Della vita e della morte: Palermo Shooting

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Della vita e della morte: Palermo Shooting
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Alessandro Canadè
Ogni foto è una rievocazione della nostra mortalità.
Ogni foto tratta della vita e della morte.
Ogni foto ha un’aura di sacralità.
Ogni foto è più dello sguardo di un uomo,
è superiore alle capacità del suo fotografo.
Ogni foto è anche un aspetto della creazione
al di fuori del tempo,
da una visuale divina
Wim Wenders
La fotografia, la Morte, Palermo sono i tre “Canti” attorno ai quali si
struttura Palermo Shooting (2008) di Wim Wenders. La fotografia in quanto
memento mori – traccia presente di un evento passato, legata ontologicamente alla morte nel suo essere, da una parte, “arresto della vita nella sua
durata”1, e dall’altra, difesa contro il tempo, vittoria sulla morte, dunque
«immagine che produce la Morte volendo conservare la vita»2 – e Palermo
– quella dei Quattro Canti, dell’Archivio Storico, delle Catacombe dei
Cappuccini, del Trionfo della Morte – in quanto città-memoria3, deposito di
immagini e di storie, in cui si intrecciano e convivono temporalità diverse:
passato e presente, e ancora, vita e morte.
C’è una sequenza nel film in cui il rapporto tra questi tre elementi è parti-
1
Cfr. A. Bazin, Ontologia dell’immagine fotografica, in Id., Che cosa è il cinema?, tr. it.,
Garzanti, Milano 1986, pp. 3-10.
2
R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, tr. it., Einaudi, Torino 1980, p. 93.
3
Cfr. M. Augé, Disneyland e altri nonluoghi, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp.
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colarmente esplicitato: Finn, il fotografo tedesco protagonista della pellicola,
giunto nel capoluogo siciliano alla ricerca di un rapporto più “autentico”
con la sua vita e la sua arte, incontra, al Cortile della Morte, alla Vucciria,
una donna che imbraccia una vecchia macchina fotografica, una Leica. Le
si avvicina e le chiede:
«Tu sei una… fotografa?»
«Fotografo Palermo. La vita, la morte…»
«Tu fotografi la morte?»
«Si, tanti morti a Palermo»
«Perché, che cosa vuoi dire?»
«Per onorarli, per ricordarli… perché non si perdano nella memoria».
La donna è una vera fotografa, Letizia Battaglia, la fotoreporter palermitana che con i suoi scatti ha documentato i corpus delicti dei mafiosi morti
in strada e il dolore delle famiglie per questi corpi straziati.
Se la fotografia sin dalle sue origini ha corteggiato la morte, questo è
avvenuto anche perché l’atto stesso del fotografare è un atto di violenza.
D’altra parte è con l’utilizzo dello stesso verbo, to shoot, che la lingua inglese
indica il fotografare e lo sparare, l’atto di “mirare” a un soggetto e quello
di mirare a un essere umano (come è esplicitato dal titolo stesso del film,
Palermo Shooting)4. Secondo Susan Sontag: «l’atto di fare una fotografia
ha qualcosa di predatorio. Fotografare una persona equivale a violarla,
vedendola come essa non può mai vedersi, avendone una conoscenza che
essa non può mai avere; equivale a trasformarla in oggetto che può essere
simbolicamente posseduto»5. Il soggetto diventa allora oggetto e in quel
momento, ci dice Roland Barthes, «vivo una micro-esperienza della morte
[…]: divento veramente spettro»6. Se il noema della fotografia è la certezza
dell’«è stato», la presenza cioè «necessariamente reale» della cosa fotografata posta dinanzi all’obbiettivo, da cui deriva il suo valore testimoniale,
quest’immagine esprime però due tempi assenti: ciò che è stato nel passato
e ciò che sarà nel futuro (nella foto di Lewis Payne che aspetta la propria
imminente esecuzione, ciò che si legge è, come scrive sempre Barthes, «sta
4
L’assimilazione delle due azioni, fotografare e sparare, è presente in un altro film di Wenders, Alice nelle città (1973), in cui il protagonista, Phil, punta la sua Polaroid, proprio come un
fucile, contro l’editore («Sparare foto!... Abbattere tutto quello che non si sopporta!») che gli
rifiuta il suo libro sul paesaggio americano fatto soltanto di fotografie: «Una storia di cose che si
vedono… con le foto». Inoltre, To Shoot Pictures… è il titolo dello scritto di Wenders che apre
il suo libro di fotografie, Una volta (tr. it., Socrates, Roma 1993, pp. 20-27).
