Isabella Merzagora Betsos - Jus Online 1
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Isabella Merzagora Betsos - Jus Online 1
Jus-online 1/2015 Isabella Merzagora Professore ordinario di criminologia, Università degli Studi di Milano La violenza in famiglia SOMMARIO: 1. Introduzione: l’omicidio in famiglia. 2. La violenza contro i figli. 3. L’omicidio di coppia. 4. La violenza contro gli ascendenti. 5. Conclusioni. 1. Introduzione: l’omicidio in famiglia. Occupandomi, come faccio, di criminologia sono professionalmente al cospetto della “patologia” dei rapporti familiari, ma nella consapevolezza che si tratta dell’eccezione e non certo della regola dei rapporti familiari. Questi ultimi sono di norma basati sull’amore, sul rispetto, sulla solidarietà, pur se, come ricorda la stessa Relatio del Sinodo dei Vescovi “Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione”, esiste “un disagio affettivo che arriva talvolta alla violenza”, ma è un’evenienza anche numericamente eccezionale. Non solo, ma gli omicidi in famiglia non seguono un andamento di crescita costante: Anni Omicidi in famiglia: eventi Omicidi in famiglia: vittime 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 178 170 158 179 154 152 175 167 182 159 201 187 174 195 167 172 194 178 195 175 Fonte: EU.R.E.S.1 Occorre però aggiungere che gli omicidi in generale sono regolarmente diminuiti, sicché in percentuale rispetto a questi gli omicidi in famiglia risultano in crescita quasi per tutti gli anni considerati, attestandosi oramai su un terzo del totale. In ogni caso, anche se non aumentano in numero assoluto, nulla toglie al Contributo sottoposto a valutazione. 1 EU.R.E.S., L’omicidio volontario in Italia. Rapporto EURES 2013, Roma, 2014. 1 Jus-online 1/2015 dolore e allo scandalo - non a caso Dante colloca gli uccisori dei parenti fra i traditori, nella Caina, la più profonda e tremenda delle regioni infernali, e li definisce “sovra tutte mal creata plebe” (Inferno, XXXII, 13)- ma almeno ne ridimensiona l’impressione che si tratti di un fenomeno diffuso persino nelle sue estreme conseguenze –l’omicidio, appunto-, come certe scompostezze mediatiche possono far pensare. Neppure si tratta di un fenomeno nuovo: anche questo non è consolatorio, perché avremmo la legittima pretesa di vivere in un mondo in cui il processo di civilizzazione è costante, certo però che la storia e il mito sono popolati di vicende di delitti in famiglia. Naturalmente con il trascorrere del tempo mutano la fisionomia e l’eziologia dei reati: se è vero che la famiglia patriarcale era contraddistinta dall’impero del padre e marito, d’altro canto la numerosità stessa del nucleo garantiva un certo controllo sui comportamenti, e dunque anche sulla violenza esercitata da e contro i suoi membri. Oggigiorno, viceversa, il controllo sociale informale –della famiglia stessa, del vicinato- è molto minore, quello formale –cioè dell’autorità costituita- è necessariamente meno capillare, e la famiglia nucleare reagisce con una sostanziale chiusura in sé stessa, con l’impermeabilità: “nell’organizzazione tradizionale, i poteri del capo famiglia erano sì amplissimi, ma non arbitrari, soggetti sempre ad un controllo comunitario e ad una regolamentazione sacrale”2. In sostanza, in questa famiglia occultata agli occhi del tessuto sociale gli abusi possono commettersi anche per anni senza che nessuno non solo intervenga, ma persino si renda conto di quanto sta avvenendo. 2. La violenza contro i figli. Pur, senza giungere all’omicidio –tema che si riprenderà- le possibili modalità di violenza in famiglia sono molte, e, almeno generalmente parlando, vanno dal più forte al più debole, così come è implicito nel concetto stesso di violenza. Ebbene i figli sono fra i componenti più deboli della famiglia, e nei loro confronti sono descritte diverse forme di violenza, a cominciare da quella fisica. Il rapporto “Hidden in Plain Sight” dell’Unicef, che raccoglie dati su 190 Paesi, denuncia che a livello mondiale un quinto degli omicidi ha come vittima un bambino o un ragazzo sotto i 20 anni. Nel 2012, sono stati uccisi 95.000 tra bambini e giovanissimi. Sempre secondo questa fonte, nel 2003 nei 27 Paesi più industrializzati sono morti 3.500 bambini per le conseguenze di maltrattamenti fisici, nell’80% dei casi perpetrati dai genitori. Anzi, sono morti “almeno” 3.500 bambini, 2 M. Correra, P. Martucci, La violenza nella famiglia. La sindrome del bambino maltrattato, Milano, 1988, pp. 10-12. 2 Jus-online 1/2015 perché anche per questo fenomeno c’è un problema di “sommerso”, di “numero oscuro” come dicono i criminologi, della difficoltà o impossibilità, soprattutto per i bambini più piccoli, di denunciare, e della difficoltà, per gli adulti, di credere che proprio le figure deputate a fornire amore e protezione possano essere aguzzini. Da sempre si sono incontrati ostacoli ad ammetterlo, e per esempio il radiologo e pediatra statunitense Caffey, prima di riconoscere che fratture multiple delle ossa lunghe ed ematomi subdurali nei lattanti erano spesso ascrivibili ai maltrattamenti dei genitori, formulò l’ipotesi di un’origine congenita delle lesioni, che addirittura venne per lungo tempo conosciuta come “sindrome di Caffey”. Occorrerà attendere gli anni Sessanta del Novecento perché Kempe e collaboratori “scoprano” che si trattava invece di abusi perpetrati dai genitori o dai care givers. Se poi dall’abuso fisico a passiamo a quello sessuale, il problema del numero oscuro si aggrava. Ancora alla metà degli anni Ottanta del Novecento si faticava a reperire Letteratura scientifica italiana in tema di incesto3; oggi le cose sono certamente cambiate, a livello istituzionale ed a livello delle tante agenzie che si occupano di questo fenomeno, e così sappiamo che nel 2013 in Italia, nel 54% degli abusi sessuali in cui la vittima ha indicato l’autore questi apparteneva al nucleo familiare4. Un pregiudizio da confutare è quello secondo cui il violentatore sarebbe preda di un impulso irrefrenabile. In realtà l’abuso sessuale è spesso programmato, non ha nulla a che fare con la patologia –se non con quella patologia “culturale” e non psichiatrica che confonde la forza con la violenza e l’autorevolezza con l’autoritarismo-, e d’altro canto non si spiegherebbe come mai chi sia preda di così prepotenti impulsi erotici li debba sfogare in famiglia. E’ un pregiudizio che serve a “scusare” -non era colpa sua, ma della malattia- chi scuse non ha. Un fenomeno sfuggente, poco tangibile e dunque poco quantificabile, è quello delle violenze psicologiche. Viceversa gli abusi psicologici nei confronti dei bambini sono senz’altro diffusi, anche se in forme sottili quanto poco conosciute. Si pensi, per esempio, alla violenza assistita, la children witnessing violence, cioè la violenza -fisica, verbale, sessuale, psicologica- compiuta su figure vicine al minore e a cui egli assista: “Per il bambino, questo tipo di abuso risulta essere un’esperienza emozionale di dimensioni