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LA PAROLA ALLE DONNE
Fino al 1877, un secolo e venticinque anni fa, le testimonianze delle donne non avevano alcun
riconoscimento giuridico, al pari di quelle dei fanciulli e dei mentecatti, come recitava la legge in
proposito. E’ delicato l’accostamento ai bimbi e alla loro innocenza; piace meno l’identificazione
con i mentecatti, ossia i dementi. La verità delle donne non era verità; non era nemmeno menzogna;
semplicemente, non esisteva, non aveva valore. E siamo alla fine dell’Ottocento, non nella
preistoria. La donna, giuridicamente, non esisteva, e difatti non godeva dei diritti civili e politici. In
un solo secolo il processo di equiparazione delle donne agli uomini ha compiuto grandi,
sconvolgenti passi, e ora le donne esistono, votano, parlano, protestano, esigono, chiedono, fanno
(fin troppo, dicono alcuni). Ma con quali risultati?
100 anni di lotte non sono molti, contro millenni di storia che non può non essere definita
d’oppressione. Benvenuto il consumismo, che ha scoperto la donna come consumatrice ben prima
di quanto abbia fatto la politica (tanto che abbiamo acquisito il diritto-dovere di comprare molto
prima del diritto-dovere di votare, concessoci in Italia appena cinquantasette anni fa). Grazie allo
strapotere del consumo, alla necessità per le aziende di piazzare i propri prodotti presso ogni
categoria possibile, le donne sono state scoperte ed utilizzate senza remore, il che ne ha comunque
facilitato un graduale aumento di visibilità, il progressivo emergere come soggetti all’interno della
vita civile.
Pochi prodotti della produzione di massa hanno così sapientemente utilizzato nella loro
comunicazione il delicato ruolo che la donna svolge sia nel pilotare le decisioni familiari sia nel
consumare in prima persona, come ha fatto l’automobile. La pubblicità automobilistica non trascura
le donne fin dai primi anni del secolo. “Mein Benz” mormora la donnina con le gonne svolazzanti
stringendosi al petto un modellino di vettura Benz; e quel furbone di André Citroen studia alla fine
degli anni venti uno slogan che dice “La voiture préférée de la Parisienne”, così da combinare
insieme il fascino muliebre con quello della capitale del mondo. “La vettura della signora” è la Fiat
Balilla del 1932, e difatti verso di essa si dirige una signora decisa, dal passo svelto, che non si
concede agli ozi e agli agi, ma agisce con italica fermezza.
Ma si può parlare di un rapporto tra donne e automobile, diverso da quello tra uomo e automobile?
C’è una differenza nell’utilizzare la macchina, a seconda che si appartenga ad una metà del cielo o
all’altra?
Molti dicono di sì. Per esempio le agenzie di assicurazioni, che spesso asseriscono (vedi per
esempio la Dialogo Assicurazioni, del Gruppo Fondiaria) che le donne sono meno pericolose al
volante, dunque meritano tariffe per la RC Auto più basse. I dati forniti dall’ISTAT per il 1999 sono
il fondamento di questa tesi. Difatti, secondo l’ISTAT, gli uomini risultano responsabili di oltre tre
quarti degli incidenti totali. Nel 1999 i conducenti a cui si può attribuire la responsabilità degli
incidenti sono costituiti per il 77,7% da uomini e per il 22,3% da donne (75% e 25% le rispettive
percentuali se si prendono in esame gli incidenti con autovetture); nel 1995, queste percentuali
erano pari al 79,6% e al 20,4%; nel 1991 all’81,7% e al 18,3%. La rivista “Auto Oggi” di luglio
2002, nel commentare questi dati, scrive che se guidassero soltanto le donne, i sinistri si
ridurrebbero dell’80%.