5
S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, tr. it., Einaudi, Torino
2004, p. 14.
6
R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, cit., p. 15.
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per morire. […] questo sarà e questo è stato; osservo con orrore un futuro
anteriore di cui la morte è la posta in gioco»). In altre parole, ciò che la
fotografia dunque mostra è l’immagine della mortalità stessa, la “morte al
lavoro” o la «morte al futuro»7.
È il cinema che, con l’aggiunta della registrazione del movimento, come
è noto, porta a compimento questo processo di “ricreazione del mondo”:
perché se la fotografia «imbalsama il tempo, lo sottrae […] alla sua corruzione, [con il cinema] per la prima volta, l’immagine delle cose è anche
quella della loro durata e quasi la mummia del cambiamento»8. E il cinema
per Wenders partecipa di questa missione, baziniana-kracaueriana, di documentazione del mondo, di “redenzione” della realtà fisica. Realizzare un
film, o scattare fotografie (in entrambi i casi, shooting pictures), diventa un
atto di archiviazione del reale: di paesaggi, città, cose, situazioni incontrate
e fissate, “per sempre”, sulla pellicola. Il cielo sopra Berlino (1987), ad
esempio, è un archivio di luoghi che non esistono più: «quasi nessuno dei
luoghi in cui abbiamo girato si è conservato intatto. A cominciare dal ponte
su cui muore il motociclista, che non c’è più. Sulla piazza dov’era montato
il circo adesso ci sono delle aiuole. Della Potsdamer Platz non c’è neppur
bisogno di parlare. Il muro poi, si sa»9. Ma è con Nick’s Movie (1980), che
documenta il progressivo disfacimento fisico del regista Nick Ray, malato
di cancro, che il cinema di Wenders porta all’estremo questa missione di
“salvezza” propria del mezzo cinematografico, nel tentativo di prolungare
– rendere immortale – l’esistenza di un “condannato a morte” mostrandosi,
letteralmente, come “morte al lavoro sul corpo dell’attore”(-regista). Nick
Ray, come Lewis Payne, è “morto e sta per morire”.
Fin qui l’immagine analogica. Ma cosa accade con le immagini digitali,
quando cioè il collegamento indessicale con la realtà fisica viene indebolito,
o addirittura viene a mancare, e di conseguenza le immagini sono svuotate
del loro valore testimoniale? Perché, in Palermo Shooting, la riflessione
wendersiana sulla fotografia e sulla morte – che ha come punti di riferimento, Blow-up (1966) di Antonioni e Il settimo sigillo (1957) di Bergman, i
due registi ai quali il film è dedicato – è proprio su queste due tipologie di
immagini che si sofferma, sull’incapacità delle ultime a essere documento
del reale (della vita e della morte) e sul loro riconfigurare il rapporto tra
visibile e invisibile10.
7
Ivi, p. 78, 96.
A. Bazin, Ontologia dell’immagine fotografica, in Id. Che cosa è il cinema?, cit., p. 9.
9
W. Wenders, L’atto di vedere, tr. it., Ubulibri, Milano 1992, p. 119.
10
Con le immagini digitali trova raffigurazione ciò che prima visibile non era: «come le
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Scrive Lev Manovich:
Nel suo studio sulla fotografia digitale, William J. Mitchell attira
la nostra attenzione su quella che egli chiama la mutabilità intrinseca
dell’immagine digitale: “La caratteristica essenziale delle informazioni digitali è la manipolazione, facile e rapida. Si tratta semplicemente
di sostituire nuove cifre alle vecchie […]. Gli strumenti di calcolo
automatico che permettono di trasformare, combinare, modificare e
analizzare le immagini sono essenziali per l’artista digitale come i
pennelli e i pigmenti per il pittore”. Come sottolineato da Mitchell, la
mutabilità intrinseca cancella le differenze tra fotografia e pittura11.