spropositate e di difficile comprensione, con ripercussioni psicologiche a volte molto rilevanti”5. I. Merzagora, L’incesto, Milano, 1986. www.osservatoriopedofilia.gov.it. 5 M. Severoni, Violenza intrafamiliare, in: G. Marotta, Temi di criminologia, Milano, 2004, pp. 169 ss. 3 4 3 Jus-online 1/2015 Come ricorda anche il Sinodo dei Vescovi, fra le forme di violenza è da citare la strumentalizzazione dei bambini in caso di conflitti fra genitori: “I bambini sono spesso oggetto di contesa […] e sono le vere vittime delle lacerazioni familiari”. Infine, vi è lo sfruttamento da parte della criminalità magari proprio attraverso gli altri membri della famiglia, tema di cui si sono interessate anche le Nazioni che nel corso dell'VIII Congresso sulla Prevenzione del Reato ed il Trattamento dei Delinquenti hanno raccomandato l’adozione della bozza di risoluzione intitolata “Uso strumentale di bambini in attività delittuose”. Talora poi, come s’è detto, si giunge al figlicidio. Le tipologie e le motivazioni dei figlicidi materni e paterni sono differenti: i padri uccidono di solito figli più grandi, per lo più nel corso di conflitti o litigi ed usano armi; le madri uccidono più spesso figli piccoli, spesso appena nati, con dinamiche di perversione della sindrome di attaccamento/separazione o a causa di franca patologia. Nel nostro e in altri codici l’infanticidio continua ad essere un reato punito in modo molto più indulgente dell’omicidio comune. Già il codice Rocco stabiliva che rispondesse di infanticidio, e non di omicidio: “Chiunque cagiona la morte di un neonato immediatamente dopo il parto, ovvero di un feto durante il parto, per salvare l'onore proprio o di un prossimo congiunto (Omissis)”. Con legge 5 agosto 1981, n. 442 l'infanticidio per causa d'onore scompare - e con esso “l'omicidio per causa d'onore”, a testimonianza del mutamento nella percezione etica in materia - e viene sostituito dal nuovo testo dell'art. 578 che recita: “La madre che cagiona la morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto, o del feto durante il parto, quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto, è punita con la reclusione da quattro a dodici anni (Omissis)”. Ebbene, possono forse immaginarsi situazioni drammatiche in cui effettivamente ricorrano queste “condizioni di abbandono materiale e morale”, e ciò nonostante un panorama nazionale che vede sempre più accessibili per le madri presidi sanitari ed assistenza pubblica, però poi, se queste situazioni sono immaginabili, risultano anche assolutamente sporadiche. Infatti, negli ultimi decenni il numero degli infanticidi subisce una brusca e costante caduta, riducendosi la frequenza media annua fino a circa dieci volte, e non raggiungendo mai neppure le 10 unità dal 1993 in poi, a fronte delle centinaia di casi della prima metà del Novecento. Ma nuove ipotesi potrebbero oggi affacciarsi per il sempre maggiore ingresso in Italia di straniere in condizioni di estrema emarginazione -economica, 4 Jus-online 1/2015 culturale, di risorse di ogni tipo-, di clandestinità, di vera e propria schiavitù, che possono configurare l’abbandono materiale e morale. In ogni caso, stupisce che le numerose riforme legislative che si sono succedute negli ultimi anni in risposta al crescente allarme sociale suscitato dai delitti in famiglia abbiano lasciato assolutamente intatta questa norma. Se il diritto, comunque, distingue l’infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale dall’omicidio, in tema di figlicidio materno la criminologia differenzia tra il neonaticidio, che ricorre nell’immediatezza della nascita; l’infanticidio, che è l’uccisione del bimbo entro l’anno di età; e il figlicidio, quando la vittima ha più di un anno. La distinzione, soprattutto fra le prime due forme e la terza, è fatta in base a considerazioni di ordine statistico, socio-situazionale, motivazionale. L’infanticidio e il neonaticidio ricorrono non solo quando l’uccisione si dia immediatamente dopo la nascita, ma qualora sopravvengano dinamiche particolari, quali sentimenti di ostilità e di estraneità nella madre, che talvolta necessita di un certo periodo di tempo per raggiungere una compiuta maturazione affettiva nei confronti del nuovo nato e per essere investita di quello “istinto materno” che appare piuttosto “sentimento materno”, quindi non solo fatto biologico. Per il figlicidio materno più in generale, combinando quanto riferito da diversi Autori6, si possono descrivere una serie di tipologie situazionali e motivazionali, in un continuum che va dall’assenza di patologia, via via verso la patologia più grave. 1. Nell’atto impulsivo delle madri che sono solite maltrattare i figli, non vi è un progetto omicida, quanto un’evoluzione particolarmente infausta della battered child syndrome, un agito impulsivo in risposta a pianti o urla del bimbo. 2. Nell’agire omissivo delle madri passive e negligenti nel ruolo materno si è al cospetto di madri incapaci di affrontare i compiti della maternità relativi alle necessità vitali del figlio. Analoghi a quelli testé citati sono i figlicidi dovuti a deprivazione e trascuratezza. 3. Uguali e contrari sono i figlicidi dovuti ad eccesso di mezzi disciplinari e di correzione. 6 I. Merzagora Betsos, Demoni del focolare. Mogli e madri che uccidono, Torino, 2003; G.C. Nivoli, Medea tra noi. Le madri che uccidono il proprio figlio, Roma, 2002. 5 Jus-online 1/2015 4. Le madri che uccidono i figli non voluti sono coloro per le quali il figlio rievoca momenti di abbandono, magari violenza sessuale, o particolari difficoltà concrete ed esistenziali. 5. Le madri possono uccidere per motivi di convenienza o pressione sociale e d’onore, questi ultimi, si spera, oramai in via di estinzione, ma nel classico studio di Resnick, di decenni orsono, si poteva ancora leggere: “l’illegittimità, con il suo stigma sociale, è il motivo più comune”7. 6. Tra i motivi sociali, o forse meglio ideologici, taluni annoverano i casi di madri – ma anche padri - che aderendo a sette religiose che prescrivono di evitare trasfusioni o medicinali, lasciano che i loro figli muoiano piuttosto che ricorrere a cure mediche che potrebbero salvarli. Il caso più noto è quello dei Testimoni di Geova, ma in USA è particolarmente diffusa la setta denominata “First Church of Christ Scientist” o “Christian Scientist”, che interdice l’uso di qualsiasi medicinale: in un caso occorso in Minnesota, una madre appartenente alla setta lasciò morire il figlio undicenne affetto da diabete mellito e fu appunto incriminata per figlicidio. 7. Un importante contributo al figlicidio materno è poi costituito dalle madri che hanno a loro volta subito violenza dalla propria genitrice e spostano l’aggressività dalla “madre cattiva” verso il figlio: “Superfluo sottolineare, ad esempio, quale rilievo possa avere nello sviluppo del cosiddetto ‘amore materno’ la relazione avuta/in atto fra madre e figlia, quando solo si pensi al processo di identificazione che naturalmente si verifica fra le due figure; lo sviluppo di un proficuo rapporto madre-figlio può essere ostacolato, o reso angoscioso, dalla possibile riattivazione di conflitti infantili, di sentimenti fortemente ambivalenti della donna nei confronti della propria madre”8. 