Non è poco. Significherebbe che dei 219.032 incidenti con danni alle persone occorsi in Italia nel
1999, con 6.633 morti e 316.700 feriti, se ne sarebbero verificati soltanto 43.206. Però qualche
perplessità resta, di fronte a tanto ottimismo. In otto anni, la percentuale delle donne “pericolose” è
salita di quattro punti sul totale di coloro che hanno causato un incidente: una crescita notevole.
Sarà che sono aumentate le donne al volante? Anche questo è vero: dai nove milioni di donne
patentate dieci anni fa, oggi siamo a quindici milioni, su un totale di 33 milioni di patenti. Ogni
anno, un esercito di 400.000 fresche guidatrici, agguerrite e, si spera, preparate, affollano le nostre
strade. Mancano però statistiche sulla percorrenza chilometrica di ciascuno dei due sessi. Solamente
uno studio su questo aspetto, unito ad una quantificazione del numero di chilometri percorsi in città
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e in autostrada, potrebbe permettere un serio confronto tra pericolosità femminile e pericolosità
maschile. L’impressione, superficiale ed epidermica finché si vuole, è che le donne guidino molto
meno dei loro compagni, anche se hanno la patente. Quante sono le coppie in cui ci si alterna
amichevolmente al volante per tutto il tragitto delle vacanze? Quasi nessuna. Le donne guidano in
città, utilizzano l’automobile per portare i figli a scuola, andare al supermercato, recarsi in ufficio, e
in questo sono le inconsapevoli emule di Berta Benz, che nel 1888 compì il primo tragitto turistico
con i suoi due figli, 100 chilometri in venti ore. Difficilmente però le donne sono divoratrici di
chilometri, e ancor più raramente sono guidatrici di professione. Tra i conducenti di mezzi pubblici
i maschi rappresentano il 98,6%, e tra i conducenti di autocarri il 97,4%. Anche se si parla di
proprietà della macchina, la donna risulta intestataria ed unica utilizzatrice della vettura soltanto nel
25% dei casi.
Queste considerazioni non mirano a cancellare un mito, quello della maggiore prudenza femminile
al volante, ma ad inquadrarlo correttamente. Rimane innegabile che la donna ha dovuto conquistarsi
il suo posto alla guida con grande fatica, tra irrisione ed incredulità; ha dovuto combattere, prima
ancora che con la frizione, il traffico e le pannes, con i pregiudizi e i luoghi comuni. La prima donna
patentata è, naturalmente una nobildonna francese, la duchessa d’Uzès. La “Vie au grand air” del 15
maggio 1898 non lesina sui punti esclamativi: “La duchesse d’Uzès brevetée! Mon Dieu, oui,
brevetée et conducteur d’automobile encore! Voilà une nouvelle bien véridique qui étonnera bien
des gens!” (“ecco una vera notizia che sbalordirà molta gente!”). Ma la duchessa non ci aiuta a
capire se le donne sono veramente più prudenti degli uomini, perché appena due mesi dopo aver
conseguito la patente già doveva presentarsi in tribunale per aver “circolato a velocità esagerata al
Bois de Boulogne, rischiando di provocare un incidente”. In realtà, questa velocità pericolosa
poteva anche solo essere stata di 15 km/h: il limite di velocità per le automobili che circolavano a
Parigi era di dodici chilometri all’ora, non doveva essere facile per la duchessa (né per nessun altro
automobilista) rispettare tale vincolo.
