DIECI per CENTO - Comune di Cento

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DIECI per CENTO - Comune di Cento
DIECI per CENTO
Profilo degli artisti
AVIERO
Nato nel 1941 a Follonica (Grosseto), Aviero Bargagli (in arte si firma semplicemente
Aviero) lavora come meccanico e a diciassette anni ha un’officina nella sua cittadina natale. Parallelamente, pieno di inventiva, suona anche la tromba nella banda locale e crea ingranaggi e apparecchiature tecniche (verso la fine degli Anni Sessanta realizza da sé pure
la propria bicicletta, con la quale gareggia). Fin dall’inizio degli Anni Sessanta mette da
parte vecchi tronchi di ulivo, non per una precisa ragione (al di là del fatto che lo affascinavano) ma perché dentro di sé ‘sapeva’ che in un futuro gli sarebbero serviti per creare
qualcosa. Risale al 1964, quando faceva il servizio militare, la sua prima opera in legno
(una gondola sorretta da un uomo inginocchiato). Nel 1971, durante un breve periodo di
malattia, esegue la sua seconda opera lignea, un bassorilievo intitolato Paternità.
Tra il 1974 e il 1975 entra a far parte del Comitato per il Carnevale di Follonica e realizza per il Rione Zona Nuova vari carri con figure in cartapesta con una sua propria tecnica (senza prima costruire una figura in gesso o in creta, ma realizzando subito la versione
in positivo con lo scheletro in fil di ferro a reticolo, sul quale applica la cartapesta). Dal
1977 è l’ideatore degli interi carri. Da tali tecniche deriverà la sua più tarda scultura a parziale rete metallica, l’Uomo virtuale (1998-2001) e due di quelle esposte in questa mostra
siciliana: Perché? (Crocifissione) e Specchi ustori – omaggio a Pitagora.
Amante dell’architettura e dell’arredamento, fra il 1973 e il 1976, realizza l’ingegnoso
interno della propria abitazione di appena 54 metri quadrati, con arredi e maccanismi mobili e privilegiando sempre il gusto per la linea sobria e gli equilibrati rapporti degli spazi e
delle forme.
Solamente negli anni 1983-1984 crea quelle che possiamo definire le prime significative sculture lignee, ideate per la propria casa: Maternità, Equilibrio dei sensi ed Evoluzione-metamorfosi.
Nel 1998 è premiato al Foyer des Artistes di Roma.
Per le sue sculture lignee trae la forma insita in quel materiale ‘vivo’, vedendo ‘michelangiolescamente’ nel legno già imprescindibile l’opera da farvi scaturire. Per questo,
quando ha un’idea precedentemente ‘creata’ all’interno di se stesso, deve cercare il legno
che più vi si adatti, operazione non semplice e che è una delle motivazioni della sua non
vastissima produzione.
Nel 2003 inizia a sperimentare, per un corso di scultura tenuto presso le Scuole Elementari di Follonica, l’impiego di blocchi in cemento alveolare, usati in edilizia. In seguito
adotta tale sistema anche per alcune delle sue sculture, incollando tra loro le bozze e poi
scolpendole. L’impiego contemporaneamente di cemento alveolare e di legno (radica
d’olivo) è stato sperimentato in una serie di opere del 2005, esposte nel 2007 nella mostra
La vita tra Eros e Agàpe presso il Museo di Santa Chiara a Napoli.
Dàimones. Aneliti di Vita nelle sculture di Aviero
Come ho avuto modo di scrivere già in occasione della mostra napoletana del 2007,
uno dei fondamentali riferimenti di Aviero è alla vita dell’uomo e al suo dibattersi ‘dualistico’ tra èros e agàpe: opere ‘tormentate’ ed esaltanti come Deposizione di Cristo o Stru1
menti di speranza ne sono la tangibile prova. Quest’ultima opera si presenta come un
blocco compatto di legno, dove non prevale una dimensione sull’altra (come, invece,
spesso in scultura, dove a primeggiare è l’altezza su larghezza e profondità): una sorta di
‘nodo’ o di ‘uovo’ primigenio dal quale emerge, da un lato, il volto ieratico del Vecchio divino, incorniciato da una folta barba e da una capigliatura canuta, mentre tra i suoi capelli
emerge, in maniera innaturale, la forte sua mano destra nell’atto di scolpire con lo scalpello il Decalogo sulla lastra; di lato pagine di spartiti musicali e circuiti elettronici con microchips. Sul retro, un mandolino scavato nel legno (che esteticamente richiama certe composizioni con strumenti musicali di Arman) dal quale fuoriescono le note musicali, che
vanno a coprire, con un andamento a spirale di conchiglia, la nuca di Dio e sono attratte
all’interno di un ‘buco nero’ centrale (o ne escono?), una sorta di foro nel cranio divino.
L’opera, del 2006, in radica d’ulivo, ferro rame e carta, diviene paradigmatica dell’universo
fantasioso e simbolico di Aviero: lo stridente contrasto tra ancestrali armonie della Natura
senza tempo e delle sue leggi eterne e la moderna globalizzazione, con le sue nuove ‘regole’. Il tema dello strumento musicale a corde ritorna anche nella più classica scultura in
cemento alveolare di Euterpe (2005), la musa, appunto, della musica nella mitologia greca.
Il soggetto ‘sacro’ di Deposizione di Cristo e di Strumenti di speranza ritorna pure in
Perché? (Crocifissione), del 2007, dove è rimarcato il senso di una fede ‘sociale’ e di una
Chiesa conciliare più marcatamente montiniana che non wojtylana: la grande croce in rete
metallica, come trafitta dai chiodi che dilaniano l’umanità, entro la quale è la testa di Cristo
che grida, prima di spirare, tutto il suo dolore e la sua umanissima domanda del perché,
mentre schegge di una croce interna lignea si frammentano e pare crollino, frammenti sui
quali sono ‘impresse’, come sindonicamente, le crude foto, in un bianco e nero dilavato e
corroso, delle grandi tragedie umane e sociali dei nostri tempi, dei problemi irrisolti di giustizia, di pace e di democrazia anche verso le varie e più disparate ‘minoranze’. Pure Icaro
(2007), una scultura lignea in parte dorata, con la sua dinamica e grande ala, simboleggia
scenograficamente il precipitare di quel ‘meccanico’ figlio di Dedalo, dell’umanità tutta, oggi attratta dal miraggio seducente dell’onnipotenza attraverso i propri mezzi tecnici (simboleggiati, appunto, dai bulloni e dagli altri strumenti meccanici scolpiti da Aviero all’interno
della sua figura lignea).
Il legno naturale, caldo, solcato da incisioni profonde e ‘graffiato’, ferito da ‘cicatrici’,
ricco di asperità, di fessurazioni e di nodi, talvolta contrasta dinamicamente, cromaticamente e simbolicamente con il cemento, artificiale, freddo, compatto, porosamente etereo
e quasi ‘asettico’, vellutatamene morbido.
Proprio il cemento alveolare, che si caratterizza per la sua più veloce lavorazione
scultorea, viene da lui impiegato per la prima volta nella raffigurazione di un volto sul retro
del quale è una porta e un grattacielo di lato, una scultura nostalgicamente esistenzialista
che simboleggia il ricordo del paese antico in stridente raffronto con la metropoli contemporanea. Non essendo legato alle nodosità e alle forme naturali del legno, queste sculture
in alveolare si qualificano per una maggiore linearità e l’inserimento di elementi in metallo
(come il pendolo all’interno del lungo collo ‘modiglianesco’ in Equilibrio interiore, del 2005,
che allude all’equilibrio della persona in una natura urbanizzata) conducono le opere ad
una suggestiva contaminatio fra materiali e tecniche moderne e antiche lavorazioni, segnatamente di evocazione etrusca.
Le opere di Aviero, che traggono spunto dalla realtà per sublimarla in concetti ‘materici’, si concentrano spesso sulla figura della donna, sinus fecondo dell’Universo primordiale (si osservi il ‘gotico’ ed inquietante Pianeta Donna, del 2000, in legno d’ulivo e terracotta, con il telaio ‘metallico’ interno di dadi, bulloni ed ingranaggi entro i quali è racchiuso
il feto, sul quale gronda sangue la ferita ‘carnale’ inferta alla donna), sulle forme in metamorfica e plasticissima evoluzione, sulla compenetrazione – anche materica – dei poli ‘op2
posti’ che si attraggono e si donano reciprocamente. Basti pensare a Vicinanze, una
splendida opera dinamicamente sinuosa, in cemento e in cotto, del 2007 e oggi in collezione privata toscana, oppure a Attrazione, del 2006 e qui esposta, esclusivamente in cemento, in cui le due ‘steli’ (quella maschile e quella femminile) si attraggono come i poli elettrici opposti in un amplesso cosmico e quel rinnovato ‘vento’ universale di vita incide sui
due silenti ‘menhir’ umani (dall’etera sacralità misteriosa, come svettanti pinnacoli astronomico-astrologici di una preistorica Stonhange) i segni degli spazi siderali, delle acque
feconde e ricche di pesci, dei cieli solcati da liberi gabbiani, dei fiori e delle foglie della vegetazione della Madre Terra, veduta come un Eden incantato.
E ancora osserviamo Corsa per la vita, una simbolica fontana, e Geometrie della conoscenza, opera quasi eterea che ‘smaterializza’ il legno e il metallo con i quali è realizzata e
fa sbocciare – dal compasso e dai simboli connessi del cerchio, del triangolo e dell’occhio
divino – il fiore della Natura e della sua conoscenza. Infine Specchi ustori (omaggio ad Archimede), del 2008 e dedicato alla Sicilia: ancora una volta una rete metallica inflessa su
un basamento, all’interno del quale frammenti metallici come di prue di navi ed elementi
lignei verticali bruciati (con una tecnica che ricorda certe sperimentazioni di Burri e poi di
Arman) simboleggiano le triremi romane che assediarono Siracusa nel 212 a.C., nel momento in cui colano a picco con gli alberi incendiati, mentre sul telaio della rete sono applicati i grandi specchi ustori di Archimede ed altri simboli riferiti alle sue scoperte ed invenzioni.
Le sue sculture, lisce e lineari, diafane e oblunghe come ‘ombre della sera’, oppure
contorte e magmaticamente uscenti dalla ‘carne’ della materia, sono omaggi sublimi alla
Vita e all’Esistenza, all’Essere in assoluto, vibranti di simbolismi poetici e restituiteci con
una maestria anche tecnica che pare sia scaturita da tempi antichissimi per donarci figure
proiettate ‘profeticamente’ nel futuro.
MARCO BORGIANNI
Marco Borgianni, nato a Vico d’Elsa nel 1946, formatosi con Ugo Capocchini, è un
pittore rimasto sempre fedele al figurativo, pur mutando la tecnica di supporto in ognuno
dei periodi artistici che si sono susseguiti nella sua intensa attività di pittore.
Le sue prime opere, dopo aver frequentato l’Accademia di Firenze alla fine degli Anni
Sessanta, si incentravano sostanzialmente in due filoni, che caratterizzeranno la produzione dell’artista durante tutti gli Anni Settanta: quello delle nature morte, di sapore vernacolare ed intimista, con cardi, girasoli, tralci d’edera, vecchi muri, valige disfatte e biancheria stesa al sole; l’altro dei nudi femminili, permeati di delicata sensualità e soffuso erotismo e che rimane fino ad oggi il motivo portante e conduttore della sua poetica. Interessanti pure i vari Sottobosco, dipinti verso il 1980, dove l’intreccio di fogliame, di fili, d’erba
e di cortecce d’albero ha la potenza di una natura resa quasi astratta, secondo
l’insegnamento morlottiano, così come sarà in seguito recepito anche da Antoio Pedretti.
Negli Anni Ottanta Borgianni si avvicina ad un figurativo maggiormente simbolico e
surreale, influenzato in parte dalla visione dei film di Federico Fellini. Nasce allora anche la
serie più specificamente ‘felliniana’ dal titolo E la nave va. A questo periodo risale la serie
di Stanze aperte.
All’inizio degli Anni Novanta, durante un suo viaggio a Parigi (1991), inizia a rappresentare la città e la sua vita. Un altro viaggio, quello fatto in Nord America (1993-1994), lo
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porta ad affrontare un’altra tematica, quella della natura rocciosa del Grand Canyon e della foresta pietrificata.
A metà degli Anni Novanta l’occasione di dipingere il ‘cencio’ per il Palio di Siena lo
riconduce a meditare sulla grande pittura toscana ed affronta l’arte sacra, nella tecnica antica e tradizionale dell’affresco, tra l’altro in una cappella privata a Collepetroso, verso
Radda in Chianti. Sempre il viaggio è il mezzo per Borgianni per dischiudere nuovi orizzonti artistici, e così, fra il 1996 e il 1997, la cultura peruviana imprime alla sua opera una
nuova frontiera di ricerca.
In seguito Borgianni approda quasi all’Informale nella serie dei suoi canneti (20002005). Infine, l’ultimo periodo, quello attuale, con le figure femminili nella notte.
Parallelamente alla sua attività di pittore, Marco Borgianni porta avanti quella di scultore.
Nel vento della notte, nella luce della luna. L’incantato universo femminile nelle opere recenti di Marco Borgianni.
Per la sua poliedrica e variegata produzione, l’opera di Marco Borgianni non può essere analizzata nella sua globalità, poiché qualsiasi giudizio o interpretazione è legato ad
un suo preciso momento storico e, spesso, può non essere valido per quelli precedenti o
susseguenti. In altre parole, la sua ‘mobilità’ costringe a rendere flessibili e mutevoli anche
l’approccio alle sue opere e qualsiasi giudizio ne consegua. Ciò non è, però, sinonimo di
trasformismo in senso negativo, quasi l’artista sia incerto ancora sulla strada da intraprendere oppure muti le sue visioni in ossequio alle tendenze della moda; al contrario, Borgianni è un artista veramente tale, cioè che si pone continuamente in discussione e vuole
evolversi, senza rimanere forzatamente legato a schemi ed elementi identificativi, pur attraenti per un mercato squisitamente commerciale. Inoltre, dalle diversificate analisi dei vari periodi, influenzati da tematiche, tecniche e presupposti artistico-culturali differenti, nonostante tutto emergerà chiaro per il lettore delle sue opere un comune elemento conduttore, che si consolida prepotentemente nella produzione ultima esposta in questa mostra,
opere che, nella fondamentale diversità dalle precedenti, non potrebbero essere appieno
comprese senza la conoscenza di ciò che egli ha precedentemente creato.
Il figurativo simbolico e surreale, influenzato, come si è detto, dai film di Fellini, si
concretizza nella nota serie dei letti (il luogo intimo all'interno della casa che simboleggia
l’uomo e la sua vita) veduti come isole nel mare, dove viene esasperato fino all’acribia lo
studio del panneggio nel quale si avvolgono e si intravedono sensuali corpi nudi donne.
Nella serie felliniana dei suoi pastelli dal significativo titolo E la nave va assistiamo ad un
personale omaggio ai grandi artisti del passato (Leonardo, Michelangelo, Caravaggio, Manet, Toulouse-Lautrec, Van Gogh, Picasso ed altri) ‘imbarcati’ su navi di emigranti verso il
Nuovo Mondo. Parallelamente continua a raffigurare nudi di donne all’interno di stanze,
che assumono sempre più una connotazione psicologica sottesa. Paradigmatico anche
l’interno simbolico e metafisico, permeato di luce e di silenzio, della tela dipinta nel 1985
dall’enigmatico e suggestivo titolo Presenza del Caravaggio nello studio in una giornata
d’inverno, con i telai dei quadri che si perdono in evanescenza nel luminoso e freddo paesaggio innevato fuori dallo studio in un indefinibile ‘oltre’. La serie di Stanze aperte ripropongono lo stesso contrasto simbolico tra il tepore caldo con la modella nuda in primo piano e i gelidi spazi esterni al di là delle grandi vetrate.
