le benevole di j.littell e il recupero
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le benevole di j.littell e il recupero
MIMESIS Il testo, la figuralità, il mondo http://www.mimesis.education MARCO MALVESTIO - "IL PASSATO NON E' MAI FINITO": LE BENEVOLE DI J.LITTELL E IL RECUPERO DEL ROMANZO TRADIZIONALE [E' con grande piacere, e in linea con la proposta di Mimesis di dare spazio anche a voci nuove e nuovissime del panorama critico italiano, che presentiamo questo lavoro di grande interesse su un testo complesso come Le Benevole (2006) di J. Littell. Marco Malvestio è nato nel 1991, ha conseguito nel 2015 la laurea magistrale in Lettere Moderne presso l'Università degli Studi di Padova, e nello stesso anno il Diploma presso la Scuola Galileiana di Studi Superiori. E' attualmente titolare di una borsa di dottorato presso il Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari dell'Università di Padova. Si occupa della rappresentazione della Seconda Guerra Mondiale nella narrativa degli anni Zero]. I. A quasi dieci anni dalla pubblicazione, sembra rimasto poco da aggiungere su Le benevole di Jonathan Littell; e tuttavia vale ancora la pena di ribadire qualche osservazione. Il romanzo, che racconta la storia di Maximilien Aue, Obersturmbannfürher delle SS, omosessuale, matricida e incestuoso, ha suscitato, al momento della sua uscita, una quantità enorme di polemiche, soprattutto in Francia e negli Stati Uniti. Se la maggior parte delle critiche negative si concentra sullo scandalo di fare parlare in prima persona un SS, di dare voce alle sue ragioni e alle sue giustificazioni, molte si concentrano anche sulla veste formale del testo: Littell, per raccontare la sua storia, esce dal percorso tracciato dalla tradizione romanzesca del Ventesimo secolo e recupera senza ironia lo stile del romanzo dell’Ottocento e del primo Novecento, compiendo quindi 1 / 11 MIMESIS Il testo, la figuralità, il mondo http://www.mimesis.education una forte operazione di rottura con un secolo che vede nello sperimentalismo e nella novità due dei valori principali della creazione letteraria. Le osservazioni più interessanti, riguardano proprio il rapporto che lega questa scelta stilistica al racconto in prima persona della Seconda Guerra Mondiale. Maximilien Aue è un essere particolare, incontra e interagisce con altri esseri particolari, è identificato dalla propria vicenda personale e da una serie di dati anagrafici, agisce per soddisfare i propri desideri e le proprie ambizioni, e si muove, con tempistiche realistiche, in uno spazio fisico e culturale riconoscibile, di cui risulta essere il prodotto – tutte caratteristiche del novel classico realista[1]. Aue non è un’incarnazione metafisica del male, come per esempio lo scadente Hitler di Giuseppe Genna[2], bensì un uomo preciso calato in un ambiente preciso, descritto in termini credibili, senza il lirismo onirico che muove per esempio Vollmann in Europe Central[3]. La ragione per cui è possibile parlare di novità (una novità che paradossalmente viene dall’abbandono della novità a tutti i costi), per l’adozione di una tecnica simile, è che «le teorie letterarie del postmoderno, almeno per quanto riguarda il loro filone principale (attinente allo studio del linguaggio), sembrano aliene al problema del realismo. (…) Il problema di una narrazione realistica non si pone, perché essa non pare più praticabile, una volta constatato il dominio delle [4] immagini-simulacri e lo svuotamento di significato della realtà» . In questo senso, il lavoro di Littell si inscrive in una tendenza generale, slegata da specificità nazionali, di ritorno a un «romanzi che [5] [6] assomigliano alla produzione romanzesca della modernità» , riscontrabile già negli anni Ottanta anche sotto l’influenza delle letterature non occidentali e della bestselleristica – dunque di [7] tradizioni più vicine a una narrazione pura, «non sovraccarica di implicazioni metaletterarie» . In Littell, per esempio, si assiste proprio «al recupero non