La prima donna pilota è, di nuovo, una francese. Era Madame Camille du Gamond du Gast, classe
1870, pianista di notevole talento e grandissima sportiva, tanto da praticare, a livello
professionistico, alpinismo, equitazione, scherma, caccia, tiro e paracadutismo. Una scatenata, che
non poteva non lasciarsi coinvolgere anche dall’automobilismo. Esordì alla Parigi-Berlino del 1901,
percorrendo con la sua piccola Panhard da 20 CV –la più piccola tra le vetture iscritte – i 1105
chilometri del percorso. E percorrendoli anche bene: partita 122esima, arriva 33esima. Quindi si
iscrive alla famosa Parigi – Madrid del 1903, durante la quale si guadagna notorietà internazionale
per il suo comportamento, se si può dire di una signora, altamente cavalleresco. In corsa verso
Bordeaux, in ottima posizione sulla sua De Dietrich 4 cilindri, da 45 cavalli, , assiste all’incidente
che coinvolge il concorrente Stead. Non esita a fermarsi, e a estrarre il malcapitato, con l’aiuto del
meccanico, da sotto la sua vettura, dove sarebbe sicuramente morto carbonizzato perché la benzina
stava spandendosi ovunque. Quindi lo porta al sicuro, aspetta parecchie ore finché non vede arrivare
dei soccorsi, e finalmente riprende la gara. Si classifica 45esima, se non si fosse fermata sarebbe
potuta arrivare tra i primi dieci.
Madame du Gast non ha avuto molte emule. Certo, vi è stata Miss Cordery, che lancia una marca
britannica, la Invicta, provando di aver percorso più di 48.000 chilometri ad una media di cento
chilometri all’ora. Nel 1928 la Jeanine Jennky vince davanti a Louis Chiron la 4 Ore di Borgogna,
su Bugatti 35; Mademoiselle Hellé – Nice partecipa, di nuovo su Bugatti (una marca prediletta dalle
signore, perché fabbricava vetture da corsa maneggevoli, agili, potenti e belle) a 76 gran premi, e si
laurea Campionessa del Mondo di velocità. Girando a Monthléry a 198 km/h. Elisabeth Junek,
ancora su Bugatti, si mette in luce con buoni piazzamenti alla Targa Florio…Ma, ammettiamolo
onestamente, non è granché. Si potrebbero aggiungere senza dubbio altri nomi (per l’Italia la
contessa Elsa Albrizzi, per esempio, che nel 1899 fonda il Club Automobilisti Veneti), ma
numericamente (e qualitativamente) la superiorità maschile rimane schiacciante.
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Pare allora profetico un articolo pubblicato su “Le Figaro” nel 1904, intitolato “Les femmes et
l’automobile, peu d’avenir” (“le donne e l’automobile, poco avvenire”). Le donne, sosteneva
l’articolo, sono assolutamente incapaci di guidare, in quanto non possiedono il necessario sangue
freddo. E questo stesso parere era rieccheggiato da misogini e sputasentenze vari, tanto che, due
anni dopo, un giornalista francese afferma perentoriamente che “Il ventesimo secolo, prima di
arrivare alla sua conclusione, sembra destinato a veder passare nelle mani delle donne le
professioni di medico, avvocato, professore, scrittore, chimico; ma pilotesse che vivano del loro
mestiere appaiono altrettanto inverosimili di donne ingegnere o astronome”. Solo stupidaggini
smentite dalla storia, oltre che dal buon senso…?
Purtroppo, qualcosa di vero c’é. Negli anni ottanta, nel nostro paese, vengono espugnati in massa le
professioni e i mestieri “poco adatti ad una donna”. Nel 1951 le donne medico rappresentano
soltanto il 3%, nel 1987 sono il 25%; nel 1976 le giornaliste sono il 7,5%, nel 1999 sono il 39%.
Lasciamo da parte ingegneria e astronomia (ma obiettivamente le Margherita Hack non sono
numerose, anche passata la boa del secolo): nel campo dell’automobile di donne pilota, o
progettiste, o designer, o inventrici, se ne sono viste pochine. E le altre, le giornaliste, le medico, le
lavoratrici in genere, affollano soltanto i livelli più bassi della gerarchia: di donne direttrici di
quotidiani ne esistono (fine 2001) soltanto due, contro 97 direttori maschi. Questo potrebbe essere
spiegato con una mentalità, all’interno del mondo del lavoro, ancora rigidamente maschilista e
prevaricatrice: ma perché allora le donne non contano niente neanche nella politica, dove spetta a
loro proporsi e rischiare? Al Parlamento (nel 2001) sono appena il dieci per cento. Il numero delle
donne lavoratrici aumenta, senza dubbio, sono sette milioni nel 1996, contro i cinque milioni del
1969 (ma i lavoratori maschi sono il doppio); però quasi nessuna è al vertice di aziende pubbliche o
private, e vi sono più disoccupate che disoccupati (in Italia, ogni 100 maschi senza lavoro, si
contano 179 donne, dati 2001). E vogliamo parlare di paghe? Una legge del 1956 aveva stabilito
che la differenza di retribuzione tra uomini e donne non dovesse superare, bontà dei legislatori
(maschi), il 16%. Belle parole: negli anni novanta, a parità di mansione, quando un uomo riceveva
100 lire, la donna ne percepiva appena 78. E la situazione non è molto diversa neanche oggi.
