La bellezza incarnata. Tra pittura e pornografia di Silvia
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La bellezza incarnata. Tra pittura e pornografia di Silvia
La bellezza incarnata. Tra pittura e pornografia di Silvia Mei Sfogliando l’opera di Giovanni Boldini, il pittore ferrarese parigino d’adozione, ci si imbatte in alcune tele, con tutta evidenza le più defilate in confronto agli estetizzanti e compiacenti ritratti che lo hanno blasonato come il pittore dell’eleganza e della Belle Epoque. La tela Macelleria in Piazza delle Erbe a Verona (1890, olio su tela, cm. 35x27, coll. privata) apre una breccia sul Novecento, traghetta l’arte moderna europea almeno cinquant’anni più avanti, arrivando a Francis Bacon, il cui richiamo è diretto. La figura sventrata e decapitata dell’animale è l’antitesi delle donne tutte testa e occhi del maestro: come in Ritratto della contessa Matilde Franzoni (1892, olio su tela, cm. 116x86, coll. privata), decisamente sproporzionato nelle dimensioni delle mani e dell’ovale del volto stretto nello chignon che pare deformare, dal tiraggio della cute, il cranio. Nella scena di Macelleria, Boldini se ne esce con un lapsus nell’impaginato straordinariamente modernista ma con taglio da istantanea fotografica, restituendo all’animale impietosamente squartato la testa di una passante. È un commento, il suo, alla carne a-sessuata appesa al gancio: sicuramente la bestia è una femmina, carne di vitella, quella più tenera, quindi carne di donna, la più palpitante, che sempre freme e balugina nel tremolio molle che muove la figura e ne restituisce un effetto flou. Come in Nudo di giovane con i capelli rossi (1914, olio su tela, cm. 80x40, coll. privata), il cui fulvo dei capelli funziona da schermo al nudo della sua toiletta: il contrasto cromatico col nitore della superficie è troppo abbacinante per profanarle il corpo con lo sguardo. Le curve perfette del decolleté o gli slanci dalle insenature del collo in Boldini sono troppo scivolose per permetterci di guardare il resto, per una visione nitida delle zone erogene. Allora, quella carne da macello emana insopportabile olezzo di femmina, di sesso; è la licenziosità più aperta che Boldini e la sua raffinatezza si siano concessi; è la più pornografica delle tele impressioniste e postimpressioniste. Lo stesso Toulouse-Lautrec non sarebbe potuto arrivare a tanto, lui che del bordello puzzava fin dentro le ossa, lui che nel bordello ci andava in affitto. Quando il sesso si fa tanto esplicito sul corpo di una donna, diventa irrappresentabile, diventa una macchia oppure acquista forme zoomorfe, come le anche ballerine di Carmen, nell’omonimo romanzo di Mérimée rapportate alle terga di una vacca. Questo irrapresentabile, sempre in Boldini, può essere visivamente traslato in un senso altro che non quello della vista: diventa un profumo come in Viole del pensiero (1910, olio su tela, cm. 46x66, coll. privata), la cui presa voluttuosa di due mani tese e aperte al mazzo così ben messo a fuoco nei suoi dettagli, trasfigura gli arti, straordinariamente espressivi, profondamente erotici, nella metafora vegetale del bouquet. Più il piacere si rende esplicito, maggiore è la trasfigurazione. Ovvero: l’atto sessuale è tanto traumatico quando si mostra in tutta la sua carnalità, che i corpi perdono la loro normale organizzazione, diventano irrapresentabili. Questa resa della carne commista al piacere, altamente voyeuristica, arriva al paradosso del pittore Frenhofer de Il capolavoro sconosciuto di Honoré de Balzac (1831; 1837), dove l’artista, ossessionato dalla sua modella-amante, arriva ad un capolavoro di informe che trova un perfetto analogon in alcuni nudi di Boldini: la tela pare una fotografia mossa, senza oggetto. Guardando le tele di Boldini appena sopra ricordate, mi domando se esistita una pittura pornografica così come la veduta o il paesaggio o ancor meglio il ritratto rivaleggiavano alla fine dell’Ottocento con la fotografia. No, non esiste una pittura pornografica, o almeno non nella misura che possa formalmente compararsi al correlato genere fotografico. La pornografia in pittura si dà come profanazione, come sguardo invasivo, indiscreto, dentro i tessuti, nelle carni vive che ricordano, evocandolo, l’organo femminile. Forse in questo, solo Courbet riesce ad essere realisticamente audace con L’origine del mondo; fortemente ironico in questo ritratto a tutti gli effetti, in questa resa non oggettificata del corpo femminile elevato a strumento di procreazione piuttosto che di piacere. Degas il misogino, il flaneur, non sarebbe mai arrivato a tanto, lui che il sesso femminile lo aveva evocato ossimoricamente, come nelle macchie di sangue dello Stupro, che macchiano il letto della giovane sotto il soddisfatto sguardo del suo cliente o carnefice. Scrive Michel Henry in Incarnazione: “Nella pornografia si mostra un tentativo di portare al limite l’oggettività della relazione erotica in modo che in essa sia tutto da vedere”. Sicuramente il luogo privilegiato dell’epifania dell’invisibile, della nudità e quindi il terreno più opportuno per la profanazione di un corpo è il volto, che il genere del ritratto prima e del primo piano cinematografico poi hanno immortalato nei paesaggi fisiognomici di donne da contemplare. Da Boldini a Klimt il passo è molto breve: abbiamo tutti negli occhi la Madonna di Munch o la Giuditta della secessione viennese su fondo oro. Lo stesso Boldini non scherza nella valorizzazione espressiva degli occhi e dell’incarnato niveo e levigato, quasi marmoreo, statuario che pietrifica, quasi fosse un volto meduseo. Una medusa che guarda se stessa e nella visione di sé, nella sua auto-profanazione, nel suo denudamento, come osserva sempre Henry, si pietrifica. Questo gioco tra incarnazione, profanazione e pietrificazione, si consuma visivamente nei primissimi piani di Greta Garbo, il cui viso è diventato un oggetto di culto, un oggetto tout court, da guardare in antitesi al volto “corruttibile” di una Marylin Monroe: “Il viso della Garbo rappresenta quel momento fragile in cui il cinema sta per estrarre una bellezza esistenziale da una bellezza essenziale, l’archetipo sta per inflettersi verso il fascino dei visi corruttibili, la chiarezza delle essenze carnali sta per far posto a una lirica della donna” (R. Barthes, Miti d’oggi, 1974, p. 64). Tornando alla pornografia, il volto diventa fondamentale nel pop porno perché contromarca del piacere, superficie dove l’invisibile si rende visibile. O piuttosto, faccia, che è fisicamente una superficie, non individualmente caratterizzata, anonima; una sagoma piuttosto che una fisionomia caratterizzata, dove si disegnano le orografie del piacere. Proprio il facial è un topos del pop porno che vediamo evocato in una clip musicale di Mina: tutt’altro che sublimato, grazie ad uno sguardo, il nostro, che si fa tattile, il facial viene qui riapprontato dall’invasione interna all’apparato boccale della camera e dal suo scorrere sulle superfici lucide di labbra e occhi che richiamano le liquidità del sesso.