Con grande maestria nell’uso del disegno, Borgianni rappresenta Parigi e la sua vita
vedute attraverso le luci della notte o i loro riflessi sulle grandi vetrate dei principali monumenti-‘icone’ della metropoli francese (les Halles, la Piramide du Musée du Louvre,
l’Opéra Bastille, la Defence, il Moulin Rouge), con le immagini delle persone immerse e
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quasi evanescenti nell’anonimato travolgente della città contemporanea, dalle assonanze
esistenzialiste con certa pittura di Alberto Sughi e, più latamente, con gli scorci della periferia americana di Edward Hopper.
Nella serie del Grand Canyon e della foresta pietrificata la natura magmatica e primordiale, che risente della lezione di Carlo Mattioli e di quella di Sergio Scatizzi, è resa
con un pigmento spesso e materico, gestualmente inciso e graffiato, dalle connotazioni
luministiche e coloristiche surreali, come già in alcuni quadri di Max Ernst.
Nella rammentata cappella del Chianti Borgianni dipinge globalmente pareti e soffitto,
come facevano i pittori barocchi, ricordandosi della lezione annigoniana, unita ad una simbologia di forte denuncia della globalizzazione contemporanea, dove i richiami sociali evidenziano la forte coscienza politica dell’artista e l’inserimento nelle scene bibliche di elementi ‘dannati’ della contemporaneità (mezzi di comunicazione o lattine di note bibite) rimandano a certa pittura intellettualisticamente più impegnata della Pop Art italiana, ma
anche al Metropolismo di Pier Luigi Cesarini.
Nel ciclo peruviano i suoi quadri diventano una mescolanza inestricabile di rocce (a
tratti dalle incandescenze come di magma lavico) e di città antiche che segnano il territorio
e la natura; le pietre delle case precolombiane o le Linee di Nazca si mescolano in un unicum con la possanza delle montagne di roccia, gli altopiani andini e le nubi, divenendo segni come di uno sconosciuto alfabeto atemporale. Ma anche il lago di Titicaca, con le sue
rive piene di vegetazione lacustre, attirano l’attenzione del pittore: come nelle città abbarbicate sulla roccia, vi si sente inseparabile lo spirito della natura e l’essenza stessa
dell’uomo, sebbene quest’ultimo non compaia mai direttamente. In alcuni oli, come in Ollantaytambo (un’antica fortezza inca vicina a Cuzco), la figurazione raggiunge la potenza
di un’astrazione lirica con uno studio approfondito del colore e delle sue variazioni tonali,
trapassando da quelle calde a quelle fredde, in una composizione armonica che rammenta
le ultime sperimentazioni di Vincenzo Balsamo.
Proprio le umili canne palustri sbattute dal vento, questa volta riprese nella pineta di
Migliarino e nel Parco dell’Uccellina, ma ridotte ad una gestualità e ad una cromia essenziali, portano Borgianni a rasentare l’Informale. Le canne e i loro intrecci contorti, come in
Emilio Scanavino, divengono metafore dell’uomo e le paludi sono ‘paludi’ esistenzialiste
dell’anima come in Antonio Pedretti, ma con una pennellata talvolta dalle cromie maggiormente violente ed espressioniste.
L’ultimo periodo, quello esposto a Cento, è contraddistinto dalle figure femminili nella
notte. Un ritorno al disegno e alla figura, con un tratto asciutto ed essenziale che si richiama alla Pop Art di un Roy Lichtenstein, ma inciso in uno spesso strato pittorico fatto con
pomici e rene rilucenti. Indubbiamente il riferimento grafico è al mondo del fumetto, al pari
dell’uso del colore primario dato per campiture prive di sfumature, come lo fu in parte anche per Tano Festa, schema, però, in Borgianni mantenuto più radicalmente nella precisione grafica del disegno. Ma, come disse Lichtenstein nel 1967, “devo al fumetto lo stile
ma non i temi”: così, infatti, è pure nei quadri dell’artista toscano. La forma e il contenuto
del fumetto hanno come specifica funzione quella di banalizzare e generalizzare personaggi ed emozioni per renderli a livello di un qualunquismo popolare, non coinvolgendo le
opinioni dei disegnatori.
Nella ‘spersonalizzazione’ emozionale del fumetto Borgianni tende a ‘blandire’
l’aggressività che gli proviene dal linguaggio pubblicitario introducendo un contenuto soggettivo personalizzato. La sua pittura non è un mezzo per raggiungere un fine,
nell’accezione di una rappresentazione realistica e oggettiva di contenuti, né è un fine in
se stessa, come avviene, ad esempio, nell’arte costruttivistica astratta. I suoi quadri,
d’altronde, non sono specchio dell’Io, né in senso romantico, né espressionista, né psicologicamente esistenzialista. Le sue tele divengono morbide e coinvolgenti immagini schematicamente astratte dalla realtà, dove la donna sensuale generatrice dell’Umanità si pla5
sma e si perde nelle forme della Natura suadente. Solo raramente il quadro si fa simbolico.
Uno studio grafico del cromatismo tono su tono di quelle incantate Notti di San Lorenzo lungo le coste maremmane del Mar Tirreno (prevalentemente a Baratti, nei pressi
dell’etrusca Populonia) o di quelle ‘classiche’ e ‘saracene’ di Sicilia (a Cefalù), che rappresenta la riflessione lunare, simbolica e latamente nostalgica sull’esistenza attraverso le
forme suadenti ed erotiche (mai volgari) di donne nude (rivelate) sotto la luce della luna e
delle stelle (luci ‘femminili’, a differenza di quella del sole, ‘maschile’), senza però, come si
è detto, implicazioni strettamente esistenzialiste. Proprio in questo possiamo riconoscere
quel filo conduttore di cui si parlava inizialmente: la figura della donna e della natura tra
Romanticismo ed Esistenzialismo, senza mai approdare né all’uno né all’altro.
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Nella scultura, non presente nella mostra centese, Borgianni, erede spirituale di Leto Fratini,
fratello della madre e docente di scultura a Brera, esegue statue in cotto, bronzo, legno e marmo,
raffiguranti sempre figure femminili o coppie di innamorati. I suoi nudi, in posizioni innaturali ed impossibili come di esasperati contorsionisti, presentano forme dilatate, ma non ‘cellulitiche’ come
nelle statue di Fernando Botero, bensì ‘gonfiate’ e deformate nella parte inferiore del corpo sino ai
fianchi, come a ricordare l’ampio bacino della Grande Madre ovvero di una Venere Iapigia. Le sue
opere in cotto, che rivelano una suggestione dall’arte di Arturo Martini, Marino Marini e di Salvatore
Cipolla, evidenziano uno studio approfondito del materiale, reso superficialmente poroso e quasi
rugoso, e delle sue possibili cromie, impiegando terre diverse e coloriture con ossidi come quello di
manganese, a restituirci manufatti dal sapore moderno ad un tempo antichissimo, come di reperto
sumerico, con le superfici e gli angoli arrotondati e smussati dal tempo. Talvolta le sue contorte figure, ripiegate su se stesse, come biblicamente nascenti dalla ‘polvere’, protendono la testa ancora verso il basso, sprofondandola come una radice nella terra dalla quale emergono e non rivelando così il volto ma solamente la nuca dalla capigliatura, restituitaci attraverso una superficie ruvidamente alveolare. Un artista di talento, che attraverso diverse suggestioni culturali, va irrequietamente cercando la sua strada, interpretando le forme scultoree con una tendenza verso una deformazione ardita fino al limite del grottesco, dovuta più che ad un’astratta ricerca stilistica ad una
intrinseca motivazione di umore e sincerità.
ELIO DE LUCA
Nato nel 1950 a Pietrapaola (Cosenza), Elio De Luca fin da bambino è stato attratto
dalla pittura, da quando, ancora alle Elementari, copiò un quadro raffigurante una tempesta marina che lo aveva particolarmente colpito. Quindi ha frequentato l’Istituto d’Arte a
Prato, dopo l’incontro fondamentale, verso i quindici anni, con lo scultore pratese Mario
Cappelli (1915-1978), un allievo di Libero Andreotti. A ventidue anni, nel 1972, tiene la sua
prima personale presso la storica Galleria Muzzi a Prato, quando, lasciati progressivamente i soggetti di natura morta e di paesaggio, approda alla figura. Allora la sua pittura si ispirava a un figurativo fortemente espressionista, dai colori intensi e dalle linee gestualmente
marcate. Negli Anni Ottanta i suoi quadri (come Preghiera o l’Autoritratto) esprimono figure
statiche, con forti riferimenti all’arte della prima metà del Novecento. È, però, agli inizi degli
Anni Novanta che assistiamo ad una svolta fondamentale nella sua opera, dove i personaggi iniziano ad essere contraddistinti da grandi occhi. Ciò non è stato aprioristicamente
voluto, ma gli occhi si sono dilatati con il tempo e l’artista vi si è trovato coinvolto quasi
senza accorgersene. Allora dipingeva esclusivamente a olio e continuava, parallelamente,
un’ampia produzione di disegni e di pastelli.
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Verso il 1993, dopo essere venuto a maggior conoscenza dell’opera pittorica di Xavier Bueno, nei sui quadri entra una maggior matericità e questo, con la staticità delle figure, rivela la sua originaria preparazione di scultore, attività che, pur saltuariamente, continua con passione a praticare. Nascono, così, i suoi oli materici o, come ama chiamarli,
“cementi” e “pittosculture”, dove il colore è dato su un grumoso e spesso impasto di colle e
di sabbie, incise e graffiate, con riferimento ai vecchi muri di Via San Leonardo a Firenze,
di rosaiani memoria. Tale matericità si è evoluta fino a dare alle opere una consistenza di
bassorilievo, poi attenuatasi nell’ultimo periodo.
Nei suoi temi si riflette il senso intimista della famiglia a l’amore per la madre dopo la
perdita prematura del padre. Figure ricorrenti sono, appunto, quelle della madre e dei fanciulli. Fondamentali, nel 2004 e nel 2005, le mostre Il Palcoscenico dell’esistenza e Mater
Terrae per definire la sua lirica e delicata poetica esistenzialista.
Recentemente ha eseguito anche alcune opere a soggetto sacro per una chiesa romanica del Valdarno Fiorentino, presso Figline.
Di luce e di ombra. Specchi e riflessi dell’esistenza
Nella variegata produzione pittorica di Elio De Luca, accanto alle composizioni emotivamente surrealiste e latamente romantiche (dove personaggi ‘puri’ ed incontaminati,
spesso bambini o innamorati, giocano e si incontrano, suonano oppure contemplano una
natura cristallina ed incantata, come moderne rivisitazioni di certo malinconico e nostalgico
Pierrot di centocinquant’anni fa, conservandone l'onestà e quell'amore per la verità spinto
fino all'eccesso), costituiscono un gruppo ragguardevole quelle a valenza più marcatamente esistenzialista, con ascendenze fortemente simboliche e metafisiche. Tale produzione è, a nostro avviso, quella che maggiormente si qualifica, sia per la profondità del
messaggio, sia per l’ineccepibile composizione formale.
Indubbio è il riferimento alla pittura italiana degli Anni Venti e Trenta, a certa statica
monumentalità delle figure e degli spazi che fu propria di artisti quali Sironi, intrisa di reminiscenze dechirichiane in quell’aura e in quell’afflato ineffabile di mistero e di velata tristezza che li avvolge. Staticità solenne, si diceva, come meditazione pacata sull’esistenza,
dove i personaggi dai grandi occhi (occhi dell’anima) ‘assomigliano’ agli uomini ma sono
qualcosa di diverso, sebbene ne conservino le sembianze, come le bambole. Bambole
metafisiche, come i manichini di De Chirico e, in parte, di Carrà o di Sironi, come quelli di
Annigoni, che mettono in scena la vita dell’uomo, l’interpretano e la filtrano. A differenza
dei manichini annigoniani, però, i suoi personaggi non sono senza volto, ‘vuoti’ o svuotati,
inerti, di ‘paglia’, ma esseri viventi, non bambole di celluloide (i grandi occhi vividi e cristallini sono specchi vibranti della psiche), sebbene di una vita che è umana e ‘sovrumana’ ad
un tempo. Un distacco che contribuisce a far leggere meglio la stessa parabola umana,
come privata dell’emotività dirompente e roboante, mantenendo però il vero ‘succo’ (filtrato, appunto) dell’esistenza, conservando inalterato il pathos più profondo. Forme sempre
morbide ed arrotondate che se da un lato risentono della lezione di Antonio Bueno,
dall’altro conservano l’emotività coinvolgente ed ‘etica’ di uno Xavier Bueno, del quale riprendono anche l’uso per la pittura a finto affresco, graffiata e materica.
Figure solenni, come uscite da una tragedia greca (alcune donne indossano lunghe
vesti come pepli), che hanno la dignità antica proveniente dalla virtù, al di là della condizione economica e sociale, come i marinai, i pescatori o le raccoglitrici di limoni di Migneco
(si osservi Donne dei pescatori). Profili di volti ‘sacri’ e perfetti, come usciti da affreschi
dell’Umanesimo; colori, almeno in questa serie di opere (‘cementi’ e pastelli su carta), mai
violenti, ma terragni, spenti, ovattati (ocra, marroni, celesti, grigi, gialli, rosacei). Pittura di
emozioni e di sentimenti, attraverso il caleidoscopio della memoria, analisi del proprio inconscio e dei meandri inesplorati della psiche: viaggio nelle stanze interiori, nel recondito
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più appartato, per ritrovare gestualità primordiali oramai dimenticate, segni e significati che
il rumore frastornante della vita moderna ci ha fatto dimenticare. I suoi sono quadri fatti di
silenzi, di pause e meditazioni, di un silenzio che si riflette nelle scarne ambientazioni
(stanze vuote dalle nude pareti, distese solitarie di spiagge e di mari, cieli azzurri solcati da
nubi come in certa pittura del Quattrocento, alberi scheletriti dalle lunghe ombre ‘materiche’ oppure primaverili con poche ed essenziali foglie – come in affreschi cortesi del DueTrecento –, limpide volumetrie architettoniche scolpite dalla luce): silenzio ed essenzialità,
però, che non sono sintomo di ‘vuoto’ interiore, tutt’altro. Quelle rappresentazioni riempiono l’animo e lo spirito, fanno riflettere e pensare, infondendo, al contempo, non paura per
l’effimero che è insito nell’esistenza, ma pace, serenità quasi francescana o, comunque,
ieratica. Parafrasando un verso della poetessa inglese Elizabeth Barrett Browning (18061861) – “thunders of white silence” – le sue opere sono “tuoni” di policromo, ovattato silenzio. Simbologie di sassi, conchiglie e frammenti di sculture antiche hanno il ricordo di Boeklin e di Magritte, ma attraverso la visionarietà di un Dalì e le suggestioni classiche di un
De Chirico.
La stanza della solitudine diviene l’analisi autocosciente che approda ne La stanza
della Verità, La natura dell’anima nelle stanze interiori si può disvelare appieno, senza ipocrisie o sovrastrutture Contemplando la nuda verità; L’attesa carica di aspettative suggerisce al contempo il distacco dalle cose e dagli affetti terreni nella loro ossessiva morbosità
per giungere alla saggezza pacata, Ascoltando il tempo della vita e rifugiandosi nell’altra
persona come fratello o sorella (Dopo il freddo naufragio, tra le reti sicure; Cercando nel
tuo porto quiete, titolo desunto da un verso – “prego anch'io nel tuo porto quiete” – del sonetto In morte del fratello Giovanni di Ugo Foscolo).
