della fine dell’anno. Una crisi
umanitaria tra le peggiori al mondo, classificata dall’Onu come «livello 3», lo stesso di
quella siriana: eppure non è tra le priorità della comunità internazionale, meno
interessante da un punto di vista economico e strategico rispetto a conflitti come quello in
Ucraina. L’allarme è stato lanciato da tutte le ong sul campo, da Intersos a Medici senza
Frontiere.
È la logistica la maggiore preoccupazione dei soccorritori. I «bisogni sono tanti e i tempi
strettissimi — spiega George Fominyen, portavoce a Juba del Programma alimentare
mondiale— Le riserve alimentari devono essere predisposte nei prossimi 4 mesi perché
poi ripartono le piogge e il Paese diventerà di nuovo impraticabile».
Un Paese al collasso. A due anni dall’indipendenza, ottenuta nel 2011 dopo un conflitto
ventennale ingaggiato per separarsi dal nord, è iniziata una guerra di potere tra il
presidente Kiir e il ex suo vice Riek Machar che ha riaperto antiche divisioni etniche tra
Dinka e Nuer, alimentate dalla lotta per il petrolio di cui la regione è ricca. Non deve
illudere il nuovo piano di pace firmato lunedì scorso ad Addis Abeba con la mediazione
dell’Igad (l’Autorità intergovernativa per lo sviluppo). Primo, perché i due leader non hanno
ancora raggiunto un accordo su come condividere il potere nel periodo di transizione: una
nuova tornata di colloqui inizierà il 14 febbraio. Secondo, perché ci sono già state tre
intese che sono diventate presto carta straccia. Scettico il segretario dell’Onu Ban Kimoon: «Il Sud Sudan non avrà pace finché il presidente Kiir e il leader dei ribelli Riek
Machar non metteranno i bisogni dei civili davanti ai propri». Detta con il vignettista Khalid
Albaih: «La gente del Sud Sudan soffre la fame mentre il governo compra armi del valore
di 14,5 milioni di dollari dalla Cina».
Alessandra Muglia
27
INTERNI
del 05/02/15, pag. 2
Salta il patto del Nazareno Forza Italia: per noi
è rotto Pd: meglio così, avanti da soli
La sinistra dem: ora nuove modifiche. No della Boschi Alfano: “Con noi
la maggioranza c’è”. Da martedì in aula
SILVIO BUZZANCA
ROMA .
«Il patto del Nazareno così come è stato interpretato fino a oggi, noi lo riteniamo rotto;
scegliete voi come possiamo dire: congelato, finito».
Giovanni Toti, il consigliere politico di Silvio Berlusconi esce dall’ufficio di presidenza di
Forza Italia (contestato da Raffaele Fitto) e annuncia la prima reazione dopo l’ascesa al
Colle di Sergio Mattarella: prendere le distanze dagli accordi con Matteo Renzi su cui si
basavano l’Italicum e la riforma costituzionale. «Il governo — spiega Toti — ha detto con
chiarezza che il cammino delle riforme proseguirà; noi non ci sentiamo legati come
successo fino ad adesso a condividerne il percorso nel suo totale». Posizione ribadita poi
da un comunicato ufficiale che recita: «Riteniamo Forza Italia libera di valutare quanto
proposto di volta in volta, senza alcun vincolo politico», derivante da un patto «che è stato
fatto venir meno dalla nostra controparte». L’annuncio dei forzisti però non sembra
preoccupare più di tanto Palazzo Chigi. Subito Debora Seraccchiani, vicesegretario del
Pd, commenta: «Se il patto del Nazareno è finito, meglio così. La strada delle riforme sarà
più semplice. Arrivare al 2018 senza Brunetta e Berlusconi per noi è molto meglio». Linea
ribadita da Luca Lotti: «Contenti loro contenti tutti. Ognuno per la sua strada, è meglio per
tutti. Per noi sicuramente», dice il sottosegretario alla presidenza del Consiglio. E Maria
Elena Boschi aggiunge: «Oggi non si è rotto il patto del Nazareno, semmai Forza Italia. Le
riforme vanno avanti, le abbiamo appena calendarizzate alla Camera dove abbiamo una
ampia maggioranza. Se poi Forza Italia ci ripensa, siamo qui». ammonisce il ministro per
le Riforme. In effetti martedì 10 febbraio dovrebbe riprendere a Montecitorio l’esame della
riforma costituzionale. Esame giunto alle sue battute finali con l’approvazione prevista
entro sabato 14 febbraio. «Dipende dall’ostruzionismo delle opposizioni», mette però le
mani avanti la Boschi. I segnali, in effetti, non sono incoraggianti. Renato Brunetta,
capogruppo dei forzisti ha fatto fuoco e fiamme contro il calendario. E i primi effetti del
cambio di linea si sono visti durante la discussione del decreto Milleproroghe che va a
rilento a causa dell’ostruzionismo dei forzisti. La rottura di Forza Italia offre però un
vantaggio ad Angelino Alfano che sottolinea subito l’importanza del Ncd. «Con i nostri voti
e i nostri numeri in Parlamento - dice il ministro - c’è la maggioranza per proseguire nel
cammino delle riforme. Speriamo ci possa essere un riaggancio di Fi al treno delle
riforme».
La Boschi intanto avverte anche che l’Italicum non potrà essere modificato alla Camera.
«Non possiamo permetterci di tornare indietro perché significherebbe affossare tutto»,
dice. Ma Stefano Fassina, Miguel Gotor e Gianni Cuperlo quelle modifiche le chiedono.
«Se non c’è più il patto del Nazareno non è che io mi vesto a lutto. — dice Cuperlo — Ora
bisogna davvero discutere il merito delle riforme e della legge elettorale cambiando tutto
quello che c’è da cambiare: a cominciare dai capilista bloccati».
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del 05/02/15, pag. 2
Renzi: “Non accetto ricatti io i voti li trovo
comunque”
GOFFREDO DE MARCHIS
ROMA .
Bisogna rifare un po’ i conti per le riforme, disegnare una nuova mappa dei numeri in
Parlamento, anche se da parecchie settimane Matteo Renzi e Luca Lotti ragionavano sui
pericoli della spaccatura in Forza Italia, più insidiosa secondo loro delle richieste della
minoranza del Pd. Il premier oggi dice ai suoi amici che il partito azzurro «si sta spaccando
in quattro. Toti che vuole prendere il posto di Verdini, Verdini che tiene sul patto, Brunetta
contro tutti e Fitto che sogna di prendersi il centrodestra». Perciò meglio che si faccia
chiarezza, dice Renzi mostrandosi come al solito sicuro di far girare la ruota dalla sua
parte. «Vogliamo far esplodere quelle contraddizioni. Come? Confermando l’accordo
sull’Italicum punto per punto, senza accettare però condizioni o subire ricatti».
Dopo la rottura del patto del Nazareno, Lotti, il vicesegretario Lorenzo Guerini e l’ufficiale
di collegamento con le Camere Ettore Rosato riscrivono le maggioranze possibili sapendo
che potrebbero essere più ballerine, perché finora Forza Italia è stata indispensabile per
assorbire gli strappi dei dissidenti dem. Con tutti i mezzi: voti, uscite strategiche dall’aula
nei momenti di difficoltà, emendamenti studiati ad arte. È ancora vivo questo feeling
totale? Il patto del Nazareno che scalcava persino la fiducia del premiersegretario nel suo
partito, questo patto di ferro, ora è davvero in crisi. La rete di protezione insomma non
esiste più. A Palazzo Chigi ne prendono atto. «Io i voti li trovo comunque — spiega Renzi
ai collaboratori — , ma rispetterò l’accordo con Berlusconi fino in fondo. Per esempio,
garantisco che l’Italicum alla Camera non cambierà di una virgola e diventerà
definitivamente legge». Il messaggio è diretto ad Arcore. Il discorso con l’ex premier
azzurro non si chiude qui. L’ultima versione della norma elettorale approvata al Senato va
più che bene a Forza Italia. Se il patto in qualche modo tiene, i forzisti avranno i capilista
bloccati, vera ossessione di Berlusconi e Verdini. Se vogliono scegliersi i deputati, questo
è l’ultimo treno. Ci pensino e decidano. Ma presto. Fa capire Renzi che ci mette un attimo
a non far stare sereno anche il suo alleato per le riforme. «Quello che i girotondini non
sono riusciti a fare in vent’anni — dice ai suoi interlocutori — io l’ho realizzato in uno:
Forza Italia dilaniata e mai così debole».
In effetti, gli azzurri hanno tutto l’interesse di approvare l’Italicum così com’è. Semmai
possono ostacolare la legge costituzionale che la prossima settimana ricomincia a correre
a Montecitorio. «Il loro obiettivo infatti — è il ragionamento del premier — è bloccare
l’abolizione del Senato. Ma non ce la faranno. Perché alla Camera abbiamo i numeri
senza di loro e a Palazzo Madama troviamo i 20 voti che ci servono».
I sondaggi post Quirinale arrivati sulla scrivania del premier ieri mostrano un rafforzamento
della fiducia personale e del Pd di fronte mentre Forza Italia registra un ulteriore crollo. E
Renzi punta a consolidare questo risultato portando a casa le riforme nei tempi più brevi.
La minoranza glielo consentirà? Da giorni i bersaniani rivendicano un loro successo e
ancora di più un “metodo”. «Se Matteo riparte dall’unità del Pd come ha fatto con
Mattarella — osserva Miguel Gotor, leader dei “ribelli” al Senato — non ci saranno
problemi. Se invece ritorna la propaganda dei gufi e dei dissidenti cercheremo di
migliorare i provvedimenti in Parlamento ». Per questo, secondo l’altro bersaniano Alfredo
D’Attorre, il segretario si scordi un’approvazione liscia dell’Italicum alla Camera. «Andrà
per forza cambiato e migliorato. Con le preferenze e con i nominati in percentuale
29
inferiore». E la fretta di Renzi? «Se facciamo i miglioramenti necessari rimanderemo la
legge al Senato che potrà approvarla in fotocopia», risponde D’Attorre. La minoranza alza
il tiro anche sul Jobs Act (che scatta il 1 marzo), sul decreto fiscale (che torna in consiglio
dei ministri il 20) e sulla riforma del Senato. «Con o senza patto del Nazareno per noi non
cambia nulla. Ci sono cose che vanno perfezionate », insiste D’Attorre. Per Renzi e il suo
pallottoliere invece cambierà qualcosa. «È morto il patto? Ce ne faremo una ragione »,
attacca Nico Stumpo su Facebook ironizzando sul sarcasmo renziano.
Adesso il premier si vuole mettere in finestra, vedere cosa succede in Forza Italia. «Li
lasciamo sfogare, poi però devono decidere». Sa che il patto del Nazareno è in realtà lo
schermo di lotte intestine. Berlusconi ha bisogno di fare la voce grossa contro Verdini
perché il suo cerchio magico glielo chiede. E contro Raffaele Fitto togliendogli il principale
argomento di contrasto interno ovvero l’innamoramento verso il premier. In questa fase
dunque appare inevitabile che da Arcore partano minacce verso l’accordo sulle riforme:
servono a regolare la faida, soprattutto nei confronti di Verdini considerato davvero troppo
vicino a Renzi e al suo braccio destro Lotti. Per testare l’affidabilità del senatore toscano di
Fi, i fedelissimi di Berlusconi stanno anche cercando un proprio canale di comunicazione
con Palazzo Chigi e lo hanno trovato. Ma è solo un problema della delegazione che tratta
con Renzi? Se è così lo strappo di un giorno o di una settimana rischia di essere un altro
boomerang per gli azzurri.
del 05/02/15, pag. 4
La resa dei conti.
A 24 ore dall’insediamento di Mattarella, Forza Italia salta per aria. Già
pronte le grandi manovre tra i gruppi avversi per accaparrarsi la
leadership. Berlusconi tenta di spegnere il fuoco avvertendo Renzi che
non voterà nulla a scatola chiusa. Ma un drammatico consiglio di
presidenza ratifica la rottura
Verdini, Fitto e i fedelissimi quelle tre fazioni
in lotta tra odi personali e vendette
Così esplode il partito di Silvio
CARMELO LOPAPA
ROMA .
Passano nemmeno 24 ore dall’insediamento di Sergio Mattarella al Colle, che Forza Italia
salta per aria. E si spacca in tre blocchi.
C’è quello dei pretoriani del capo, intanto, che si strutturano e si organizzano in corrente
per far fronte in battaglia alla squadra di Raffaele Fitto, la più agguerrita con i suoi 36, e al
team ristretto ma potentissimo e Denis Verdini, in questi giorni nell’angolo. Nella stanza di
Maria Rosaria Rossi nella sede del partito in San Lorenzo in Lucina martedì sera si
ritrovano una quarantina di big. «Qui bisogna stare insieme, perché noi siamo Forza Italia,
noi siamo dalla parte di Berlusconi» si dicono in quella stanza affollata. Ci sono la Gelmini
e Fiori, la Ravetto e Gasparri. È ormai la resa dei conti — che ha tutta l’aria di essere
brutale e finale — nel corpaccione del grande sconfitto nella partita per il Quirinale. Brutale
perché attraversata da faide e odi personali, in quella sorta di corte medievale che Silvio
Berlusconi fa ormai fatica a governare.