problematico dei tre elementi più tipici del [8] romanzo ottocentesco, trama, personaggio e temporalità» . L’effetto realistico è ottenuto nel romanzo tramite diversi mezzi: una forte autorialità narratoriale[9] (con un narratore di prima persona che tuttavia, scrivendo a posteriori e ammettendo di avere attinto a molti documenti, dimostra però spesso le caratteristiche del narratore onnisciente, ritrovandosi nella posizione insieme di generare un senso di fiducia e partecipazione e di poter manipolare la presentazione dei fatti); la messa in scena di personaggi storici (la grandissima maggioranza dei personaggi del romanzo, con l’eccezione della ristretta cerchia di amici e familiari di Aue); la mimesi del sistema culturale e del linguaggio (quello che si può definire il paradigma ambientale[10]); l’esibizione di dettagli precisi (abbondanza di dettagli cronologici e topografici, e della terminologia militare specifica). Tutto questo concorre alla creazione di quella rete di sicurezza che permette alla finzione romanzesca di procedere senza intoppi. Soprattutto, nell’insieme, ad essere resa realisticamente è la realtà della guerra e dello sterminio non come epica metastorica o oggetto di riflessione teologica, metafisica, bensì come «il prodotto di normali procedure burocratiche», per dirla con Bauman[11], che come tale dipende da una quantità enorme di dettagli pratici, tutti minuziosamente ripercorsi: nel descrivere i rastrellamenti ucraini, per esempio, Littell ne mette in mostra principalmente le difficoltà logistiche, presenta degli uomini impegnati a trovare una soluzione ragionevole a un problema pratico, che è poi quello di uccidere la maggiore quantità di persone nel modo più veloce ed economico; e lo stesso vale per le parti del romanzo dedicate ad Auschwitz e all’Ungheria. 2 / 11 MIMESIS Il testo, la figuralità, il mondo http://www.mimesis.education II. Non solo il novel classico: anche il romanzo moderno. Se nella prima metà del romanzo è ricorrente la presenza di Stendhal, che Aue legge tra l’Ucraina e il Caucaso, un altro libro aleggia nella seconda, quella successiva a Stalingrado, dove viene ferito alla testa: è L’educazione sentimentale, che accompagna Aue fino agli ultimissimi momenti della storia del Reich, e che è evocato dal cognome del patrigno, Moreau, lo stesso del protagonista del romanzo di Flaubert. Il senso recondito di questa scelta (oltre all’immediato parallelismo tra la morbosa promessa d’amore di Max alla sorella Una e quella di Frédéric a Madame Arnoux) appare in filigrana. Secondo Romano Luperini, infatti: Dopo il 1848 qualcosa è cambiato in profondità. A partire dall’Educazione sentimentale, l’eroe appare ormai privo di una spinta propulsiva. La dialettica del desiderio sembra aver perduto il proprio vigore. Nel romanzo di Flaubert l’aspirazione all’amore, alla gloria e all’affermazione sociale resta perennemente indefinita. Il velleitarismo, la tendenza a mancare o a svuotare gli appuntamenti importanti (amorosi ma anche politici) rendono il protagonista inetto e inconcludente. La pulsione del desiderio non è più indirizzata in avanti, [12] ma ripiegata all’indietro: diventa, scrive Brooks, “concupiscenza retrospettiva” . È quindi significativo che Littell introduca Flaubert in coincidenza dell’impaludarsi psichico di Aue, dopo la prima parte più movimentata, con un protagonista ancora attivo e propositivo, scritta sotto il segno di Stendhal. In questa seconda parte del romanzo Aue, anche in conseguenza della ferita alla testa e parallelamente alla vicenda bellica tedesca, perde concretezza e volontà, e passa dall’agire all’essere agito Tutto questo non fa che rafforzare la caratteristica principale del protagonista: Aue è un eroe intellettualmente e psicologicamente eccentrico. La sua separatezza si manifesta già nell’essere nato in Alsazia, terra di confine e dall’identità discussa, e nel suo nome, che non è solo un nome francese, ma anche e soprattutto un nome liquido, in netto contrasto con l’asperità dei termini