Il ricordo è per De Luca fondamentale, la memoria diviene magistra vitae, poiché è
proprio il dimenticare gli eventi della Storia, di tutte le nostre ‘storie’ particolari, che conduce nuovamente all’errore (Illuminando l’oblio perché resti la memoria). La luce è, come nel
Neoplatonismo o in quasi tutte le religioni, metafora di conoscenza, di perfezione e spesso
le figure di De Luca tengono in mano una lampada o una simbolica candela; lo specchio
riflette la verità (come il Sole quella divina, diceva Ficino), è Lo specchio dell’esistenza; il
buio è buio interiore, che uccide il colore e la vita, divenendo universale come certo pessimismo leopardiano (Morte cosmica di Arlecchino, che giace solo e inerte sulla nuda e arida terra, sotto un cielo notturno e siderale), ma in De Luca la speranza torna ad avere
aurorali bagliori, il suo Esistenzialismo si fa positivo, In riva al mare, guardando oltre, cogliendo, tra i gorghi e la marea di finti ed effimeri valori, L’essenza vera della vita (l’unica
bacca colorata, rossa come il sangue, la vita appunto), ciò che rappresenta Il cibo
dell’anima.
Gli affetti autentici sono per il nostro artista sempre pacati e silenti, il rifugio è sempre nel
porto sicuro della madre, innanzi tutto della ‘prima’ madre, la Terra (La buona madre), ma
anche la solitudine e l’angoscia, da depressione e l’azzeramento di ogni certezza possono, in fin dei conti, tornate positivi e far germogliare, generare in noi la verità e la ‘vera’ vita, come evangelica ‘acqua viva’ che sgorga nel deserto (La maternità della solitudine). Allora tutto può avvenite, anche il ‘miracolo’ prodotto dalla ‘fede’: si può avere Un mare in
una stanza e, dopo la ‘morte’ (il crollo della casa che simboleggia il crollo delle nostre umane aspettative), si può continuare a volare leggeri come quell’aquilone dal filo rosso
(come il file rouge de la memoire), anelito di libertà interiore (Ladri di aquiloni).
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GIUSEPPE LA BRUNA
Nato a Monreale (Palermo) nel 1953, dopo aver frequentato le Accademie di Belle Arti di
Palermo e di Ravenna, si diploma a Palermo nel 1976, dove insegna scultura dal 1978 al
1981. Dal 1986 è docente di figura ed ornato modellato presso il Primo Liceo Artistico di
Palermo; dal 1989 titolare della cattedra di scultura all’Accademia di Carrara e dal 2001 di
quella di Palermo. Attualmente (2008) insegna scultura presso l’Accademia di Venezia.
Fin dall’anno del suo diploma all’Accademia palermitana tiene la sua prima mostra collettiva (1976), mentre la prima personale risale al 1982. Ha esposto in numerose e prestigiose
sedi pubbliche e private in varie città italiane (tra le quali rammentiamo Palermo, Lecce,
Siena, Milano, Trapani, Reggio Emilia, Bologna, Livorno, Firenze, Padova, Roma, Carrara,
Parma, Forlì, Ravenna, Pietrasanta, Napoli) e all’estero (Corea, Francia, Siria, Svizzera).
Ha il proprio studio all’interno del complesso facente capo al secentesco Palazzo Cutò,
nello storico quartiere di Ciambra, sul retro della cattedrale arabo-normanna di Monreale,
città nella quale è stato attivo anche nella vita politico-sociale e culturale.
Arte come fecondo “e-vento” cosmico
Giuseppe La Bruna è uno scultore, in un certo senso, tradizionale, essendosi ‘riappropriato’ di materiali (quali il bronzo, il legno ed il marmo) e di tecniche (come la fusione a
cera persa) antichi. La Bruna scolpisce con gli strumenti della tradizione che egli stesso
insegna anche quale docente, attualmente all’Accademia di Venezia. Ciò nonostante, le
sue opere – figurative, sì, ma mai oleograficamente veriste – sono estremamente moderne
e affascinanti. Spesso si è erroneamente ritenuto che un’arte concettuale dovesse esprimere un’idea senza ancorarsi alla bellezza della figurazione: le sculture di La Bruna rivelano, invece, una profonda meditazione simbolica ed allegorica sull’esistenza attraverso
forme magistralmente ricche di pathos e di eleganza formale.
La produzione degli ultimi anni si è concentrata sulla figura umana ‘rarefatta’ che assurge a simbolo di una pacata riflessione sulla vita, sul Cosmo e sul suo costante ed inesorabile trasformarsi, creando il Tempo e la Storia. Le sue figure, per lo più asessuate,
rappresentano l’umanità o meglio, forse, l’essere vivente creato che, in un silenzio siderale, assiste alla formazione di se stesso e dell’Universo. Una visione cosmogonica dove la
materia è eterna nel suo divenire, come per Lucrezio (De rerum natura: “nessuna cosa
mai si genera dal nulla […], nulla può esser prodotto dal nulla […]; non può […] ogni cosa
ridursi al nulla […], non ritorna dunque al nulla alcuna cosa, ma tutte per disgregazione ritornano agli elementi della materia). Così, materiale informe, disseminato negli spazi cosmici, si ammassa, si coagula e prende a mano a mano forma nel vento della vita che spira prepotente nell’Universo. Una sorta di vento che è ànemos, spirito di autocoscienza. Le
sue masse materiche, per lo più di bronzo ma anche di marmo o di legno, prendono gradualmente la forma nel riconoscersi come esistenti e pensanti e si ergono maestosamente
ed epicamente come figure antiche sulla riva di un mare, il mare della vita. I personaggi,
resi astrattamente e quindi modernissimi, si ricollegano, non a caso, proprio alla scultura
antica, come reperti archeologici corrosi dalla salsedine e scuriti dalla terra, con quelle
cromie e quelle patine impresse ai suoi bronzi mediante un uso sapiente di ossidi. In queste opere dello scultore monrealese ci tornano alla mente sculture preistoriche ma anche
etrusche ed italiche: la materia stessa di cui sono fatte pare forgiata e plasmata con il
tempo e con lo spazio. Frammenti del passato come ripescati da un simbolico mare e
proiettati da un demiurgo nel vento cosmico: modellati con profondo senso della ‘terra’ (le
ditate impresse nella cera e riconoscibili nelle scaglie di bronzo fuso; i colpi di scalpello nel
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legno), rivelano cicatrici e ferite, solchi e scabrosità simboliche che si annullano nei lisci
volti contemplanti l’infinito, quasi con atarassia, metafisicamente senza connotati.
Tali segni degli strumenti e delle dita dell’artista rendono lo scultore come un dio che
forgia la materia primordiale, gli imprime segni e significati, creando la Storia e gli eventi.
Segni che da un lato possono divenire misteriosi alfabeti, nei quali sta racchiuso il significato e il segreto dell’Universo, ricoprendo lastre bronzee come in tavolette sumeriche, ma,
dall’altro, si ricollegano direttamente alla Natura, che ha impresso linee e segmenti misteriosi nel magma poi solidificatosi in roccia, nella quale è scritta la storia della Terra. I suoi
Frammenti di scrittura cosmica assommano gli alfabeti alle solitarie figure e agli alberi di
una natura anch’essa in formazione, cosicché le chiome si materializzano come da fluttuanti nubi pregne di vita.
Nel turbinio di questa materia eterna si coglie e si perde l’attimo fuggente, l’incontro
di amanti, in un continuo fluire dove gli esseri viventi di gonfiano e sgonfiano come vele,
respirano sotto la spinta di quel vento primario.
Nelle sculture di La Bruna è racchiuso il metro che misura il Tempo e lo Spazio alla
ricerca di una catarsi finale, scrutando – cercando di penetrare cioè – la realtà futura attraverso una pausata riflessione ed una memoria ancestrale. Sono simbolici monoliti di questo ‘viaggio’ umano attraverso il Tempo mediante la Storia codificata dalla scrittura, che,
cercando di spiegare (o, meglio, semplicemente intuire) l'indissolubile legame che unisce
l'Uomo al Tempo e allo Spazio, assumono il tono seducente e filmico di 2001 Odissea nello spazio (il noto e simbolico film di Stanley Kubrick del 1968). Applicando alle sculture di
Giuseppe la Bruna ciò che lo stesso Kubrick disse a proposito del suo film, possiamo forse
affermare che "ognuno è libero di speculare a suo gusto sul significato filosofico […], [La
Bruna ha] tentato di rappresentare un'esperienza visiva, che aggiri la comprensione per
penetrare con il suo contenuto emotivo direttamente nell'inconscio". E, forse, per le opere
di La Bruna (fratello di un noto musicista e violinista, Francesco, fondatore dell’Ensemble
Le Brun) sarebbero calzanti, a commento, anche alcune delle musiche scelte per il suo
film da Kubrick, quelle del noto compositore ungherese, naturalizzato austriaco, György
Lieti (1923-2006), uno fra i più grandi compositori di musica strumentale del Novecento
(Atmospheres; Lux Aeterna; Adventures e Requiem).
Da questi alieni monoliti neri, da queste meteoriti piovute sulla Terra, da queste pietre di Luna che recano misteriosi codici alfabetici astrali si sprigiona, come da crisalidi (si
pensi, appunto, a Crisalide, del 1998), la vita e l’intelligenza, da quegli archetipi dai quali
deriva la molteplicità della natura e degli esseri viventi (Astro alfabetico, del 1996; Scritto
ancestrale, del 1997). Una plasticità ed una permeabilità che pare liberare i materiali stessi
dalla gravità, dal proprio pondus.
Così, Immersi nello spazio, del 1985, è una fusione quasi informale di figure che si
creano nell’Universo e la base, costituita da una pietra levigata e smussata, diviene come
una meteora che, attraversando lo spazio, porta la vita, plasmata dai venti astrali. Anche in
Le sacre du printemps, parimenti del 1985 ed il cui titolo è ispirato al capolavoro russo del
1913 di Igor Stravinskij (1882-1971), ci raffigura un monolite dal cui taglio verticale, origine
della vita, sorge la figura della Primavera e il dinamico groviglio danzante di nuovi esseri
sul palcoscenico del mondo.
La grande statua lignea di Cibele (1998/2000) è una meditazione e una contemplazione di quel rammentato divenire cosmico e la materia con la quale è fatta la dea frigia, la
Gran Madre degli Dei, personificazione della potenza della Natura, ha l’imponenza di un
tronco che si forma uscendo dalla terra: in quell’assemblarsi di masse ritroviamo le rugosità di una corteccia d’albero e il profumo di boschi galattici che rimandano al significato originario e fecondatore di Cibele-Rea, figlia di Urano e sposa di Crono.
Il viaggio di Ulisse (anch’esso del 1998) è metafora del viaggio dell’umanità in perenne ricerca di nuovi orizzonti e di nuove terre interiori: il libro, ancora una volta in legno, è
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quello della storia dell’uomo e il tocco lieve della farfalla in bronzo rimanda a voli in cristallini cieli surreali della conoscenza.
Il tema della scrittura è presente anche in Libro cosmico (1998), nel quale i segreti
dell’Universo sono incisi nella grande pietra di fronte alla quale medita una figura in tutta la
sua ‘piccolezza’ e anche la molteplicità di materiali (basalto, bronzo e legno) rinvia alla
complessità della Natura e l’inclinazione del grande libro sotto il cuneo ligneo vuole quasi
essere una raffigurazione dell’uomo che con il proprio intelletto penetra e dischiude i misteri del Creato.
Nella Coppia (2005) le due figure stanti in terracotta rimandano anch’esse ad un
simbolico mondo antico, assumendo il fascino discreto ed enigmatico del manufatto archeologico. nella piccola dimensione già avevano la valenza quasi di un bozzetto per la
realizzazione di una più grande scultura, realizzata e conclusa proprio in questo 2008 per
la mostra di Monreale: le maggiori dimensioni del grande ‘totem’ in legno invita
l’osservatore a sedersi sulla parte inferiore, destinata ad accogliere e a fondersi con il fruitore, quasi come un monumento funebre uscito da un’antica necropoli o dallo scavo di un
tempio, dove l’offerta alla divinità diviene una fusione vitale con l’Universo.
E-venti cosmici (assonante specificamente con il tema della mostra), invece, è quasi
il bozzetto per una più grande istallazione, con le due figure in formazione, poste staticamente in verticale a serrare la scena, ed il groviglio turbinoso delle altre che definiscono
dinamicamente in orizzontale la ‘lingua’ di terra dove l’evento si svolge (cioè dove il vento
fecondatore spira).
Elegantissimo il suo Omaggio a Gabriel Fauré (1983), il noto compositore francese
vissuto tra Otto e Novecento (1845-1924), che aveva segnato il passaggio dal romanticismo ‘emotivo’ a un'ideale essenzialità, tendente a trasformarsi in messaggio morale ed etico. Così, similmente, l‘opera di La Bruna, che risale al 1983, sulla base marmorea del
palcoscenico della vita ci rappresenta tre figure femminili in bronzo, una ancora legata dai
propri condizionamenti e dal passato, la seconda che si sta liberando e l’ultima, libera, che
con passo danzante si proietta al di fuori della base. Opera emblematica di La Bruna, che
vi esprime un pensiero artistico estremamente sofisticato, in una dimensione dominata
dalle allusioni, dall'aristocratica e dinamica contemplazione, da un lirismo spesso tenue,
arioso, mai decorativo.
Colma di simbologie è anche la scultura ideata come Omaggio a Ludovico Ariosto
(Angelica e Bradamante), del 1988, bozzetto per un monumento urbano poi mai realizzato. Su un ampio macigno, che, come un terreno di battaglia, presenta levigate affossature
riempite di acqua e con ghiaia marina ricca di coralli (elemento ‘effimero’ e mutevole, di indispensabile completamento a molte sue sculture), vi sono i resti di lance e di armi di
bronzo spezzate; dal cavallo impennato e come veduto ‘in esploso’, dai tratti monumentali
novecentisti alla Marino Marini, si intuisce appena Bradamante – fusa con il suo stesso
cavallo e come da esso generata – cadere all’indietro, in un convulso attimo di dinamismo
bloccato nella scultura come in un’istantanea; di lato, in alto e separata, si erge la figura
stante di Angelica che medita sul campo dopo la battaglia. Attraverso l’omaggio alle due
eroine dell’Orlando furioso La Bruna ci ripropone una riflessione di Ariosto che diviene visceralmente sua ed espressione della sua filosofia cosmica. Bradamante (appena intuibile, come si è detto, tra le ‘lacerazioni‘ del cavallo) cavalca come vestita della propria armatura di bronzo e sconfigge cavalieri e maghi, mentre Angelica, figura in ‘formazione’ attraverso il magma che si connota e cioè diventa autocosciente, pensa, riflette; sono contrasti
ideati per mostrare a chi guarda più facce della realtà, contrasti di concetti implicitamente
legati tra loro, una volta ancora come metafora della vita, così come la femminilità di Angelica e la mascolinità di Bradamante non sono altro che il ‘bianco’ e il ‘nero’, i poli opposti
che si compenetrano, si attraggono e si fondono ‘necessariamente’.
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Tutto, nelle sculture di La Bruna, converge magicamente in un unicum armonico ed
escatologico finale, pur nella variegata poliedricità di forme e di materiali (sempre ‘naturali’), come emblematicamente pare suggerire il cerchio di figure danzanti attorno al grande
obelico-monolite solare di Verso il Dio universale (2003), che, al pari di un cuore immanente e trascendente allo stesso tempo, batte e palpita nel Cosmo, in un Cosmo fatto di luci e
di ombre, dove l’ombra non può esistere senza la Luce, ma neppure la Luce può sussistere senza le sue ‘ombre’. In tal senso, già in Trilogia di un evento, del 1995, con le due figure delle quali una è ‘doppia’ (nascendo una in seno all’altra, come Eva dalla costola di Adamo), possiamo leggerle questa simbologia, esplicitata dalle parole stesse dell’autore:
“ogni cosa ha una sua verità entro la quale è nascosta una bugia, ma nella bugia, spesso,
è intrappolata la Verità che tanto fa male a chi usa con arroganza la bugia”. Parole disincantatamente esistenzialiste, ma forse non prive di un’ultima aurorale speranza, che ci
aiutano a comprendere il suo fare scultoreo: impressioni come colpi di luce nel buio della
notte siderale, fecondi (creativi) ‘venti’ magici impressi nella materia dal suo ‘creatore’.