30
Ne fa le spese il patto del Nazareno, che il documento illustrato ieri dal leader all’ufficio di
presidenza adesso quasi disconosce. Quasi, appunto, perché nel discorso anti-Renzi
dell’ex Cavaliere in realtà non si parla mai di rottura, di chiusura definitiva sul cammino
delle riforme: «Noi restiamo un’opposizione responsabile, ma non approveremo più nulla
che non ci convinca appieno » è la linea dettata da Berlusconi. Che è tornato a
prendersela col premier. «Per me Mattarella resta una figura di tutto rispetto, nulla da
eccepire, è il metodo col quale Renzi ha provato a imporcelo che per noi era inaccettabile
». Toccherebbe a Giovanni Toti fare il duro davanti alle telecamere: «Per noi il patto è
rotto, congelato, finito», salvo aggiungere che «certo noi non faremo i kamikaze ». E quel
«meglio così», «mani libere», «ci interessa l’Itano e non Forza Italia» di Serracchiani, Lotti,
Boschi dal quartier generale pd non hanno rasserenato gli animi. Ma ci saranno cinque
giorni per ricostruire, prima che martedì si torni nel vivo della riforma costituzionale a
Montecitorio. «La verità — come racconta un dirigente della cerchia più ristretta — è che
ormai le riforme sono andate, noi quel che potevamo dare e fare lo abbiamo fatto: ora
Renzi può anche fare a meno di noi e Forza Italia può smarcarsi e fare il muso duro».
Dalla ripresa dei lavori d’aula si capirà qualcosa in più sulle reali intenzioni di Berlusconi.
Certo è che ieri mattina, nel giro di un paio d’ore, Forza Italia è andata in frantumi. Il leader
decide per il colpo di mano. Convoca a Palazzo Grazioli l’ufficio di presidenza ristretto, al
quale posso- prendere parte solo gli aventi diritto al voto, una trentina, presenti poco più di
venti. Chi non viene ammesso protesta («Basta con riunioni furtive», la Biancofiore
fuoriosa). Il capo vuole chiudere lì l’analisi della disfatta sul Colle e sulle riforme. Si fa
trovare anche Denis Verdini, additato con Gianni Letta come il responsabile principale, il
«duo tragico» come l’ha battezzato la Rossi. Sta seduto da solo in un banco. A sentire i
suoi, Verdini è la prima persona che Berlusconi è andato a salutare appena arrivato, gli
altri diranno l’esatto opposto: «Isolato, mai avvicinato, silenzioso, andato via senza un
saluto». L’ex premier illustra il documento di una paginetta messo a punto con i fedelissimi
la sera prima a cena, con cui si smarca sulle riforme senza alcun cenno alla spaccatulia ra
del partito. Renato Brunetta prende tutti in contropiede e ne approfitta per rassegnare le
dimissioni (e farsele respingere seduta stante mettendo in difficoltà il Cavaliere). «Un
errore, così si rischia di fare un favore a Fitto che invoca l’azzeramento», fa notare
Mariastella Gelmini. Detto questo, fanno altrettanto i vicecapogruppo Anna Maria Bernini
(Senato) e la stessa Gelmini (Camera).
Non lo farà affatto il capo a Palazzo Madama, Paolo Romani, non ritenendosi responsabile
di alcunché, a differenza del collega. Il documento verrà discusso e approvato
dall’assemblea dei gruppi, prima sconvocata per ieri pomeriggio e rinviata a mercoledì
prossimo. Ma negli istanti in cui Berlusconi riunisce l’ufficio ristretto, Raffaele Fitto convoca
seduta stante una conferenza stampa a Montecitorio. Spara ad alzo zero. L’ex Cavaliere
viene informato e si lamenta: «Ma come, ieri sera (martedì, ndr) ho parlato a lungo con
Fitto, ci siamo lasciati con un abbraccio e la promessa di risentirci l’indomani e poi lui non
viene al comitato di presidenza e mi fa una conferenza stampa contro?» L’eurodeputato
pugliese è furente. Pronto ormai a rispondere colpo su colpo. «Non c’è stato alcun
abbraccio e ormai sarà guerra totale, giorno dopo giorno» spiega ai suoi. Vero è invece
che in quella sera a cena gli ha offerto una carica di coordinatore non prevista nello
statuto. Lui e la sua corrente sono già pronti. Da fine febbraio parte in giro per l’Italia.
Comizi e interviste tv locali, campagna a tappeto quasi fosse il leader di un altro partito.
Ma, dettaglio, sotto il simbolo di Forza Italia. È quel che più fa impazzire Berlusconi. Il
timore diffuso, al quartier generale, è che nel giro di qualche settimana si possa chiudere
l’asse tra i due big, Verdini (coi suoi Abrignani, D’Alessandro, Fontana e altri) e Fitto (con
Saverio Romano, Capezzone, Sisto e tanti altri). Magari per sovvertire gli equilibri dentro i
gruppi parlamentari. Per adesso Fitto alza il tiro. «Sono stati commessi errori clamorosi
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sulle riforme e sul Colle. Resto nel partito e porto avanti la battaglia, vanno azzerati tutti i
vertici, basta con i nominati dall’alto», attacca davanti ai giornalisti. E rincara: «Non
possiamo più partecipare a organismi di partito come l’ufficio di presidenza che per quanto
ci riguarda non hanno alcuna valenza né legittimazione statutaria e politica». Quanto al
patto del Nazareno stracciato non è disposto a scommettere: «Finché non vedo non
credo, vorrei vedere concretamente che le parole si trasformassero in fatti». Parte in tour
ma si terrà lontano dalle aree delle regionali, «perché anche di quell’altra disfatta dovrà
farsi carico Berlusconi» dice in privato ai colleghi.
Verdini per adesso tace. Attende. Assai amareggiato, lo definiscono i fedelissimi. Anche
con Renzi. Ma soprattutto contro la Rossi, Toti e chi sta provando a neutralizzarlo: «Ma ti
rendi conto di quel che ha detto quella nell’intervista rilasciata?» è sbottato nel colloquio di
due ore con Berlusconi martedì pomeriggio a Grazioli, Gianni Letta al suo fianco. «Prima
di fare i conti meglio attendere il 20 febbraio — dice uno dei più vicini al toscano — Se
Denis porta a casa il 3 per cento sull’evasione nella delega fiscale del governo, allora tutto
tornerà a ruotare».
Del 5/2/2015, pag. 6
La strada stretta dell’ex premier e la partita
dell’azienda di famiglia
La rottura dell’accordo con Renzi va inquadrata oltre il recinto della
politica
ROMA Berlusconi non ha rotto il patto del Nazareno, ha rotto lo specchio che avrebbe
dovuto magicamente trasformare la proiezione dei suoi desideri in realtà. È la fine di un
incantesimo di cui Renzi si è servito prima di porre il suo «alleato di opposizione» dinnanzi
al bivio del prendere o lasciare. E se è vero che agli occhi del leader di Forza Italia il
premier ha assunto le sembianze di «una iena», è altrettanto vero che nell’ultimo lunedì di
Arcore — quello dedicato ai figli e agli amici di una vita — c’è stato chi ha ricordato al
padrone di casa come, «nonostante tutto, questo governo in un anno ha fatto per le nostre
aziende molto più che i tuoi ministri in dieci anni».
Eppoi certo, l’opinione comune a quel desco era che — per quanto bravo e sveglio — di
Renzi non ci si dovesse fidare ciecamente, sebbene il moto istintivo che appartiene a
Marina Berlusconi non fosse un consiglio, tantomeno una critica rivolta al genitore, che
invece in Renzi credeva e a Renzi credeva. Semmai è stato un gesto solidale in vista della
decisione: «Fai la cosa giusta». E il padre, che si è sentito tradito, ha mandato in frantumi
lo specchio, destandosi da un sogno che era a sua volta il sequel di un altro sogno.
Ma davvero era solo un sogno? Perché in tal caso la rottura tra il premier e l’ex premier
andrebbe confinata nel recinto della politica, alla partita sul Quirinale: «E il patto — dice
Berlusconi — è che non si sarebbe proceduto oltre se io non fossi stato d’accordo sulla
scelta». Non c’è dubbio che abbia commesso degli errori nella trattativa, come sostiene
Gianni Letta, secondo cui «non ci si siede al tavolo con un solo nome». Però alla vigilia del
voto in Senato sulla legge elettorale — quando Renzi aveva estremo bisogno di Forza
Italia — la vicesegretaria del Pd Serracchiani disse in un’intervista radiofonica che «il
prossimo presidente della Repubblica lo voteremo insieme a Berlusconi».
Le cose sono andate diversamente, anche se l’ex premier è convinto che Renzi abbia fatto
male i conti con il successore di Napolitano, «perché lui pensa di trarne vantaggio, ma non
sarà così. Mattarella è un cattolico integralista e alla lunga questa scelta gli si ritorcerà
32
contro». Si vedrà, e comunque sono valutazioni che stanno ancora tutte dentro il perimetro
della politica. Il punto è se c’era e c’è dell’altro, oltre l’intesa sulle riforme costituzionali e
l’Italicum. Bisognerebbe forse seguire le tracce lasciate dall’avvocato-onorevole Ghedini
negli ultimi tempi per verificare se quello di Berlusconi era davvero solo un sogno.
È un percorso punteggiato da indizi lasciati sul sentiero: senza andar dietro i boatos sulle
modifiche alla legge Severino e sulla prescrizione, andrebbe capito come mai — a ridosso
della sfida per il Colle — è stato perso del tempo per raccontare all’ex premier la storia del
comandante partigiano comunista Moranino, scappato in Cecoslovacchia dopo una
condanna per omicidio plurimo aggravato ai tempi della Resistenza, e graziato da Saragat
appena salito al Quirinale. Ecco lo specchio dove Berlusconi vedeva i suoi desideri
prender corpo. Era solo un incantesimo? Perché è stato Renzi a tracciare il solco del
decreto fiscale, ed è andata la Boschi in tv a difenderlo. Perché il premier l’altra sera a
«Porta a Porta» ha accennato all’affaire Telecom-Mediaset dopo aver detto che «sulle
riforme non mi faccio ricattare da Berlusconi».
Nonostante questi segnali, il cristallo si è ugualmente rotto. E appena ieri se n’è sentito il
frastuono, nel dibattito politico si è inserito un sottosegretario di solito silenzioso come il
democratico Giacomelli, che nel governo ha una delega particolare, l’emittenza: «Sono
dispiaciuto che si possa interrompere un clima positivo». Confalonieri conosce Giacomelli,
una volta lo descrisse come «un politico pragmatico e lontano dai furori ideologici», e si
disse perciò convinto della bontà della linea del governo, «improntata alla difesa delle
aziende italiane, che sono un patrimonio nazionale».
Quando i suoi collaboratori gli hanno consegnato quel dispaccio di agenzia, il patron del
Biscione si è chiesto se la dichiarazione fosse una casualità o un avvertimento, che
ribalterebbe l’accusa sul conflitto d’interessi per venti anni addebitata a Berlusconi.
«Lasciamo che la polvere si posi», si è limitato a dire, senza far capire quale risposta si
fosse dato. Perché, se lo specchio si è rotto, in qualche modo il patto può ancora essere
politicamente reincollato. È Berlusconi che dovrà decidere, dopo aver urlato l’altra sera in
faccia a Verdini la sua rabbia: «Mi hai portato in un vicolo cieco». No, lo portò al Nazareno,
dove Renzi prima lo adulò, «qui sono circondato da milanisti», poi lo dileggiò alle spalle:
«Voleva Amato, allora mi son fatto vedere con Cantone e si è messo paura che lo volessi
davvero candidare al Quirinale». Un anno dopo a Berlusconi è chiaro che quel patto non
era la sua «legittimazione». Era una gabbia da cui ora è difficile uscire. Infatti ha rotto lo
specchio, non il patto.
Del 5/2/2015, pag. 14
Evasione, tolleranza per chi sbaglia
Ma niente salvacondotto sulle frodi
Il testo sul 3% passa a Palazzo Chigi. Orlandi: controlli a rischio con il
raddoppio dei tempi
ROMA Verrà sciolto con ogni probabilità entro questa settimana dal premier in persona il
nodo della soglia di non punibilità penale del 3% dell’imponibile per i reati fiscali, introdotto
da uno dei decreti attuativi della delega fiscale, approvato alla vigilia di Natale in Consiglio
dei ministri, e poi ritirato da Matteo Renzi.
Tra ritirare l’articolo 19 bis, su cui si sono allungate le ombre di un possibile aiuto a Silvio
Berlusconi, condannato in via definitiva per frode fiscale, e lasciarlo così com’è,
infischiandosene delle polemiche, starebbe prevalendo una via di mezzo: eliminare la
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fattispecie della frode tra quelle dei reati cui verrebbe applicata la soglia del 3% (o più
bassa: 1-2%). Qualche traccia di questa intenzione è emersa prima dalle parole del
ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, che ha richiamato il «modello francese», poi
da quelle dello stesso premier che, ospite di Porta a porta, ha detto: «Se l’evasore sbaglia
con una piccolissima differenza, dell’1-2%, si può discutere: lo facciamo pagare il doppio
ma non gli diamo il penale». Di errore dunque si sta parlando e non di frode.
