parte I - Energia Spazio Ambiente
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parte I - Energia Spazio Ambiente
Enrico Grassi Scritti filosofici Parte I Estetica La nascita della percezione del bello nel processo evolutivo Indice: 1) Darwin e il problema estetico 2) La nascita della percezione del bello di natura 3) Soggettività e universalità del giudizio estetico 4) La bellezza del corpo umano 5) Bello artistico o pertinenza? 6) La pertinenza nell’arte del Novecento 7) Il “brutto” artistico 8) L’artigianato 9) Arte e astrazione 10) Postilla sulla morale Indice dei nomi p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. 4- 7 8 - 14 15 - 20 21 - 28 29 - 42 43 - 47 48 - 58 59 - 66 67 – 74 75 – 76 p. 77 - 80 1 1 - Darwin e il problema estetico a) Il concetto del bello è nato anticamente nel vasto regno della filosofia, ove è rimasto fino ai nostri giorni, non essendo mai riuscito a diventare problema scientifico. Il discorso deve quindi ripartire dalla constatazione del fallimento di ogni estetica filosofica, per esplicita dichiarazione di molti degli addetti ai lavori. Nella situazione di dominante incertezza, vale forse la pena di tentare una via del tutto nuova, attraverso i percorsi dell’antropologia. Questa giovane scienza tenta di ricostruire le successive strutture del cervello umano dai primi momenti dell’ominazione fino a Homo sapiens, per capire come e perché sia emersa una specie con determinate caratteristiche cerebrali e sensoriali che la distinguono dagli altri primati, di cui pure fa parte. La ricerca pertanto è guidata da un’idea primaria: tutto ciò che distingue gli uomini dagli altri primati è nato approssimativamente negli ultimi tre-quattro milioni di anni, quando è iniziata la storia dell’uomo. Prima di entrare nel merito dell’analisi estetica vera e propria, va fatta chiarezza sull’uso improprio dei termini in questione. Nella pratica quotidiana utilizziamo una serie di parole - cosa, buono, bello – in modo molto generico, per definire sbrigativamente una molteplicità di cose, quando non serve essere precisi. Spesso infatti attribuiamo il termine “cosa” ad una qualsiasi realtà; oppure, riferiamo il predicato della bontà sia ad un cibo che a S. Francesco. Anche per quanto riguarda il termine “bello”, il ventaglio di accezioni libere è molto vasto. Ci serviamo infatti di questo aggettivo per definire una poesia, una persona, una catena montuosa, un vestito, una teoria, una relazione umana, un’abitudine, un evento di qualsiasi genere. Nella comunicazione sbrigativa tutto ciò funziona, perché riesce a segnalare la presenza di una positività. Quando invece intendiamo essere maggiormente connotativi, usiamo termini diversi e più precisi. L’idea che abbiamo della bellezza è pertanto ancora un je ne sais quoi, come è stato per la concezione della nostra vita psicologica che, tuttavia, ormai da un secolo, ha varcato le soglie della scienza, da quando alcuni suoi aspetti vengono studiati, e in parte risolti, come normali fenomeni fisici del sistema nervoso centrale. L’estetica non ha raggiunto questa soglia, essendo rimasta come branca della filosofia, destinata a proporre ipotesi generalissime. In questa precaria situazione, credo che sia utile ricominciare dalla teoria dell’evoluzione e, in particolare, dalla distinzione che Darwin operò tra produzione e riproduzione della vita, ovvero tra selezione naturale e selezione sessuale. La prima è destinata a regolamentare i processi relativi alla sopravvivenza, alla ricerca di ciò che favorisce la vita, in cui gruppi di maschi e femmine procedono insieme, mentre la seconda, relativa alla scelta dei partner sessuali, descrive le lotte tra maschi per il possesso delle femmine migliori (1). La via aperta da Darwin obbliga infatti a credere - pena la ricaduta in forme di idealismo e di soggettivismo - alla nascita della percezione del bello, come di tutte le altre sensibilità o pulsioni, e, più in generale, di tutte le capacità e di tutte le reattività umane (l’astrazione, la razionalità, l’altruismo, l’egoismo, la socievolezza, la competitività, la gelosia, l’innamoramento) in un qualche momento della storia biologica dell’uomo come premio adattativo, o come resultante di premi adattativi diversi (2). Darwin tuttavia si è occupato 1 - C. Darwin, The descent of man, and selection in relation to sex, Murray, London 1871; trad. it., L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, Newton Compton, Roma 1972, p. 647. 