Paradigmatica per antonomasia è La nave delle donne, del 2007, la grande e scenografica scultura che racchiude in sé tutta la poetica e la filosofia della scultura di La Bruna:
un mezzo scafo di nave, realizzato mediante vecchie doghe inflesse di botte, sul quale si
ergono dieci figure in bronzo (variamente patinato) di donne, di differenti misure. Tali figure, frammentate e lacerate, si compongono (o si dissolvono?) sotto l’effetto dei ‘venti’ generatori (o dell’inesorabilità del Tempo?) e la materia si va definendo in immagini dinamicamente, come sotto l’effetto del vento in poppa. Alcuni contrappunti cromatici (rosso nella
prua; tocchi di ossidi azzurri lungo il fasciame, che pare suggestivamente ricordino il riflesso del mare) rendono solenne e’antica’ questa processione remota, come diretta ad un
“priscum templum et religiosum” (per usare una citazione di Plinio il Giovane a proposito
del tempio di Clitunno presso Trevi in Umbria), unendovi il fascino di un sacro connubio tra
la Madre Terra e il fecondo Mare.
Sculture, quelle di La Bruna, che uniscono tutto il fascino antico (segnatamente greco-romano e di quella sua terra natia, immersa nel Mediterraneo) alla gestualità materica e
simbolica postmoderna.
PAOLO NOVELLI
Paolo Novelli, nato nel 1976, ha iniziato la sua attività di fotografo come autodidatta
nel 1996, quando vide la famosa foto con gli innamorati sulla terrazza di una delle torri di
Nôtre Dame a Parigi di Henri Cartier-Bresson (1908-2004) e per lui fu una folgorazione.
Amante dell’evocazione e della sintesi, in un primo momento (1997-2002) si è dedicato alla foto da strada, con scatti in presa diretta di persone ed eventi così come si svolgono nel quotidiano (la serie, intitolata “Persona”, ancora inedita, sarà oggetto di una
prossima presentazione). In quegli anni Novelli fotografa esclusivamente in bianco e nero
senza l’uso di filtri, con luce naturale, durante i suoi viaggi in Europa, effettuati in estate.
Nel 1999 assistiamo ad una parentesi nella sua produzione artistica: selezionato da
Fabrica, il centro di ricerca sulla comunicazione di Benetton nato nel 1994, lavora per tale
centro per tre settimane, durante le quali si avvicina alla foto di studio e a colori. Nascono
allora opere maliziosamente simboliche e di denuncia all’interno del progetto “Preghiera”,
come Supereroi e Pane quotidiano: la prima dove, tra varie figure di giocattoli raffiguranti
noti personaggi dei cartoon (Batman, l’Uomo Ragno e Capitan America), compare una
dozzinale statuetta di un Sacro Cuore; la seconda con una famiglia riunita a tavola in preghiera, ciascuno di fronte a un televisore acceso.
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Un giorno, passando di fronte al Cimitero bresciano del Vantiniano (tra i primi cimiteri
monumentali neoclassici in Italia, sorto su progetto dell’architetto Rodolfo Vantini a partire
dal 1815), ebbe come una seconda folgorazione, affascinato dalla decadenza del marmo
col quale sono fatte le sculture ottocentesche che decorano i sepolcri: acqua, vento, smog
e polvere hanno provocato un degrado del materiale, modificandolo in una sorta di processo di contaminazione. Evocazioni oniriche piene di pathos, riprese nel 2002, che verranno esposte nella sua prima personale a Brescia Vita brevis, Ars longa.
Parallelamente, continua a praticare la foto ‘da strada’, ma le persone originariamente ritratte nel loro quotidiano ‘insignificante’ vengono sostituite dalla ricerca di equilibri di
geometrie: così dall’Albero (Still life) del 1998 alla Cariatide del 2005, attraverso tutti gli altri Untitled di quegli anni, dove sono enucleati, con gusto surreale, frammenti urbani come
verghe del tram, giardinetti, solitarie strade fra muri di pietra, zebre pedonali, ringhiere.
Dal 2004 al 2006 si dedica ad un altro ciclo di forte carica evocativa: quello di Grigio
notte, solitari scorci urbani e di strade ripresi nella notte con la nebbia, senza l’ausilio di
lampade, con l’impiego questa volta del cavalletto.
Infine, quella che per il momento è l’ultima esperienza dell’artista e che rappresenta
un’evoluzione di quelle geometrie ‘lungostrada’ di cui si è parlato (così come Grigio notte
rappresenta l’evoluzione emozionale di Vita brevis): Niente più del necessario, del 2006,
serie già esposta alla Galleria ModenArte di Iseo.
Necessaria tantum. La fotografia minimalista di Paolo Novelli fra razionalità ed evocazione lirica
Si è detto che Paolo Novelli è amante dell’evocazione e della sintesi: dalle prime foto
‘di strada’ al lirismo delle sculture cimiteriali (non presenti in questa mostra di Cento). Le
statue e i loro volti ripresi in primo piano (poi, oltre che a Brescia, anche in altri cimiteri
d’Italia), senza l’uso del flash né del cavalletto, né di filtri, con lunghe esposizioni a diaframma aperto, ci sono restituiti con un effetto surreale: la superficie corrosa dagli agenti
meteorici, resa porosa e velata dalla polvere, sgranata per effetto del diaframma fortemente aperto, si presenta come fatta di pelle vera e con occhi vivi, assumendo una connotazione da iperrealismo metafisico, dove il ritratto, con il degrado, studiato accuratamente
sotto gli effetti della luce, assume una sua profonda umanità, molto maggiore di quella accademicamente e monumentalmente scontata, che si era voluta dare quando quei ritratti
erano stati scolpiti nell’Ottocento.
Quindi, il lirismo, sempre discreto e latamente nostalgico, della rammentata serie di
Grigio Notte: paesaggi evanescenti che divengono un percorso esistenzialista tutto interiore, fatto per impressioni ed emozioni suscitate. Fra i Night untitled alcuni dei più significativi sono esposti a Cento (dove l’ineffabile ambiente nebbioso novelliano trova un puntuale
riscontro in quello invernale della cittadina emiliana): ecco che nella nebbia ovattata della
notte, che luci artificiali fendono e rischiarano, compaiono, come fantasmi o evocazioni
surreali, cartelli stradali, lampioni, strisce di mezzeria dipinte sull’asfalto e binari di treni
che si perdono (anche simbolicamente ed esistenzialmente) nel buio evanescente di un
notturno senza luna e senza stelle (celate e ‘separate’ dalla stessa coltre nebbiosa). Fughe prospettiche di strade, lampioni e ferrovie che si perdono, così, nel nulla apparente,
come le vie della vita. Cartelli e pali, che, nella loro essenzialità minimalista, sono il contrappunto compositivo e quasi geometricamente astratto attorno al quale si ordinano
un’infinità di tonalità di grigio, che rendono grumoso e quasi vellutato, in sapienti dissolvenze graduali, il ‘monocromo’ di base. Così, quel grigio apparentemente uniforme della
nebbia si vivacizza in una miriade di pulsioni vitali che inducono ad una pacata riflessione
sull’esistenza umana, velata di un soffuso e latamente nostalgico lirismo in stretta empatia
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e di comunione tra l’autore Novelli e lo spettatore-osservatore, che viene ad essere coinvolto emozionalmente nell’opera.
Silhouette di vecchie ed umide case di quartieri periferici o di borghi della provincia,
filari di alberi spogli e di siepi inselvatichite, staccionate e muri petrigni sotto la luce incerta
e radente di un lampione, pali e fili della luce illuminati da una fonte artificiale ed invisibile
come un fantascientifico sole della notte, fari di auto che illuminano algidi guard-rails: immagini che sono innanzi tutto istantanee dell’anima, percorsi interiori ed interiorizzati dello
spirito.
Infine, Niente più del necessario, dove non affronta più gli spazi urbani esterni, ma
indirizza l’osservazione minimalista verso l’interno delle abitazioni ed in particolare verso
quell’elemento che rappresenta l’unione e la separazione, cioè la porta, veduta in particolari geometrizzati e ‘disegnati’ con la luce nel contrasto assoluto tra bianco e nero, dove le
ampie superfici si personalizzano solamente attraverso pochissimi elementi come il foro di
una serratura (dalle simboliche implicazioni o suggerimenti del voler scrutate e scoprire
nell’“al di là”) o una maniglia (che apre e che serra). Never beyond, così, sono una serie di
porte socchiuse, tramite le quali filtrano dal di fuori lame di luce verso l’interno oscuro della
stanza: controluci che si aprono e ‘disvelano’, mediante signficanti collegamenti-lame di
luce che uniscono il cupo interno-interiorità con un ‘oltre’ luminosamente accecante e privo
di forma riconoscibile (significativamente quell’irraggiungibile beyond indica al di là, oltre,
ma anche l’aldilà trascendente, la vita futura).
E ancora riflessi su grezze stoffe, su pieghe di tende e quel Poetic Coscience of a
Paper: un foglio di carta parzialmente scritto, calpestato, con tracce di impronte di scarpe
e di fango, volato via e caduto su un acciottolato viario. In questa immagine semplice e
poveramente minimalista sembra racchiudersi un intero vissuto.
Indubbiamente, alla base di tali esperienze di Novelli stanno due principali fattori: il
Minimalismo e l’evocazione lirica e simbolica.
Il Minimalismo – lo ricordiamo semplicemente – è una corrente artistica che nacque e
si sviluppò negli Stati Uniti agli inizi degli Anni Sessanta. Il termine venne usato per la prima volta dal filosofo dell'arte inglese Richard Wollheim nel saggio intitolato, appunto, Minimal Art. Le opere minimaliste impiegano un lessico formale essenziale, sono composte
da pochi elementi; matrici formali sono la geometria, il rigore esecutivo, un limitato cromatismo, l'assenza sostanziale di decorazione. Frank Stella (n. 1936) è stato uno dei massimi
promotori e di lui possiamo rammentare le note Black Series o Black Paintings, quadri
senza cornice, costituiti da strisce nere parallele e divise da sottili linee bianche. Queste
opere non pareva avessero alcun rimando allusivo o simbolico, ma si presentavano
all’osservatore come oggetti portatori di un valore semplicemente in quanto tali. Più in generale, la pittura e il disegno minimalisti sono monocromatici, spesso tracciati su griglie e
matrici di origine matematica, eppure, però, in grado di evocare il senso del sublime e di
stati esistenziali ed interiori profondi. In quest’ultima accezione rientra il Minimalismo novelliano.
Come si sa, sino dalla fine degli Anni Sessanta la fotografia è stata soppiantata, nella
documentazione oggettiva della realtà, dalla televisione. Ridimensionata la sua vocazione,
la fotografia si è ripiegata, in un certo senso, su se stessa e, come già avvenne per la pittura alla fine dell’Ottocento, è divenuta ‘autoreferenziale’. Come giustamente osservò Giulio Argan nel 1989, “fu attraverso il confronto con la fotografia che l’arte andò via via distaccandosi, per differenziarsi, dal concetto classico della mimesi, e si costituì in proprio
una morfologia e un lessico senza radici naturalistiche. Ma la divisione di campo non durò,
la fotografia invase anche quel dominio: si presentò come operazione più mentale che
tecnica, potenzialmente creativa come e più dell’arte”.
La fotografia è tornata, quindi, su se stessa e la sua fruizione è divenuta squisitamente mentale, consentendo l’approdo di tale ‘tecnica’ definitivamente all’universo specifico
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dell’Arte. Così, stringenti raffronti si sono potuti stabilite con le varie correnti dell’arte contemporanea, quali l’Informale, l’Astrazione lirica, il Nuovo Realismo francese, il New Dada
e, appunto, il Minimalismo. Oramai si è resa accettabile comunemente – e non più a livello
elitario – l’idea di operare attraverso tecniche alla portata di tutti, come, appunto, la fotografia. Accessibile solo ‘concettualmente’, l’oggetto fotografato, come ha sottolineato Roberto Maggiori, “è presente ed assente allo stesso tempo” ed “il Minimalismo perviene così
al suo massimo grado […]. La fotografia si dimostra lo strumento più idoneo non solo alla
realizzazione di significanti più o meno concettuali, ma anche alla documentazione di eventi artistici altrimenti inefficaci”. Basti ricordare quanto le tele emulsionate (e, poi, quelle
computerizzate) hanno interagito con le Avanguardie della seconda metà del Novecento.
La fotografia, in quanto ‘impronta’ o ‘traccia’ (‘calco’) della realtà, si pone al di fuori dalla
dimensione squisitamente ‘iconica’.
Molti fotografi, consapevoli di ciò, hanno eliminato ogni formalismo estetico e tecnico
(come, ad esempio, i filtri, mai impiegati da Novelli), ritenuto dannoso alla ricezione pura e
semplice di ciò che viene fotografato. All’osservatore si offre e si richiede un maggior coinvolgimento, al di là della pura contemplazione. In tal modo, la fotografia, se da un lato
semplifica le sue tecniche, dall’altro complica concettualmente la sua comprensione. La
semplicità ‘operativa’ del mezzo fotografico non è più limitante per la creatività, anzi, come
ha sempre ribadito Maggiori, “la sua capacità di impossessarsi del reale nonché di presentarlo a proprio piacimento è una caratteristica molto ambita ora che tutto è potenzialmente
artistico e la discriminazione da ciò che se ne discosta è determinata dall’uso”.
L’impiego della fotografia minimalista – mediato per lo più da macchine fotografiche
non digitali (come nel caso anche di Novelli), che limitano alquanto l’intervento personale,
e da un tipo di ripresa per lo più frontale – diviene, in un certo qual senso, affine alla logica
del ready made proprio del Neodadaismo e del Nouveau Réalisme, come ha sottolineato
anche il fotografo modenese Franco Vaccari (n. 1936) scrivendo nel 1979, a proposito del
‘padre’ del Dadaismo Marcel Duchamp (1887-1968): “scegliendoli e isolandoli dal contesto
Duchamp ha compiuto un’operazione che, in quanto scelta, distacco dal contesto e trasformazione in segno, è analoga al fotografare”. A tal proposito, stringente è l’analogia con
alcune delle foto di Novelli, come un Untitred del 2000, non presente, però, in questa mostra centese (l’interno asettico e algido di un gabinetto pubblico, con due lavandini, edito
nel suo catalogo del 2007).
In Novelli possiamo parlare sempre di fotografia "minimalista", poiché il senso dello
scatto non risiede nell’‘importanza’ del soggetto, ma nella capacità del fotografo di ‘vedere’
il bello (il ‘valore’ dell’oggetto) dove di solito viene trascurato o non vi è. Un minimalismo,
però, che spesso si riveste di accenti lirici e quasi neoromantici.
EUGENIO RIOTTO
Nato a Petralia Soprana (Palermo) nel 1951, trasferitosi in Costa Azzurra all’età di
sei anni, Eugenio Riotto matura embrionalmente la sua passione per l’arte fin dall’età di otto anni, quando amava disegnare su qualsiasi foglio di carta trovasse. A quindici anni, trasferitasi la sua famiglia a Viareggio (Lucca), si iscrive alla Scuola d’Arte, ma il padre ed il
nonno, contadini, si oppongono: “vagabondi non ne vogliamo. Niente scuola d’arte: tu lavorerai con noi nei campi e quando sarai libero, se vorrai, potrai disegnare”. Lavora così
nei campi, occupandosi della coltivazione di fiori e di primizie. Vicino alla casa paterna abitava allora un vecchio pittore di ottant’anni, Carlo Oreste Strocco, un allievo del torinese
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Giacomo Grosso (1860-1938), al quale il giovane Riotto chiede di potergli fare da maestro.
Il vecchio pittore accademico, che inizialmente gli dice con franchezza che vuole prima
metterlo alla prova in quanto non vuole che siano in due a perdere del tempo, lo ‘promuove’ e gli insegna disegno dal vero la sera dopo cena per sette anni. Avuta, così, la sua
preparazione in campo pittorico, a ventidue anni ha il suo primo contato con una modesta
galleria, che gli commissiona quadri oleografici e da arredo con paesaggi e marine. Egli,
però, rifiuta perché sente ciò un compromesso insostenibile con se stesso.