tedeschi che pullulano nel romanzo. La diversità di Aue ricopre un ruolo molto importante nel romanzo: secondo Littell, «larga parte della funzione di Max Aue è di servire come sguardo sugli altri. Essendo effettivamente un personaggio delocalizzato rispetto al proprio ambiente, è in grado [13] di riportare uno sguardo lucido, che attraversa le cose come uno scanner» . La flânerie di Aue balza agli occhi già a livello strutturale (e non appare casuale, a questo proposito, il richiamo a Baudelaire presente nell’incipit del romanzo): Max vaga per tutta l’Europa in guerra, seguendo un percorso che ricalca in maniera precisa le tappe dell’espansione militare tedesca (Ucraina, Caucaso, Stalingrado) e della progressione simbolica nazista (dalla Francia dei [14] lumi e ai campi di concentramento) , aggirandosi anche per quella Parigi che è il luogo d’elezione 3 / 11 MIMESIS Il testo, la figuralità, il mondo http://www.mimesis.education del flaneur ottocentesco. Aue è appunto soprattutto un osservatore: se si eccettua la parentesi ungherese, non gli viene mai chiesto di lavorare in maniera pratica, ma sempre speculativa. Come scrive giustamente Cristina Savettieri, «Le Benevole combina insieme un tratto spiccatamente novecentesco del romanzo moderno – l’indagine della vita interiore – con uno tipico dei grandi plots realisti dell’Ottocento – l’avventura, l’incontro tra destino personale e storia collettiva»[15]. Quello che a mio avviso non è stato adeguatamente sottolineato, tuttavia, è che questi due piani sono uniti dal ricorso strutturale al mito, che non è, come è stato suggerito, semplice maquillage, ma fornisce la chiave di lettura dell’intero romanzo. Se si parla di uso strutturale del mito, è chiaro che si parla, almeno in una certa misura, di metodo mitico, che non consiste in un semplice travaso di miti nel contesto del romanzo: Dire che il mito è una struttura deliberata in un romanzo non significa dire che i romanzieri sono semplicemente liberi di rubare, o riscrivere, o affiancare grandi storie (perché vale la pena di raccontarle di nuovo), ma che il romanziere si trova imbrigliato nei sistemi di trasformazione del pensiero mitico e nell’appropriatezza del[16] linguaggio e del genere ogni volta che prova a dare un senso al proprio materiale umano . Certamente quello di Littell è un recupero di repertorio, non una forma di sperimentalismo (e la stessa cosa si può dire anche dei diversi deliri onirici e flussi di coscienza che compaiono nel romanzo): l’introduzione del mito viene effettuata in un certo senso a freddo, con finalità argomentative prima che simboliche, in maniera molto differente non solo da quella di scrittori [17] come Joyce, il cui fine è comunque salvaguardare la sopravvivenza di un pensiero mitico , o [18] Mann, di cui è totalmente assente l’orizzonte metafisico , ma anche da quella di scrittori [19] postmoderni come Foster Wallace . III. Le benevole, naturalmente, rimanda sin dal titolo al mito di Oreste, cui Littell accede attraverso i testi di Eschilo e Sofocle ma anche attraverso le rivisitazioni contemporanee del mito, non ultima quella di Hauptmann[20], messa in scena letteralmente tra le macerie di Berlino: Aue sarebbe Oreste perché uccide la madre e il suo amante (si noti per inciso che l’anagramma del nome di quest’ultimo, Aristide, è Atrides, Atridi), per vendicare il padre, che questi hanno fatto dichiarare defunto, e che era, come Agamennone, un soldato e un assassino. La madre è descritta con i tratti che ha Clitemnestra nella tragedia di Eschilo, dal carattere più maschile e deciso dell’amante, e morendo porge il seno al figlio, come Clitemnestra. Aue ha inoltre un rapporto incestuoso con la sorella. Littell si compiace anche di ambientare un pezzo del romanzo in Crimea – cioè la Tauride, notoriamente connessa con la vicenda degli Atridi da Ifigenia. Soprattutto, Aue è tormentato dalle 4 / 11 MIMESIS Il testo, la figuralità, il mondo http://www.mimesis.education Eumenidi, le benevole del titolo, che nel romanzo