La manipolazione delle immagini, la loro elaborazione grafica è ciò che
caratterizza la produzione artistica di Finn, nella prima parte del film, quella
ambientata a Düsseldorf (i cui spazi architettonici asettici si contrappongono
al barocco carico di storia di Palermo). Lo dice chiaramente a una studentessa
che gli mostra le sue fotografie: «Mi sta dicendo che devo elaborare di più
l’immagine?», «Esatto. Potrebbe diventare un quadro». Il viaggio di Finn
verso Palermo è allora un percorso a ritroso verso la riscoperta di uno sguardo
diretto, “innocente” (riscoperta che metaforicamente avviene anche grazie
all’incontro con Flavia, pittrice, e soprattutto, restauratrice impegnata nel
restauro del Trionfo della Morte); di un’immagine ancora capace di essere
indice e non simulacro. Come già in Fino alla fine del mondo (1991), anche in Palermo Shooting la denuncia di Wenders è chiara: la proliferazione
delle immagini e degli strumenti per produrle (fotocamere ultracompatte,
camcorder, videofonini, che riempiono la prima parte del film), non costituisce un incremento di conoscenza del mondo ma, paradossalmente, ne
impedisce la visione conducendo alla cecità, come accade, letteralmente, al
personaggio di Sam nel film del ‘91 che perde la vista in seguito all’utilizzo
della speciale telecamera in grado di riprodurre i sogni12. Non è allora un
caso se Finn, arrivato a Palermo, abbandoni gli apparecchi fotografici digi-
immagini prodotte dagli strumenti di brain imaging con cui viene visualizzata l’attività neuronale del cervello, o quelle impiegate nelle nanotecnologie per visualizzare strutture materiche
assolutamente invisibili per l’occhio umano», A. Somaini, Introduzione. Teorie dell’immagine
e cultura visuale, in Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, a cura di A. Pinotti, A.
Somaini, Raffaello Cortina, Milano 2009, p. 25.
11
L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, tr. it., Olivares, Milano 2002, p. 374.
12
È la posizione iconofoba di Kracauer che in un saggio del 1927 sulla fotografia (La fotografia, in Id., La massa come ornamento, tr. it., Prismi, Napoli 1982) denuncia gli effetti nocivi
dell’eccessiva presenza delle immagini fotografiche sulle riviste illustrate: «Mai prima d’ora
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tali utilizzati a Düsseldorf per riprendere in mano la sua vecchia macchina
a pellicola, Plaubel Makina, recuperando così l’idea della fotografia come
prolungamento dell’occhio del flâneur, che perlustra, esplora, percorre,
scopre lo spazio urbano.
Nel secolo che ha ospitato le carriere di Eugène Atget, Berenice
Abbot, Germaine Krull, Walker Evans, Robert Frank, Gary Winogrand e Lee Friedlander, la fotografia veniva definita non solo come
la pratica di una singola arte, ma anche come una poetica esistenziale
o uno stile di vita. Cercare immagini significava essere un viaggiatore, un flâneur urbano che attraversava il paese e percorreva strade,
oppure un corrispondente estero, in cerca di eventuali incontri con
il flusso della storia e della vita quotidiana. La passeggiata in città o
un viaggio erano l’emblema della duplice ossessione per gli eventi
catturati in un tempo sfuggente e per la registrazione su una superficie
fisica, esistente, materiale13.