8. Dinamiche più prettamente patologiche si ritrovano nei neonaticidi attuati in presenza ed a causa di psicopatologie puerperali, che sono descritte in tre diverse forme (maternity blues, depressioni postpartum, psicosi puerperali) tutte caratterizzate da depressione, ma con differenti livelli di gravità. 9. Sempre informate a grave depressione, ma non così strettamente e temporalmente connesse all’evento del parto, sono le situazioni di quelle madri che desiderano uccidersi e uccidono il figlio (suicidio allargato), delle madri che uccidono il figlio perché pensano di salvarlo (figlicidio altruistico), delle madri che uccidono il figlio per non farlo soffrire (omicidio pietatis causa o omicidio 7 P.J. Resnick, Child murder by parents. A psychiatric review of figlicide, in American Journal of Psychiatry, 126, (1969), pp. 325 ss. 8 R. Catanesi, G. Troccoli, La madre omicida. Aspetti criminologici, in Rassegna di Criminologia, 2, (1994), pp. 167 ss. 6 Jus-online 1/2015 compassionevole, o pseudo compassionevole, quando motivato dal desiderio di “liberarsi del fardello” del figlio malato). La depressione psicotica è poi fra le patologie più frequentemente citate da tutti gli Autori che si occupano del tema, e si arriva a consigliare particolare vigilanza in tutti i casi in cui una donna con figli sia diagnosticata depressa con ideazione suicidiaria. Questo ci obbliga ad una parentesi che non riguarda solo il figlicidio, ma, più in generale, il problema della malattia mentale e della sua sottostima in rapporto ai delitti in famiglia. Premesso che non è sempre la malattia l’unica chiave per comprendere questi fatti, quante volte però di fronte ad un delitto in famiglia ci si è chiesti “possibile che nessuno si fosse reso conto?”. Quante volte di fronte ad un delitto in famiglia, in quelle interviste televisive -che non solo non arrecano conoscenza ma ignorano pietas e decoro- abbiamo ascoltato parenti ed amici che, stupefatti, sostenevamo di non aver avuto il minimo sentore di quel che pure era lì lì per accadere, oppure che vagamente accennavano a dispiaceri apparentemente di poco conto, mutamenti sottovalutati, eccentricità magari sbrigativamente attribuite a stanchezza. Una corretta informazione, senza allarmismi, per una maggiore “alfabetizzazione criminologica” per i cittadini, potrebbe essere provvidenziale in termini preventivi. Fra le dinamiche particolari di figlicidio si annovera la c.d. “Sindrome di Medea”. Già Lombroso e Ferrero facevano cenno fra le motivazioni al figlicidio del “bisogno di vendicarsi sul bambino del padre infedele”9, e Resnick, nel distinguere le tipologie motivazionali del figlicidio, descriveva quello attuato per “vedetta del coniuge”, in cui l'aggressività era spostata dall'oggetto effettivo di risentimento, il marito, verso il figlio, che rappresenta concretamente il frutto dell'unione, al punto che l’Autore definisce questo omicidio “un attentato deliberatamente concepito per far soffrire il proprio coniuge”10. Quel che però costituisce forse una novità, è il constatare che la “sindrome di Medea”, tradizionalmente descritta nel figlicidio ad opera della madre, si riscontra attualmente anche e ancor di più nei casi di figlicidio paterno11. 9 C. Lombroso, G. Ferrero, La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, Torino, Quinta Edizione, 1927. 10 P.J. Resnick, Child murder by parents. A psychiatric review of figlicide, in American Journal of Psychiatry, 126, (1969), pp. 325 ss. 11 A. Beringheli, A. Bramante, A. De Micheli, I. Merzagora Betsos, Madri e padri che uccidono: differenze tra il figlicidio materno e quello paterno, e percezione sociale, in Archivio di Medicina Legale e delle Assicurazioni, 2006, 24, pp. 1 ss. 7 Jus-online 1/2015 Una dinamica che può sottendere il figlicidio ma è ben poco conosciuta è quella della “negazione di gravidanza”. Nei più diffusi manuali di psichiatria, compreso il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, DSM-5, si trovano la pseudociesi o falsa gravidanza, e le sindromi psicopatologiche che insorgono durante la gravidanza, il post-partum e l'allattamento, ma raramente si trova traccia del fenomeno della negazione della gravidanza. La negazione può protrarsi per un periodo più o meno lungo, e può addirittura coprire anche tutto il periodo della gestazione, fino al parto, che dunque risulta essere inatteso per la madre, la quale è allora travolta da un tumulto emotivo, anche di marca patologica, che le impedisce di prestare le dovute cure al neonato fino a causarne la morte. La negazione avviene pur in presenza di sintomi di gravidanza evidenti ed inequivocabili, che non si vogliono riconoscere e che, con meccanismo di razionalizzazione, si attribuiscono ad altre cause. Ma, ed è questa la caratteristica sconcertante, la necessità di negare può essere così intensa da influenzare le manifestazioni biologiche della gravidanza, ed infatti sono riportati casi in cui, nelle madri che negano la gravidanza, mancano molti dei sintomi della stessa12. La scoperta della gravidanza, da parte delle donne, può avvenire accidentalmente prima del parto, per esempio dopo una radiografia disposta per dolori di schiena o addominali, che queste donne non avevano attribuito alla gravidanza. Quando poi la rivelazione avviene al momento del parto, anche senza ricorrere agli Autori che pure la descrivono, può ben immaginarsi che la reazione sia, quantomeno, di grave sconcerto. In questi casi, il luogo in cui il parto avviene è la toilette, poiché la madre viene colta improvvisamente da “inspiegabili” dolori addominali. Modalità del parto così poco ortodosse fanno facilmente comprendere come talvolta la morte del bambino ne sia la conseguenza, anche per mera mancanza di assistenza. L'abuso nei confronti dei minori è comportamento purtroppo universale, nello spazio e nel tempo, ma si riveste di forme specifiche anche in dipendenza da fattori storici e sociali. Così, se nel passato si concretizzava piuttosto in incuria ed abbandono, magari nella forma di una denutrizione mascherata da baliatico che finiva per condurre alla morte per fame, oggi viceversa e paradossalmente si può manifestare in eccesso di cura, in ciò favorito da malinteso e perverso ricorso al sistema di welfare. La “Sindrome di Munchausen per procura” (SMP) è appunto una forma di maltrattamento che deriva in un certo senso da troppa sollecitudine, e che è resa possibile solo in una cultura in cui la scienza medica e l'assistenza sanitaria sono particolarmente sviluppate. Meadow userà per primo nel 1977 l'espressione 12 I. Merzagora Betsos, A. Tanzini, Negazione della gravidanza e infanticidio, in Psichiatria Oggi, 2002, XV, I, pp. 42 ss. 8 Jus-online 1/2015 “Sindrome di Munchausen per procura” (Munchausen