In termini più tecnici verrebbero esclusi dalla depenalizzazione al di sotto di una certa
soglia i reati oggi previsti agli articoli 2, 3 e 8 del decreto legislativo 74/2000: dichiarazione
fraudolenta mediante uso di fatture o di altri documenti per operazioni inesistenti,
dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici e emissione di fatture o altri documenti per
operazioni inesistenti. Rientrerebbe nella depenalizzazione la dichiarazione infedele, cioè
il reato commesso da chi, «al fine di evadere le imposte dirette o l’Iva (senza un impianto
fraudolento, ma comunque consapevolmente e volontariamente), indica elementi attivi per
un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi. Un reato oggi punibile a
condizione che l’imposta evasa sia superiore a 50 mila euro e il totale degli elementi attivi
sottratti all’imposizione sia superiore al 10% degli importi dichiarati o comunque superiore
a due milioni di euro. Requisiti peraltro elevati dal nuovo decreto fiscale rispettivamente a
150 mila euro e a tre milioni di euro, non senza ulteriori polemiche.
Ma tra i punti controversi, su cui si è appuntata l’attenzione dell’Agenzia delle Entrate, c’è
anche la norma del decreto che dispone il raddoppio dei termini di accertamento per frodi
fiscali che non farebbe salvi gli atti notificati dall’entrata in vigore del decreto fiscale.
Secondo Rossella Orlandi, capo dell’agenzia, questa norma metterebbe a rischio circa 20
mila controlli e un gettito di oltre 16 miliardi tra maggiori imposte accertate, sanzioni e
interessi. Il timore che l’attenzione mediatica su come cambierà la norma del 3% possa
oscurare il complesso lavoro condotto dal ministero dell’Economia che arriverà in
Consiglio dei ministri il 20 febbraio, potrebbe indurre Renzi a sollevare il velo sulle sue
decisioni con qualche anticipo.
Antonella Baccaro
del 05/02/15, pag. 6
Spunta il ministero del Sud Renzi: “Spetta a
una donna” In corsa la Finocchiaro
Il premier pensa a un tour in Italia per spingere la ripresa: dalle zone di
crisi a quelle della ripartenza
FRANCESCO BEI
ROMA .
«Ripartenza dell’Italia» e ripartenza anche del governo. Incassato il risultato sul Quirinale,
messo in sicurezza l’Italicum, Matteo Renzi da ieri ha iniziato a pensare a come impiegare
i prossimi mesi. Certo, c’è da scrivere il Documento di Economia e Finanza da presentare
in aprile, ma per lo “story telling” del premier i freddi dati della Ragioneria non possono
bastare. Così a palazzo Chigi hanno iniziato a studiare un tour italiano del presidente del
Consiglio.
Un giro d’Italia, raccontano, «nei luoghi del lavoro, nei luoghi della crisi e della ripartenza».
Prima tappa probabilmente a Melfi, ormai un topos del renzismo. È nella fabbrica gioiello
Fca — che sforna i nuovi modelli di successo Jeep Renegade e 500X — che il premier
vuole farsi vedere, insieme a quegli operai riassunti, come ha detto Marchionne, «grazie al
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Job Act». E cancellare le immagini con cui si era chiuso il 2014, con Renzi fischiato e
contestato dalle tute blu Cgil ovunque si presentasse. Sfruttare l’onda positiva di Mattarella
per cavalcare il consenso che i sondaggi iniziano a registrare. E allontanare la sua
immagine da quei palazzi della politica dove è stato rinchiuso nelle ultime settimane.
Per andare al Sud e sfondare anche in quell’elettorato che finora è apparso più tiepido nei
suoi confronti, il capo del governo ha in mente un’altra mossa in tempi brevi. Rottamare il
burocratico ministero degli Affari regionali e istituire, ora che la ministra fantasma Lanzetta
si è dimessa, un nuovo ministero per il Mezzogiorno. Nome dal sapore antico di
democristianeria. Al quale dovrebbe andare Anna Finocchiaro, anche se la presidente
della prima commissione di palazzo Madama (sacrificata al Quirinale in favore di
Mattarella) potrebbe essere messa in pista per sostituire il nuovo capo dello Stato alla
Corte costituzionale. Se così fosse il nuovo ministero sarebbe assegnato a una giovane
donna del Sud. In lizza sono ancora tante, in queste ore vengono vagliati i curricula delle
parlamentari Pd Magda Culotta, Valentina Paris, Stefania Covello e Vincenza Bruno
Bossio. Ma c’è un’altra donna-simbolo del Mezzogiorno che ha colpito il premier: si tratta
della giornalista Elvira Terranova, premiata dalla regione Sicilia con la medaglia d’oro al
valor civile per aver salvato molte vite umane durante uno sbarco a Lampedusa. Resta
invece in sospeso la questione della delega sui fondi europei, attualmente nelle mani
Graziano Delrio. Se la prescelta fosse Finocchiaro, il ministero del Mezzogiorno potrebbe
infatti essere “appesantito” da questa importante competenza. Dietro l’enfasi sulla
creazione del dicastero Sud c’è anche l’attenzione di Renzi per gli equilibri della
maggioranza, in particolare al Senato. Dove, se davvero il patto del Nazareno dovesse
saltare, i numeri per il governo diventerebbe ballerini. Tanto che l’Italicum a palazzo
Madama è passato per il rotto della cuffia: senza Forza Italia ci sarebbero stati solo tre voti
di scarto. Da ieri il radar di palazzo Chigi è tornato a quindi scannerizzare tutti i possibili
senatori in avvicinamento o avvicinabili. Si guarda soprattutto al gruppo Misto, dove sono
andati a finire i sei senatori ex Cinque Stelle che hanno votato per Mattarella, senza
scartare il gruppo di area centrodestra Grandi autonomie e libertà. In quel contenitore
variegato, tolti i tre popolari di Mario Mauro, i cinque paraforzisti e Giulio Tremonti (vicino
alla Lega), restano sei voti di senatori non ostili. Che presto potrebbero ricevere una
telefonata da un numero che inizia con 06-6779...
del 05/02/15, pag. 20
“Sì alle unioni civili”, Tosi rompe il tabù
leghista
LAURA SERLONI
UN SÌ che fa scalpore. Flavio Tosi riconosce le coppie di fatto, anche Verona avrà il suo
registro delle unioni civili gay ed eterosessuali. Il sindaco leghista scompagina le carte,
accantona le questioni ideologiche e dà il via a una vera e propria svolta in casa
Carroccio.
Già nei mesi scorsi il primo cittadino veronese aveva più volte dimostrato, con interviste e
dichiarazioni, la sua apertura sui diritti delle coppie non sposate, ma ieri è arrivato il via
libera ufficiale della giunta comunale. Gli uffici dell’Anagrafe rilasceranno un attestato per il
riconoscimento «delle famiglie anagrafiche unite da vincolo affettivo» caratterizzate da una
convivenza stabile e duratura. Torna indietro nel tempo, esattamente a 25 anni fa, il
sindaco e segretario della Lega Nord che per l’attuazione ora si rifà a «una legge del
35
1989» che a Verona «sarà adesso attuata». «Si tratta — spiega — di un primo passo nel
riconoscimento delle cosiddette coppie di fatto, date le mutate esigenze della società
contemporanea e l’evidente discrasia tra realtà sociale e disciplina giuridica».
Dopo i sì di Roma, Milano, Firenze, Bologna, Tosi ha ammesso di non poter più far finta
che le coppie di fatto non esistano e in più occasioni ha ricordato che la questione investe
migliaia di persone. «Nel giro di qualche settimana — sottolinea il sindaco — il Comune
sarà in grado di rilasciare un attestato a tutte le coppie conviventi da almeno due anni per
il riconoscimento di alcuni diritti, senza interferire con la vigente normativa in materia di
anagrafe e di stato civile, con il diritto di famiglia e con altre leggi di tipo civilistico».
Il documento sarà rilasciato dopo un anno di convivenza, se uno dei due partner ha più di
settanta anni, o immediatamente nel caso di conviventi con figli in comune o di coppie che
hanno già ottenuto un medesimo riconoscimento in un altro Comune. L’attestato
«permetterà ai conviventi di far valere i propri diritti, quale coppia, per ottenere
informazioni sullo stato di salute del convivente, per l’assistenza in strutture sanitarie in
caso di degenza o per l’accesso a documentazione presso le Pubbliche Amministrazioni».
Ecco spiegato il perché molti l’hanno chiamata “svolta Tosi”.
«L’attestato — continua a spiegare minuziosamente il sindaco — permetterà di fruire di
agevolazioni per i servizi rivolti a coppie, giovani, genitori e anziani, per lo sport e il tempo
libero, e di aver accesso ai servizi sociali e ad attività di sostegno e aiuto nell’educazione».
Poi ricorda che a Verona da tempo «le coppie con figli, a prescindere dal fatto che siano o
meno sposate, hanno pari diritti per l’accesso ai nidi, ai servizi per l’infanzia e per la
richiesta di case popolari». E su quest’ultimo punto si dilunga in una precisazione: «La
normativa per l’assegnazione di alloggi popolari non verrà modificata per le coppie
conviventi senza figli, sono così tante le richieste avanzate da famiglie con bambini che
comunque le prime non entrerebbero in graduatoria».
Del 5/2/2015, pag. 5
Diritti civili, se ne riparla dopo marzo
IL TESTO CIRINNÀ IMPANTANATO IN COMMISSIONE DOVE
GIOVANARDI VUOLE RISCRIVERLO PEZZO PER PEZZO. SE NESSUNO
FA OPPOSIZIONE, PREVEDE LA RELATRICE, FORSE TRA UN PAIO DI
MESI ARRIVA IN AULA
La relatrice Monica Cirinnà, senatrice democratica, scandisce perentoria: “Il testo che
riguarda le unioni civili tra persone dello stesso sesso e regolamenta le coppie di fatto non
sarà rallentato in Commissione Giustizia. Spero che per marzo arrivi in aula”. Evviva. Il
ministro Maria Elena Boschi, forse non più intimorita dai ricatti di Ncd, garantisce: “Avanti,
a breve sarà approvato”. Doppio evviva. Ma il governo ignora gli alleati, il gruppo dem
sottovaluta la fronda di Carlo Giovanardi e colleghi di confessione alfaniana e
berlusconina. E allora, emotivamente coinvolta, Cirinnà ammette: “A marzo? Sì, ce la
faremo senza l’ostruzionismo di Ncd”. NON FAI NEANCHE in tempo a porre la domanda a
Giovanardi che, battagliero, s’avventura in paragoni azzardati, e non ironici, per dimostrare
che quel testo non sarà mai vidimato in Commissione e non vedrà mai l’emiciclo di
palazzo Madama: “Quando Matteo Renzi avrà una maggioranza più ampia e non avrà le
larghe intese, potrà fare qualsiasi cosa. Sta con noi? Bene, e dunque la legge Cirinnà
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verrà respinta. Per me due Memores Domini, due laiche che giurano obbedienza, castità e
povertà, possono convivere, non mi interessa se vanno a letto, ma di certo non possono
prendere un bambino sfruttando il corpo di una donna africana, non possono affittare uteri
o uomini. Io non sono contrario ai diritti per i singoli cittadini, ma non posso manomettere e
non rispettare la Costituzione. Con questo provvedimento, gli omosessuali potrebbero
persino adottare un bambino. Il passo è breve, pericoloso per me”. Giovanardi prevede
catastrofi: “Io rifletto: cosa accadrebbe? Non riusciremmo più ad adottare i bambini, i paesi
che collaborano con l’Italia ci potrebbero chiudere in faccia le frontiere. Anzi, ne sono
sicuro. Gay e lesbiche possono venire riconosciuti come “formazioni sociali”, distinti da
una famiglia tradizionale. E basta”. Il concetto pare abbastanza ampiamente illustrato, ma
Giovanardi vuole fare un ulteriore esempio per non essere frainteso. Sì, Giovanardi è
apprensivo: “A chi mi contesta, faccio un ragionamento. Nel caso ci fosse un’epidemia o
una sanguinosa guerra e restassero soltanto due uomini, come fanno a mettere al mondo
un bambino? Chi conserva la specie umana?”. UN GIOVANARDI omosessuale non
potrebbe desiderare un figlio? “Non saprei come fare, e poi c’è bisogno di una mamma e
di un papà, non di un paio di mamme o un paio di papà”. Queste sono le premesse, e non
sono pregne di ottimismo. Cirinnà è diligente, s’è fatta un programma, o meglio un
“cronoprogramma” che assicura di aver sottoposto a Matteo Renzi. E il presidente ha
timbrato. Il testo Cirinnà, prima di essere accolto dai commissari, ha consumato numerose
sedute per raccogliere il parere degli esperti, indicati in tre unità per ciascun gruppo:
costituzionalisti, docenti di diritto di famiglia, psicologi dell’infanzia. La ricostruzione di
Cirinnà: “Il procedimento è avanzato senza incidenti, avevamo finito, poi…”. Il senatore
Giovanardi suggerisce al presidente Nitto Palma, esponente di Forza Italia, di ascoltare
anche le associazioni. E Giovanardi presenta un elenco per rafforzare la propria tesi che,
in maniera spicciola, può essere riassunta così: “Il testo è sbagliato, ricominciamo da
capo. O da Giovanardi”. Cirinnà è convinta che il tornante Giovanardi sia superabile senza
sbandare troppo, senza stravolgere niente. Dopo che la Commissione avrà adottato il
testo costituito dal doppio titolo (coppie di fatto e omosessuali), la Cirinnà dovrà affrontare
gli emendamenti: “Temo una caterva di proposte di Ncd. Ricorda i pacchi di fogli che
Roberto Calderoli portò per smontare la legge elettorale Italicum?”, spiega la senatrice
dem. Il canguro, l’emendamento che ammazza gli emendamenti, risolse la partita a
palazzo Madama. Per la Commissione, Cirinnà non conosce antidoti. Giovanardi è
inscalfibile, non valuta neanche l’ipotesi che il ddl Cirinnà possa diventare legge: “I numeri
sono in nostro favore. Ci sono almeno trenta senatori democratici pronti a impallinare il
testo. Se la sinistra femminista pensa che queste norme siano un progresso, noi
replichiamo che si tratta di una cosa vergognosa”. Diciamo che marzo è una data a caso.