Non è certo possibile affermare che i misogini di fine secolo avessero ragione. Rimane però
qualcosa di difficile da capire e spiegare, che rimanda ad un nodo inestricabile di ingiustizie e
consuetudini, a cui le donne talvolta sembrano dare man forte, con la loro poca capacità di farsi
valere (e l’attitudine a caricarsi di lavoro non riconosciuto), di sfondare, di esporsi. Tante belle
intenzioni sono rimaste senza riscontro pratico, e addirittura alcune tutele giuridiche danno talvolta
l’impressione, ancora di più delle diseguaglianze a cui vogliono opporsi, di considerare la
condizione femminile alla stregua di quella degli handicappati, e costituiscono inutili steccati che
nulla incidono nella mentalità di uomini e donne.
Sembrava paradossalmente tutto più chiaro, all’inizio del secolo. Si credeva ingenuamente che gli
anni a venire avrebbero segnato inevitabilmente, un passo dopo l’altro, un glorioso cammino verso
l’uguaglianza. In parte, ma solo in parte, è stato così: per questo il disincanto è così amaro, di fronte
al permanere indisturbato di ingiustizie e di pregiudizi.
La svolta, in Italia almeno, arrivò nel primo dopoguerra (non per caso: la scarsità di uomini, perché
impegnati al fronte o morti, aveva accelerato l’ingresso nel mondo del lavoro di un gran numero di
donne). Si discute di diritto di voto e addirittura di divorzio, due traguardi inimmaginabili fino a
pochi anni prima. E difatti non succede nulla: una commissione speciale insediata da Giovanni
Giolitti da’ parere sfavorevole sul voto, e sul divorzio cala il silenzio. Però nel 1919 viene abolita
l’autorità maritale in virtù della quale, fino a quel momento, la donna non poteva fare nulla,
neanche disporre dell’eredità della propria famiglia, senza il consenso del consorte. Solamente dopo
quell’anno alla donna sarà riconosciuto il diritto, per esempio, di vendere ed acquistare beni,
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fondare società, investire denaro in piena autonomia. E’ un passo fondamentale nell’avviare la
donna al mondo attivo. Anche se il vantaggio dell’abolizione dell’autorità maritale, per parecchi
decenni, è goduto soltanto dalle donne benestanti, l’assoluta minoranza. Le altre devono ringraziare
il cielo di poter lavorare senza stramazzare di fatica (solamente nel 1911 si concesse alle donne una
giornata lavorativa di appena dieci ore, contro le undici – dodici usuali), e di fare figli senza morire
(sul lavoro non hanno alcuna agevolazione in caso di gravidanza, parto, malattia dei figli). Se poi a
una donna saltava in testa il ghiribizzo di abbandonare il marito o di abortire c’era il carcere.
Superfluo aggiungere che un uomo che abbandonasse alla miseria moglie e figli non risultava
passibile di alcuna sanzione. Dal 1859 una legge imponeva l’istruzione elementare obbligatoria per
maschi e femmine, largamente disattesa. Ma se una famiglia poteva mandare a scuola un solo figlio,
questi era sicuramente il maschio, e non la bambina. (E non si pensi che siano cose da ottocento.