syndrome by proxy) 13, per intendere la situazione in cui i genitori, o inventando sintomi e segni che i propri figli non hanno, o procurando loro sintomi e disturbi (per esempio somministrando sostanze dannose), li espongono ad una serie di accertamenti, esami, interventi che finiscono per danneggiarli o addirittura ucciderli, al punto che il tasso di mortalità è stato calcolato fra il 9 e il 22% dei casi. Già nel suo primo scritto Meadow aveva richiamato precedenti osservazioni di “child abuse” per mezzo di avvelenamento, in cui la motivazione sarebbe da ricercarsi nei conflitti coniugali dei genitori – di nuovo Medea, dunque- ed in cui la conseguente malattia del bambino tendeva a ripristinare le relazioni coniugali a spese del figlio. Successivamente fu segnalata all'attenzione scientifica un'altra e forse ancor più subdola forma di Munchausen per procura: la falsa accusa formulata dalla madre che il figlio abbia subito abuso, fisico e/o sessuale. La Sindrome di Munchausen per procura è “subdola”: non solo i medici si trovano di fronte a sintomi strani, a quadri clinici inusuali, recidivanti e resistenti alle terapie, ma inoltre, se già è disturbante ammettere che i genitori, le madri in particolare, vogliano fare del male ai propri figli, ancor più difficile è riconoscere che a farlo siano madri che appaiono sollecite e premurose. E ancora, è fastidioso dover concludere che si è stati manipolati, che si è perso tempo nel cercare l'inesistente, insomma, che ci si è sbagliati. Da qui, e forse da altro ancora, la difficoltà diagnostica della Sindrome in questione, e la necessità di sottolineare le caratteristiche del Munchausen per procura e quindi foriere di sospetto: - segni e sintomi bizzarri, che non si trovano in alcuna malattia conosciuta o che sono incongrui rispetto a quadri patologici noti, difficilmente verificabili e in numero eccessivo (più di cinque ma anche più di dieci sintomi diversi); - il trattamento non ha alcuna efficacia; - segni e sintomi compaiono solo quando i genitori (perlopiù la madre) sono soli con il bambino; - il genitore ha un comportamento troppo controllato rispetto alla gravità dei problemi del bambino; ovvero è la continua ricerca di aiuto medico nonostante le rassicurazioni dello staff medico che deve mettere in sospetto; - il genitore non lascia mai il figlio solo durante la degenza; 13 R. Meadow, Munchausen syndrome by proxy - The hinterland of child abuse, in Lancet, 1977, 2, pp. 343 ss. 9 Jus-online 1/2015 - vi sono precedenti di malattie insolite o di morti strane nei fratelli o comunque in famiglia. Le madri, inoltre, si presentano ben diverse dalla classica figura della madre maltrattante o incurante: in questi casi si tratta di madri che richiedono continuamente accertamenti o interventi perché, all'apparenza almeno, sono sollecite, premurose, ansiose per la salute dei figli. Questa pretesa sollecitudine, tra l’altro, guadagnando alle madri una particolare considerazione da parte del personale medico ed infermieristico, rende ancor più difficile scoprire prima, e credere poi, che di madri abusanti si tratti. Un’ultima notazione riguarda gli abbandoni dei neonati. Fra le “tradizionali” forme di neonaticidio, neppure tanto mascherato, si collocava in passato l’esposizione del neonato, cioè l’abbandono ad una sorte quantomeno densa di incognite; di questa forma abbastanza comune di disfarsi dell’infante, magari di imbarazzanti natali, si hanno esempi illustri, da Mosè ad Edipo, ma sicuramente a molti altri bambini non è andata così bene e non hanno avuto il tempo di passare alla storia (o al mito). Vi erano differenze in funzione del genere, fino al punto che un egiziano di epoca alessandrina scriveva alla moglie lontana che era gravida: “Quando partorirai, se sarà un maschio, tienilo; se sarà una bambina, esponila”, e in Grecia, Posidippo, autore del III secolo, affermava: “Un figlio lo alleva chiunque, anche se è povero; una figlia, la si espone”14. Così, sono le bambine ad essere preferibilmente abbandonate, accanto a mucchi di spazzatura, all’angolo di una strada, tutt’al più in un vaso perché non siano cibo dei cani randagi. A partire dal Medioevo, l’assistenza all’infanzia abbandonata diventa uno dei primi scopi delle istituzioni di carità, ma ancora nel 1527 si riconosce che “le latrine risuonano del pianto dei bambini in esse immersi”15, e intanto si registrano in alcune città italiane da cento a duecento abbandoni all’anno. Il peggioramento delle condizioni delle classi popolari avutosi con l’avvento dell’industrializzazione aggraverà la situazione; la seconda metà dell’Ottocento vedrà una crescita degli abbandoni in tutta Europa, e per converso alla fine del XIX secolo gli abbandoni cominceranno a scemare contemporaneamente al miglioramento delle condizioni economiche, all’emanazione delle prime leggi a tutela dei lavoratori, alle forme di assicurazione sociale. Nel frattempo però, alla tradizionale motivazione della miseria come causa dell’abbandono dei neonati si era aggiunta un altro fattore, la “infamia” legata alla maternità in nubilato per le donne e allo status di illegittimo per il bambino. 14 15 C. Salles, I bassifondi dell’antichità, Milano, 1984. L. DeMause, Storia dell’Infanzia, Milano, 1983. 10 Jus-online 1/2015 La grande innovazione che si era avuta nel frattempo era quella della “ruota”, cioè un congegno che ruotava su di un perno collocato nel vano della finestra di un istituto caritatevole, solitamente un convento; il bambino che si voleva abbandonare, “esporre” come si diceva, si collocava sulla parte esterna, poi il meccanismo veniva fatto ruotare, solitamente a questa rotazione era collegata una campanella che avvertiva dell’arrivo del neonato, e chi stava all’interno poteva così accoglierlo. Il marchingegno permetteva a chi abbandonava il bambino di mantenere l’anonimato. In Italia, intorno alla seconda metà dell’Ottocento, si calcola ci fosse un esposto ogni 500 abitanti16; perché la ruota venisse abolita bisognerà attendere una legge del 1923. Una personale ricerca17 ha riguardato 69 casi di abbandono di neonati come riportati dal più diffuso quotidiano italiano dal 1995 al 2005. Stante il fatto che un quotidiano non riporta necessariamente tutti gli episodi e ferma restando la presenza di un numero oscuro, non si pretende che questi dati siano sicuramente rappresentativi del fenomeno, ma alcuni dei risultati possono offrire notizie di un certo interesse. Quanto ai luoghi di ritrovamento, chiese e conventi mantengono, almeno in parte, la tradizione, segno della fiducia che regna nella virtù della carità dei religiosi. I tempi però mutano, e così 2 neonati sono abbandonati rispettivamente in un centro commerciale e in un supermercato, 5 in treno, autobus, stazioni ferroviarie, e 3 in parcheggi delle autostrade. Dei 6 abbandonati in ospedale, 2 erano affetti da malformazioni. La fiducia nella pietà altrui si estende anche ai laici, e ben 8 bambini sono lasciati presso abitazioni, davanti