Dopo aver dipinto pochi soggetti per vari anni ed aver partecipato esclusivamente a
mostre collettive, nel 1992 decide di voler vivere solo dell’attività artistica. Trasferitosi a
Pietrasanta, collabora con grandi scultori per coadiuvarli nell’organizzazione delle fusioni
delle loro opere nelle locali fonderie (fin dal 1988 si era avvicinato alla scultura, sperimentando egli stesso la tecnica della terracotta). Un percorso lento, dove l’arte rimane l’amore
profondo della sua vita e, proprio per questo, vuole essere certo di poter esprimere qualcosa di valido, unicamente per non tradire l’Arte, che egli sente come la sua ‘Donna’.
La scelta di diventare scultore causa in lui un profondo cambiamento: mentre nelle
fonderie pietrasantine impara la tecnica, la ‘fiamma’ sta nascendo in lui. Quello che lui definisce l’“apprendistato” (la preparazione di armature e di modelli in poliuterano espanso
per gli scultori) dura fino al 1998, realizzando parallelamente piccole opere in cotto raffiguranti animali (soprattutto cavalli) e ritratti, sia a bassorilievo che a tutto tondo, con accenti
ancora fortemente classici ed accademici, derivanti dal suo primo maestro Carlo Oreste
Strocco.
Dopo il 2000, anno per lui drammaticamente fondamentale (che sancisce la separazione dalla moglie e dal passato), inizia la produzione delle prime opere più profondamente sentite, che culmina nei bassorilievi del 2003. Parallelamente alla serie dei bassorilievi,
realizzati in gesso o in tecnica mista (impiegando anche polvere di marmo), nel 2003 nascono anche i suoi primi manichini metafisici. Altro elemento ricorrente, a iniziare da tale
anno, è quello dell’ala nelle sculture dedicate all’Amore (si pensi al suo più paradigmatico
Amanti alati del 2004, vera e propria ‘icona’ dell’arte riottiana).
Archeologia postindustriale: le plastiche navi ‘spaziali’ di Ra
Nei primi bassorilievi di Eugenio Riotto, risalenti al 2003, ricorreva, al centro, come
elemento fondamentale simbolicamente e nell’equilibrio formale dell’intera opera, la raffigurazione emblematica del pugno chiuso, una sorta di rabbia e di ostinazione nel voler
andare comunque avanti nella vita e sulla non facile strada del ‘fare arte’. In queste sue
prime opere si assommavano mani, ingranaggi ed elementi classici, come in una specie di
“archeologia industriale dell’anima”, come afferma l’artista stesso, dalle forti implicazioni
simbolico-allegoriche. La risolutezza nel voler “tagliare con il passato e con quello che lo
appesantisce” lo condusse a ripetere spesso questo tema dei pugni, mentre i macchinari
volevano rammentare, a lui figlio di contadini, che, se assolutizzati, questi conducono ad
inquinare la natura.
Con un certo sentimento di amore-odio, Riotto gioca nel comporre ed assemblare fra
loro elementi che fanno funzionare meccanicamente l’automobile, simbolo della nostra società. Tale meccanica è, però, astratta e surreale, come documentazione della nostra epoca, divenendo già in nuce “un fossile del futuro”. Non a caso, tra questi ingranaggi compaiono anche le conchiglie fossili, che per lui indicano la presenza sicura della casa
dell’uomo, in antitesi con il ‘fossile’ meccanico. Con ascendenze formali care a un certo
universo liberty-decò, inserisce grandi volti di donne all’interno dei rammentati ingranaggi,
fra i quali compaiono spesso inserite anche alcune piramidi, che vogliono ricordare il regale sepolcro egizio come richiamo alla morte e alla rinascita: come evangelicamente il seme
che non muore non può dare frutto, per Riotto la morte non è un elemento negativo o di
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ostacolo, ma, al pari della clessidra che scandisce il tempo, consiglia, è amica e francescanamente sorella per vivere meglio. Ammonendo che non vale la pena farsi coinvolgere
negli affanni perché tutto passa, come sosteneva Eraclito, la morte diventa così il “sorriso
della vita”.
L’uomo bionico ricorre nella scultura del nostro artista; impianti elettrici e circuiti elettronici, desunti dai computer, si estendono creando corografie di valli e montagne, dove si
estendono avveniristiche città ‘precolombiane’, dalle quali emergono, come continenti alla
deriva, come frammenti di un perduto Atlantide, giganteschi e statici volti umani che fissano lo sguardo verso l’alto delle distanze siderali e i circuiti ed i microchips si incuneano e si
innestano sotto la ‘pelle’ del viso, come radici, liberandosi dalle quali l’uomo può riemergere dalla brutalità per anelare alle vette dell’immortale bellezza interiore.
Nei suoi racconti lo sguardo è rivolto costantemente anche al passato, pur raccontando le paure dell’uomo di ogni tempo. Così le sue Steli, iniziate nel 2006 e che si richiamano a quelle preistoriche della Lunigiana, ma contemporaneamente alla cultura precolombiana, introducono, accanto a simboli antichi, elementi del mondo attuale, per continuare il racconto e trasformare le sue sculture in messaggi segnici per il futuro. La stele
(sorta di unione tra cielo e terra) è ancora una volta metafora della rinascita dopo la morte
(rappresentatavi attraverso l’elemento del cranio) e diviene atto di fede nella vita che continua. Ecco allora che tale stele da ‘menhir’ (la pietra verticale che rappresentava verosimilmente la divinità maschile e la fertilità nell'ambito delle religioni delle popolazioni neolitiche) si fa ‘dolmen’ (lastra di copertura tombale orizzontale su piedritti, appartenente
anch’essa al mondo religioso e funerario di alcune popolazioni dell'età neolitica), vale a dire perde la sua posizione di verticalità e si colloca orizzontalmente, prendendo talvolta la
forma quasi della nave del dio solare egizio Ra (Ra percorreva ogni notte il mondo degli
inferi, la Duat, su una nave ed era protetto da Seth e Mehen contro le insidie del mostro
Apep, signore del buio) che traghetta nell’‘oltre’ e la figura del volto rappresentatovi ha assonanze con i sarcofagi egiziani.
Tale produzione, prevalentemente in gesso tinto a bronzo, dovrebbe, nelle intenzioni
dell’artista, essere in seguito tutta trasformata in fusione metallica, poiché solo le patine
verde opaco od oro rilucente nel bronzo possono imprimere appieno quel senso di solenne ed eterna sacralità che Riotto vuole riscoprire nella scultura contemporanea, troppo
spesso alla ricerca di nuovi ed effimeri materiali.
*****
I ‘manichini’ metafisici di Riotto, scolpiti con riferimento storico a quelli di Giorgio De Chirico
e di Carlo Carrà, non sono presenti in questa mostra centese; comunque, riteniamo imprescindibile
accennare anche ad essi. Riotto ama la figura umana, che per lui ha una bellezza assoluta, fatta
inscindibilmente di corpo, pensiero ed anima. Non potendo, pertanto, rinunciare a rappresentarla,
ricerca, tuttavia, una figurazione non più realistica e classica e perciò, volendo privilegiare non la
componente esteriore ma quella interiore, si richiama ai manichini esistenzialisti che, oltre che di
De Chirico e di Carrà, furono propri di Mario Sironi e di Pietro Annigoni. La mancanza del volto
rende la figura universale e l’allungamento statico di tali figure vuole essere, nel contempo, un richiamo alla scultura etrusca. Inoltre, la mancanza delle braccia (come nell’opera Il bacio, dalle assonanze formali con la Metafisica dechirichiana) vuole sottolineare l’assenza di coinvolgimento fisico (non potendosi i manichini abbracciare), privilegiando così l’aspetto spirituale. Egli studia non
tanto i connotati anatomici, quanto l’armonia simbolica di pieni e di vuoti.
Negli ultimi tempi della produzione riottiana si assiste ad una sorta di unione o contaminazione fra i bassorilievi ‘meccanici’ ed i lineari manichini tridimensionali: questi ultimi si fanno più evanescenti ed ieraticamente platonici. Nella loro superficie o ‘pelle’ si inseriscono i bassorilievi al ‘negativo’ dei simboli del mare come origine della vita: pesci, conchiglie, ippocampi (questi ultimi come simbolo dell’amore, in quanto, come si sa, la femmina, dopo la fecondazione, depone le uova
nella tasca posta sul ventre del maschio ed egli coverà le uova per 2-5 settimane fino alla loro
schiusa, quando i piccoli già formati usciranno dal ventre paterno). Contestualmente, Riotto inseri-
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sce nella ‘pelle’, in una specie di connubio, elementi meccanici di dentellature ed ingranaggi, a
rappresentare le lacerazioni e le cicatrici del mondo moderno, lo stress e la depressione; al di dentro, però, ottimisticamente la figura rimane perfetta, perché, al di là della metafora, egli vuole indicarci che, se costruiamo la nostra interiorità, il Bello rimarrà come Verità.
L’elemento dell’ala nelle sculture dedicate all’Amore è fondamentale. L’ala è lo strumento per
mezzo del quale si può volare, ma non con un’ala sola; così, le due figure, ciascuna dotata di
un’ala, solo insieme possono spiccare platonicamente il volo. Sono come angeli caduti sulla terra
che, attraverso l’Amore che li unisce all’indispensabile altra parte di sé, possono tornare nella dimora alta dello spirito, al di là della fusione sessuale, e divengono due corpi che si fondono in
un’unica persona (“una caro spiritusque unus”). Anche la madre che partorisce diviene in Riotto un
angelo con un’ala sola. Ultimamente l’ala si è andata trasformando in quella impalpabile ed effimera di una farfalla, come a ricordare che “tempus fugit”.
Con il Centauro del 2004 (ispirato alle Metamorfosi ovidiane), Riotto rappresenta, in questo
caso, l’animale che è in noi, ma a differenza che nell’iconografia greco-romana, pone, come già facevano gli artisti etruschi, i genitali non dalla parte di dietro (animale), bensì sul davanti (umana) a
indicare che il seme vero non è nella materialità bensì nell’intelletto. Da qui nasce il Centauro innamorato che ha amplessi con donne, le quali diventano una sorta di ‘Beatrici’ dantesche, vale a
dire lo strumento che libera l’uomo dalla brutalità, una brutalità-animalità (il cavallo) che comunque
ha, in questo caso, una sua grandezza proprio per la sua ‘diversità’ di essere mezzo uomo e mezzo cavallo; in altre parole, diviene un omaggio alla dignità di tutte le minoranze ‘diverse’ nel mondo.
Così, nelle sue opere, trovano nuova forma e nuova linfa vitale Simbolismo, Metafisica e Surrealismo.
DENIS RIVA
Denis Riva, nato nel 1979 a Cento (Ferrara), inizia a disegnare fin da bambino, alla
scuola del padre ritrattista e fumettista. Fin dall’età di quindici anni dipinge in un proprio
studio e a diciotto anni, nel 1997, tiene la sua prima mostra. Frequenta l’Istituto d’Arte
“Dosso Dossi” a Ferrara e si diploma nel 1998.
Musicista oltre che pittore (suona il sassofono e predilige il jazz e le musiche di Sergei Prokofiev e di Claude Debussy), ama in ambedue le discipline l’armonia e classicità attraversate dalla sperimentazione contemporanea. Costruisce anche piccoli oggetti-gadget,
per demitizzare ironicamente il feticismo dell’arte (basti pensare alle ‘reliquie’ o Ptunumi
del fantastico Igor).
Intensa anche la sua attività di disegnatore, eseguendo le sue opere in punta di biro
e su carta spesso tratta da vecchie pagine di bollettari.
Il giovane artista ha esposto con mostre personali a Torino, Ferrara, Bologna, Modena, Milano, oltre che in Florida.
‘Allucinazioni’ liriche, cromatismo e monocromi: l’universo fantastico, ironico e gestuale di Denis Riva
La sua pittura figurativa si richiama all’Espressionismo e al Neoespressionismo tedesco (segnatamente ai Nuovi Selvaggi), oltre che alla Transavanguardia, ma anche ad un
simbolismo surrealista e alla Pop Art europea, in particolare a certo Neodadaismo francese caro al Nouveau Réalisme e all’universo di Christo (anch’egli ama, talvolta, ‘impacchettare’ o legare le sue opere). Artista di riferimento è per Riva Anselm Kiefer (Donauschingen, Germania, 1945-vivente), mentre si dice meno interessato al mondo di Jean-Michel
Basquiat, sebbene certo figurativo ‘allucinato’ e gestuale ricordi le esperienze del maestro
americano, frammiste a suggestioni dello scritturismo urbano, dell’Art Brut e dell’universo
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degli outsiders, ad iniziare da Adolf Wölfli (1864-1930). Egli trae o cerca di trarre tutto (argomenti, scelta dei materiali, messa in opera, mezzi di trasposizione, ritmo, modi di scritture) dal suo profondo e non da stereotipi dell'arte classica o dell'arte di moda. Molte opere
di Riva, proprio come nell’Art Brut o Outsider Art, illustrano stati mentali estremi, idee non
convenzionali, mondi di fantasia elaborati. Lavori creati dalla solitudine e da impulsi evocativi puri ed autentici .
Fin dalle sue prime opere Riva ha sempre manifestato un’attitudine provocatoria a
collegare elementi della tradizione culturale con le loro inaccettabili conseguenze storiche.
L’orrore, nella storia, è reale e irrestituibile: farne mostra, perfino sulla superficie di un
quadro, è pura finzione che ci fa dimenticare, ci anestetizza alla sua reale brutalità. Pertanto egli preferisce denunciare tutto l’orrido che vi è nella contemporaneità attraverso
l’ironia di una favola allegorica e formalmente mistificatrice. La sua contestazione della società attraverso la denuncia artistica, così, non è mai esasperata, cercando sempre di trovare una mediazione ed un equilibrio.
Riva antepone, per importanza, alla forma il colore, sostenendo cioè che prima di divenire una figura riconoscibile, un’opera pittorica è un ammasso armonico di colori formanti equilibri visivi (in questo ravvisando punti di contatto con l’Optical Art). Cercando, di
conseguenza, la casualità nell’opera (vale a dire, facendosi guidare dalla casualità
dell’ammasso cromatico per derivarne la forma riconoscibile più pertinente), crea dipinti di
ampio respiro e forte gestualità. La sua pittura, si badi bene, non è né astratta né informale, né la ragione di essere è immanente all’opera, in altre parole, la composizione cromatica non è fine a se stessa, né esplicita un messaggio sotteso senza riferimento alla forma:
infatti, pur partendo dalla casualità, egli estrapola dall’ammasso di colori forme oggettive
da tutti riconoscibili come tali. Derivando, così, da certi schemi della Pop Art, i volti dei suoi
ritratti sono spesso irrealisticamente color grigio, quasi come fossero sculture in cemento o
in pietra. Sovente nei suoi quadri ricorre anche l’elemento simbolico del grande occhio, derivato da certi collage del Futurismo a lui caro (basti pensare al FuturOcchio del 1915 di
Giuseppe Ciotti), come segno non solo dell’occhio divino ma anche quale manifestazione
del cambiamento interiore; per Riva, comunque, l’occhio si trasforma in una vera e propria
entità e non solo simbolica, avendo una propria realtà di essere a sé stante, protagonista
dei suoi quadri, come lo sarà “Titolo”.
Artista di fervida immaginazione, crea nelle sue opere bidimensionali e tridimensionali esseri fantastici, mostruosamente zoomorfi o fitomorfi (una sorta di zoario moderno,
rivisitazione attualizzata dei mostruosi bestiari medievali), antrapizzazioni di robot, nati da
impossibili contaminazioni tra organi umani e ingranaggi meccanici, una sorta di abitanti
della terra The day after, quale denuncia ecologica, ma unita sempre ad una sottile ironia
per il gusto della ‘spudorata’ menzogna che, sottilmente alludente, vuol far passare per autentica la favola antica rimodernizzata (si pensi alle reliquie dell’essere cosmico denominato Igor) e la realtà di esseri immaginifici come il già rammentato "Titolo" (giocando
sull’espressione, propria del mondo della critica d’arte, di “opera senza titolo”, ha materializzato in un simbolo grafico il “Titolo”, inserendolo più volte e quasi ossessivamente in
molte sue opere).