assumono la forma dei due investigatori che indagano sull’omicidio della madre. Non solo quello di Clemens è un nome parlante (benevolo in latino), e non solo sono descritti a un certo punto come una coppia di bulldog (riprendendo l’iconografia tradizionale delle Eumenidi), ma la loro ostinazione nel perseguire Aue non risponde evidentemente alle normali logiche di un’inchiesta di polizia, dal momento che continua non solo quando il processo viene archiviato, ma anche durante la catastrofica caduta di Berlino. Questa fitta rete di rimandi, che finisce per costruire una geometria quasi soffocante, se da un lato dovrebbe contribuire a misurare la distanza che c’è tra l’uso del mito in Littell e nella letteratura modernista, dall’altro potrebbe far sorgere il sospetto di un certo compiacimento nel suo impiego, come se fossimo di nuovo nel campo dell’ironia postmoderna. C’è tuttavia un testo che più di altri individua il nucleo concettuale del mito di Oreste, ed è Passi falsi di Blanchot, che Littell appunto cita nel romanzo. In poche righe, Blanchot va al cuore del dilemma di Oreste: Oreste si rende colpevole per ubbidienza. Egli non è padrone del proprio delitto. Non è che l’anello indispensabile nella catena dei misfatti. Ma la violenza che gli è imposta e che lo obbliga assurdamente ad uccidere sua madre per vendicare suo padre, non è in Eschilo né al centro delle Coefore, e nemmeno a quello delle Eumenidi. Il giovane giustiziere, davanti a questa situazione insolubile che lo trasforma in colpevole qualunque cosa faccia, sia che uccida, sia che se ne astenga, non geme della sua sorte immeritata. Vi sottostà, ma l’accetta. Tutto il dramma delle Coefore, la preparazione al delitto, l’appello del figlio al padre, non significa altro che l’assenso sempre più profondo all’atto sanguinoso della vendetta, lo sforzo di Oreste per mutare se stesso in quella notte del male e dell’orrore che [21] rappresenta la morte di Agamennone . Si vede bene che se ne Le benevole si parla di un crimine compiuto per dovere, solo a un livello molto immediato ci si sta riferendo al matricidio: l’allusione è evidentemente allo sterminio degli [22] ebrei. «Il vero assassino, nelle Eumenidi, è Apollo» , che impone ad Oreste il delitto e gli promette il perdono; e Apollo è anche[23]l’assassino de Le benevole. La lettura che Littell fa dell’Olocausto si rifà al pensiero foucaultiano , e al lavoro di Bauman: una visione cioè dell’Olocausto non come emersione di pulsioni oscure dell’animo umano ma come coerente con le dinamiche della modernità, con la sua aspirazione alla creazione di uno spazio omogeneo. Davvero l’assassino è Apollo: «L’esperimento nazista fu intrapreso proprio nel cuore della civiltà europea, dentro la serra della scienza e dell’arte europee, nel luogo che più di ogni altro si avvicinava al perenne sogno moderno della “Casa di Salomone” di Francis Bacon»[24]. Il legame indissolubile che c’è tra le due parti del romanzo, il racconto dei fatti storici e la vita psichica di Aue, passa attraverso la ripresa del mito di Oreste, che agisce su due piani in dialogo continuo: da un lato quello del singolo protagonista, che compie il suo delitto in stato di 5 / 11 MIMESIS Il testo, la figuralità, il mondo http://www.mimesis.education incoscienza, riprendendo la celebre metafora hitleriana del sonnambulo («Seguo il mio cammino», disse Hitler al tempo della rioccupazione militare della Renania «con la precisione e la sicurezza di [25] un sonnambulo» ); dall’altro quello storico e collettivo, l’infinita catena gerarchica di responsabilità che fa apparire nel romanzo lo sterminio degli ebrei come un fatto inevitabile privo di singoli colpevoli. In conclusione, il punto principale di un discorso intorno a Le benevole rimane sempre per quale ragione venga fatto un simile dispiego di meccanismi mimetici per raccontare la storia inventata di un SS. Littell avrebbe anche potuto scrivere di un’altra guerra, una delle molte che, lavorando in un ONG, ha vissuto di persona, come fa