Nel 2002, due terzi degli 876 milioni di analfabeti nel mondo sono donne. E il futuro non sembra
promettere alcuna inversione di tendenza. Sui 150 milioni di bambini che nel mondo non ricevono
un’istruzione elementare, il 90% sono femmine).
Una vita da ignoranti, o addirittura da analfabeti, è una vita sicuramente votata all’emarginazione.
L’era fascista segna un notevole passo indietro: l’istruzione universitaria, nel caso di studentesse,
costa il doppio. Nell’anno in cui Grazia Deledda ottiene il Premio Nobel per la Letteratura (1926) il
governo emana una legge che proibisce alle donne di insegnare nei licei materie come latino o
greco; in compenso è consentito loro occupare un posto di bidella o di segretaria. Un’altra legge
sancisce che le aziende non possano assumere donne in proporzione superiore al 10% della propria
forza lavoro (sembra quasi la quota handicappati imposta ai giorni nostri). E comunque, anche se
assunte, le donne, a parità di mansione con gli uomini, guadagnano la metà. La legge sulla parità
salariale, anche oggi come si è visto largamente disattesa, arriva soltanto nel 1977.
Sono dati desolanti, che le nostre figlie e sorelle minori neanche immaginano, ma che richiamano
una condizione da essere inferiore, sfruttato e umiliato, che si è protratta fino a pochi, pochissimi
anni fa. Neanche quarant’anni fa una donna poteva essere automaticamente licenziata se decideva di
sposarsi (1963: abolizione in Italia della clausola del nubilato). Fino al 1968 una donna adultera può
essere arrestata. Fino al 1971 l’uso di mezzi contraccettivi é reato penale. Fino al 1981 resiste, nel
codice penale, il crimine per motivo d’onore; fino al 1996 lo stupro è “soltanto” un reato contro la
morale, anziché contro la persona. Intrappolata, imprigionata, caricata di figli, tenuta
nell’ignoranza, è difficile che potesse serenamente dedicarsi alla carriera di imprenditrice, o di
costruttrice. L’automobile e il suo impiego vengono considerati un’espressione di virilità? E sia,
forse la questione non è così importante. Allo scoppio della prima guerra mondiale, in Italia,
soltanto settanta donne sono riuscite ad ottenere la patente. Nella progredita Gran Bretagna,
cinquant’anni dopo, è comunque solo il 30% della popolazione femminile a possederla (contro il
70% della popolazione maschile). Alla fine degli anni ottanta, in Germania, poco più del 20% delle
autovetture ha una proprietaria donna, una percentuale simile a quella riscontrata tra gli immigrati.
L’uomo che più ha fatto per le donne, in campo automobilistico, è stato un piccolo inventore
americano, Charles Kettering, che aveva brevettato un motorino elettrico in grado di aprire il
cassetto di un registratore di cassa. La Cadillac (vedi Auto d’Epoca di luglio/agosto 2002) lo adottò
sui suoi modelli a partire dal 1912, trasformandolo in motorino d’avviamento e rendendo inutile la
pesantissima manovella, che aveva impedito alla maggior parte delle donne mettersi alla guida di
un’autovettura. Poi arriveranno il servosterzo, il servofreno, la gomma che non si buca, i bauli
spaziosi, le vetture familiari, lo specchietto di cortesia, il vano portaoggetti… Si scoprì subito
quanto la donna è trainante nel decidere qualunque tipo di consumo all’interno della famiglia: che
sia vedere una mostra o un film, acquistare una macchina o decidere un viaggio, cambiare le tende o
dotarsi di forno a microonde. La donna consumatrice ha pari dignità con l’uomo, anzi si potrebbe
dire che per il mondo del consumo la donna è di gran lunga più importante dell’uomo, riceve più
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attenzioni e lusinghe. Non era certo questa la strada che all’inizio del secolo si pensava di
percorrere…ma in certe condizioni è meglio non fare i difficili.
Donatella Biffignandi
Museo dell’Automobile
2002
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