Accanto alla pittura e agli oggetti cromaticamente esuberanti e gestualmente assemblati secondo principi neodadaisti, è da segnalare tutta una produzione di disegni eseguiti
con acribia a inchiostro, dedicati prevalentemente a quell'universo fantastico e fantascientifico dei suoi Postatomici, ai quali si è già accennato, esseri geneticamente modificati e
fusi con macchine e macchinari, come in certi film americani dell’immaginario collettivo, da
Terminator di James Cameron del 1984 a Edward Mani di forbice di Tim Burton del 1990.
La grafica di tali disegni (una parte dei quali è esposta a Cento), però, ha un sapore
‘antico’, sottolineato dall’uso della carta vecchia e riciclata dall’artista, assumendo quasi il
connotato allusivo e latamente nostalgico di certe raffigurazioni tardo ottocentesche di illu19
strazioni di apparecchi meccanici, ma anche di favole di Jules Verne. Questi disegni, dove
si mescolano rappresentazioni minuziose di macchinari inesistenti, resi vivi e coscienti attraverso occhi e volti, braccia, chele e tentacoli, sono inseriti in scatole di cartone e cassetti di legno che ne diventano le ‘sacre’ urne contenenti questi frammenti o ‘reliquie’ di un
deformato mondo futuro. Allegorie, innanzi tutto, di una metamorfosi interna, che ha inquinato menti e spirito.
Il Surrealismo ed il Dadaismo segnano profondamente la sua opera; i suoi collages,
fatti di materiali diversi, sono raffrontabili con l'opera di Kurt Schwitters (1887-1948) – certi
suoi Ptunumi di Igor hanno un preciso referente in Marzbau di Schwitters, dove ogni cappella custodiva una specie di reliquia – e di Francis Picabia (1879-1953) – dadaista che
lavorò anche come grafico, autore dei noti Disegni meccanici (rappresentazione meccanica delle persone) –, ma nel contempo risentono dello spirito anticonformista dello scrittore
Alfred Jarry (1873-1907), con la sua famosa commedia, grottesca e non sense, Ubu roi
del 1896. Personaggi grotteschi e da parodia, quelli di Riva, che trovano un comune denominatore pure con certe ‘provocazioni’ anarchiche di Enrico Baj.
Un discorso a parte merita Unikum, l’opera appositamente ideata ed eseguita per
questa mostra centese. Si tratta di una miriade di piccole tele, ognuna con un personaggio, un soggetto o un tema cari a Denis Riva, che, però, costituiscono un ‘unico’, un’opera
globale dove i vari elementi sono come tessere di un mosaico, da comporre e scomporre e
nuovamente ricomporre: opere che possono avere anche una vita a sé stante, ma che trovano motivazione cromatica e simbolica nella ‘totalità’ e nella fruizione diretta da parte del
pubblico che può interagire e modificare lo schema compositivo, come è proprio dell’arte
che interagisce con gli spettatori e con quella cosiddetta ludica (un'occasione di partecipazione attiva e di produzione d'informazione e d’arte basata sull'esperienza diretta, ludica e
creativa del fruitore).
Così, i disegni, le opere gestuali e grottesco-surreali, i ‘mosaici’ cromatici di Riva ci
divertono facendoci pensare, con sottile e disincantato umorismo. Questa, per lui, è la via
che deve perseguire l’Arte.
MASSIMO SANSAVINI
Nato nel 1961 a Forlì, fin dalle Scuole Medie rivela una predilezione per l’arte, ma
poi, per motivi contingenti, si diploma geometra, pur continuando sempre a occuparsi di
arte plastica, lavorando il legno e la creta. Divenuto operaio carpentiere in un cantiere edile e messo in cassa integrazione per un mese in conseguenza di eccezionali nevicate, inizia a sperimentare alcuni lavori utilizzando il legno scartato impiegato per le forme in cemento armato. Cercando di comprendere sempre più approfonditamente la natura del materiale ligneo, tra il 1984 e il 1985, crea la serie di Contenitori delle memorie, una sorta di
rivisitazione di mobili in miniatura e di secretaire, dove nascondere negli scomparti più reconditi – metafisicamente – idee e sentimenti; si tratta, quindi, di contenitori di un ‘nulla’ fisico, non trattandosi di oggetti materici. Strane composizioni con cassetti e scatole forate,
impiegando disparate specie lignee, che realizzerà fino agli Anni Novanta, usando pure
legni esotici per il suo amore viscerale verso il mondo dell’antropologia, che lo conduce a
richiamarsi alle simbologie etniche come quella della maschera. Proprio dalla cultura africana deriva il suo amore per la purezza del segno.
A metà degli Anni Novanta, per non impiegare più i legni esotici e duri (poiché tossici
e specie protette), decide di utilizzare legni non nobili, ma di ‘nobilitarli’ attraverso il colore,
richiamandosi ad alcune esperienze futuriste e segnatamente di Fortunato Depero, ma
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anche alle sagome lignee di Mario Ceroli e, soprattutto, alle opere di Ugo Nespolo. Tale
coloritura viene data in modo che non si riconosca più la materia lignea; questo sorta di
trompe-l’oeil, non facendo vedere il materiale, conduce a considerare solo l’opera ‘pura’
che ne scaturisce. L’inganno è ottenuto lucidando (tramite sette mani di vernice) il legno
colorato, così da fargli assumere quasi la parvenza di ceramica o di plastica.
Diplomatosi in seguito all’Accademia di Belle Arti di Ravenna nel 1998 (precedentemente si era diplomato anche al Liceo Artistico “Pier Luigi Nervi” e successivamente
all’Istituto d’Arte per il Mosaico “Gino Severini”), nello stesso anno allestisce la sua prima
mostra presso la Galleria Forni di Bologna e nel 1999 si reca per un anno in Brasile, dove
realizza una serie di sculture cromatiche con richiami alla cultura brasiliana e al Vudù. In
seguito ai contatti stretti con gli ambienti culturali di São Paulo – con Fabio Magalhaes,
Presidente del Parlamento Latino Americano e direttore della Biennale di Arte di quella città, e con l’architetto Oscar Niemeyer (conosciuto nel luglio del 1999, quando aveva 92 anni) – la mostra, da lui realizzata presso il Museo Brasiliano di Scultura (MU.B.E), creando
direttamente sul posto le sculture da esporre, verrà portata al Museo Nazionale di Belle
Arti di Rio De Janeiro nel 2001 e in seguito a Brasilia, Curitiba, Belo Horizonte e, Porto Alegre, fino al 2003.
Ad iniziare dal 2000 ha principiato a lavorare maggiormente sul segno rispetto alla
materia, che già oramai conosceva approfonditamente, giungendo ad affrontare temi figurativi prevalentemente connessi all’immaginario onirico infantile (molte sue opere si ispirano a fiabe dell’Est europeo e a storie di mare), con accenti di giocoso e spontaneo sarcasmo.
Nel 2004 è l’incontro con l’astrologo Paolo Fox e con la RAI, per la quale esegue
l’allestimento di opere e scenografie negli studi televisivi di Rai Due. L’anno seguente espone nella Maison Enrico Coveri – Galleria del Palazzo a Firenze e del 2006 è il progetto
“Neverland” promosso dal Ministero degli Esteri Italiano. Neverland – Un sogno per la vita
era il titolo di un film statunitense del 2004, diretto dal regista Marc Forster e che narrava,
in maniera romanzata, ma sufficientemente fedele all'evolversi reale degli eventi, un periodo della vita dello scrittore scozzese James Matthew Barrie, autore della celeberrima storia di Peter Pan, il bambino che "non voleva crescere mai". Il film, come le opere della mostra di Sansavini, è anche un viaggio nel sogno, verso Neverland, ovvero, in italiano, verso
l’utopica “isola che non c’è”. Nell’universo pittorico dell’artista si mescolano e confondono
fra loro realtà e immaginazione, presente, passato e futuro.
In quello stesso 2006 idea la Soft Art, opere d’arte seriali derivate dai gadget portachiavi, realizzate in gomma morbida (soft rubber), prodotte in Cina e da lui personalizzate
anche tramite la lucidatura (2007).
Utopia. Un turbine di vento tra favola, sogno e mito
La mostra di Cento accoglie solamente l’ultima produzione sansaviniana, quella dei
‘legni’ cromatici (quindi, né le precedenti ‘scatole’-contenitori di idee, ma neppure le recentissime ‘gomme’, tuttora in fase di sperimentazione).
Le sue opere, inizialmente realizzate con maggior profondità tridimensionale, rivelano
una grande manualità artigianale. Simili a una sorta di bassorilievi o, meglio, di rivisitazione delle tarsie medievali e islamiche, attraverso la loro lucentezza ‘riflettono’ e, simbolicamente, inducono alla ‘riflessione’. Come in un’officina di alchimista, Sansavini, seguendo
tutte le fasi intermedie, fa nascere l’opera finale, siccome egli stesso ama ricordare.
Sansavini, al pari di Ugo Nespolo, desacralizza l’arte moderna, segnatamente tutto
ciò che in essa viene normalmente esaltato ed enfatizzato. I suoi pannelli in legno modellato e dipinto evidenziano, innanzi tutto, come si è detto, una maestria compositiva e manuale elevate.
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La giocosità è alla base di tante operazioni di Sansavini, inscindibilimente connessa
alla vivacità del colore (rilucente e, talvolta, accostato a polveri brillanti), che attira immediatamente l’attenzione dell’osservatore, senza sublimazioni tonali o implicazioni apertamente concettuali, che appartengono ad altre correnti artistiche.
Egli sa giocare con le forme visive della cultura popolare, infantile ed ‘innocente’ (si
pensi, appunto, alla serie Neverland o alle Fiabe dell’Est), continuando a citare il mondo
‘favoloso’ del passato e confrontandosi con la tradizione iconografica dell’Otto e del Novecento; affronta le varie tematiche della vita filtrandole attraverso un meccanismo rigoroso
che le riduce, le omologa e, in un certo senso, le ‘omogeneizza’.
La risoluzione (‘soluzione’) in limpida e solare immagine finale che Sansavini ci propone nel suo ‘puzzle’ ha, in realtà, più profondi riflessi enigmatici, poggiando su presupposti analogici e sottilmente metaforici.
La vera dote di Sansavini è lo spettacolo (non ha caso ha realizzato anche intriganti
teatrini di marionette): i suoi ‘legni’ verniciati sono elementi e personaggi di una rappresentazione che sta in un luogo intermedio tra l’immaginazione e la concretezza, tra la realtà
ed il sogno. Scene che si aprono a giochi apparentemente ‘infantili’ in quella terra di nessuno che è, appunto, il mito (nell’accezione di favola, racconto), l’isola utopica ‘che non
c’è’, Neverland. Per questo Sansavini non è un pittore figurativo della realtà, come lo era
invece la Pop Art, proprio per quel suo clima di gioco e per i suoi toni di fiaba. I personaggi
sono parte di una sperimentazione umana e culturale che la tecnica istintiva ed ‘elementare’ traveste nella forma del gioco, semplificandoli con accanita acribia. L’operazione e gli
intenti che vi sono sottesi, però, sono decisamente più complessi. Nei suoi ‘puzzle’ ogni
elemento è concepito come un messaggio, pur – lo ripetiamo – senza denunce drammatiche o radicalizzate.
Certamente nell’opera sansaviniana si hanno riflessi formali, come si è visto, della
Pop Art (le figure semplificate e ridotte a ‘icone’ popolari, colorate per campiture cromatiche sature, prive di sfumature, come nei cartoons: sia sufficiente osservare Stop, nel catalogo di Neverland) e, in parte, dell’Optical Art (effetti coloristici rutilanti come in un caleidoscopio: si pensi a Senza titolo – turbolenza), ma gli intenti sono profondamente diversi.
L’approccio alla realtà è, infatti, sì, deliberatamente frammentato, attraverso una successione di ‘schegge’ che definiscono i vari piani, ma il suo recupero del fare pittorico come
gioco infantile tra l’ironico ed il colto, filtrato mediante la rivalorizzazione delle tecniche artigianali, è motivato da un’autentica ed originaria capacità di meravigliarsi e di sorprendersi
‘poeticamente’, di una ‘ingenuità’ che diviene rivelatrice di messaggi profondi. Egli, pertanto, ha un’origine ‘pop’ che è riuscito a mantenere immune da ogni esasperata aridità concettuale e ideologica, possedendo, come felicemente ha scritto Rossana Bassaglia a proposito di Ugo Nespolo (certamente in questo a lui affine), una vena surreale che rasenta la
Patafisica: libertaria, ritualistica, scanzonata, profetica ma non-messianica. Sansavini –
come Nespolo, appunto – non persegue alcuna costruzione ‘chiusa’, con velleitarie pretese totalitarie, totalizzanti o definitive, ma mira ad un continuo accrescimento, ed una costante riclassificazione dei dati forniti dall'esperienza. Il suo lavoro non contiene alcun
dogma, nessuna limitazione o intolleranza, non ha un fine ultimo e neppure ammette un
riduzionismo (non cerca di spiegare, cioè qualsiasi cosa in termini di ‘particelle elementari’
e delle loro interazioni), né alcuna formula ‘scientifica’ o ‘teologica’ definitiva, sintetica e
globale.
Sansavini, così, oscilla fra ripiegamento in sé e esplosione vitale, tra magma caotico
ed ordine armonico, fra ‘distruzione’ (frammentazione informe-infomale) e ricostruzione rigorosa e credibile (‘verosimile’) di un’‘altra’ realtà, una realtà più che utopica ed ‘ideale’ divenente teoreticamente ‘istituzionale’ (nell’accezione accademico-universitaria del vecchio
termine di “istituzioni”), cioè programmatica (senza enfasi) di un mondo migliore. In questo
senso, le sue opere possono rasentare l’Arte Concettuale e perfino la Land Art (ovviamen22
te non nell’accezione diretta di intervento momentaneo o ‘performance’ sulla natura): il loro
significato profondo, infatti, non sta tanto in ciò che viene prodotto, ma nel pensiero che le
ispira e che vede tramite esse un’irripetibile opportunità per poter definire positivamente la
relazione tra l’Uomo e la Natura e quella tra l’Uomo, lo Spazio ed il Tempo, ma senza ricorrere radicalmente all’astrazione (anche lirica) puramente intellettuale. Persino i suoi
‘monocromi’ (Senza titolo – monocromo rosso o Senza titolo – monocromo argento) sono
sempre trame di incantata vegetazione naturale, di cuori, di farfalle, di boe e di onde di
mare: tutti simboli di quell’universo naturalistico e antropologico a lui così caro, con richiami all’esuberanza della natura tropicale e brasiliana (a lui ben nota), ma anche ai totem di
mondi spiritualisti ‘primitivi’.
Il paesaggio dominato da sinuose e paradigmatiche corografie ‘ingenuamente’ naïves, le sue ‘nature morte’ (ma in realtà prepotentemente ‘vive’, perché frammenti di natura
vegetale rigogliosa come sotto una ‘monetiana’ lente di ingrandimento: si osservino Naturale, Erba, Erba voglio, Full Green o Soft Green – quest’ultima non in mostra e attualmente in collezione privata) diventano per Sansavini l’orizzonte ‘bio-ecologico’ e naturale per
l’esercizio di una creatività, la cui vocazione ultima non sta tanto nella produzione di
un’innovazione tecnico-tecnologica (pur essendo in lui presente, come si è detto,
un’attenzione fortissima per l’esecuzione e la ricerca di nuovi prodotti e materiali, quali la
soft rubber), quanto in quella di riuscire ad introdurre una possibile trasformazione consonante con la specificità della vita umana e con il tempo che la regola e la scandisce. Un
tempo che diviene ‘atemporale’, tempo interiore che collega un futuro sostenibile al passato della Storia e delle Tradizioni popolari. Da qui il ripudio, condiviso con la Minimal Art,
della ricerca della novità formale fine a se stessa, in favore di un confronto serrato ed empatico con le forme della Natura e la Storia (le ‘storie’) del Mondo (si pensi alle sue Storie
di mare). In tal senso, Sansavini giunge ad una sorta di indiretta critica alle Avanguardie,
ma ne eredita le più profonde strategie, le possibilità dinamiche di espansione e divulgazione, perseguite anche attraverso la ultima sua ricerca tramite la reiterazione che gli consente la gomma fusa e morbida.