Del 5/2/2015, pag. 13
Il decreto Renzi salva l’Ilva dai risarcimenti
alle vittime
LE SOCIETÀ DEI RIVA ESCLUSE DAL PAGAMENTO DEI DANNI. OGGI VERTICE A
PALAZZO CHIGI
Il l gelo è arrivato ieri mattina, quando il gup del tribunale di Taranto, Vilma Gilli, ha accolto
le eccezioni sollevate dai legali di Ilva spa, di Riva Fire e di Riva Forni Elettrici: le tre
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società sono escluse dalla responsabilità civile. In caso di condanna, non dovranno
risarcire le vittime, perché l’ultimo decreto del Governo Renzi – equiparando di fatto
l’amministrazione straordinaria al fallimento – le mette al riparo dalle pretese risarcitorie.
Le parti civili, in caso di condanna, potranno rivalersi sui singoli imputati, oppure rivolgersi
al Tribunale fallimentare di Milano. L’IPOTESI del risarcimento non scompare del tutto, ma
diventa farraginosa, e anche rischiosa: non è detto che i familiari possano ottenere ciò che
chiedono. E vedremo perché. “Decreto salva Ilva? Chiamiamolo con il suo vero nome: è
l’ennesimo decreto ‘ ammazza gente’”, commenta Amedeo Zaccaria, padre di Francesco,
morto a 29 anni su una gru, lavorando nell’Ilva. “È l’ennesima manovra politica perché i
Riva possano risparmiare soldi sulla pelle delle persone. Da quando ho perso mio figlio,
ho perso anche la fiducia in qualsiasi istituzione, ho avuto un infarto per la rabbia
accumulata in questi anni. La realtà è semplice: c’è chi all’Ilva ha fornito il carbone. Bene,
da padre le dico che oggi anch’io mi sento trattato alla stregua di un fornitore. Il fornitore di
una vita umana: quella di mio figlio, che vale quanto il carbone, se non di meno”. E quindi:
da ieri, la strada per ottenere il risarcimento, si trasforma in un penoso percorso a ostacoli,
come se già non bastasse la pena delle vittime e dei loro famigliari. Parliamo dei famigliari
degli operai morti negli incidenti sul lavoro, o ammazzati dal cancro, oppure degli allevatori
che hanno dovuto abbattere centinaia di capi di bestiame, dei miticoltori che hanno perso il
lavoro, a causa dell’inquinamento che ha avvelenato il mar Piccolo e riempito di diossina
le sue cozze. “Due casi di tumore in più all’anno… una minchiata…”, minimizzava Fabio
Riva, al telefono, leggendo una relazione tecnica dell’Arpa. “È la morte del diritto e della
democrazia – commenta Angelo Bonelli, portavoce nazionale dei Verdi, anch’essi tra le
circa 800 parti civili – negare i risarcimenti ai parenti delle vittime e alle altre parti civili
significa condannarli ancora a morte. Questa norma consente alle aziende che hanno
realizzato enormi profitti sulla salute di operai e cittadini di poter conservare i propri tesori
nei conti correnti bancari. Grazie a un provvedimento dello Stato italiano, da oggi, viene
vanificato il principio che chi inquina paga”. Oggi il dossier Ilva sarà nuovamente sul tavolo
di Palazzo Chigi: è previsto un vertice con il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, per
definire gli emendamenti al decreto all’esame del Parlamento. Ma nel frattempo, da ieri, le
tre società dei Riva sono escluse dal risarcimento per le vittime nel processo penale in
corso, nel quale Nicola e Fabio Riva sono accusati di associazione per delinquere
finalizzata al disastro ambientale: l’Ilva è entrata in amministrazione straordinaria, mentre
le altre due società, al momento dell’incidente probatorio del 2012, non erano presenti. È
IN BASE a questo mix, tra il decreto Marzano e l’assenza nell’incidente probatorio, che le
società approdano a questo risultato. “Oltre il danno – continua Amedeo Zaccaria –
dobbiamo subire anche la beffa: mio figlio non c’è più da tre anni, e ogni giorno devo
lottare con il fatto che un processo diventa una partita a poker, bluff inclusi, e da padre ho
il diritto di dubitare che tutto questo sia stato programmato, che le istituzioni manovrino per
evitare danni ai Riva e a tutti gli imprenditori che si comportano come loro. Io l’ho perso,
non potrò più riaverlo, aveva 29 anni e da soli 4 giorni stava coronando il suo sogno di
formarsi una famiglia. Sulla pelle di mio figlio quale partita si sta giocando?”. Una partita
molto complessa. Perché, in caso di condanna, al termine del processo penale. Amedeo e
le altre parti civili, potranno chiedere ai Riva il risarcimento del danno, ma solo come
persone fisiche. E non è detto che il patrimonio personale dei singoli imprenditori sia
sufficiente a risarcire i danni che, teoricamente, potrebbero arrivare fino a 30 miliardi. Basti
pensare che quando la procura di Milano ha sequestrato 1, 2 miliardi agli imprenditori
dell’acciaio, in realtà ha trovato soltanto 600 milioni. A quel punto, le parti civili, dovrebbero
avviare nuovi accertamenti patrimoniali, con ulteriori spese e perdite di tempo. Oppure
rivalersi in sede fallimentare, come “creditore privilegiato”, perché il credito deriva dal
risarcimento per il reato subìto. “Sono equiparato a un creditore, a un fornitore di carbone,
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come se avessi fornito anche la materia prima: mio figlio”, dice il padre di Francesco
Zaccaria che, paradosso del linguaggio giuridico, tra i creditori risulterebbe persino un
“privilegiato”.
Del 5/2/2015, pag. 7
Mai più scrittori alla sbarra
“Il Tav va sabotato” è la frase che è costata a Erri de Luca il rinvio a giudizio a Torino per
istigazione a delinquere. Si riveriva al treno ad alta velocità in Val di Susa. Il processo è
iniziato il 28 gennaio. Pubblichiamo un intervento dello scrittore.
Fosse capitato a un altro scrittore, poeta, filosofo, scienziato di essere incriminato per la
sua parola contraria, sarei andato al suo processo. Avrei voluto ascoltare gli argomenti
della pubblica accusa e della parte civile, per sapere in che tempo e in che Paese mi
trovo. Nell’aula 52 del Tribunale di Torino il 28 gennaio 2015 c’era, fitta in piedi come in
tram, una piccola folla di lettori. Di scrittori erano presenti un uomo, Fabio Geda, e una
donna, Laura Pariani, a nome personale e non delegati di una categoria assente. Fuori di
quell’aula e nei giorni precedenti altri gruppi di lettori si riunivano per leggere a voce alta le
pagine di uno scrittore incriminato. Non credo sia successa prima una simile volontà di
difendere con appuntamenti di letture uno scrittore sotto processo. In piccoli e grandi
centri, in Italia e all’estero, alla pubblica accusa ha risposto la pubblica difesa, spontanea e
corale. Spero non dispiaccia ai miei avvocati Alessandra Ballerini e Gianluca Vitale, che io
assegni a queste letture il primato della mia difesa. Poi lo assegno all’editore dei miei libri,
Feltrinelli, che ha voluto pubblicare La Parola Contraria a un prezzo minimo, utile allo
spargimento. Lo stesso succede in Francia, Germania, Spagna. Devo alla stampa estera
un’attenzione che costringe quella nostrana a seguire il processo con un imbarazzato
sforzo di obiettività. Comunque vada il caso giudiziario, ho potuto spiegare le mie ragioni.
Per questo non presento appello in caso di condanna. Il mio pacco di sale l’ho sparso sul
terreno dell’accusa perché sia inservibile una seconda volta. Non sono il primo scrittore
incriminato, desidero essere l’ultimo.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 05/02/15, pag. 9
Il Pd si divide sull’anticorruzione
Orlando convoca un vertice per oggi. Ncd per la linea soft su
prescrizione, falso in bilancio L’Authority anti mazzette insiste: “Serve
una corsia preferenziale per il ddl Grasso”
LIANA MILELLA
ROMA .
Raffaele Cantone insiste, «serve una corsia preferenziale sul ddl anti-corruzione», ma
sono parole al vento. L’ha detto tante volte da quando è al vertice dell’Authority, lo ha
ripetuto ieri, giusto mentre al Senato andava in scena l’ennesimo scontro nella
maggioranza (Pd diviso, Ncd più con Forza Italia che con l’alleato di governo), foriero di un
nuovo rinvio. Succede da due anni, è accaduto pure ieri. Oggi il Guardasigilli Andrea
Orlando cercherà di metterci una pezza. Di buon mattino riunisce al Senato i responsabili
Giustizia, i presidenti delle commissioni Giustizia, i capigruppo dei partiti. Insomma, il solito
parterre.
E pure il solito diverbio su prescrizione, falso in bilancio, pene più dure contro la
corruzione, un’unica figura di reato per la concussione cancellando la legge Severino,
adesso anche la gola profonda per la corruzione, quelle operazioni sotto copertura che Pd
e M5S teorizzano, ma che Ncd rifiuta. È un film già visto. Appena eletto senatore del Pd
Piero Grasso presentò il suo ddl anti-corruzione, l’unico atto da parlamentare prima di
diventare presidente del Senato. Ma quel testo ha avuto vita difficile. Soprattutto perché il
governo ha voluto firmare la “sua” legge. Ancora oggi se ne lamenta il Pd Felice Casson:
«A giugno 2014 stavamo per votare, ma venne in commissione il sottosegretario alla
Giustizia Cosimo Ferri, ci chiese 30 giorni di tempo per attendere il testo del
governo...Siamo ancora qui ad aspettare...». Il governo ha approvato il suo ddl il 30 agosto
che, poco prima di Natale, si è trasformato in un emendamento al ddl Grasso. Su questo
ora si litiga. Un pasticcio che vede la prescrizione alla Camera per emendare il ddl
Ferranti, con la rissa sulla norma transitoria, il resto al Senato con il presidente della
commissione, forzista Nitto Palma, pronto a dichiarare inammissibili molti articoli del
governo, il Pd (Casson, Lumia, Capacchione, Cirinnà, Cucca, Filippin, Ginetti, Lo Giudice)
schierato su una versione molto più dura. Ncd ovviamente contrario. Nell’imbarazzo
politico ieri, in commissione, il relatore Nico D’Ascola, che è anche responsabile Giustizia
di Ncd, ha chiesto il rinvio. Il sottosegretario alla Giustizia, l’alfaniano Enrico Costa,
avrebbe dovuto dare i pareri del governo. Ma lo scontro con Pd sarebbe stato inevitabile.
Dice Casson: «Non c’è la volontà politica, perché se si vota maggioranza e governo si
spaccano. Ncd vota con Fi e Lega, il Pd con M5S». I grillini ci sguazzano, chiedono di
portare subito in aula il ddl, ma sono d’accordo solo Sel e Lega. Loro denunciano la
contraddizione tra gli applausi a Mattarella nel passaggio sulla corruzione e il rinvio sine
die.
Siamo al vertice di stamattina. Accordo difficile. Partiamo dalle operazioni sotto copertuil ra
per la corruzione: un emendamento Pd, primo firmatario Sergio Lo Giudice, la teorizza per
la corruzione. Ncd è contraria. Come Fi. Idem per la prescrizione. Il governo la vuole solo
“sospendere” dopo il primo grado, il Pd del Senato propone di “fermarla” dopo il rinvio a
giudizio o al massimo dopo il primo grado. Ncd sta col governo. Idem sul falso in bilancio,
dove Casson e Lumia vogliono eliminare le soglie del 5 e dell’1% che escluderebbero la
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punibilità «se il risultato economico, al lordo delle imposte, o una variazione del patrimonio
netto» le superano. Ancora Ncd e Pd divisi sugli aumenti di pena per la corruzione. Ncd
sta col governo che agisce solo su corruzione propria e 416bis, il Pd vuole far lievitare
abuso d’ufficio e traffico d’influenze, ma soprattutto vuole riunire la concussione lasciando
“morire” l’induzione. Ncd fa muro perché «la Severino ha già aumentato le pene e non ci si
può tornare sopra». La grana è sul tavolo di Orlando.
del 05/02/15, pag. 4
I testimoni di giustizia davanti a Palazzo Chigi
Marco Omizzolo - Roberto Lessio
Antimafia. I programmi di protezione a volte non bastano: fino alla sede
del governo per chiedere un posto nella Pubblica amministrazione. Così
da poter cominciare una nuova vita
Alcuni testimoni di giustizia si sono riuniti ieri pomeriggio, nonostante la pioggia e il freddo,
in sit-in sotto Palazzo Chigi. Preoccupati per la loro condizione, per gli impegni disattesi
dal governo Renzi, esasperati da promesse che, nonostante le rassicurazioni, tardano ad
arrivare, si sono ritrovati sotto il palazzo del potere per sensibilizzare il governo. Eppure
nessuno si è fatto vedere. In fondo pioveva anche per loro.