per esempio in Taccuino siriano o in Cecenia anno III. Per decenni, la narrazione dell’Olocausto, e dunque anche la narrativa sull’Olocausto, è stata patrimonio[26]dei superstiti o dei loro discendenti. «L’era del testimone», come la chiama Annette Wieviorka , cui segue la «generazione della post-memoria»[27], ha contribuito a fare della Shoah un evento dal portato simbolico incommensurabile, in Occidente, complici anche i riusi politici operati da tutte le fazioni e la sua spettacolarizzazione in innumerevoli opere hollywoodiane e televisive. E d’altra parte, anche al netto dell’emotività con la quale è stata raccontata e del fatto che mai per nessun evento della storia umana è stata data tanta importanza alla viva voce delle vittime, la Shoah ha comunque, almeno in una certa misura, la caratteristica dell’unicità: «Auschwitz costituisce, più che un evento senza precedenti, una sintesi unica di diversi elementi che si ritrovano in altri crimini o genocidi, una sintesi resa possibile dalla sua appartenenza al sistema sociale, tecnico, industriale e alla razionalità strumentale del mondo moderno»[28]. Allo stesso modo la Seconda Guerra Mondiale non è un conflitto tra tanti ma la guerra assoluta, per riprendere la definizione di Bellamy[29]. La ragione per cui Littell ambienta il suo libro durante la Seconda Guerra Mondiale, pur avendo assistito di persona ad altre guerre e ad altri stermini, è che la contemporaneità non offre nessun dramma che riesca ad assumere una gravità paragonabile, a farsi come l’Olocausto «metafora radicale, un paradigma attraverso cui l’ideologia contemporanea [30] pensa la storia umana» . IV. In tutto questo, è abbastanza straniante notare che il fine del discorso di Aue è quello di sedurci. Tutto, nel libro, mira a farci provare simpatia per il carnefice, dalla captatio benevolentiae con cui si apre il romanzo all’ironia di cui Aue dà prova, ai rimandi letterari, all’esibizione di cultura e di contrizione. Anche quando in Ouverture o a margine degli incontri di Posen[31] Aue espone le proprie ragioni, (che sono poi le solite, stanche giustificazioni di negazioni e riduzionisti sull’equivalenza dei crimini dei nazisti e dei colonialisti, dei nazisti e dei comunisti), queste possono suonare convincenti per un istante, ma sappiamo che sono inaccettabili o comunque in malafede, e infatti non sono lì per convincerci, ma per conquistarci con la loro arguzia. Non che Aue sia sempre in malafede, o che la sua inattendibilità come narratore in riferimento al matricidio vada estesa a tutto il romanzo: semplicemente, non è convinto che le sue ragioni possano assolverlo, e infatti, a differenza di Oreste, non si sottopone al giudizio, e non può espiare i suoi crimini. Questa persuasione è legata a doppio filo al messaggio ultimo de Le benevole. Anche se lo scopo del fascista è quello di eliminare l’altro perché la diversità non minacci l’integrità del suo corpo, 6 / 11 MIMESIS Il testo, la figuralità, il mondo http://www.mimesis.education come Littell spiega lungamente in quella specie di quaderno preparatorio che è Il secco e l’umido[32], per tutto il romanzo Aue non può fare a meno di vedere se stesso negli altri. Così come nel suo delirio allucinatorio gli sembra di vedere Hitler che veste la mantella dei rabbini, Max si accorge sin dalle prime fasi di guerra che la presenza dell’altro è ineliminabile, per quanto disumani siano i metodi impiegati, per quanto capziosi i sistemi di distinzione tra gli uni e gli altri: Sono giunto alla conclusione che la guardia delle SS non diventa violenta o sadica perché pensa che il detenuto non sia un essere umano; anzi, la sua rabbia aumenta e si trasforma in sadismo quando si accorge che il detenuto, lungi dall’essere una creatura inferiore come gli hanno insegnato, dopotutto è proprio un uomo, come lui in fondo, ed è questa resistenza […] che la guardia trova insopportabile, questa persistenza muta dell’altro, e quindi la guardia lo picchia per tentare di far scomparire la loro comune