Che cosa è se non un “cercatore di immagini” (o un “agente della Morte”,
secondo l’espressione barthesiana14) il fotografo-flâneur Finn, che Wenders
ci mostra nelle sue passeggiate urbane per i vicoli di Palermo alla ricerca
di un’identità smarrita? «Non so cosa fare. Mi sono smarrito», confessa
alla fotografa Battaglia nella sequenza già citata. Ciò che ha smarrito è
il rapporto diretto con la realtà: Finn, abituato a manipolare le immagini,
non riesce più a distinguere l’immaginario dal reale, il fisico dal mentale
(l’insonnia di cui soffre lo trasforma in un visionario). Si trova insomma in
quella zona di indistinzione, o meglio di “indiscernibilità”, tra i due poli della
veggenza: uno “constatativo”-oggettivo, l’altro “soggettivo”-mentale15. E
un’epoca è stata così poco informata su se stessa. Nelle mani della società dominante l’istituzione
delle riviste illustrate è diventata uno dei più potenti strumenti di protesta contro la conoscenza», ivi, p. 123. Come commenta Antonio Somaini: «Le parole di Kracauer […] possono essere
considerate come una delle tanti varianti di uno stesso Leitmotiv che ricorre nella riflessione
novecentesca sugli effetti della proliferazione delle immagini: una proliferazione che, causata
inizialmente dal sodalizio tra fotografia e stampa, è proseguita poi con l’avvento del cinema, della
televisione, di internet, e oggi con la continua comparsa di nuovi dispositivi capaci di produrre,
elaborare e trasmettere immagini in modo sempre più facile e immediato», Introduzione. Teorie
dell’immagine e cultura visuale, in Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, a cura di
A. Pinotti, A. Somaini, cit., p. 23.
13
D.N. Rodowick, Il cinema nell’era del virtuale, tr. it., Olivares, Milano 2008, p. 169.
14
Cfr. R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, cit., p. 93.
15
Cfr. G. Deleuze, L’immagine-tempo, tr. it., Ubulibri, Milano 1989, pp. 11-36.
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il film adotta il suo punto di vista ricorrendo a quelle stesse manipolazioni
digitali delle immagini per dar corpo ai suoi fantasmi. Fantasmi di un passato
che riemerge, che “sopravvive” nel presente (entrambi i personaggi, Finn
e Flavia – il cui legame con il passato è sottolineato dalla sua professione
di restauratrice –, hanno un rapporto problematico con le loro radici, in
particolare con le loro madri). Ciò che dunque sembra emergere nel film è
una configurazione dell’immagine (foto-cinematografica), e della città di
Palermo, come «ritornanza fantasmale», «sopravvivenza»16 di temporalità
diverse. Ma questo è esattamente ciò che, secondo Georges Didi-Huberman
caratterizza l’esperienza visuale, che si compone appunto di un intreccio, o
meglio, di un «montaggio di temporalità plurali ed eterogenee»: un momento
«memoriale», che ha a che fare con il passato; uno presente, «assolutamente
im-pre-vedibile»; e uno legato al «desiderio e [al]la sorpresa del futuro»17.
L’immagine (foto-cinematografica) come traccia di vita passata e di “morte
al futuro”, come «segno della paura della morte» e, nello stesso tempo,
strumento che consente di superare quella paura, di guardare in faccia la
Morte18.
Quella Morte, “in persona”, che nell’incontro ultimo con Finn, così gli
si rivolge: «Tu hai paura del mondo reale. Della luce reale, dell’oscurità
reale. Tu vuoi dirigere. Tu vuoi imbellettare la realtà. O peggio: tu cerchi
di ricrearla. Questa è la paura della morte. La paura della vita è la paura
della morte».
A Finn non resta altro, per rigenerarsi, che ritrovare questo rapporto
con la realtà. Al cinema, e alla fotografia, non resta altro che tornare a
quell’originario e perduto rapporto con il mondo che le immagini digitali
hanno compromesso: spingersi fino al limite nel registrare la realtà fisica
(quello che, secondo Kracauer, è il compito del fotografo). Tornare a farsi
occhio prima che racconto. Senza inutili storie. Bisogna soltanto puntare,
mettere a fuoco e sparare19.
16
Cfr. G. Didi-Huberman, L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e
la storia dell’arte, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 2006.
17
Cfr. Temporalità e memoria del visuale. Conversazione con Georges Didi-Huberman, a
cura di A. Cervini, B. Roberti, infra, p. 8.
18
Cfr. S. Kracauer, La fotografia, in Id., La massa come ornamento, cit., p. 123; Id., Teoria
del film, tr. it., il Saggiatore, Milano 1995, pp. 55-82.
19
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nella nostra società, cit., p. 13.
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