Uno dei punti nodali per i testimoni di giustizia riguarda la possibilità, riconosciuta per
legge, di procedere a un loro reale reinserimento sociale e lavorativo, attraverso
l’assunzione nella Pubblica amministrazione. Il decreto attuativo che prevede questa
misura dovrebbe essere pubblicato tra il 6 e 7 febbraio, almeno secondo le ultime
promesse.
Si deve invece evitare il vitalizio, come parrebbe nelle intenzioni del ministero dell’Interno,
il quale certificherebbe una sorta di assistenzialismo di Stato da rigettare, salvo casi
estremi.
Pochi i parlamentari presenti al sit-in. Tra questi Davide Mattiello (Pd), membro della
Commissione Antimafia e da sempre in prima fila su questi temi, che richiama la necessità
alla massima collaborazione istituzionale.
Rispondere alle necessità di chi ha aiutato lo Stato ad aprire processi contro le mafie e a
sequestrare e poi confiscare patrimoni illeciti per milioni di euro è un dovere assoluto. O
almeno dovrebbe esserlo.
I testimoni di giustizia in presidio si sono rivolti anche al neo eletto Presidente della
Repubblica Sergio Mattarella, sensibile alla lotta alla mafia per storia personale e impegno
pubblico assunto storicamente, chiedendogli di interessarsi direttamente della loro
vicenda.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Del 5/2/2015, pag. 10
Grand Hotel profughi Il Caronte che traghetta
le anime siriane
NEL LIMBO DEL PORTO TURCO DI MERSIN, LIMBO DOVE GLI
SCAMPATI ALLA GUERRA ATTENDONO LA NAVE PER L’EUROPA
Se gli occhi sono lo specchio dell’anima attraverso i quali si riesce a vedere l’essenza
dell’uomo, quelli di Abu Hasan parlano chiaro e ti bruciano lo sguardo quando li incroci. Di
un colore nocciola lucido e sporgenti come quelli di un camaleonte, si muovono rapidi,
come impazziti per fissare quello che lo circonda. Come una telecamera, sembra
registrare tutto quello che succede e forse attraverso qualche cavo nascosto o qualche
sinossi cerebrale, archivia le facce e i luoghi nel lato oscuro del suo cervello. Rivolto verso
il muro in una stanza nera, Abu Ha-san si confida, racconta il suo lavoro, la sua storia e
quella di migliaia di rifugiati che scappati dall’inferno siriano arrivano a Mersin con la
speranza di emigrare il più lontano possibile da quella guerra che ha mangiato loro anche
l’anima. “I siriani e gli arabi in generale, vengono qui con l’idea di viaggiare, attraversare la
porta verso l’occidente e arrivare in Europa. Io non faccio altro che aiutarli”. Abu Hasan si
accende la prima sigaretta e, sorprendentemente, comincia a raccontare il business dei
rifugiati e gli interessi della mafia dietro il traffico degli sfollati. “Quando [ i profughi ]
arrivano ci mettiamo d’accordo sul prezzo che devono pagare per il viaggio e una volta
fissato, depositano il denaro in un ufficio che funziona come assicurazione. Noi non
prendiamo i soldi fino a quando non arrivano in Italia. Nel frattempo rimangono a Mersin
nei grandi hotel della città”. Sembra voler rassicurarmi sul suo lavoro da contrabbandiere
di carne umana spiegandomi che, come un ufficio legale, le assicurazioni proteggono gli
interessi dei profughi. La chiamata dei mercanti di carne spartiacque tra inferno e futuro A
un primo sguardo, Mersin appare come una città portuale, la capitale di un litorale turistico
dove gli arabi, e in maggioranza i turchi, riempiono gli hotel d’estate per lasciarli vuoti
d’inverno. Proprio in questi alberghi, migliaia di profughi, attendono il lento passare del
tempo, lontano dalla loro terra infuocata, in attesa della chiamata dei contrabbandieri che
hanno pagato con i risparmi ottenuti dalla vendita degli ultimi averi. Mi fermo e penso al
viaggio della speranza. Cerco di organizzare le immagini e i volti visti in Siria e rivivere
quei momenti per ricordare la sofferenza della guerra. Penso come Abu Mustafa, Um
Muhammed, Abu Muhammed e Fatina sono riusciti a scampare alla morte, attraversare la
frontiera e arrivare fin qui. Penso a quello che i loro occhi hanno dovuto vedere e i loro
cuori patire, ai morti che hanno dovuto seppellire e ai vestiti che hanno dovuto raccogliere
dai detriti delle loro case distrutte dai barili di Tnt lanciati dagli elicotteri del regime. E come
loro, le migliaia di persone che sono passate sulle lacere poltrone della hall di questi
alberghi, una volta raggianti e ora decadenti, con le piscine vuote. D’altronde non
funzionano nemmeno i lavandini. Non c’è acqua. Gli hotel diventano quindi il limbo fra
l’inferno del conflitto e la speranza di un futuro. Così per giorni, magari settimane, i
profughi rimangono ad aspettare la fantomatica chiamata che non arriva. Attaccati al
telefono, diventato il loro l’oggetto più caro, passano le ore pensando a come sarà tutto più
facile una volta attraccati sulla coste europee. Così riescono a sorridere e a non perdere la
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speranza che almeno Allah non si sia dimenticato di loro. Abu Ali, il manager dell’hotel più
grande di Mersin che accoglie i profughi, si confida spiegando le ragioni che l’hanno
portato a entrare nel del business dei migranti: “Abbiamo preso in gestione l’hotel solo
pochi mesi fa e gli affari andavano male. Nel primo periodo abbiamo speso 300 mila
dollari, più di quello che siamo riusciti a guadagnare. Poi sono arrivati improvvisamente
numerosi gruppi di persone. All’inizio non avevamo capito chi fossero, ma poi abbiamo
scoperto che erano profughi che venivano per alloggiare in attesa di imbarcarsi verso
l’Italia. Ma a me questo non interessa, io faccio il mio lavoro, e come manager di un hotel,
più gente viene, meglio è. Io non c’entro nulla con il traffico dei migranti”. Questi movimenti
migratori attraverso la Turchia sono nati lo scorso autunno e sono diversi dagli esodi di
persone che arrivano in Italia dalle coste africane. Qui è tutto più organizzato e i profughi
non partono sulle sgangherate scialuppe che siamo abituati a vedere sulle coste italiane e
a Lampedusa, provenienti dalla Tunisia e dalla Libia, ma si imbarcano su grandi navi di
sessanta-settanta metri, che possono trasportare dalle 300 fino alle 800 persone.
Ancorate in acque internazionali per evadere i controlli turchi, vengono raggiunte con
piccole imbarcazioni di pescatori dalle spiagge lungo tutto il litorale, da Mersin fino a
Antalya. Tutto il processo è un vero business che raccoglie milioni di euro, controllato in
parti diverse dalla mafia turca e quella siriana e con il tacito consenso del governo di
Erdogan. Abu Hasan si accende un’altra sigaretta. Non per nervosismo, né per tensione.
La sua voce è ferma e le risposte sono precise e puntuali, come dovesse recitare un
copione. Parla del lavoro diventato la sua vita con estrema normalità. Forse, anche lui
siriano di Aleppo, ha visto di tutto ed è divenuto immune a dolore e sofferenza. “Le
persone vengono contattate 2 o 3 ore prima della partenza in modo che abbiano il tempo
di prendere i propri averi. Vengono trasportati con furgoni nei punti d’incontro vicino alle
spiagge per poi di dirigersi con piccole scialuppe verso la grande barca che li porterà in
Europa. Il denaro va metà alla mafia siriana e metà a quella turca. Noi [ i siriani ] ci
occupiamo di tutto il processo fino a quando la gente lascia gli hotel. Finito il nostro lavoro,
è la mafia turca che organizza l’ultima parte, trasportando i profughi dagli hotel fino alla
grande barca. Una volta in mare aperto, per noi e come se fossero arrivati in Italia”, e con
un gesto composto fa un segno di disappunto: “Parlando in termini di business, i
contrabbandieri turchi prendono il 40 % del guadagno solo per 3 o 4 ore di lavoro, mentre
il rimanente viene diviso tra il proprietario della barca e i contrabbandieri. Per un viaggio,
chiediamo intorno ai 6. 000 dollari”. Mafia siriana e turca fanno a metà sui guadagni del
traffico Alla domanda, dove sono diretti flussi migratori, Abu Hasan mi spiega che le
destinazioni finali non sono più né l’Italia né la Grecia. “In questi paesi i siriani sono solo di
passaggio, non vogliono rimanere. La Grecia in particolare, seguita dall’Italia non può
assicurare loro un futuro. Il problema è quando gli viene richiesto il controllo delle impronte
digitali. Se vengono registrati in Grecia, non possono più chiedere l’asilo politico in paesi
più ricchi. La meta finale è la Germania, la Svezia, la Finlandia e il Belgio. E forse l’uno
percento si ferma in Francia”. Poi come un esperto di politica internazionale, confida che il
suo lavoro è una diretta conseguenza delle scelte dei governi occidentali e spiega che se
l’Unione europea accettasse più richiedenti asilo provenienti dai paesi in guerra, e che se i
profughi potessero richiedere il visto e viaggiare in aereo, non ci sarebbe bisogno di
barche clandestine. Sembra bravo nel suo lavoro Abu Hasan, ordinato e puntuale. Sa fino
dove può arrivare e quanto può guadagnare, e la sua organizzazione non sembra avere
grandi nemici, né oppositori. Sa che se mai dovesse essere arrestato, riuscirebbe a
cavarsela, a mischiarsi con i profughi, siriano fra i siriani, e dopo poche ore passate in
cella, a uscire per tornare operativo. Penso così di fargli l’ultima domanda, più personale.
Voglio sapere come si sente, come sta la sua coscienza e se si considera un criminale o
un eroe. Mentre si accende nell’arco di pochi minuti un’ennesima sigaretta – forse sarà
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l’accanimento al fumo a portarlo alla morte più che le conseguenze del suo lavoro – mi
risponde con benevolenza che non si considera un contrabbandiere, né un trafficante di
persone, ma svolge solo un servizio utile al suo popolo. Le sue ultime parole rimangono
dense nell’aria piena di fumo: “Se gli europei scegliessero per il bene dei siriani di aprire le
frontiere, sarei disposto a lasciare il mio lavoro”.
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SOCIETA’
Del 5/2/2015, pag. 26
«Il mondo a fame zero è possibile Un lusso
insulso lo spreco di cibo»
MILANO «Obiettivo Fame Zero». Alla conclusione della campagna per gli Obiettivi del
Millennio, la Fao userà l’Expo dedicata al tema della Nutrizione come vetrina per fare il
punto sui risultati ottenuti e rilanciare l’agenda del post 2015, come spiega il direttore
Graziano da Silva: «Grazie al lavoro fatto sul primo Obiettivo del Millennio, ossia
dimezzare la percentuale di affamati rispetto al 1990/92, l’incidenza della fame sulla
popolazione globale è diminuita di circa il 40 per cento, passando dal 18,7 all’11,3 per
cento. Nello stesso periodo, oltre 200 milioni di persone sono uscite dalla fame. Il nostro
impegno, adesso, è eliminarla del tutto». Da Silva sarà uno dei relatori alla giornata di
lavoro che si svolge sabato a Milano, in preparazione del documento che sarà eredità di
Expo.
Quale sarà il vostro contributo alla Carta Milano?
«La Fao parteciperà con le sue competenze tecniche e con il suo peso politico a questa
importante iniziativa del governo italiano. È molto importante che i temi cruciali delle
Nazioni Unite e di ogni singolo Paese come diritto al cibo, sprechi alimentari, sistemi
agricoli sostenibili e la giusta attenzione all’empowerment femminile, si riflettano nelle
priorità individuate dalla Carta di Milano».
Perché è importante un’esposizione dedicata a questo tema?
«Expo apre i battenti su uno scenario globale allarmante. I cambiamenti climatici stanno
mettendo alla prova i nostri sistemi alimentari e le statistiche dicono che per sfamare i
futuri nove miliardi di abitanti della Terra, la produzione agricola dovrà aumentare del 60
per cento entro il 2050. Ma soprattutto, questo è un mondo in cui oggi 805 milioni di
persone soffrono la fame, e 165 milioni sono bambini. Oltre due miliardi di persone
soffrono di carenze di micronutrienti, o “fame nascosta”, cioè non assumono vitamine o
minerali in misura sufficiente a condurre una vita sana e attiva. Al tempo stesso, cresce
rapidamente il problema dell’obesità, con circa mezzo miliardo di persone obese e un
miliardo e mezzo di persone in sovrappeso. Molti Paesi in via di sviluppo, in specie quelli
con reddito medio, si trovano oggi a dover combattere contemporaneamente sia la fame
che l’obesità».
Gli Obiettivi del Millennio cosa hanno portato?
«Ad oggi, sono 63 i paesi in via di sviluppo che hanno raggiunto e in alcuni casi persino
superato l’obiettivo di dimezzare la fame. Ho avuto personalmente il piacere di “premiare”
ad esempio Brasile, Camerun, Ghana, Perù, Thailandia, Vietnam, per aver raggiunto
questi risultati. I governi di Africa e America Latina si sono dati un obiettivo ancor più
ambizioso: la completa eliminazione della fame entro il 2025, uno sforzo che la Fao
appoggerà pienamente. Grazie al lavoro fatto sul primo Obiettivo del Millennio, ossia
dimezzare la percentuale di affamati rispetto al 1990/92, l’incidenza della fame sulla
popolazione globale è diminuita di circa il 40 per cento, passando dal 18,7 all’11,3 per
cento. Nello stesso periodo, oltre 200 milioni di persone sono usciti dalla fame».