umanità. Ovviamente non funziona: più la guardia picchia, più è costretta a constatare che il detenuto rifiuta di riconoscersi come non umano. Alla fine, non gli resta altra [33] soluzione che ucciderlo, il che significa prendere definitivamente atto del proprio fallimento . L’idea di Littell è che i nazisti odiano gli ebrei perché questi ultimi incarnano quello che loro cercano di nascondere in se stessi, così come Aue vede la propria odiata madre quando si guarda nello specchio. L’ineludibilità dell’incontro con l’altro, tuttavia, funziona anche in un senso diverso: i lettori non possono fare a meno di riconoscersi in Aue, di provare simpatia per lui. Laurent Binet suggerisce sprezzantemente che Max non è lo specchio dei suoi tempi, ma dei nostri [34] («Houellebecq tra i nazisti» ), senza rendersi conto che questo è esattamente il fine del romanzo. L’eccentricità e la problematicità di Maximilien Aue rispetto al nazista medio, la sua cultura, le sue ossessioni e i suoi gusti sessuali (tutte cose che non ne fanno, è bene sottolinearlo, un nazista impossibile, ma al massimo uno improbabile) mirano a farci immedesimare in lui. È nello scarto tra l’inevitabilità di questo risultato, ottenuto con tanta attenzione stilistica, e l’inaccettabilità di un’equivalenza morale tra noi e un SS, che si realizza il senso del romanzo. Al lettore de Le benevole non viene richiesto di accettare o discutere le ragioni e le spiegazioni di Aue, ma di lasciarsi affascinare e, alla fine, di arrivare a riconoscersi in lui: in altre parole, il punto non sono le opinioni di Aue, ma il fatto stesso che Aue parli. La decisione di dare la parola ad un carnefice, protagonista del massacro a più alta concentrazione simbolica della storia d’Europa; il dispiego enorme e minuzioso di mezzi realistici e di accreditamento; la forza persuasoria del discorso del boia; tutto questo serve a farci constatare che se il nazista è un essere umano come noi, e noi avremmo potuto essere disumani come il nazista: «La novità più terribile rivelata dall’Olocausto e da ciò che si era appreso sui suoi esecutori non era costituita dalla probabilità che qualcosa di simile potesse essere fatto a noi, ma dall’idea che fossimo noi a poterlo fare»[35]. 7 / 11 MIMESIS Il testo, la figuralità, il mondo http://www.mimesis.education NOTE [1] Guido Mazzoni, Teoria del romanzo Bologna, Il Mulino, 2011, pp. 55 e ss. [2] Giuseppe Genna Hitler Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2008 [3] William Vollmann Europe Central Viking, 2005, trad. it. Europe Central Milano, Mondadori, 2010 [4] Alberto Casadei Romanzi di Finisterre – Narrazione della guerra e problemi del realismo Roma, Carocci, 2000, p. 33. [5] Stefano Calabrese www.letteratura.global Torino, Einaudi, 2005, p. VIII. [6] Alberto Casadei Romanzi di Finisterre, op. cit., p. 249. [7] Ibidem. [8] Carlo Tirinnanzi De Medici Il vero e il convenzionale Torino, UTET, 2012, p. 167. Rifiutando lo sperimentalismo formale e linguistico, Littell rifiuta anche l’idea che il romanzo sia un genere che risente particolarmente di una tradizione nazionale. Per inciso, l’ispirazione di Littell guarda solo raramente ai francesi (Blanchot e Bataille), mentre si rivolge spesso ai russi (Tolstoj, Dostoevskij, Grossman), agli anglosassoni (Joyce, Beckett), ai tedeschi (Hoffmanstal, Mann) e alla classicità (Eschilo). Littell esplicita il proprio rifiuto per un’idea nazionale e circoscritta della letteratura contemporanea: «Tout ce que vous dites est vrai si l’on se place d’un point de vue qui n’est pas le mien, qui est qu’il existe des littératures nationales. Pour moi, le découpage littéraire national a eu certainement une réalité à l’époque où les transmissions étaient beaucoup plus longes. Du fait de l’isolement, là il y avait de grandes distinctions entre les littératures nationales […]. Aujourd’hui, à l’ére de la communication et de la connexion de masse, c’est beaucoup moins vrai. Les interpollinisations d’un pais à un autre se font à une échelle de temps tellement