Tutti i VIP che mi hanno conosciuto

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Tutti i VIP che mi hanno conosciuto
Tutti i VIP che mi hanno conosciuto
Una serie di racconti di Antonio Paolacci (3)
Michel Platini
L’ultima volta che sono stato in Francia ho
conosciuto una ricercatrice universitaria di ventiquattro anni. Entro breve avrebbe avuto una cattedra in sociologia. Studiava tra Parigi e Milano. Si
occupava di alcuni fenomeni della politica italiana.
Ero ospite in una casa di studenti. L’atmosfera
era talmente intellettual-artistico-parigina che, se
mi fossi potuto pagare un albergo, sarei scappato
urlando. Non potevo. Di sera mi ritrovavo a parlare con questa ragazza. Era carina e mi cercava. O
meglio, mi seguiva per l’appartamento, per scrutarmi come uno scienziato le cavie.
La sua teoria di fondo sull’italiano medio era
semplice e generica. Dignité, mi diceva, il manque
de dignité.
Flashback.
Una Citroën entra dal cancello. Le gomme
mormorano lente su viale di ghiaia. È una patacca
metallica che viene a ingrandirsi verso i campi da
tennis.
L’uomo che ci insegna il rovescio smette di lanciarci palline. Sorride. Ammicca alludendo all’auto. La racchetta mi casca tra i piedi.
La macchina arriva, rallenta, si ferma. Immetto
aria. Apro le narici. Dalla portiera vedo spuntare
un arto, quell’arto: lo stesso che ha battuto non
so quanti calci di punizione con una precisione
esaltante. La gamba, salda, aderisce al suolo e fa
da perno per il resto del corpo. I coetanei francesi
non muovono un passo. Noi marmocchi italiani gli
frulliamo addosso.
È lui il mio primo vip. I miei incontri con le celebrità iniziano con Michel François Platini (Jœuf,
21 giugno 1955), iniziano con questa immagine precisa: una ventina di bambini italiani me compreso,
che corre a tutta forza e braccia scomposte, per
convergere su un calciatore spettinato, emettendo
vocali aperte, soprattutto la e.
È l’estate del 1985. Nella stagione seguente,
Platini chiuderà la sua carriera di calciatore. Ha
trent’anni precisi. Io undici e somiglio a uno stelo
con un paio d’occhialetti in cima. Mi trovo per
due settimane in Francia, in un centro sportivo per
bambini creato da Platini e dal tennista Yannick
Noah. È l’unica cosa che abbia mai vinto senza
sforzi: il concorso di un giornalino.
Noi italiani alloggiamo in un fabbricato tutto
per noi. Gli edifici si chiamano come le squadre
di calcio in cui ha giocato il campione: noi siamo al Nancy. Dormiamo in camerette da quattro
posti, con i letti a castello. Anche gli allenamenti
di calcio li facciamo tra noi. Però poi c’è il tennis.
Quello lo condividiamo con i francesi. Tentare
di isolarci non serve a niente. Loro sono intorno.
Decine di mocciosi con la erre in gola e l’indice
spianato. Ci tormentano.
Les italiens, dicono.
E ridono.
Poi, dopo, ridono ancora: Ah, ah, ah, les italiens.
Così, senza argomentare.
Dignité, diceva la ragazza, il manque de dignité.
«Ogni puntata di questa rubrica è dedicata a un mio incontro con un personaggio famoso. A volte il vip è un
elemento centrale della vicenda, altre solo marginale.
Anche se costretto a camuffare alcuni personaggi secondari in rispetto ai protagonisti reali, e anche se il tono di
fondo potrebbe farmi colorare un po’ i dettagli, tutti gli episodi narrati sono accaduti realmente.
Il titolo della serie è un tributo personale ad Andrea Pazienza, che con delle intestazioni più o meno simili disegnò alcune tavole arcinote».
Per conoscere meglio Antonio Paolacci basta cliccare su antoniopaolacci.blogspot.com.
Antonio Paolacci
Mi slacciavo il bavero per respirare meglio,
tossicchiavo un attimo, mi guardavo attorno. La
ragazza diventava una voce in sottofondo.
Eccomi di colpo trentenne a Parigi, pensavo.
L’appartamento per studenti aveva il tipico fascino
di certe abitazioni della vecchia Paname. Era cioè
sbilenco.
In certe case della città s’avverte un senso di
vertigine, come a passeggiare in un disegno di
Escher o roba del genere. Il manque de dignité,
insisteva la voce. E io mi chiedevo il perché di
questa caratteristica architettonica: una specie di
stortura intrinseca, difficile da definire con precisione, ma evidente. Forse, pensavo, il pavimento è
in discesa. O forse il soffitto è irregolare. O sarà il
disegno degli infissi, già: forse porte e finestre sono
contorte come in un vecchio film espressionista.
Nel riportare lo sguardo su di lei, ricordavo
quanto fosse carina. Stringeva gli occhi. Delimitava tra indice e pollice uno spazio di due centimetri
per mostrarmi, ridacchiando, lo spessore esatto
della suddetta dignité.
Per riassumere: nell’attimo in cui partiamo in
corsa, Platini chiede a un armadio coi baffi di respingerci. L’armadio esegue, allarga le braccia e ne
ferma parecchi, ma non tutti. Io sguscio via come
la migliore anguilla, dribblo l’energumeno, barcollo in equilibrio precario, mi stiro.
Con due dita – l’anulare e il medio della destra
– ottengo un gomito, un pezzetto di maglia: il cotone di Michel Platini aderisce ai miei polpastrelli
e io avverto la scarica elettrica, un’esplosione da
contatto, una bolla d’energia da cartone giapponese. L’ho toccato, insomma. È il mio primo vip.
L’uomo baffuto mi afferra. Faccio un volo all’indietro, plano, riprendo fiato e sollevo gli occhi.
Platini mi mostra un ghigno e si allontana coperto
dalle guardie. Quando mi volto ritrovo lo stesso
ghigno nelle facce dei bambini francesi rimasti a
osservare la scena.
Si guardano un po’ tra loro, puntano gli indici,
fanno partire le risate.
Se siete personaggi famosi, forse non sapete che
vi può capitare una cosa del genere. Ruoli da eroe
nei sogni dei bambini. Ma se siete quei bambini,
sono certo che non avete idea di che cavolo vi stia
succedendo.
L’idolatria è di natura proiettiva, direbbe un
freudiano: con il fanatismo coltiviamo la nostra
identità immaginaria tarandoci sull’apparenza di
un altro. Di più: deleghiamo. Affidiamo ad altri il
compito di sudare al posto nostro, così da vincere
o perdere senza nessuna responsabilità.
Platini lo rivediamo verso sera. Si fa scattare
qualche foto con noi. Lo studio con attenzione,
ossessionato dai dettagli della sua normalità: la
peluria sull’avambraccio, le rughe d’espressione,
l’alone delle ascelle. Nella foto vengo di traverso e
con la faccia assorta. Di traverso perché sto guardando verso sinistra, i francesi che ridacchiano.
Assorto perché sto pensando che la vicinanza fisica
è un concetto sottovalutato. A me, la prossimità
sta rivelando qualcosa di essenziale: Guarda, mi
sta dicendo, il tuo eroe non è che un tizio.
© Copyright 2008 Antonio Paolacci
Antonio Paolacci