L’Onu ha deciso, per la prima volta, di non avere un proprio padiglione ma di
puntare su una esposizione “diffusa”: per quale motivo?
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«Esatto, la presenza dell’Onu non sarà legata ad un singolo stand, sarà una presenza
trasversale che, partendo dal Padiglione Zero accompagnerà i visitatori lungo un itinerario
tematico attraverso tutte le aree della manifestazione. A segnare il percorso saranno 18
installazioni multimediali contraddistinte da un grande cucchiaio blu, dove i visitatori
potranno scoprire il lavoro delle diverse agenzie dell’Onu, la complessità e la vastità del
loro campo d’azione, grazie ad immagini, video, mappe ed infografiche».
Qual è l’obiettivo della vostra presenza in Expo?
«Certamente quello di portare la voce di 805 milioni di persone che ancora oggi soffrono la
fame. Il nostro slogan sarà “Sfida fame Zero: uniti per un mondo sostenibile”. È la sfida
lanciata a New York dal Segretario Generale, che ci vede uniti per un mondo libero dalla
fame, un problema che davvero può essere risolto nell’arco della nostra generazione. Ma
se vogliamo vincere la battaglia contro la fame dobbiamo investire di più nell’agricoltura
sostenibile e riconoscere il ruolo fondamentale degli agricoltori.
Il singolo cosa può fare ?
«Moltissimo. Pensiamo, ad esempio, al fatto che oggi un terzo del cibo venduto nelle
nostre città viene buttato via, e con esso tutta l’acqua, l’energia e gli elementi utilizzati per
produrlo. Uno spreco insulso che ha conseguenze devastanti sulle risorse naturali.
Sprecare cibo, suolo, energia, risorse, è un lusso che non ci possiamo più permettere».
Avete già deciso di celebrare la Giornata Mondiale dell’Alimentazione all’ Expo?
«Quest’anno la Giornata Mondiale dell’Alimentazione, il 16 ottobre, sarà particolarmente
importante per noi. La Fao celebrerà i suoi settanta anni di vita e di esperienza, e lo farà
con una serie di eventi importanti che culmineranno a Milano, ci auguriamo in presenza
del Segretario Generale Ban-Ki moon».
Elisabetta Soglio
del 05/02/15, pag. 32
I pm di Roma: l’uomo ritratto in una foto di
quel periodo è lo scienziato sparito nel ’38
Majorana mistero infinito “In Venezuela negli anni ’50”
LUCA FRAIOLI
ORA su Ettore Majorana c’è anche una verità giudiziaria. Sulla scomparsa del fisico
siciliano si erano esercitati storici e romanzieri, ma tutte le indagini ufficiali, a cominciare
da quella condotta dalla polizia fascista tra il 1938 e il 1939, si erano concluse con un nulla
di fatto. Ieri un tribunale ha emesso la sua “sentenza” su uno dei misteri italiani più longevi
e più affascinanti: Ettore Majorana non si suicidò né fu rapito, ma decise volontariamente
di lasciare l’Italia e di trasferirsi nella città venezuelana di Valencia, dove visse almeno tra
il 1955 e il 1959. Sono queste le conclusioni di una inchiesta condotta dalla Procura di
Roma, dopo che nel 2008 un italiano vissuto nel Paese sudamericano aveva raccontato di
aver conosciuto il vero Ettore Majorana.
La vicenda inizia alla fine degli anni Trenta. Il rampollo della nobile e potente famiglia
siciliana è un brillante fisico teorico, allievo di Enrico Fermi e, poco più che trentenne, già
stimato in tutta Europa per i suoi studi sull’atomo. La sera del 26 marzo 1938 si imbarca a
Palermo su un piroscafo che dovrebbe portarlo a Napoli, dove lo attende una cattedra
universitaria. Non sbarcherà mai nel capoluogo campano. E le ricerche non avranno esito,
almeno ufficialmente. Ce n’è abbastanza per formulare le ipotesi più disparate: dal suicidio
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in mare al ritiro in un monastero, dall’intrigo internazionale, con tanto di spie britanniche e
tedesche, alla decisione di collaborare volontariamente con il Terzo Reich.
Negli anni si moltiplicano le segnalazioni. Senzatetto a Palermo, intellettuale a Buenos
Aires, eremita in Calabria, persino velista in regata solitaria nel Mediterraneo. Tanti
avvistamenti, ma mai nessuna prova che si tratti davvero di Ettore Majorana.
L’ultimo “riconoscimento” viene raccontato in tv nel 2008. Francesco Fasani negli anni
Cinquanta ha vissuto in Venezuela e dice, davanti alle telecamere di Chi l’ha visto , di
avere conosciuto Ettore Majorana. Come prova esibisce una foto che lo ritrae insieme ad
un uomo dai capelli bianchi e dagli zigomi alti: «Si faceva chiamare signor Bini, era molto
riservato e quella fu l’unica foto che si fece scattare. Fu un amico a dirmi che in realtà era
Ettore Majorana. La sua automobile, una StudeBaker gialla, era sempre piena di appunti.
Fu lì che trovai una cartolina del 1920 firmata Quirino Majorana (zio di Ettore, anche lui
fisico, ndr) indirizzata a un certo W. G. Conklin ».
Dalla testimonianza di Fasani ha preso il via l’indagine della Procura di Roma che si è
conclusa ieri con la richiesta di archiviazione: Ettore Majorana era vivo in Venezuela alla
fine degli anni Cinquanta. Dopo il 1959 non si hanno altre notizie, anche per «l’inerzia
degli organi diplomatici venezuelani», come sottolinea il procuratore aggiunto Filippo
Laviani che ha condotto l’inchiesta.
Ma quali sono stati gli elementi che hanno convinto gli inquirenti? La foto, innanzitutto: i
carabinieri del Ris hanno comparato i dati fisiognomici del “signor Bini” con quelli di Ettore
e dei suoi familiari, giungendo alla conclusione che sono compatibili. E poi la cartolina
firmata Quirino Majorana: «Il suo ritrovamento nell’auto conferma la vera identità di Bini»
spiega Laviani. «Ettore e Quirino ebbero per anni, prima della scomparsa, un frequente
scambio epistolare».
Ma se per la Procura questo mette la parola fine a più di settant’anni di mistero, c’è chi la
pensa diversamente. «Le prove utilizzate per archiviare il caso non mi convincono affatto»
dice Stefano Roncoroni, discendente dei Majorana e autore di un libro che, attraverso
documenti familiari ricostruisce la scomparsa e le morte del fisico nel 1939. «Ettore era un
introverso, mai un sorriso nelle foto che ci sono arrivate. Il signor Bini, invece, ha quasi un
atteggiamento sfrontato, oltre a non somigliare in nulla allo scomparso, a detta di tutti i
Majorana. Ma ci sono tante altre cose che non tornano, a cominciare dal fatto che Ettore
non ne volle mai sapere di prendere la patente e guidare automobili. Strano ritrovarlo a
Valencia con una macchina sportiva ».
Resta la “prova regina”, quella del confronto tra le foto del signor Bini e di Ettore. Lo stesso
metodo era stato usato nel 2010 per supportare un’altra ipotesi, sostenuta da Giorgio
Dragoni, docente di Storia della fisica all’Università di Bologna: l’arrivo di Majorana in
Argentina nel 1950 a bordo della nave su cui viaggiava anche il criminale nazista Adolf
Eichmann in fuga dall’Europa. E anche in quel caso i familiari dello scienziato avevano
contestato la validità del “riconoscimento”.
Nella vicenda di Ettore Majorana c’è una sola certezza: non basterà la parola fine scritta
dalla Procura di Roma a chiudere il caso.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 05/02/15, pag. 11
Lessico politico oltre le frontiere della legge
Francesco Brancaccio, Chiara Giorgi, Michele Luminati
Incontri. Un ciclo di seminari all'Istituto Svizzero di Roma. Le
mobilitazione per la riappropriazione dei commons e degli spazi urbani
mettono in evidenza la necessità di ripensare la produzione e l’uso del
diritto
Diverse istituzioni, formali e informali, che abitano la città di Roma, hanno deciso di
federarsi per tracciare un sentiero di ricerca. Federarsi per produrre, nella capitale, uno
spazio del «tra» delle istituzioni, con l’ambizione di rimettere a verifica criticamente i
confini di una disciplina, il diritto, e nello stesso tempo decostruire gli stessi confini che
perimetrano tradizionalmente le istituzioni e che le spingono all’autoreferenzialità,
separando la loro attività formativa e di ricerca dal tessuto urbano, dalle sue contraddizioni
e dalle sue tensioni. Indagare il lato spaziale del diritto e realizzare un nuovo ambito di
ricerca, intrecciando saperi in luoghi pubblici diversi, sperimentando modalità differenti di
incontro. Oltre all’incontro pubblico, che prende il via oggi presso la sede dell’Istituto
Svizzero di Roma (Via Ludovisi 48), grande attenzione è data ai momenti di
approfondimento e di preparazione ai vari incontri: un laboratorio sul diritto da intendere
come un modo, tra gli altri, per ridisegnare la città che abitiamo.
Istituzioni e antagonismi
La ricerca nasce con l’intento di tornare ai fondamenti di alcuni concetti e problematiche
che attraversano i conflitti del tempo presente, a partire dall’uso che i movimenti sociali
hanno fatto del linguaggio e degli strumenti del diritto. Negli ultimi anni abbiamo assistito a
un’inedita combinazione tra la dimensione delle pratiche − sociali, politiche, artistiche − e
la sfera giuridica. Una combinazione che ha prodotto un doppio movimento. Da un lato le
pratiche hanno tentato di risignificare il campo del diritto, mostrandone il suo lato
potenzialmente produttivo: si pensi alle tante esperienze di lotta per i commons e per il
diritto alla città. Dall’altro, la scienza giuridica più avveduta, posta di fronte a tali insistenze,
si è dovuta inoltrare al di là dei confini disciplinari, lasciandosi così alle spalle l’inaridente
prospettiva del formalismo e della dogmatica.
Per questa ragione oggi il diritto, meglio, l’uso del diritto, costituisce un nuovo e fertile
sentiero di ricerca. L’uso che del diritto si fa oggi si discosta sensibilmente da quello che
se ne poteva fare qualche decennio addietro, non solo per il carattere propriamente
costituente assunto dalle pratiche, ma anche per le profonde trasformazioni che hanno
investito la dimensione giuridica. Il diritto non può più essere definito, com’è stato per circa
due secoli, attraverso l’identità con una forma istituzionale determinata, lo Stato, e con una
forma giuridica esclusiva, la legge. Lo Stato sembra aver perso quel duplice monopolio,
della produzione di diritto e della forza legittima, che lo rendeva sovrano. La gerarchia
delle fonti di produzione del diritto sembra essersi spezzata, scomposta, frammentata,
verso l’alto e, insieme, verso il basso.
Queste imponenti trasformazioni ci spingono a tornare ad alcuni concetti-chiave del
lessico politico e giuridico della modernità: Stato, federalismo, democrazia, cittadinanza,
costituzione, governo. Concetti-chiave che si pongono già su una zona di confine, o di
indiscernibilità tra un dentro e un fuori, della scienza giuridica. Per essere colti nella loro
intensità, necessitano di uno sguardo ampio, capace di muoversi tra la teoria politica e la
48
storia, la geografia urbana e la sociologia, l’economia politica e la teoria costituzionale.
L’uso del diritto, così inteso, ci permetterà di indagare le pratiche non solo nella loro
dimensione orizzontale ed estensiva, ma anche sul piano verticale, provando a cogliere il
nesso tra produzione di soggettività e dinamiche di articolazione del potere.
Ecco perché indagare i confini del diritto. La parola confine sarà assunta in un duplice
senso: confine fisico e disciplinare. Da un lato, la spazialità del diritto sarà un tema
costante che attraverserà la ricerca. Si pensi al federalismo, da intendere come una
specifica modalità di riorganizzazione dello spazio politico e giuridico, in grado di rimettere
in discussione l’interno e l’esterno della sovranità. O alla cittadinanza, sottoposta oggi alla
tensione tra la sua intrinseca vocazione universalistica e le differenze introdotte dai
dispositivi di controllo delle popolazioni (la cittadinanza europea è un esempio in tal senso
molto appropriato). Si pensi, ancora, ai confini fisici, che perdono progressivamente il
carattere di «fissità» che li legava al territorio dello Stato-nazione, per divenire mobili,
modulari, flessibili (di nuovo l’Europa come esempio paradigmatico, dove il limes esterno
non coincide con i confini dei Paesi membri). Del resto, sono proprio i movimenti ad aver
fatto emergere la «questione spaziale» come una posta in gioco decisiva della politica
contemporanea, con l’occupazione delle piazze, delle strade e dei parchi. Pratiche di lotta
da intendere come riappropriazione di luoghi dove sperimentare democrazia.