rapide que tout écrivain digne de ce nom est nourri par toute la littérature – dans mon cas la russe presque autant que la française ou la littérature en langue allemande, ça peut tout aussi bien être les littératures asiatiques, africaines, etc. C’est pourquoi l’idée de littératures nationales me semble un mythe, aujourd’hui» (Jonathan Littell e Richard Millet “Conversation a Beyrouth” in Le Debat 2007 n. 144, pp. 4-24, pp. 16-17). [9] Filippo Pennacchio “Autorialità reloaded. Qualche nota (e un’ipotesi) sul narratore del romanzo globalizzato”, in Ticontre 2014 n. 2, pp. 9-29, pp. 12-13: «Se il romanzo cosiddetto postmodernista ci aveva consegnato una serie di narratori evanescenti, disgregati e autocontradditori, oggi, sempre più spesso, abbiamo a che fare con narratori particolarmente autorevoli, solidi e “udibili”. Attitudine onnisciente al racconto, incorporazione di istanze saggistiche, facoltà di commentare i contenuti della storia: queste alcune delle caratteristiche comuni a tanti narratori d’oggi, a rigore collocabili – per riprendere la terminologia di Franz Karl Stanzel – al centro di una situazione narrativa autoriale». [10] Guido Mazzoni Teoria del romanzo op. cit., pp. 269 e ss. [11] Zygmunt Bauman Modernity and the Holocaust Oxford, Basil Blacwell, 1989, trad. it. Modernità e Olocausto Bologna, il Mulino, 2010 (1992), p. 36. [12] Romano Luperini L’incontro e il caso. Narrazioni moderne e destino dell’uomo occidentale Bari, Laterza, 2007, p. 19. [13] Jonathan Littell e Richard Millet “Conversation a Beyrouth” op. cit., p. 22: «Une grande partie de la fonction de Max Aue est de servir de regard sur les autres. Etant effectivement un 8 / 11 MIMESIS Il testo, la figuralità, il mondo http://www.mimesis.education personnage décalé par rapport à son environnement, il peut apporter ce regard lucide, qui balaie presque comme un scanner». [14] Denis Briand “Max aux enfers. Esquisses «topographiques»… ” in Les Bienviellantes de Jonathan Littell a cura di Murielle Lucie Clément Cambridge, Open Book Publishers, 2010, pp. 87-102. [15] Cristina Savettieri in Aa. Vv. (Anna Baldini, Sergio Luzzato, Maria Anna Mariani, Guido Mazzoni, Cristina Savettieri, Clara Sclarandis) “Jonathan Littell, Le benevole” in Allegoria, 38, 2008, pp. 215-253, p. 242. [16] Eric Gould Mythical Intentions in Modern Literature Princeton, Princeton University Press, 1981, p. 137: «So to say that myth is an intentional structure in a novel is not to say that novelists are free simply to borrow, or rewrite, or juxtapose great stories (because they are worth retelling), but that the novelist finds himself forced into the transformational modes of mythic thought and into the appropriateness of language and genre whenever he tries to make sense of his human material». [17] Ibidem, p. 141. [18] Margherita Cottone “Thomas Mann: mito, psicologia, umanesimo”, in Aa. Vv. Mitologie della ragione. Letterature e miti dal Romanticismo al Moderno Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1989, pp. 269-314, p. 283. [19] Stefano Ercolino Il romanzo massimalista Milano, Bompiani, 2015, pp. 150-153. [20] Fabio Turato Eredi ingrati. Mondo germanico e tragedia greca tra nascita del II e apocalisse del III Reich (1871-1945) Venezia, Marsilio, 2014, p. 153. [21] Maurice Blanchot Faux Pas Parigi, Gallimard, 1943, trad. it. Passi falsi Milano, Garzanti, 1973, p. 70. [22] Giuseppe Raciti Ho visto Junger in Caucaso Milano, Mimesis, 2013, p. 72. [23] Jonathan Littell e Pierre Nora “Conversation sur l’histoire et le roman” in Le Debat 2007 n. 144, pp. 25-44, p.38: «Si potrebbe partire allora da una lettura foucaultiana dicendo che a partire dal XVIII secolo, per risolvere i problemi sociali, qualsiasi siano, i dementi, i malati mentali, i poveri, i criminali, si ricorre all’internamento» («On pourrait alors partir d’une lecture foucaldienne en disant qu’au XVIII sècle, pour résourdre les problèmes sociaux, quels qu’ils soient, les fous, les malades mentaux, les endettés, les criminels, on