al portone, in ascensore, persino sul davanzale di una finestra. La maggior parte dei piccoli, però, come accadeva in passato, è lasciata per strada, in campi, nei parchi e, soprattutto, i neonati sono buttati nei cassonetti: 12 casi rievocano quanto riportato sopra sulla condizione dei bambini nell’antichità, e i risultati sono purtroppo quegli stessi, visto che la metà dei piccoli morti della nostra casistica erano stati lasciati appunto nei cassonetti. La madre viene individuata in più di un terzo dei casi, in genere perché si reca in ospedale per le complicanze del parto. Quando si riesce a sapere qualcosa di lei si apprendono notizie di estrema deprivazione e difficoltà: in un caso la famiglia, con già altri tre figli, “risiedeva” in automobile, in un altro la donna aveva altri cinque figli, in un altro ancora era malata di mente. Pur considerando che in molti casi non abbiamo notizie di sorta, è certo che in almeno 21 casi la madre è straniera. Come a proposito dell’infanticidio per P. Galletto, La “ruota”, Roma, 1987. I. Merzagora Betsos, A. De Micheli, Figlicidio e abbandono dei neonati, Società Italiana Formazione Psichiatria Forense e Penitenziaria, X Convegno Nazionale di Studi: “Delitti in Famiglia”, Aversa, 26-28 Ottobre 2006. 16 17 11 Jus-online 1/2015 abbandono materiale e morale, assistiamo oggi in Italia al sempre maggiore ingresso di straniere in condizioni di completa emarginazione, di povertà estrema, di totale mancanza di risorse, di clandestinità, di autentica schiavitù, che non hanno saputo o potuto trovare un’altra “soluzione” se non quella dell’abbandono del neonato. 3. L’omicidio di coppia. L’omicidio di coppia rappresenta la tipologia prevalente degli omicidi in ambito familiare, ed è un altro fenomeno di cui i media ultimamente si occupano molto. In particolare si occupano di femminicidio18; posto che in media 7 su 10 delle uccisioni delle donne è perpetrata in famiglia, e il più delle volte ad opera del partner o dell’ex partner, omicidio di coppia e femminicidio divengono quasi sinonimi di uxoricidio per mano del marito. Anche questo fenomeno non è in crescita costante (ma neppure in diminuzione), come forse l’insistenza mediatica ci induce a credere, ma naturalmente l’obbrobrio rimane: anche se di femminicidio ce ne fosse uno solo, sarebbe vergognoso. Inoltre bisogna tener conto delle altre forme di violenza contro le partner che sono maggiormente coperte dal numero oscuro: la violenza fisica non letale, la violenza sessuale, quella economica, quella psicologica (quest’ultima sicuramente non appannaggio maschile). Relativamente agli omicidi possiamo contare su dati sufficientemente attendibili, mentre non è così per questi altri tipi di abuso. Abbiamo solo un dato per dir così “a contrario”: nel 2006 l’ISTAT ha condotto una ricerca di vittimizzazione intervistando telefonicamente un campione rappresentativo di donne fra i 16 e i 70 anni, da cui non solo risulta che 2 milioni e 938 mila Italiane sono state vittima di violenza fisica o sessuale da parte del partner attuale o dell’ex partner nel corso della vita, ma soprattutto emerge che nella quasi totalità dei casi -nel 93%- questi tipi di violenze non sono denunciate19. Insomma, il fenomeno esiste ed è giusto che ci si preoccupi. S’è detto che uxoricidio nella gran maggioranza dei casi significa uccisione della moglie, quel che rileva poi è che la criminogenesi in quest’ultimo caso è Cioè: “qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte”. Questa è la definizione di femminicidio del Devoto-Oli del 2009, e il termine si ritrova anche nello Zingarelli a partire dal 2010. Per le uccisioni vere e proprie alcuni preferiscono il termine “femicidio”. 19 Istat, La violenza e i maltrattamenti contro le donne dentro e fuori la famiglia, Roma, 2007. 18 12 Jus-online 1/2015 diversissima rispetto a quella dell’uxoricidio in danno del marito. Le due tipologie sono così sintetizzabili: - quella del dominio e del possesso – più ancora della “vecchia” gelosia nell’ipotesi del marito che uccide la moglie; - quella del costante maltrattamento da parte del marito che alla fine esita in omicidio per travisata “difesa” in caso di uxoricidio della moglie in danno del marito. La differenza, oltre che motivazionale, è quantitativa: nel 2012, per esempio, su 86 omicidi di coppia, in 73 casi era l’uomo che aveva ucciso la donna, né le cose sono andate significativamente diverso negli anni precedenti. In uno studio sui partner violenti 20, costoro sono stati suddivisi in quattro tipologie: coloro che hanno commesso il reato perché spinti dalla presenza di malattia mentale; coloro che hanno commesso il crimine in condizioni assolutamente eccezionali, che non sono inseriti in alcuna sottocultura, che non hanno precedenti neppure di maltrattamento domestico, e che di solito si rammaricano profondamente di quel che è accaduto; chi ha ucciso o comunque è stato violento sulla base di un serio problema di dipendenza dalla partner e di patologia dell’attaccamento affettivo, e che non riesce a concepire di poter vivere senza la partner. Questo spiega anche la frequenza delle uccisioni per mano degli ex partner, spiega il fatto che il momento di maggior rischio per la vittima sia quello in cui viene comunicata la decisione di separarsi, spiega il fenomeno dello stalking; infine, sono quei casi in cui l’omicidio è il dramma finale di una lunga teoria di maltrattamenti, prepotenze, violenze, accompagnate da una salda sottocultura di discriminazione di genere e di sostegno alla violenza, che a sua volta trae alimento dalla messa in atto di tecniche di neutralizzazione, cioè da quelle auto-giustificazioni per il comportamento deviante che consentono al soggetto di neutralizzare, appunto, il conflitto con la morale sociale e dunque il rimorso. Benché in molti casi non vi siano informazioni, i dati disponibili segnalano un’elevata frequenza di precedenti maltrattamenti in danno di quella - 20 I. Merzagora Betsos, Uomini violenti. I partner abusanti e il loro trattamento, Milano, 2009. 