Dentro e fuori la sovranità
Nello stesso tempo, come si è detto, si tratterà di indagare gli stessi confini disciplinari del
diritto. Qui il diritto non potrà che essere colto nella sua dimensione intrinsecamente
politica, andando oltre la formula divisoria, tipica della dottrina giuridica liberale, tra Stato e
società. Formula che ha permesso la riduzione della politica all’interno dei confini
istituzionali dello Stato e l’omologazione dei processi sociali a quelli statali. Cosa accade
oggi che lo Stato non detiene più il monopolio di tali processi? Come si riconfigura il ruolo
delle costituzioni e del costituzionalismo in tale contesto?
Si tratta di interrogativi a cui dare risposte, seppur parziali, nel corso dei lavori. Se è vero
che tutto ciò che abbiamo conosciuto − le istituzioni, i dispositivi rappresentativi, le
procedure della legittimazione − attraversa una crisi irreversibile, è vero anche che l’epoca
presente non ha ancora trovato le forme politiche adeguate per rispondere a un tale
mutamento. La ricerca diviene allora un lavoro di immaginazione politica.
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INFORMAZIONE
Del 5/2/2015, pag. 6
I Toti sulle tracce del Foglio
I COSTRUTTORI ROMANI, GIÀ ALLA CENA DELL’EUR DEL PD
RENZIANO, POTREBBERO ACQUISIRLO
La notizia la anticipa Milano Finanza. Il Foglio, già diretto da Giuliano Ferrara, oggi nelle
mani di Cerasa il giovane, potrebbe finire nelle mani di Claudio e Pierluigi Toti, fratelli
costruttori, assai in auge nella Roma che fu di Goffredo Bettini e Walter Veltroni, ma non
distanti neanche dal pd a trazione renziana di oggi, testimone l’essere accorsi alla famosa
cena di autofinanziamento dell’Eur dove divisero il desco con Salvatore Buzzi (poi
arrestato nell’ambito di mafia Capitale), una nutrita truppa di dirigenti democratici, e una
serie di imprenditori ancora sconosciuti ai più nonostante le dichiarazioni di massima
trasparenza che si sprecarono all’epoca. Nella Capitale, del resto, i Toti già posseggono,
per il tramite di Claudio che ne è presidente, la squadra di basket, denominata Virtus. I
conti del giornale sono quelli che sono (dichiarano ottimisticamente la vendita di 10 mila
copie tra carta e web) ed è finito il periodo in cui la famiglia Berlusconi metteva mano al
portafogli per tenere in vita la stampa amica. La compagine azionaria ad oggi è così
composta: Paolo Berlusconi, fratello di Silvio, è primo azionista: detiene il 48, 3 %. Denis
Verdini, il difensore del Nazareno, ha il 21, 42 %. E, ultimo, Giuliano Ferrara possiede una
quota del 14, 28 %. I costruttori, che nell’editoria vantano già un paio di investimenti mirati
negli anni passati (uno nell ’ Unità, di cui divennero soci, l’altro in Rcs Mediagroup, di cui
presero un 5 %), potrebbero rilevare parte delle quote di Paolo Berlusconi, ma pare siano
sul mercato anche quelle di Denis Verdini. Del resto l’operazione mirerebbe a prendere la
maggioranza azionaria del quotidiano entrato nelle grazie di Matteo Renzi e, anche più, in
quelle del fido Luca Lotti. Nessuna buona nuova invece, sulla sorte de l’Unità, il quotidiano
del Pd fallito la scorsa estate. Il giudice che ne sta seguendo la procedura fallimentare non
sembrerebbe convinto della proposta di acquisto della sola testata avanzata da parte
dell’editore Guido Veneziani (Vero, Stop e Miracoli) e premerebbe per una più consona
“cessione di ramo d’azienda”. Non sfuggirà la differenza: nel primo caso l’editore si tiene le
mani libere e non ha obblighi di assumere ex giornalisti e poligrafici della testata. Nel
secondo caso dovrà contrattare con i sindacati l’ingresso dei lavoratori. Ma in questo caso,
chiarisce Italia Oggi che riporta la notizia, il nostro non sarebbe intenzionato a proseguire
l’operazione. La decisione, comunque, arriverà il 12 febbraio.
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CULTURA E SCUOLA
del 05/02/15, pag. 4
Teatro Valle, una seduta spiritica per
resuscitare la cultura a Roma
Roberto Ciccarelli
La seduta spiritica degli attivisti del Valle ieri all'occupazione dell'assessorato alla cultura
di Roma La seduta spiritica degli attivisti del Valle ieri all’occupazione dell’assessorato alla
cultura di Roma
Nuova azione di protesta, con invocazione degli spiriti, da parte degli intermittenti dello
spettacolo che hanno fatto rivivere il teatro Valle per tre anni: “I sei mesi di interlocuzione
con il teatro di Roma sono andati a vuoto. La politica ora deve decidere sulla nostra
proposta”. Oggi nuovo incontro con l’assessore alla cultura di Roma Giovanna Marinelli. Il
Valle resta chiuso. I “beni comuni” possono attendere
A Roma per parlare di politica con la politica istituzionale bisogna occupare qualcosa. Ma
questo, si sa, non succede solo nella Capitale. Gli attivisti del teatro Valle, che ieri hanno
occupato l’assessorato alla cultura in via Campitelli, hanno dimostrato che non basta. Per
ottenere un incontro risolutivo con l’assessore Giovanna Marinelli sulle sorti del teatro
bisogna fare una seduta spiritica. Perché solo mettendosi attorno ad un tavolo,
collegandosi con gli spiriti dell’Oltretomba, forse la politica tornerà a farsi viva e incidere
nella «trattativa» con il teatro di Roma che si trascina da mesi senza avere raggiunto un
risultato soddisfacente. Almeno così è per gli ex occupanti che hanno fatto rivivere il Valle
dal 14 giugno 2011 all’11 agosto 2014 aprendolo ad una sperimentazione unica e
partecipata da migliaia di persone.
Il video diffuso in rete è esilarante. Come gli hashtag che hanno accompagnato
l’occupazione simbolica dell’assessorato: #seciseibattiuncolpo e #giovannadeglispiriti (dal
nome dell’assessore). «A Roma la cultura è morta, stiamo cercando in tutti i modi di
resuscitarla» hanno detto gli attivisti. «Questi sei mesi di interlocuzione sono andati a
vuoto — spiegano — e dimostrano che il Teatro di Roma (presieduto da Marino Sinibaldi e
diretto da Antonio Calbi, ndr.) non può o non vuole essere interlocutore di questo
processo». «Per raccogliere l’esperienza dei tre anni di occupazione e trasformarla in una
sperimentazione gestionale concreta dei beni comuni, di teatro partecipato è necessario
un tavolo politico in cui le istituzioni si facciano carico delle loro responsabilità».
Informata dell’occupazione, e forse guardato il video, Giovanna Marinelli ha risposto con
tono conciliante: «Ho fissato per oggi alle 19 un incontro con la Fondazione Valle Bene
Comune e i rappresentanti del Teatro di Roma — ha detto — Faremo assieme il punto
sugli obiettivi che da agosto scorso ci siamo prefissati. Da parte mia c’è tutta la volontà di
perseguire il cammino intrapreso e preservare l’esperienza della Fondazione Valle». La
risposta degli attivisti è decisa: « Vogliamo che oggi si risponda alla proposta di
convenzione e al progetto artistico di teatro partecipato che abbiamo formalmente
presentato». Insomma, prendere o lasciare.
Tutto scorre come un fiume tranquillo, così recita la dichiarazione di Marinelli. Neanche
per sogno, a sentire la Fondazione del Valle. Ma allora che cosa non ha funzionato
nell’estenuante trattativa che gli ex occupanti hanno voluto accettare, uscendo
volontariamente dal teatro e concedendo una fiducia oggi inconcepibile nelle istituzioni?
La proposta del Valle è da giorni consultabile sul sito teatrovalleoccupato.it. In sostanza,
vengono ribaditi i principi dell’autogoverno stabiliti nel vecchio statuto emendato online e
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approvato dagli oltre 5 mila «soci fondatori». Sembra invece che il teatro di Roma voglia
garantire una «finestra» nella programmazione del Valle gestita dai vertici. Un angolino
dove esprimere gli spiriti creativi. Magari d’estate. «Una presa in giro» dicono gli attivisti. Il
teatro Valle è chiuso da sei mesi. Nessuno sa, ufficialmente, quando verrà riaperto. I «beni
comuni», a Roma, ma non solo, possono attendere.
del 05/02/15, pag. 11
Due agnostici al “settimo cielo”
Riccardo Mazzeo
Saggi. «Conversazioni su Dio» di Zygmunt Bauman e il teologo
Stanislaw Obirek per Laterza. Un dialogo sulla rilevanza del sacro, che
mette però in guardia dalla pretesa di affermare un’unica verità sulle
«cose del mondo». Oggi presentazione del volume a Milano
Il dialogo imbastito fra Zygmunt Bauman e il grande sociologo polacco e un teologo
Stanislaw Obirek, diventato come il osciologo polacco, scaturisce proprio dal fatto che per
Bauman «l’agnosticismo non è l’antitesi della religione, o addirittura della Chiesa. È
l’antitesi del monoteismo e della Chiesa chiusa» (Conversazioni su Dio, pp. 184, euro 15,
Il volume sarà presentato oggi nel teatro Parenti di Milano). Non è la prima volta che
Bauman assume un atteggiamento estremamente critico nei confronti dei monoteismi. In
questo libro però il suo pensiero in proposito viene delineato con chiarezza e in tutta la sua
portata. Ricorda che il filosofo tedesco neoscettico Odo Marquand faceva derivare il
termine tedesco Zweifel (dubbio) dalla parola zwei (due) e sancisce: «Effettivamente,
usare la parola “verità” al singolare in un mondo polifonico è un po’ come pretendere di
applaudire con una mano sola… con una mano sola si possono dare pugni sul naso, ma
non applaudire. Anche con la verità unica si può picchiare (del resto è stata inventata a
questo scopo…), ma con il suo aiuto non ci si può mettere a indagare le forme della
condizione umana (indagine che per sua natura può e deve compiersi solo nel dialogo,
ovvero con l’assunto, dichiarato o tacito, ma sempre assiomatico, di un’alternativa)».
In realtà la posizione di Bauman non è molto distante da quella che assume Morin nel suo
dialogo con il musulmano illuminato Tariq Ramadan nel libro in uscita Il pericolo delle idee:
è vano pensare che quell’ottavo del mondo costituito dall’Occidente possa continuare a
dettare l’agenda e continuare a vivere come se il resto dei «selvaggi» non esistessero o
non potessero reclamare diritti, e se si aspira a una convivenza (pur relativamente)
pacifica è indispensabile fecondare la propria visione del mondo con quella di chi la pensa
diversamente da noi. In un mondo che cambia incessantemente, per Morin «senza
rigenerazione non può esservi altro che degenerazione», e per Bauman vale la strategia
«che considera la diversità non un difetto ma una virtù», e si spinge tanto lontano da dire
che è possibile convivere – col comune vantaggio di un allargamento di orizzonti e un
arricchimento di esperienze — grazie a (e non malgrado!) una molteplicità dei modi di
vivere. «Qui ognuno ha, per esprimersi in linguaggio religioso, il diritto di possedere un
proprio Dio, purché il diritto degli uni non vada a detrimento del diritto degli altri né
pretenda di negare o togliere loro questo diritto».
In sostanza, per usare le modalità di utilizzazione del capitale sociale che sono state
indicate dal politologo Robert Putnam, gli usi «ponte» favoriscono l’avanzamento sociale,
mentre gli usi «leganti» cementano i gruppi ed erigono fortezze da cui difendono i risultati
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conseguiti contro gli intrusi. In altri libri Bauman aveva parlato in proposito di «mixofilia» e
di «mixofobia», due tendenze umane destinate a perdurare entrambe.
Dal dialogo emerge che Obirek ha seguito il consiglio di Bauman di leggere il libro di Ulrich
Beck Il Dio personale: la nascita della religiosità secolare e, sentendosi schiacciato da
«una messe di letteratura teologica, fuori dalla quale riesco a scorgere sempre meno
dell’uomo», auspica l’aiuto che i sociologi possono offrire ai teologi per ritrovare una
sensibilità spirituale e «aprire gli occhi sul mondo di Dio». D’altronde il processo è sempre
biunivoco se si pensa che secondo Beck la società secolare deve diventare post-secolare,
vale a dire: scettica e aperta alle voci delle religioni, da considerarsi un arricchimento e
non un’offesa. Un conto è infatti la laicità, che è al cuore stesso della democrazia, tutt’altro
conto il laicismo, che pretenderebbe di espungere la troppo umana tensione verso la
trascendenza, con il risultato attuale di sostituire alla santificazione di un Dio quella delle
videate incessanti di numeri che scorrono sugli schermi degli addetti ai lavori e, così nudi e
spietati, trasmettono cripticamente le notizie sulla buona o sulla mala sorte di popoli e
persone. Meri numeri che non dialogano, che colpiscono, lacerano, abbattono.
Bauman ha scelto di dialogare, come papa Francesco, e questo contribuisce a tenere
desti la sua intelligenza, il suo acume, la sua saggezza, il suo «essere per», espressione
mutuata dal lessico del filosofo francese Emmanuel Lévinas.
Nella riedizione di Modernità e olocausto Bauman, che aveva appena perso la moglie
dopo 61 anni di vita trascorsa insieme, ha scritto: «E poi, anche se amo isolarmi dagli altri,
detesto la solitudine. Dopo la dipartita di Janina ho toccato il fondo della solitudine più
tetra, ho raggiunto il luogo in cui si accumulano i sedimenti più amari e più acri, le
esalazioni più nocive. Il volto di Janina sul desktop è la prima immagine che vedo quando
accendo il computer, e tutto ciò che accade una volta aperto Word non è altro che un
dialogo. E il dialogo rende impossibile la solitudine».