Gli ‘incastri’ lignei sansaviniani e i loro rilucenti colori tendono a spogliare dei luoghi
comuni e qualunquisti l’aspetto ‘tragico’ della vita, per poi distillarlo in rappresentazioni apparentemente giocose e gioiose; riduce tutto al comun denominatore di una ‘prefigurazione’ che infonde omogeneità alle sue opere. Il suo apparentemente ‘gioioso’ mondo ludico e ‘disimpegnato’, del tutto artificiale, viene evidenziato dal materiale e dalla tecnica usata dall’artista (legni laccati che non sembrano più legni, gomma). Per Massimo
Sansavini la vita diviene, così, apparentemente (ma solo apparentemente) un gioco che
‘astrae’ dalla realtà e l’esperienza artistica, come si è detto, può sembrare ludica, ma lo è
solamente nei termini di essere liberatoria: ogni quadro corre sul sottile filo del rasoio di
una affabulante ‘malizia’ artistica, dagli efficaci risvolti semiotici.
Ogni opera, veduta superficialmente, pare si possa smontare e poi rimontare, riassemblare in libertà, secondo le varie combinazioni di un ‘puzzle’, solo di primo acchito del
tutto prevedibile. Poi, però, bisogna spingerci oltre, più in profondità, per cogliere il vero
messaggio sotteso. Mentre le ‘ingenuità’ formali degli artisti a lui maggiormente raffrontabili, però, contengono spesso una durezza esistenziale, Sansavini, amalgamando sapientemente elementi artigianali e tecnologici, ci induce a credere, in fin dei conti, in valori positivi e propositivi nei confronti del futuro dell’Uomo e della Natura nel Mondo; conservando gelosamente la memoria del passato – tramandatoci attraverso le tradizioni, le saghe e
le ‘storie’ – mediante uno scorrere ‘scoppiettante’ e filmico di immagini (dal sapore dinamico derivato dal Futurismo ‘artigianale’ di un Fortunato Depero: basti osservare Gold dreaming n. 2 o a Senza titolo – spirali in grigio), ci disvela un universo possibile sereno, pur
nell’oggettività dei drammi che tale mondo in fibrillazione possiede, non per un ‘innocente’
candore, ma per un vitale ed istintuale ottimismo intrinseco: Sansavini, in tal modo, pur
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essendo immerso nel mondo reale, ne distilla uno verosimilmente accettabile, senza mai
approdare ad un’arte esistenzialista né alla sua scontata (e per lui falsa) profondità psicologica.
Una giustapposizione compositiva di forme e di immagini primarie che riecheggia le
regole dello spartito e del contrappunto musicale, in un rapporto di equilibrio fra spregiudicata e concitata bizzarria formale in ‘allegro’ (si veda, ad esempio, Be Bop) ed un intimo e
segreto andamento fiabesco in ‘adagio’ (come in Ultimo atto o in Margherita & Co.), sapiente mediazione fra Robert (1885-1941) e Sonia Delaunay (1885-1979) – la luce che in
natura crea il movimento dei colori e i simultaneismi cromatici astratti dei coniugi francesi e
del loro Orphic Cubism – e Marc Chagall (1887-1985) – il colorato racconto fiabesco, surreale ed onirico di quest’ultimo.
Autore pienamente postmoderno (e postideologico), suscita in noi, mediante
quell’esuberante energia cromatica che si muove tra i tasselli di legno o di gomma come in
una danza vorticosa ed armonica, il desiderio di lasciarci trasportate verso orizzonti e lidi
lontani, popolati dalle sue figure realmente ‘irreali’, come felicemente ha detto parlando di
lui Maurizio Vanni, di lasciarci travolgere dal “gioco della vita”.
FEDERICO SEVERINO
Nato a Brescia nel 1953, Federico Severino fin dall’età di dodici-tredici anni è presente nello studio dello scultore Domenico Lusetti. Dopo aver frequentato il liceo classico, riprende a scolpire, pur iscrivendosi prima alla Facoltà di Medicina, poi a quella di Filosofia,
dove si laurea con una tesi sulla Fenomenologia del Riso nel 1976. Sin dal 1974, all’età di
ventun’anni, tiene la sua prima mostra, che ha per tema il riso sardonico. Proprio questo
tema informerà le opere dell’artista fino agli inizi degli Anni Ottanta, pur riemergendo di
tanto in tanto anche nella sua produzione più tarda. Il riso in tutte le sue svariate declinazioni (mistico, ancora una volta sardonico, sbeffeggiante, ‘urlante’) diviene per Severino un
elemento peculiare connotante l’uomo, segnandone la sua evoluzione da bestia ad essere
autocosciente. In seguito le sculture dedicate al riso saranno quasi tutte da lui distrutte dopo la morte della propria compagna nel 2006, con un moto di rabbia ‘suicida’ e come estremo omaggio a lei, con la quale e nella quale il suo universo parrà concludersi. Frattanto, apre il proprio studio nel centro di Brescia.
Imprescindibile, nel simbolismo delle sue opere, è la profonda connotazione filosofica, particolarmente legata agli aspetti dell’Antropologia Culturale e alla Psicologia di scuola freudiana. Solamente in seguito si occuperà degli aspetti metafisici ed anch’essi andranno a creare il substrato concettuale plasmante la sua materia artistica. Spesse volte le
figure di Severino presentano mani con lunghe dita, quasi ad artiglio, indicanti la rabbia
impulsiva sottesa ad ogni atto umano autocosciente come inalienabile componente emotivo-irrazionale, che si traduce in significazione dell’atto ideologico, anche estremo. Da ciò
deriva il suo impegno politico a sinistra negli Anni Settanta.
Per sei anni, fino al 1980, vive e lavora nel proprio studio in maniera liberamente bohemienne, poi si trasferisce, come conseguente scelta etica ed esistenziale, lontano dalla
città borghese e va a vivere in un piccolo borgo della Franciacorta, Capriolo, borgata ai
piedi delle ultime colline occidentali, presso la riva sinistra del fiume Oglio, poco a valle
dalla sua emissione dal lago d'Iseo, tra il fiume e le pendici del monte Alto, nominata per la
prima volta in un documento dell'879. Si stabilisce in un complesso rurale (villa padronale
e casa colonica - fattoria), allora ridotto a poco più di un rudere, di lata influenza veneta
settecentesca e ristrutturato nell’Ottocento, secondo i consueti stilemi neorinascimentali.
Negli anni restaurerà, un po’ per volta, il grande edificio.
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Abbandonate le tematiche del riso, si avvicina al Neoplatonismo, pur mantenendo
forti legami sempre con l’Aristotelismo nella sua reinterpretazione medievale. Sostanzialmente possiamo individuare una matrice maggiormente neoplatonica nelle sue opere a
tema laico e simbolico-esistenzialista, mentre una chiave tomistico-aristotelica è riscontrabile nella sua produzione a soggetto religioso 1 . Le simbologie connesse ai riti primitivi e alle suggestioni di tipo antropologico, invece, si sono fatte mano a mano meno frequenti, per
lasciare spazio al rammentato mondo medievale e al suo concetto onnipresente di morte e
rinascita.
Tra le sue sculture, rammentiamo quelle per la chiesa di Cristo Risorto a Padernione
di Gussago (Brescia), soprattutto le porte bronzee con i simboli dei quattro Evangelisti, felicemente inserite nella bella architettura ‘organica’ progettata dall’architetto Fabrizio Viola,
e la cattedra vescovile nel duomo di Brescia, con l’inserimento simbolico dei progenitori
dell’umanità, Adamo ed Eva.
“… E formò l’uomo dalla polvere della terra”. Terrecotte e bronzi simbolici di Federico Severino
Severino, nei suoi cotti e nei suoi bronzi (solo questi ultimi sono esposti in questa
rassegna) predilige un’arte figurativa simbolica in quanto l’uomo non è una nullità nichilista, ma il Destino lo porta oltre il microcosmo umano. Tutta la sua produzione – sia a carattere religioso che laico – è influenzata da un senso profondo e anticonvenzionale di religio. In un quotidiano che, pur quando è bello, è effimero, ama rappresentare un figurativo
intimista, con assonanze formali al Romanticismo, nel quale vi è insita la luce platonica.
Tramite queste opere la Verità, l’isolamento dalla quale rappresenta il peccato, è intuita
platonicamente solo come un’ombra e la testimonianza dell’Assoluto non può avvenire che
per frammenti, perché immersi in una dimensione provvisoriamente finita. Severino si definisce uomo non di ‘fede’, perché la fede certa è senza dubbio e fa “muovere le montagne”, ma il dubbio è insito sempre entro di lui. Noi, però, riteniamo la sua autentica ‘fede’,
proprio perché continuamente messa alla prova e forgiata dal fuoco del dubbio e del dolore.
La sua dimensione figurativa trae origine dalla visionarietà plastica di un Medardo
Rosso e delle prime ceramiche di Lucio Fontana, ma sente anche fortemente la lezione di
Auguste Rodin (1840-1917) e di Émile Antoine Bourdelles (1861-1929), nonché la purezza
formale del primo Umanesimo donatelliano. La materia prima (la terracotta) da lui plasmata (solamente in un secondo momento questa si trasforma in bronzi realizzati con la tecnica della cera persa) non è quasi mai liscia ma fortemente tormentata dalla ‘ditata’ gestuale. Nella produzione sacra si richiama più espressamente ai prototipi medievali di Benedetto Antelami, sebbene in Severino la massa viene alleggerita perdendo il proprio pondus
1
Pur condividendo un afflato problematico-esistenzialista, non giunge mai ad un nichilismo sartriano ma, allontanandosi dal pensiero stalinista e comunista (da lui ora ripudiati) e appoggiandosi al pensiero filosofico
del padre Emanuele Severino, riconosce il Destino come Verità. Il rapporto con il Cristianesimo è per lui duplice: di dolce ricordo dell’infanzia, quando si recava in processione in un santuario dedicato alla Madonna,
con valenza, quindi, evocativo-sentimentale; di consonanza riconosciuta tra il pensiero cristiano e la Verità,
pur in una problematica necessariamente aperta. Il rapporto con Cristo è per Severino di tipo esistenziale, in
una visione dostoevskijana di incontro-scontro tra finito e infinito. Nelle sue opere Cristo diviene il simbolo
della testimonianza del destino dell’essere, che, nella sua finitezza, non sa di avere un destino ben maggiore
di essere infinito. Senza privilegiare un gusto meramente intellettualistico, le sue sculture manifestano
un’esigenza affettivo-esistenziale ed un’urgenza interiore di tipo religioso che si concretizzano nel tormento
di sentirsi finito e nel perenne dubbio di perdere. Questo dubbio, però, è smentito dal Destino che è Verità e
dissolve il dubbio stesso, subìto, o meglio ‘patito’ come peccato, cioè come perdita della Verità. In tal senso
una visione nichilista è filosoficamente ed artisticamente ‘peccatrice’, cioè ‘mancante’, in quanto perdente la
Verità.
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antico, non potendo non raffrontarsi con quella che è stata l’esperienza rivoluzionaria
dell’Espressionismo tedesco, da Egon Schiele (1890-1918) a tutta la Brücke. Le composizioni severiniane divengono simboli dei mutevoli stati d’animo umani, pur non fermandosi
alla pura metafora, in quanto tali simboli sono testimonianze ‘faticose’ di quell’infinito di cui
si ha coscienza (intuizione) di essere. Perché il simbolo di un sentimento diventi tale, Severino cerca questa assonanza con la propria interiorità: come egli stesso afferma, il simbolo è l’apparizione, ovvero, l’estrinsecazione dell’interiore.
Innanzi tutto, lo scultore deve ‘compatire’ il simbolo, vale a dire deve sentire
all’interno di se stesso una uniformità con l’entità simbolica. Ad esempio, quando nelle sue
opere rappresenta un piccolo cane a simboleggiare la fedeltà (pensiamo ad una delle sue
ultime sculture, dedicate alla compagna scomparsa), lui stesso deve sentirsi davvero un
'cagnolino' (paradigmatico, in tal senso, è Pusillus uxoris nuntius, lo spaventato e piccolo
cane in bronzo, che reca inerme un mazzolino di fiori, poggiando le zampe anteriori su un
guanciale, quasi come la sposa novella davanti all’altare). Così l’austero angelo
dell’Apocalisse è il disvelamento mistico (che ritorna pure in Tutte le lacrime degli uomini
sono conservate, del 2005, raffigurazione epicamente e ‘cupamente’ simbolica) e la finestra, alla quale si affaccia la propria donna morta (trasfigurazione poetica dell’immagine
apposta sulla lapide del forno cimiteriale), è una sorta di dialogante ianua coeli, una porta
tra il finito e l’infinito, in tono intimistico e non dogmatico, tra l’”al di qua”, dove l’uomo non
è conscio della Verità e del suo destino infinito, e l’”al di là”, dove si ha la pienezza della
Verità (l’opera, in cotto, non esposta a Monreale, sarà prossimamente fusa in bronzo).
Altri suoi simboli, nelle sue novelle ‘visioni mistiche’, non potevano non essere tratte
dall’universo dantesco e dai bestiari medievali. Il ricorrente tema del bambino conchiuso in
sé come un feto, se da un lato concretizza l’immagine dell’uomo nuovo e della rinascita
mistica, dall’altro, in una dimensione più personale dello scultore, disvela il suo desiderio
non appagato di paternità (si veda Pensiero non nato, la struggente scultura creata
dall’artista nel 2002: un bambino rannicchiato entro una sorta di monumento sepolcrale
romano, perimetrato da quattro colonne, sulla cui copertura sono due colombe dalla testa
umana, come in certi capitelli paleocristiani). Simbologia ‘umana’, anche se non ancora
così cupamente esistenzialista, era già presente in Il corpo sulle ginocchia (1997), una
possente scultura dalle reminiscenze michelangiolesche, che, con termini simbolici in un
certo senso ‘capovolti’, ci presenta la grande figura maschile barbuta che tiene sulle ginocchia un corpo nudo e inerme di giovane donna.
Altre volte alcune simbologie si rivestono di connotazioni visionarie e surrealiste, come l’uomo con la testa di cane, formalmente desunto dall’immaginario metamorfico antico.
Il tema delle metamorfosi ovidiane è spesso ripreso, come, ad esempio, anche nella Ninfa
puledra (del 1995) o in Alberina (del 1998, non esposta in questa sede). Che farò senza
Euridice (1993), che cita un verso dal terzo atto dell’Orfeo e Euridice di Christoph Willibald
Gluck. Sirene (1998/2000) è un intreccio sapiente di figure femminili e di code di pesce
che, come serpenti, si avviluppano alle figure urlanti ‘munchianamente’ il loro grido esistenziale e rivelando tutto l’effimero delle seduzioni allettanti e rilucenti. Del resto, il richiamo alla filosofia e al mondo classico si fa talvolta paradigmatico, come in Porfirio (il filosofo neoplatonico, allievo di Plotino), il grande bronzo del 2001, ispirato al leopardiano
Dialogo di Plotino e di Porfirio del 1827 (compaiono due donne che suonano strumenti,
come in un coro greco, una sorta di compianto sulla morte della creatività, rappresentata
da un uccellino che una delle due tiene in mano e che ha la testa del filosofo).