13 Jus-online 1/2015 che sarà poi la vittima di omicidio, e inoltre indicano che in più dei due terzi dei casi i pregressi maltrattamenti erano noti a terze persone, che i maltrattamenti si protraevano da anni, che nel 44% erano stati denunciati, che in alcuni casi le donne si erano rivolte a centri antiviolenza21. Le due ultime tipologie non di rado sono mescolate, e comune ad entrambe è l’elemento sottoculturale della discriminazione di genere: l’idea che in casa –e forse non solo lì- occorra “farsi rispettare” (il che però di solito non prevede un corrispondente rispetto della partner); l’adesione a ideologie “mascoline”, l’opinione che la violenza sia un apprezzabile metodo per risolvere i problemi e che gli uomini debbano esercitare un controllo sulle loro partner. La sottocultura della discriminazione di genere trova spesso origine nell’esempio familiare, e talora nella violenza assistita o nell’abuso subito in età precoce secondo l’arcinoto – e forse un po’ logoro – concetto di “ciclo dell’abuso”. Circa le criminodinamiche, possiamo far riferimento alle “tecniche di neutralizzazione”, cioè le “scuse” che ci si inventa quando si viola una norma: la negazione della propria responsabilità, come nel caso in cui il soggetto sostiene di aver agito in condizione di infermità mentale o di intossicazione alcolica; la minimizzazione del danno provocato, una sorta di “ridefinizione” dell’atto per cui un’aggressione diviene uno “scambio di opinioni”, o comunque “non le ho fatto molto male”; con la negazione della vittima si giunge ad affermare che il pregiudizio arrecato alla vittima non rappresenta un'ingiustizia, perché si tratta di una persona che merita il trattamento subito: basti pensare alle aggressioni contro la moglie “infedele”; la giustificazione morale, grazie alla quale il comportamento trova una sua scusante nell’aver obbedito a motivazioni moralmente elevate. Nel caso dei mariti violenti per questa giustificazione sono di solito invocati la Bibbia o il Corano, secondo cui – nella versione di costoro- è stabilito che la donna debba sottomissione all’uomo; l’etichettamento eufemistico, in cui si riduce la gravità del comportamento attraverso una definizione benevola o comunque “accettabile” (per i partner violenti l’aver percosso la donna diventa averle dato una lezione, l’averla colpita senza usare armi non è averla veramente aggredita, la violenza è la risposta legittima ed appropriata al comportamento viceversa “inappropriato” delle partner, eccetera); il confronto vantaggioso, che consiste nel paragonare il proprio comportamento con altri più gravi e in questo modo ridimensionarne la gravità (nel nostro caso: “tanti altri mariti sono ben più violenti”); l’attribuzione di colpa alla vittima: è la donna che esaspera l’uomo, o magari lo ha tradito e quindi merita la violenza. 21 EU.R.E.S., L’omicidio volontario in Italia. Rapporto EURES 2013, Roma, 2014. 14 Jus-online 1/2015 4. La violenza contro gli ascendenti. Venendo ai parenticidi e ai maltrattamenti dei genitori, il matricidio risulta poco frequente fra gli omicidi dei familiari in quasi tutte le casistiche (tra il 2000 e il 2012 in Italia costituisce il 12% di tali delitti), e trova spesso motivazioni psicopatologiche. Ancora inferiore la percentuale di parricidio. Stridenti contrasti di ruoli sono alla base dei modelli definiti “parricidio riparatore”, in cui il padre è ucciso per aver fatto sì che fossero vilipesi i valori morali della famiglia, e “delitto liberatorio”, dove il padre viene ucciso in quanto ostacolo al raggiungimento o alla conservazione della felicità. Qualche volta la felicità può, banalmente, consistere nella disponibilità economica, come nel caso di Giovanni Rozzi che dichiarerà: “L’idea di uccidere mio padre è maturata per un mio desiderio di libertà nella gestione della mia vita e nell’amministrazione dei miei beni […] Dopo la sua morte li avrei gestiti io senza nessuna costrizione”22. O come nel caso di Pietro Maso, in cui i due genitori vennero “barbaramente trucidati”23 dal loro figlio in correità con tre amici; quanto ai motivi, la sentenza sottolinea l’inquietante trivialità e nel contempo la inconsueta “normalità” ambientale, almeno rispetto allo stereotipo che vorrebbe il delitto fiorire in ambienti di miseria (ma la miseria non è solo economica): “Il crimine viene pensato ed ideato in un contesto relazionale, di apparente benessere senza conflittualità, condizioni queste invero normalmente assenti negli altri omicidi domestici”24. Comunque di figlicidi, di uxoricidi, di parenticidi si sente (fin troppo) parlare, mentre la categoria più negletta è quella degli anziani, insomma dei nonni. Consultando la letteratura scientifica, soprattutto criminologica ma persino geriatrica, la sproporzione fra gli scritti stranieri e quelli italiani in materia è desolante, e fa pensare a quel che si poteva affermare fino a non molti decenni fa in tema di abusi ai bambini. Anzi, lo squilibrio fra gli scritti che riguardano il maltrattamento dei bambini e quelli che concernono gli abusi nei confronti degli anziani fa immaginare un Paese popolato da giovani e spopolato da anziani, esattamente all’opposto di quel che avviene in termini demografici da noi, dove gli ultrasessantacinquenni sono oramai più del 20% degli Italiani, e sono quattro volte più numerosi dei minori di 4 anni. P. De Pasquali, Figli che uccidono, Catanzaro, 2002. Corte di Assise di Appello di Venezia, Sezione II, 30 aprile 1993, estensore Lanza. L'espressione è nella sentenza. 24 Corte di Assise di Appello di Venezia, Sezione II, 30 aprile 1993, estensore Lanza. 22 23 15 Jus-online 1/2015 Non si vuol fare certo fare i laudatores tempori acti e mitizzare le famiglie di una volta, ma oggigiorno il problema è complicato dall’allungarsi della vita, ed in particolare dal protrarsi di essa pur in presenza di malattie, fisiche o psichiche, che rendono l’anziano dipendente e bisognoso. Come s’è anticipato, si può paragonare questo fenomeno a quello del child abuse per l’essere stato per lungo tempo ignorato e per il vasto numero oscuro, e appunto in analogia alla “battered child syndrome”, alcuni Autori lo hanno chiamato “granny battering” o “battered old person syndrome”. Però, le analogie con il child abuse non andrebbero sopravvalutate, e il fatto di distinguere fra la condizione di dipendenza dell’infanzia e quella, invece, di capacità e responsabilità dell’anziano evita una stigmatizzazione di quest’ultimo come soggetto a cui si debba presuntivamente prestare tutela. Un primo modello teorico che cerca di spiegare il maltrattamento dell’anziano è il “modello situazionale”, secondo cui vi sarebbero una serie di condizioni favorenti il fenomeno, vuoi fattori legati alla vittima stessa (dipendenza fisica e psichica, problemi di salute e di personalità), oppure fattori strutturali (difficoltà economiche, isolamento sociale, problemi ambientali), o fattori connessi alla persona che ha in carico l’anziano (problemi esistenziali, abuso di sostanze, precedenti esperienze di socializzazione secondo modelli di violenza). Secondo il modello teorico del maltrattamento degli anziani fondato sull’interazionismo simbolico, sorgerebbe un conflitto di ruolo, sia nella vittima che nell’autore dell’abuso, per la difficoltà di conciliare l’immagine dell’anziano quale è ora e com’era in passato, e ciò per la perdita di potere, di efficienza, di prontezza. L’esempio dell’anziano affetto da demenza esemplifica drammaticamente tale mutamento e dunque il conflitto interattivo e simbolico, ma anche senza giungere a questi estremi, la sensazione di pena ma persino di rabbia che ci coglie quando vediamo i nostri genitori declinare è un’altra dimostrazione calzante. Fra i tipi di abuso attivo sono descritti: - l’abuso fisico; - psicologico; - sociale ed ambientale; 16 Jus-online 1/2015 - materiale o economico25. L’abuso fisico è dato, com’è intuitivo, dall’atto che comporta danno o dolore