"Quei derby che una Signora non dimentica" di Roberto Beccantini

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"Quei derby che una Signora non dimentica" di Roberto Beccantini
"Quei derby che una Signora non dimentica" di Roberto Beccantini (editore Priuli & Verlucca, costo 7,90
euro, in edicola con La Stampa da domenica 23 settembre) è il racconto, un po' ironico e un po' romanzato,
delle stracittadine che hanno segnato la carriera e la passione dell'autore. Dall'avvento di Omar Sivori e John
Charles all'era moderna. Ecco i titoli di alcuni capitoli: "La dinamite del Bandolero stanco", "Concetto e
Pietruzzu, avanti Sicilia", "Due rigori contro, modestamente", "Il Foulard dell'Avvocato", "Cinque gol regolari:
che spreco!". Il libro si chiude con l'alfabeto "semi-romantico" del derby.
Pubblichiamo il capitolo "Caro, carissimo Michel".
CARO, CARISSIMO MICHEL
dal libro "Quei derby che una Signora non dimentica"
di Roberto Beccantini
Mais où sont les neiges d’antan? Già, dove si sono ficcate le nevi di una volta? François Villon parlava di
nevi perché non ebbe la fortuna di conoscere Michel Platini, ma se lo avesse visto all’opera, matematico che
oggi, voltandosi indietro, penserebbe alle sue punizioni con la stessa nostalgia e le stesse emozioni che gli
ispirarono «La ballata delle dame di un tempo». Non oso immaginare che poesia avrebbe composto se
fosse stato al Comunale di Torino il pomeriggio di una uggiosa domenica di 23 anni fa. C’ero io, ma
sicuramente non al suo posto. Segnò per primo il Toro, con «spadino» Selvaggi. Ci stavamo giocando
l’ennesimo scudetto, col Trap in panca e la Roma nello specchietto. Alla ripresa successe quello che, con
Platini, succedeva spesso. La partita sfuggì di mano alla squadra che pensava di essersela messa in tasca.
Non ricordavo l’infortunio di Dossena: roba seria, se Bersellini fu costretto a toglierlo. Ricordo, e bene, tutto il
resto.
Sin lì, Michel aveva gigioneggiato. Niente di che. Il Trap richiamò Prandelli, inserì Vignola e avanzò Platini.
Narrano le cronache, e conferma la memoria, che tutto avvenne nel giro di dieci minuti, dal 66’ al 77’. Non si
può dire che Platini fosse un guerriero Masai, quelli che saltano, saltano saltano e prima di toccare terra,
toccano il cielo. Sulla parabola di Paolino Rossi, però, andò su, su, sempre più su come John Charles (bum)
e galleggiò fra le nuvole come Michael Jordan (ari-bum). La «copula» produsse un colpo di testa che
trapassò Terraneo. Uno a uno.
Il raddoppio no, non scaturì dal fondo del baule dove, ogni tanto, recuperava gesti da centravanti più
Rambo che Zorro. Zampillò dal catalogo che spesso sfogliava in pubblico per conquistare nuovi clienti alla
causa. Il calcio di punizione. Con la palla che sorvola la barriera e, come se rispondesse a un telecomando,
si conficca mell’angolo che il portiere, piazzato dall’altra parte, non può umanamente coprire. Alla linea di
porta i granata avevano incollato anche Galbiati. Forse ingannò Terraneo, di sicuro l’avrebbe potuta
«parare» solo con le mani. Due a uno. Aperta parentesi: il mercoledì successivo, a Parigi, Michel avrebbe
replicato la doppia impresa - gol di testa, gol su punizione - nel corso di un’amichevole tra Francia e
Inghilterra. Chiusa parentesi.
Platini. Il Re solo, all’inizio, e poi il nostro Re Sole. Il Toro, vai a sapere perché, lo eccitava. Gli ha segnato
in altri derby, ma quella volta fece la differenza. E la fece in un modo per cui persino gli avversari
s’inchinarono al suo talento. «Quando prendevo un gol da Platini in Nazionale o in allenamento - ha
raccontato Dino Zoff - non mi lamentavo né mi incavolavo mai. Sono gol che un portiere deve accettare.
Perché? Non sono imparabili: sono perfetti». Oh Dio, c’era anche Michel la domenica in cui, avanti di due
gol, ne prendemmo tre in tre minuti e virgola, ma questi, come canta l’Ornella (Vanoni), sono dettagli. Platini
ci spolverò l’elmo e la corazza. Era il nostro carro attrezzi. Foravamo una gomma? Arrivava e pennellava un
lancio che avrebbe gonfiato l’omino Michelin. Le candele erano sporche? Uno sberleffo d’interno e
tornavano a splendere come nella pubblicità.
Il derby del 26 febbraio 1984 fu tutto suo. I giornalisti, i tifosi e i giornalisti-tifosi di scuola Juve si limitarono
a prenderne atto. E neppure dalla controparte si levarono proteste. Arbitrava Paolo Bergamo di Livorno.
Bruno Perucca, su «La Stampa» lo gratificò di un sei. In altri tempi, e in altri telefoni, sarebbe diventato
Bergamo detto «Atalanta» e, soprattutto, sarebbe finito male. Pochi mesi dopo, Platini e Bergamo si
ritrovarono nella semifinale del campionato d’Europa per nazioni a Marsiglia. Francia-Portogallo. Trama
romanzesca. Risultato finale, 3-2. Decise Michel, e chi se no?, quando ormai i supplementari stavano per
scadere. Stavano, appunto. Bergamo, prima di fischiare la ripresa del gioco, gli si avvicinò per bisbigliargli:
«Michel, poi me la dai, la maglia?». Le Roi lo guardò di traverso: «Solo se fischi la fine». Fischiò subito, non
fischiò subito? Boh. L’unico fatto certo è il nuovo indirizzo della maglia: casa Bergamo.
Mais où sont le neiges d’antan? E la sua Juve, e le sue battute, e tutto il resto? Oggi, Michel è presidente
dell’Uefa. Ne ha fatta di strada, da quel derby. Quando gli telefono, non risponde più. Glielo dissi. Sbottò:
«Perché, scusa, non te ne ho già risolti abbastanza di problemi?». Mise giù. E io mi tirai su.