passe par l’enfermement»). [24] Zygmunt Bauman in Aa. Vv. Nazismo, fascismo, comunismo. Totalitarismi a confronto a cura di Marcello Flores, Milano, Edizioni Bruno Mondadori, 1998, pp. 15-35, p. 22. [25] Giorgio Galli Hitler e il nazismo magico Milano, Rizzoli, 19897, pp. 108-109. [26] Annette Wierviorka L’ére du témoin Parigi, Plon, 1998, trad. it. L’era del testimone Milano, Raffello Cortina Editore, 1999. [27] Marianne Hirsch The Generation of Postmemory. Writing and Visual Culture after the Holocaust New York, Columbia University Press, 2012. [28] Enzo Traverso in Aa. Vv. Nazismo, fascismo, comunismo. Totalitarismi a confronto a cura di Marcello Flores, Milano, Edizioni Bruno Mondadori, 1998, pp. 303-324, p. 317. [29] Chris Bellamy Absolute War. Soviet Russia and the Second World War 2007, trad. it. Guerra assoluta. La Russia sovietica nella seconda guerra mondiale Torino, Einaudi, 2010. [30] Daniele Giglioli Senza trauma Macerata, Quodlibet, 2011, p. 10, ma anche Alberto Casadei 9 / 11 MIMESIS Il testo, la figuralità, il mondo http://www.mimesis.education Romanzi di Finisterre op. cit., p. 19. [31] Jonathan Littell Les Bienveillantes Paris, Gallimard, 2006, trad. it. Le benevole Torino, Einaudi, 2007, pp. 642 e ss. [32] Jonathan Littell Le sec et l’humide Parigi, Gallimard, 2008, trad. it. Il secco e l’umido Torino, Einaudi, 2009, p. 20: «Il modello freudiano dell’Es, Io e Super-Io, e quindi dell’Edipo, non è applicabile, poiché in realtà il fascista non ha mai effettuato compiutamente la separazione dalla madre e non si è mai costituito un Io nel senso freudiano del termine. […] Tuttavia non è uno psicopatico; ha effettuato una separazione parziale, è socialmente integrato, parla, scrive, agisce nel mondo, spesso efficacemente, purtroppo, talvolta prende persino il potere. Per riuscirci, si è costruito o fatto costruire – tramite la disciplina, l’addestramento, esercizi fisici – un Io esteriorizzato che si presenta come una “corazza”, una “armatura muscolare”. Tale armatura trattiene nell’interiorità, a cui il fascista non ha accesso, tutte le sue pulsioni, le sue funzioni desideranti assolutamente informi perché incapaci di oggettivazione. Ma questo Io-corazza non è mai perfettamente ermetico, anzi è fragile; resiste solo grazie ad aiuti esterni: la scuola, l’esercito, o persino il carcere. Nei momenti di crisi si frantuma, e il fascista rischia di essere travolto dalle sue stesse produzioni desideranti incontrollabili, dalla “dissoluzione dei limiti personali”. Per sopravvivere, esteriorizza ciò che lo minaccia dall’interno, e allora tutti i pericoli assumono per lui due forme, intimamente connesse: quella del femminile e quella della liquidità, di “tutto ciò che scorre”». [33]Jonathan Littell Le benevole op. cit., p. 603. [34] Laurent Binet HHhH Paris, Grasset & Fasquelle, 2010, trad. it. HHhH Torino, Einaudi, 2014, pp. 246-247. [35] Zygmunt Bauman Modernità e Olocausto op. cit., p. 212. TESTI Littell, Jonathan Les Bienveillantes Paris, Gallimard, 2006, trad. it. Le benevole Torino, Einaudi, 2007 Littell, Jonathan e Millet, Richard “Conversation a Beyrouth” in Le Debat 2007 n. 144, pp. 4-24 Littell, Jonathan e Nora, Pierre “Conversation sur l’histoire et le roman” in Le Debat 2007 n. 144, pp. 25-45 Littell, Jonathan Le sec et l’humide Parigi, Gallimard, 2008, trad. it. Il secco e l’umido Torino, Einaudi, 2009 BIBLIOGRAFIA Bauman, Zygmunt Modernity and the Holocaust Oxford, Basil Blacwell, 1989, trad. it. Modernità e Olocausto Bologna, il Mulino, 2010 (1992) Bauman, Zygmunt in Aa. Vv. Nazismo, fascismo, comunismo. Totalitarismi a confronto a cura di Marcello Flores, Milano, Edizioni Bruno Mondadori, 1998, pp. 15-35 Bellamy, Chris Absolute War. Soviet Russia and the Second World War 2007, trad. it. Guerra assoluta. La Russia sovietica nella seconda Binet, Laurent HHhH Paris, Grasset & Fasquelle, 10 / 11 MIMESIS Il testo, la figuralità, il mondo http://www.mimesis.education 2010, trad. it. 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