L’uomo dal volto e dalle membra stravolti nella piccola barca (Parvula navicula vitae
et formidolosa sicut cunae), in un’altra sua scultura in cotto (non esposta in questa mostra
a Monreale) è ‘folle’ in quanto crede di essere in balia delle acque: non siamo, infatti, per
Severino, folli perché crediamo di poterci salvare, ma, invece, lo siamo quando si presume
di non poterlo fare, credendoci nichisticamente solo materia finita. Facendo propria
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l’immagine e il pensiero legato all’aristotelismo di un San Girolamo e di un San Tommaso
d’Aquino, alcune sue realizzazioni in terracotta, poi tradotte in bronzo, richiamano la ‘catena’ del movimento nell’Universo (“Omne quod movetur ab alio movetur”, riprendendo il titolo di quest’opera da un passo della Summa Theologiae di San Tommaso).
Il silenzio è rimedio all’angoscia (il cui titolo è tratto da un verso dell’Agamennone di
Eschilo) è l’opera forse di maggiori suggestioni dechirichiane: la grande figura del guerriero greco seduto, con l’elmo in testa e gli occhi vitrei e impietriti nel vuoto, reca alla base
del trono le ‘piccole’ figure di un’umanità stravolta, che ama e che piange.
Il carro del potere (1998), che formalmente riprende dai Trionfi medievali e si richiama all’omonima opera del Petrarca, è un’opera a sé stante, in quanto rappresenta una
meditazione non solo esistenziale ma anche sociale. Il Potere è raffigurato come un vecchio barbuto con la testa incoronata: la raggiera, che ha indubbie assonanze con la raffigurazione del Sole, indica l’abbagliante vittoria, ma indirettamente richiama il mito del carro di Apollo guidato da Fetonte e il suo inevitabile precipitare. Le figure di uomini nudi sotto
il giogo della dittatura del potere hanno espressioni di sofferenza, ma la testa di uno è rivolta verso l’alto in un gesto di ribellione e di liberazione, affrancandosi dalla logica perversa del potere stesso.
Scultura e filosofia che, in questi bronzi esposti a Cento, si fondono in un unicum: Ars
humana.
MAURO VACCAI
Nato nel 1954 a Piteccio (Pistoia), fin da bambino è attratto dalla pittura e disegna
all’interno dei mobili che costruisce il padre (morto quando egli aveva cinque anni). In seguito, pur continuando per passione a disegnare, si iscrive a Scuole tecniche e si diploma
geometra. Poiché sente il disegno tecnico come un freno alla sua fantasia, egli continua,
in parallelo, a esprimersi “in libertà”, come egli dice, sia a china che a carboncino: nella
seconda metà degli Anni Sessanta realizza alcune grafiche di prigioni latamente piranesiane ed una veduta dell’esterno della Madonna dell’Umiltà a Pistoia, dominata dalla grande cupola rinascimentale. Diplomatosi nel 1974, si iscrive alla Facoltà di Scienze Forestali
a Firenze; alla fine degli Anni Settanta esegue una serie di ‘falsi di autore’, copiando opere
di Boldini, Van Gogh e Matisse. Quando gli mancavano pochi esami alla Laurea, dopo aver prestato il servizio di Leva ad Arezzo e Pistoia, resosi conto che i Concorsi per Ispettori Forestali non erano come lui immaginava, interrompe gli studi e decide di dedicarsi in
modo autonomo allo studio. Dopo aver rilevato, insieme ad un socio, una piccola azienda
fiorentina di design, si dedica alla progettazione di moda e di gadget promozionali. Dal
1981 al 1998, così, disegna indumenti ed accessori, sebbene, dopo la prima Guerra del
Golfo, dal 1990 avesse avuto problemi economici in conseguenza delle difficoltà di esportazione in Giappone, dove egli inviava i propri prodotti contrassegnati con un suo marchio:
un serpente (nel quale si rifletteva la M iniziale del suo nome) e un falco (il cui becco ricordava la V iniziale del proprio cognome).
Nel frattempo dipinge quadri a olio e scolpisce in vecchie radici di alberi, che trova in
abbondanza nella Montagna Pistoiese dove vive. Dal legno un giorno decide di passare a
scolpire una pietra arenaria di fiume, realizzando nella propria cantina una figura maschile
stilizzata e in posizione rannicchiata (1989). Nel 1998 crea una seconda scultura in pietra
un Volto di donna, ancora presente nel prato fuori dal proprio laboratorio.
Tra il 1999 e il 2000, cessata l’attività di designer di moda, si dedica all’agriturismo,
pur continuando consulenze nel campo della moda. È del 2000-2001 la sua ‘scoperta’ del
marmo, l’antica materia con la quale si erano cimentati i più grandi scultori nel corso dei
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secoli. Nel 2002 tiene la sua prima personale di pittura e di scultura a Modena e nello
stesso anno presenta la sua opera in pietra serena San Martino a Palazzo Vecchio a Firenze, commissionatagli dall’Associazione Scudi di San Martino, in occasione della premiazione dei Vigili del Fuoco di New York, dopo l’attentato alle Torri Gemelle. Per lo stesso Corpo realizza un’altra scultura marmorea a bassorilievo con il medesimo soggetto, ora
presso il Garibaldi and Meucci Museum a Staten Island (New York). Nel 2004 esegue la
Via Crucis per la chiesa di Santa Maria Assunta a Piteccio, dove già nel 1997 aveva dipinto nell’abside le Nozze di Canaa e la Pesca miracolosa. Dal 2005 lavora in esclusiva per la
Galleria ModenArte. In parallelo ha portato avanti di caricaturista e fumettista.
Tra Mythos e Logos. I marmi ‘parlanti’ di Mauro Vaccai
Vaccai predilige la scultura alla pittura perché, come egli stesso ama dire, la verità
(cioè la realtà) è tridimensionale e solo attraverso di essa si può leggere l’interiorità,
l’anima. Componente fondamentale nella sua scultura è l’elemento simbolico, come archetipo nella mente dell’uomo e che ognuno di noi può leggere nell’opera realizzata con sue
personali varianti che, interpretando, rendono ‘unica’ quell’opera proprio perché ognuno la
vede in maniera autonomamente esclusiva e irripetibile.
Pensando alle sculture marmoree di Mauro Vaccai, di una sorprendente tecnica (oggi così raramente posseduta dagli artisti, che spesso eseguono solo il bozzetto, per poi far
realizzare l’opera a maestranze specializzate), mi torna alla mente, come ho già avuto
modo di scrivere presentando una sua mostra presso il Museo di Santa Chiara a Napoli
nel 2007 (La vita tra Eros ed Agape), il mito di Orfeo, che, suonando la sua cetra, faceva
dormire le fiere ed il dilaniante latrato di Cerbero, custode degli Inferi. Fuori dalla metafora,
la potenza visionaria delle opere di Vaccai quieta i ‘mostri’ che abitano il mondo reale contemporaneo ed i ‘fantasmi’ che vivono in noi. Li quieta solamente, però, li ipnotizza, non li
annulla, rimanendo sempre sottesa la consapevolezza del loro esistere sotto la superficie
(si veda Arpia, dal volto bello, dolce e suadente, ma con il corpo da volatile e gli artigli alle
zampe), sotto il velo esteriore di quelle silenti figure in marmo che ci raccontano ‘storie’ di
altri tempi, fuori dal Tempo. Così, le sue sculture si pongono in quella terra intermedia tra
l’inconscio e la realtà che è stata sempre il territorio del mito. Disperazione ed entusiasmo
si mescolano e si fondono, il ‘bello’ si rivela quasi mai nella perfezione antica (ripresa saltuariamente e sempre rivista simbolicamente, come in Ercole o in Volto di guerriero, ambedue presenti in questa esposizione), ma in un lento emergere dal caos primordiale attraverso forme in dinamica metamorfosi, come embrioni dall’utero materno della Terra
stessa (basti pensare al Riposo di Tritone sul suo morbido letto di onde marine). Un ‘bello’
che conduce all’Amore sotteso alla maschera, pur sempre con le sue pesanti e ingombranti ‘spine’, con i suoi inconfessati abissi originari (osserviamo Eros simbolicamente
dormiente; Riposo della Sirena; Il vaso di Pandora, dal quale erano scaturiti sulla Terra tutti i mali dai quali è afflitto il genere umano).
Il misterioso ed inquietante messaggio antico si rivela a noi solo per frammenti e per
schegge, per larve embrionali, per intuizioni e per evocazioni, che si concretizzano in porzioni dove riemerge la purezza essenziale, assoluta (pensiamo, in campo letterario, alla
versione poetica moderna che Salvatore Quasimodo seppe dare ai frammenti superstiti
dei lirici greci). Iconografia surreale, quella di Vaccai, allusiva della maschera che ci ricopre, ma al di sotto della quale urlano sempre anche incubi e sogni illusori: vibrazioni e sentimenti di un uomo che non vuole riconoscersi nella desolante realtà esistenziale di un anonimo e anodino quotidiano che fluisce inesorabilmente insignificante, bensì nel miraggio
interiore – anche se forse irraggiungibilmente utopico – del mito e del suo calore, essendo
cosciente che egli null’altro è se non “schiàs ònar”, sogno di un’ombra. Come in certe enigmatiche opere di Mitoraj, nei marmi di Vaccai, se ben ascoltiamo il silenzio di quelle sue
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sculture, udiamo il rumore sordo del mare greco, come in una conchiglia che si porta dietro, stemperati ma pur sempre esistenti, i suoni degli abissi, cioè dell’inconscio più profondo.
Sotto il ‘velame’ del mito classico, frantumato o ‘embrionizzato’, emerge prepotente
il travaglio esistenziale moderno e il formarsi e il dissolversi dei nuovi miti di questa nostra
civiltà globalizzata. Per Vaccai la vita umana non è che un'ombra di luna (come nella saga
di Gilgamesh), quello che conta è l'invisibile; l'artista aiuta a far vedere questo invisibile,
come nella scultura di Pan e la Luna velata. E' un gioco, una fiaba, un canto, questo suo
viaggio nel mito, che si carica delle poliedriche sfaccettature del simbolismo onirico.
Fondamentale per lo scultore pistoiese è, quindi, la componente psicologica ed esistenzialista attraverso la simbologia della metamorfosi. Esempio paradigmatico è la scultura Cariddi (appositamente eseguita per la mostra centese, come Ulisse e le Sirene e Omaggio alle Arti di Sicilia, quella regione ‘mitica’, greca e mediterranea che egli tanto ama),
dove il volto bello e angelico della fanciulla (la figlia di Poseidone e di Gea) si trasforma in
un mostro. Secondo il mito, Zeus l’aveva mutata in un mostro marino per aver essa voracemente mangiato alcuni buoi di Gerione. Cariddi, provocando un gorgo, risucchiava le
navi in transito nei pressi della costa di Messina. Tale leggenda diviene per Vaccai la metafora dell’umanità che ritorna alla bestialità primordiale, in quanto bene e male sono ambedue innati nell’uomo e l’animale che continua a vivere in noi ciclicamente riemerge nonostante lo si cerchi di reprimere, trascinandoci o cercando di trascinarci nel proprio gorgo.
Tutto ciò che è solo materia è precario e destinato a dissolversi ed il male è per l’artista il
non riuscire a comprendere questa relatività. La metamorfosi diviene anche il simbolo
dell’eterno divenire delle cose; il mito coincide con l’interiorità dell’uomo e la sua anima,
con l’aspirazione ad una perfezione irraggiungibile ed assoluta. Così il mito da ‘racconto’ o
‘favola’ (secondo l’etimologia) diviene l’idea, che esiste a priori si può concretizzare solo in
parte nella realtà e l’atto scultoreo diviene per Vaccai il mezzo per esprimere, materializzare l’idea astratta, il mito, vale a dire la propria anima ‘utopica’ (cioè, che non aveva avuto
ancora ‘luogo’ dove poter risiedere, esistere nella realtà).
Altro esempio eclatantemente simbolico della psicologia e del messaggio sottesi alle
opere di Vaccai è Ulisse e le Sirene, dove lo scultore rappresenta un Ulisse (dalle assonanze compositivo-formali con Pan e la Luna) la cui corda lo tiene legato all’albero ‘saggio’
(sicuro) della sua nave, ma nel contempo lo unisce alle ‘lusinghiere’ Sirene (immediato è
un raffronto con la sua precedente opera, Tentazione). Come poi Ulisse, già gli Argonauti,
condotti da Giasone, avevano attraversando il mare di Sicilia, dovendo resistere alle Sirene. L’Ulisse di Vaccai, però, non è solo l’Ulisse di Omero, ma, in parte, anche quello di
Dante (Inferno, Canto XXVI), in cui la figura dell’eroe risplende di una luce nuova. Infatti,
come si sa, non è più il classico uomo greco, astuto e generoso, amante della vita familiare, ma assume l’immagine dell'uomo moderno (nel quale in parte Vaccai stesso si identifica) che ardisce con tutte le sue forze ad allargare la sua esperienza verso l’ignoto della vita, l'uomo appassionato del conoscere (a “seguir virtute e canoscenza”), che, animato da
uno spirito inquieto ed ardito, diventa il simbolo di tutti i tempi. Ma è pure l’Ulysses di James Joyce (1882-1941), edito nel 1922 e che, scardinando le coordinate tradizionali di
spazio e di tempo, fa rivivere le ventennali peregrinazioni dell'Ulisse omerico in una sola
giornata, con un parallelismo più o meno evidente rispetto all'epopea greca. L’Ulisse moderno joyciano (Leopold Bloom), infatti, è uno scettico, consapevole della sua solitudine,
ma, come il nostro scultore pistoiese, ben saldo nelle sue idee e fiducioso nell’amore. Forse, però, meglio di tutto possono essere commento alla scultura di Vaccai alcuni versi
dell’Ulysses, scritto nel 1833 dal poeta inglese Alfred Tennyson (1809-1892): “Le luci cominciano a brillare sulle rocce; il lungo giorno declina; la Luna si arrampica lenta; intorno si
lamentano le profondità degli abissi marini con molte voci. Venite, amici miei, non è troppo
tardi per cercare un mondo più nuovo: spingetevi al largo e in buon assetto fendete le on29
de sonanti: perché voglio navigare oltre il tramonto, dove si tuffano tutte le stelle
d’Occidente, finché io muoia” (vv. 54–61) 2 .
Per Vaccai la scultura deve essere anche e nuovamente ‘bella’, dopo le provocazioni
concettuali delle avanguardie novecentesche, coinvolgendo i sensi e lo spirito (osserviamo
la simbologia ‘antiqua’ e greca di Forza, Bellezza, Saggezza).
In questo rinnovamento etico-estetico del principio greco del “kalòs kài agathòs” sta
la matrice prima del fare scultoreo di Vaccai, fino a giungere alle opere sue più simboliche
e filosofico-alchemiche, quasi latamente neoplatoniche, come La ruota dello spirito.
Eolo e Borea (Aìolos, da Aiòlos, il Veloce, dio dei Venti e figlio di Poseidone, con la
sua reggia a Lipari nelle Eolie; il barbuto Borèas, figlio del titano Astro, il soffio stesso di
Zeus, il violento vento del Nord, che aveva contribuito ad distacco della Sicilia dal continente e che deve essere tenuto a freno da Eolo), nella loro raffigurazione come speculare,
uniti dal ‘cordone’ del vento, ci trasmettono, in sintesi, tutto l’ànemos spirituale dell’artista:
amore e forza, spirito e cultura che devono guidare e sovrintendere la brutalità animale
che è in noi e che perennemente dagli abissi riaffiora nel mare della nostra vita. Una classicità che in Vaccai si fa vibrante messaggio postomoderno in una mitica “nùx aiòle” (notte
costellata e scintillante) sul mare ‘greco’ e ‘africano’ di Sicilia.
A cura di Giampaolo Trotta
.
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“The lights begin to twinkle from the rocks:
The long day wanes: the slow moon climbs: the deep
Moans round with many voices. Come, my friends,
'Tis not too late to seek a newer world.
Push off, and sitting well in order smite
The sounding furrows; for my purpose holds
To sail beyond the sunset, and the baths
Of all the western stars, until I die”.
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