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ECONOMIA E LAVORO
del 05/02/15, pag. 26
Partite Iva, dalla maternità alla garanzia
pagamenti in arrivo le nuove tutele
Il governo prepara il decreto delegato sul riordino dei contratti
l’obiettivo è eliminare la zona grigia del lavoro parasubordinato
ROBERTO MANIA
ROMA .
Un pacchetto di tutele, dalla maternità alla garanzia dei pagamenti, disegnato
appositamente per i lavoratori autonomi economicamente dipendenti, ossia le partite Iva
dei giovani cosiddetti lavoratori della conoscenza, dai consulenti ai programmatori, ai
designer. Potrebbe essere questa la vera novità del decreto delegato sul riordino dei
contratti sul quale stanno lavorando i tecnici del governo in vista dell’approvazione da
parte del Consiglio dei ministri il 20 febbraio.
L’obiettivo, in generale, è provare a separare nettamente tra lavoro autonomo e lavoro
subordinato, eliminare la zona grigia del lavoro parasubordinato che facilmente scivola
nell’abuso. Fine dei finti co.co.pro e delle false partite Iva. Questo è il “disboscamento” di
cui ieri ha parlato anche il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti. Accanto all’introduzione di
alcune specifiche forme di tutela (compresa la malattia) per chi svolge un’attività
indipendente in condizioni però di sostanziale debolezza sul mercato, con un reddito che
per esempio non superi i 30 mila euro lordi l’anno. Resteranno i contratti di collaborazione
solo per alcune figure come gli amministratori di società o i sindaci che sono una
minoranza di una categoria che ormai raggiunge circa le 700 mila persone.
Il perno del lavoro subordinato sarà costituito dal contratto a tempo indeterminato a tutele
crescenti, fortemente incentivato sul piano fiscale e contributivo e senza più il vincolo
dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori sui licenziamenti. Rimarrà il contratto a tempo
determinato ma si sta discutendo, dopo la liberalizzazione avviata con il “decreto Poletti”,
di ridurne la durata da 36 a 24 mesi per evitare il rischio che si trasformi in un lungo
periodo di prova. Via anche al contratto di associazione in partecipazione e a quello
intermittente che dovrebbe essere sostituito con l’estensione dell’uso dei voucher. Un
riordino che questa volta troverà l’opposizione delle imprese, in particolare di quelle che
operano nel settore del turismo, della ristorazione e del commercio, dove il ricorso a quelle
tipologie contrattuali è più frequente. Già a dicembre la Confcommercio aveva elaborato
un documento nel quale chiedeva il mantenimento di tutte le forme contrattuali previste
dalla “legge Biagi”. La sponda alle imprese arriverà dall’”ala destra” della maggioranza di
governo. Maurizio Sacconi (Ncd), presidente della Commissione Lavoro del Senato: «La
sinistra persevera nell’errore di attribuire la precarietà del lavoro alle tipologie contrattuali
che spesso al contrario sono il modo con cui dare regolarità a lavori sommersi o
incoraggiare attività che altrimenti non si produrrebbero». È invece dalla sinistra del Pd
che viene (per ora) il sostegno alla linea del governo. Cesare Damiano, presidente della
Commissione Lavoro a Montecitorio: «Se al centro del Jobs act c’è, come ha detto il
governo, il contratto a tempo indeterminato, contestualmente a una diminuzione della
tutela nel caso di licenziamento e di allungamento della durata dell’indennità di
disoccupazione, è giusto che si vada al disboscamento delle forme di lavoro più precarie».
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del 05/02/15, pag. 4
Mettiamo all’opera i cassintegrati
Antonio Sciotto
Lo studio. Potrebbero riqualificare i porti del Sud: costerebbe da 1 a 3
miliardi ma renderebbe il doppio. Nelle aree «retroportuali» c’è il vero
tesoro della logistica: l’esempio degli olandesi
Lo Svimez la definisce una proposta «choc», e in effetti l’idea è semplice ma sarebbe, per
un certo verso, rivoluzionaria: i lavoratori in cassa integrazione si potrebbero utilizzare per
la riqualificazione delle aree industriali retroportuali del Sud, con grandi vantaggi per tutti
(a cominciare da loro stessi).
La proposta è contenuta nell’ultimo numero dei Quaderni dell’Associazione per lo sviluppo
dell’industria del Mezzogiorno, che questo mese pubblica il volume La rivoluzione
logistica, di Ennio Forte. Si tratta, spiega il professore di Economia dei Trasporti alla
Federico II di Napoli, di un progetto indirizzato in particolare ai lavoratori che usufruiscono
della cassa in deroga.
Ma se si trovassero dei sistemi di “ammorbidimento” dei rigidi meccanismi che regolano gli
ammortizzatori sociali, si potrebbero magari coinvolgere quelli in cassa straordinaria
(quest’ultima è a carico delle casse Inps, mentre la prima è a totale carico della fiscalità
generale).
L’obiettivo sarebbe come detto quello di riqualificare le aree industriali retroportuali di
Napoli, Salerno, Catania, Taranto, Messina, Termoli, Torre Annunziata e Gioia Tauro
attraverso opere di bonifica degli edifici dimessi, costruzione di infrastrutture, filiere e
servizi logistici ad alto valore aggiunto che aumentino il valore delle merci in transito,
generando ricchezza.
Un’operazione che costerebbe alle casse dello Stato, secondo stime dello Svimez, da 1 a
3 miliardi di euro, con un rientro pari al doppio del costo dell’investimento. Un bel
guadagno per l’intero sistema Italia.
Ma perché riqualificare proprio quelle aree? Quale misterioso tesoro sarebbe contenuto
nei retroporti, ovvero tutte quelle aree (spesso molto vaste) che si trovano dietro la zona
delle banchine, a ridosso dei principali scali marittimi? La risposta sta nella logistica
economica, una branca dell’economia che punta a ottimizzare il sistema dei trasporti e
della logistica per renderlo il più funzionale possibile alla produzione e distribuzione delle
merci. E più un sistema è efficiente, più si abbassa il prezzo della filiera traslog (trasporti e
logistiche): «Una componente strategica, che può raggiungere a volte fino al 70% del
prezzo nel mercato finale», spiega Forte.
Le aree dei retroporti, in sistemi portuali molto più avanzati dei nostri — vedi quelli
olandesi — sono messe a frutto per svolgere funzioni come il controllo qualità, il
confezionamento, l’imballaggio, l’etichettatura: l’idea è quella del distripark in uso nei Paesi
Bassi, una infrastruttura che permette di svolgere insieme, grazie a macchinari e spazi
adatti, tutte quelle funzioni.
Dei distripark potrebbero essere costruiti ad esempio nelle aree retroportuali di Napoli,
Torre Annunziata, Castellammare e Salerno, spiega lo studio dell’Università Federico II,
stando alla sola Campania. Vi si potrebbero adibire le centinaia di migliaia di lavoratori
edili che usufruiscono della cassa — e che a volte accoppiano a un lavoro nero del tutto
irregolare — impiegandoli direttamente, o attraverso le imprese, che si dovrebbero invitare
a utilizzarli con incentivi da parte del pubblico.
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Ma dietro la proposta non c’è una visione limitata solo al nostro Paese: si punta sui porti
perché, soprattutto negli snodi di Gioia Tauro e Trieste, questi possono diventare una
prospettiva di sviluppo per l’intera Europa, per il momento basata soprattutto su quelli
nordici. Coinvolgendo così in modo sempre più efficiente e meno costoso le aree
mediterranee e mediorientali, in modo da collegarle al Centro e al Nord Europa per mezzo
di vie alternative e più competitive.
Cambiamenti che non risulteranno graditi, però, ad alcuni spedizionieri: Spediporto ha
criticato la tendenza a sdoganare le merci nei retroporti, mentre grossi gruppi come Fiat o
Ikea, al contrario, spingono in quella direzione. E non basta: lo studio pubblicato da
Svimez individua un’altra area, non portuale, di 2600 ettari, oggi non utilizzata e che
potrebbe essere riqualificata grazie ai cassintegrati. È quella compresa tra Poggioreale,
Ponticelli, Barra e San Giovanni a Teduccio: zone difficili del napoletano, che sicuramente
potrebbero avere solo benefici dalla creazione di nuovo lavoro.
Del 5/2/2015, pag. 8
Ora arriva Babbo Natale: soldi nostri per le
banche
ROTTI GLI INDUGI, TESORO E BANKITALIA CONFERMANO:
LAVORIAMO PER CREARE UNA BAD BANK CHE LIBERI GLI ISTITUTI
ITALIANI DALLE SOFFERENZE (180 MILIARDI)
Tutti pazzi per la bad bank. Più che cattiva, una banca “spazzina”, creata per fare pulizia
nei bilanci di altri istituti acquistandone una parte dei prestiti difficili o impossibili da
recuperare. Lo scorso 25 gennaio, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha
confermato in un’intervista a Repubblica che il governo sta “esaminando varie opzioni,
anche tenendo conto delle implicazioni sulle regole europee sugli aiuti di Stato” e
riflettendo in che modo “introdurre degli strumenti che vanno sotto il nome generico di bad
bank”. IN REALTÀ del progetto si parla già da due anni e a rilanciarlo, nell’autunno del
2013, era stato anche l’ex premier Romano Prodi proponendo una sorta di Cassa Depositi
e Prestiti finalizzata al credito alle imprese. Una soluzione che però era rimasta lettera
morta sia per le resistenze del Tesoro, sia per quelle delle singole banche: nessuno voleva
fare il primo passo comunicando al mercato di avere un problema. La stessa Banca d’Italia
guidata da Ignazio Visco non voleva ripetere l’esperienza del Banco di Napoli che, prima
di essere acquistato dal Sanpaolo Imi, trasferì i crediti in sofferenza a una società
apposita, dando le azioni in pegno al Tesoro e affidando appunto la vigilanza all’istituto
centrale guidato da Ignazio Visco. Poi con il passare dei mesi la situazione si è aggravata.
Le sofferenze, ovvero i prestiti a rischio, a fine 2014 hanno raggiunto la cifra record di 180
miliardi di euro, contro i 125 del dicembre 2012. Ed ecco rispuntare la bad bank di
sistema. Ieri il Messaggero ha scritto che il progetto messo a punto da Bankitalia e
governo, tenendo informata la Bce, è praticamente pronto. Il quotidiano romano anticipa
anche i dettagli del documento “Nuovo credito per la crescita”, soggetto ancora a possibili
limature, che l’Italia si appresta a mandare al vaglio dell’Unione europea. Il veicolo
dell’intera manovra sarebbe Sga, società di gestione dell’attivo nata nel 1997 per salvare il
banco di Napoli (quindi Visco ha cambiato idea), che il Tesoro acquisterebbe da Intesa
Sanpaolo per 600 mila euro. TRAMITE uno o più aumenti di capitale che verrebbero
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sottoscritti dalle banche, dallo Stato, da Cdp, da Bankitalia e da eventuali investitori privati,
la nuova Sga arriverebbe a un capitale da 3 miliardi, spiega Il Messaggero. Potrebbe così
finanziare l’acquisto delle sofferenze verso le imprese superiori a una soglia minima di
valore nominale di 500 mila euro, anche emettendo titoli obbligazionari assistiti da
garanzia statale, da collocare sul mercato. Per quanto riguarda l’assetto proprietario, due
sono gli scenari ipotizzati secondo la bozza: nel primo la partecipazione pubblica si
fermerebbe al 49 %, mentre le banche deterrebbero il 19 % e il 32 % andrebbe agli
investitori privati. Uno schema che escluderebbe la ricaduta delle passività del veicolo nel
perimetro del debito pubblico. L’altra opzione invece vedrebbe la partecipazione pubblica
all’ 81 % mentre il restante 19 % andrebbe alle banche, escludendo la partecipazione di
investitori privati. Il soggetto però ricadrebbe nel perimetro del debito pubblico. In
mattinata, però, è arrivata la replica del ministero. Il portavoce ha infatti puntualizzato alle
agenzie che “il Tesoro è al lavoro su diverse ipotesi per aiutare le banche a liberarsi dei
crediti incagliati che appesantiscono i bilanci e riducono la possibilità di impieghi, ma le
indiscrezioni apparse su alcuni organi di stampa non corrispondono allo stato più recente
delle analisi”. Insomma, il dossier sul “Nuovo credito per la crescita” è solo una delle
ipotesi in esame e comunque non la più recente. DI CERTO, le esitazioni degli anni
passati sembrano ormai superate perché in gioco c’è la capacità del sistema bancario di
sostenere l’economia attraverso la forte ripresa dei prestiti alle imprese (considerando
anche che le banche italiane prima o poi dovranno tornare a finanziarsi senza l’aiuto della
Bce). Resta però da capire se e come alla fine i soldi dello Stato – ovvero dei contribuenti
italiani – verranno usati come garanzia. Anche perché ci sarà da risolvere il problema delle
normative europee in materia di aiuti di Stato, che impongono a azionisti e creditori una
svalutazione in presenza di un sostegno pubblico. Norme volute dalla Germania, ma
soltanto dopo che le banche tedesche si erano portate a casa oltre 200 miliardi di euro
pubblici.
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