fisico, e gli esempi sono schiaffi, percosse, spintoni, bruciature, tagli, contenzioni superflue o attuate con strumenti inadeguati, compresa l’eccessiva somministrazione di farmaci magari al solo scopo contenitivo. Fra le forme di abuso psicologico si indicano le umiliazioni (suscitare vergogna, mettere in ridicolo, rifiutare), gli insulti, le intimidazioni, le minacce. Questo tipo di abuso sarebbe più frequente di quello fisico, ma non meno nocivo. Il maltrattamento “sociale” può consistere nell’isolamento, nel cattivo uso delle risorse di vita e abitative, fino all’abbandono. L’abuso o sfruttamento economico si verifica quando vengono tolti all’anziano denaro o beni, e le sue risorse economiche sono usate per profitto altrui 26. Fra gli esempi di maltrattamento economico e sociale vi è anche il costringere l’anziano a negozi giuridici che non vorrebbe stipulare o, forma insidiosa ma certo non sconosciuta anche da noi, l’eccesso superfluo di tutela giuridica (interdizione). Una forma di “esclusione” particolare è costituita dalla penalizzazione dei nonni nei casi di separazione o divorzio dei figli, con conseguente interruzione del rapporto coi nipotini. La Giurisprudenza ha più volte affermato il “diritto di visita dei nonni” e ribadito l’importanza di un’adeguata tutela del vincolo esistente tra nonni e nipoti27. Fra le forme di abbandono, infine, è da segnalare il fenomeno delle c.d. “morti solitarie”, cioè i decessi per cause naturali di persone sole, scoperti dopo un certo lasso di tempo. In proposito è da ricordare che, secondo i dati dell’ultimo censimento, gli anziani rappresentano più della metà delle persone che vivono sole. Una ricerca ha analizzato i casi di anziani rinvenuti morti dal 1992 al 2004. Si è trattato di 90 anziani; molti di essi vivevano soli, spesso in condizioni disagiate, abbandonati perché infermi, affetti da svariati disturbi, lontani da parenti che solo raramente si sinceravano delle loro condizioni28. 25 I. Merzagora, Il maltrattamento degli anziani in famiglia, in: Cendon P. (a cura di), Trattato della responsabilità civile e penale in famiglia, volume III, Padova, 2004, pp. 1821-1839. 26 R. Pasqualini, C. Mussi, Come riconoscere e prevenire l’abuso degli anziani, in Giornale di Gerontologia, 2001, 49, pp. 42 ss. 27 Cass. Civ., settembre 2006; Cass. Civ., giugno 1998; Corte di Appello di Lecce, maggio 2002. 28 A. De Micheli, I. Merzagora Betsos, Comunicazione presentata al XXI Convegno Nazionale della Società Italiana di Criminologia, Gargnano del Garda, 2007. 17 Jus-online 1/2015 Chi ha avuto a che fare con degli anziani indementiti o anche solo non autosufficienti sa l’esasperazione a cui i poveretti possono condurre chi li assiste, ed infatti fra le condizioni a rischio sono citate soprattutto la demenza, il morbo di Parkinson, i disturbi cerebrovascolari o di altro tipo che comportino difficoltà di comunicazione, immobilità, incontinenza. Le donne, soprattutto se ultraottantenni, sono maggiormente a rischio di abuso, il che è dovuto anche al fatto che vi sono più donne che uomini di quella età. Quanto alle caratteristiche di chi compie l’abuso, si tratta soprattutto di coloro che vivono con la vittima e che hanno dovuto lasciare il lavoro per assisterla. Si tratta di figli o nipoti, ma anche di coniugi29. Un altro fattore preoccupante è la difficoltà da parte del medico di riconoscere la violenza dovuta dal fatto che negli anziani i segni dell’abuso, comunque aspecifici, possono essere mascherati dalla presenza di patologie concomitanti. Se molte delle vittime non chiedono aiuto o non denunciano gli abusi per vergogna, per timore di rappresaglie, o semplicemente per affetto verso l’autore o gli autori della violenza, ostacoli all’emersione del fenomeno del maltrattamento dell’anziano sono i problemi specifici della vecchiaia, fisiologica o patologica, quali l’isolamento sociale o i deficit cognitivi. Il numero oscuro, e su ciò concordano tutti, è dunque sicuramente alto. Lanza ricorda che nel 1988 in Italia vi erano stati 8.646 incidenti domestici con esito mortale, nel 75% dei quali la vittima contava più di 64 anni, e osserva: “tale cifra deve anche porre un piccolo problema criminologico, essendo ragionevole pensare che qualche riferito 'incidente mortale domestico' sia invece frutto di un'azione criminosa di qualche familiare della vittima, in qualche modo poi protetto dagli altri membri del gruppo [...]. Per suggerire un’immagine quantitativa del fenomeno stesso, basti pensare che se si ipotizzasse che solo il 5 per mille dei morti 'anziani' per incidente domestico debba l'inizio della catena causale che ha poi prodotto l'evento letale all'azione illecita di un familiare (una spinta, un tentativo di percosse o di lesioni etc.), il valore degli omicidi domestici aumenterebbe subito in valore assoluto di 40 unità all'anno”30. Come per le altre forme di violenza in famiglia, l’unico dato certo riguarda gli omicidi, e come per i femminicidi l’omicidio degli anziani è nella maggior parte dei 29 1359 ss. 30 A.C. Homer, C. Gilleard, Abuse of Elderly People by their Carers, in British Medical Journal, 1990, 301, pp. L. Lanza, Gli omicidi in famiglia, Milano, 1994, pp. 104-105. 18 Jus-online 1/2015 casi omicidio in famiglia. Secondo tradizione, le vittime sono soprattutto donne, gli autori soprattutto uomini. Nel 2012 – ultimo anno per il quale sono a disposizione i dati EU.R.E.S. – si è registrato il più elevato numero di ultrasessantacinquenni uccisi dell’ultimo decenni, con una percentuale del 18,6% sul totale degli omicidi31. Un fenomeno non esclusivo ma abbastanza tipico dell’omicidio fra anziani è quello dell’omicidio-suicidio detto “pietatis causa”, in cui uno dei coniugi –quasi sempre il marito- oramai anziano ed incapace di assistere l’altro, a sua volta malato e non autosufficiente, lo uccide e si uccide, al termine di una lunga vita magari trascorsa nell’amore e nella condivisione32. 5. Conclusioni. In conclusione ci si aspetterebbe forse la risposta alla domanda sul perché della violenza proprio là dove sarebbero viceversa da ritrovarsi amore e solidarietà. E’ però da ribadire che questi fenomeni sono la “patologia” e non la fisiologia delle relazioni familiari; sono eccezioni, non regole. Le relazioni familiari sono piuttosto rappresentate dalle parole della Relatio del Sinodo dei Vescovi là dove cita la “generosa fedeltà” con cui tante famiglie rispondono alla loro missione con gioia, anche di fronte ad ostacoli e sofferenze. Un primo “perché” dunque non riguarda tanto la violenza, quanto l’attenzione anche scomposta ad essa, soprattutto nella sua forma più estrema, quella dell’omicidio. Per cominciare, una risposta molto ovvia: ancorché si sappia da sempre - dal fratricidio commesso dal primo uomo nato da donna e poi via via attraverso la saga degli Atridi fino all’oggi -, che la famiglia non è sempre il luogo dell’amore e della sicurezza, si sente odore di tradimento quando si sa che qualcuno è stato colpito proprio nel luogo dove si aspettava riparo, che è stato oggetto di tanto odio là dove avrebbe dovuto esserci amore. Un’altra risposta alla domanda sull’eccesso di allarme sociale riguarda il supposto aumento delle violenze in famiglia, ma già s’è detto, dati alla mano, che ciò non si dà. Se non che, grazie ai mezzi di comunicazione, ogni episodio ci viene ammannito ripetutamente nel corso della giornata, e di ognuno di questi fatti si ha notizia più volte: al momento della scoperta, poi quando viene individuato un sospetto autore, e poi ancora quando sono celebrati i processi. Il fatto magari è uno solo, ma l’impressione che se ne ricava è multipla. EU.R.E.S., L’omicidio volontario in Italia. Rapporto EURES 2013, Roma, 2014. I. Merzagora Betsos, L. Pleuteri, Mi voglio uccidere e ti porto con me; Ti devo uccidere ma vengo con te, in Rivista Italiana di Medicina Legale, 2004, 3-4, pp. 603 ss. 31 32 19 Jus-online 1/2015 Altro motivo che potrebbe essere alla base dell’inquietudine sociale è quello della – reale o apparente - normalità sociale e psicologica di taluni degli assassini familiari: talora si tratta di delitti che germinano in un humus che si prospetta di assoluta normalità. Pietro Maso, il ragazzo di “buona famiglia” privo di eclatanti sintomi psichiatrici assieme a tre amici altrettanto “normali” ha ucciso con modalità efferate entrambi i genitori. In una delle consulenze psichiatriche, dopo una lunga disamina della personalità di uno dei soggetti, della storia di vita, dei suoi atteggiamenti, dell’ambiente sociale in cui i protagonisti vivono, il consulente con semplicità e chiarezza conclude: “la normalità è possibile anche di fronte al delitto più efferato”33. A undici anni di distanza dal delitto, d’altro canto, Maso dirà della propria famiglia nel corso di un colloquio con chi scrive: “A parte quello che ho fatto io, tutto nella norma. Una famiglia come le altre [sic]”34. Ma forse sul termine “normalità” molto ci sarebbe da disquisire, ed anche sui termini – che oramai tutti percepiamo come logori, inattuali, posticci - di “bravi ragazzi”, di “insospettabili”, e così via. La “normalità”, insomma, non è sinonimo di convenzionalità e non è apparenza. Per venire ora al “perché” della violenza in famiglia, occorre subito ricordare che i fenomeni delittuosi non hanno quasi mai una spiegazione unica, che vige in criminologia la regola della multifattorialità. I fattori ambientali, quelli economici, culturali, psicologici, talora psicopatologici concorrono, di volta in volta con diverso peso, nel rendere conto di un fenomeno. D’altra parte lo si è potuto constatare nella disamina dei vari tipi di omicidio in famiglia, effettuando la quale motivazioni e cause sono già state analizzate; qui si tratta solo di alcune puntualizzazioni. Proprio a proposito della famiglia, una delle spiegazioni della criminalità in generale che oggi va per la maggiore, soprattutto nei quei talk show, è quella de “la colpa è della famiglia”. Da un lato è ovvio –certo, ognuno di noi è impastato (anche) di quel che gli trasmettono in famiglia, e certo il “ciclo dell’abuso” può essere un motore potente-, ma allora dovremmo poi imputare le eventuali inadeguatezze e lacune della famiglia ai genitori dei genitori, e poi ai genitori dei genitori dei genitori, e via via in una catena che può interrompersi solo a Caino. Consulenza per il P.M. a firma del professor Vittorino Andreoli, pp. 165-166. I. Merzagora Betsos, A. Bramante, F. Tosoni, L’omicidio dal punto di vista criminologico e psicopatologico forense, in G. Gulotta, I. Merzagora Betsos (a cura di), L’omicidio e la sua investigazione, Milano, 2005, pp. 93174. 33 34 20 Jus-online 1/2015 Soprattutto però, la famiglia, qualunque famiglia, non risiede in un vacuum sociale, risente dello spirito dell’epoca, si arrabatta a cambiare con i tempi che cambiano. Per evitare i luoghi comuni, occorre pur dire che la colpa - rectius la causa - è anche della società, che poi vuol dire che la colpa è di tutti noi perché tutti partecipiamo al sociale e portiamo dunque la corresponsabilità del male (e del bene). Anche le affermazioni sulla colpa della società e sulla crisi dei valori che, almeno secondo autorevoli osservatori ed “opinionisti”, l’attuale società sta patendo paiono trite, stantie, pigri luoghi comuni euristicamente nulli. Se però le si riempie di contenuti forse qualcosa suggeriscono. In un articolo di alcuni anni or sono, Mantovani fornisce molte, corrosive, lucide chiavi di lettura anche per questa criminalità, e per la “sorprendente sorpresa degli ormai quotidiani massacri intrafamiliari”: vale la pena di riprenderle. Egli denuncia “l’inappetenza di valori” indotta dalle ideologie materialistiche, la cui sovrana legge di mercato rende tutto possibile, con una cultura che contiene l’imperativo della “sostituzione di ciò che piace a ciò che è”; la “maggior felicità propria” come criterio unico di valutazione ignorando qualsiasi solidarietà e – Dio non voglia! - sacrificio; l’iperstimolazione illimitata delle mete che incoraggia appunto indipendentemente da quanto la norma condanna, che fa sì che “anziché desiderare ciò che è buono, si considera buono ciò che è desiderabile”, fino all’ “io uccido chi voglio: questo è un paese democratico”35. Ideologicamente lontano, ma forse meno di quanto sembri, così scriveva Pasolini, qualche decennio or sono: “il nuovo edonismo con cui il potere reale sostituisce ogni altro valore morale del passato”; “Si può dunque affermare che la ‘tolleranza’ della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere è la peggiore delle repressioni della storia umana. […] i beni superflui rendono superflua la vita”36. Con le parole del parricida Pietro Maso nella sua confessione ai Carabinieri: “Nel novembre del 1990 mi è venuto in mente di condurre una vita brillante e quindi mi servivano molti soldi. Non volevo lavorare. Per avere questi soldi l’unica soluzione possibile era quella di avere subito l’eredità che mi spettava dai genitori qualora fossero morti. Mi sarebbe piaciuto di averla intera dovendo così essere costretto [sic] ad uccidere anche le mie sorelle”37. 35 F. Mantovani, Criminalità sommergente e cecità politico-criminale, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale (1999), p. 1201 ss. 36 P. Pasolini, Scritti corsari, ed. 2001, Milano. 37 P. De Pasquali, Figli che uccidono, Catanzaro, 2002, p. 98. 21 Jus-online 1/2015 Ebbene, forse alcune cose si spiegano. Keywords: domestic violence; filicide; femicide; maltreatment of the elderly. Abstract: This paper examines the domestic violence phenomenon, focusing mainly on murders, analyzing its motivations, quantitative and qualitative aspects, and perceiving filicides, femicides and violence against the elderly. Statistical data are provided to refuse the idea of an increasing number of domestic violence episodes nowadays. Moreover, the Author talks over some possible explanations, useful to understand the phenomenon and the social distress it causes. 22