2 - Si discute molto da qualche tempo di egoismo ed empatia, di prevalenza dell’uno o dell’altro. Ai testi di J. Rifkin farò riferimento in un altro capitolo. F. De Waal ha pubblicato nel 2009 The age of Empathy, Three Rivers Press, N. Y.; trad. it., L’età dell’empatia, Garzanti, Milano 2011. Tutto ciò che appartiene alla vita ha una data di nascita: l’egoismo si forma con alcune specie di esseri viventi, così come 2 quasi esclusivamente della genealogia evolutiva delle strutture fisiche degli animali e degli uomini, in una sorta di storia morfologica della vita sulla terra, ma non si è interessato, se non sporadicamente, alla formazione adattativa delle molteplici capacità derivate dallo sviluppo del cervello umano in specifiche condizioni. Se scoprissimo quando e perché è nata la percezione della bellezza, sconosciuta al regno animale, e perché ha avuto bisogno di un cervello e di una vista diversi dagli altri primati, scopriremmo anche perché si è formato il criterio giudicativo bello-brutto. L’estetica di tutti i tempi non si è mai posta questo problema da un punto di vista genetico, l’unico che potrà darci informazioni di qualche valore. Sorprende osservare quotidianamente scienziati e filosofi che, pur inchinandosi al genio di Darwin, procedono come se la teoria dell’evoluzione non li riguardasse. Il mito delle facoltà mentali, già presente nel De anima di Aristotele, vincola ancora le nostre analisi nelle scienze dell’uomo, sempre alla ricerca di quella parte dell’Io responsabile di un particolare comportamento, riproponendo in questo modo una qualche metafisica del soggetto, come se esistessero attività intellettive separate e indipendenti, caselle dello spirito, una predisposta per la fantasia, un’altra per l’amore, per l’altruismo, per la matematica, per la libertà, per la religione, giù giù fino a quelle per la sintesi e per l’analisi. Più insidiose sono le concessioni all’apriorismo da parte di autori per altro insospettabili. Chomsky pensa che le strutture sintattiche della lingua umana siano innate, e Lorenz ritiene che i concetti di causa, sostanza, spazio, tempo siano degli a priori evolutivi, senza tener conto che mutano con il progredire della scienza. Il cervello, a mio avviso, possiede attualmente “a priori” la capacità di astrarre - anche questa con una sua data di nascita ovvero una funzione neurale in grado di operare su dati ricevuti, separandone gli aspetti comuni e incrociandoli in vario modo. b) L’antropologia ha il merito di porre il problema della percezione del bello in termini evolutivi, ma si limita a realizzare inchieste e a comporre statistiche sugli indici di gradimento rispetto ai corpi e ai visi umani, senza trovare la via per fondarvi un’estetica generale, in grado di fare i conti con tutte le forme di bellezza. Le scienze della natura e l’estetica hanno il compito di individuare le strutture cerebrali e le condizioni ambientali che sono state necessarie perché potesse formarsi il gusto per il bello. L’ispirazione darwiniana, evitando ogni metafisica, ci induce a ricondurre questo fenomeno entro lo sviluppo dei rapporti uomo-natura e uomo-donna, ovvero della produzione e della riproduzione della vita, ove ha trovato il suo fondamento, celato nel perché della sua nascita. L’antropologia, come dicevo, tenta di fondare una teoria della bellezza del corpo umano su base evolutiva, ma non riesce a superare il “pregiudizio freudiano”, ancorandola alla sessualità. La percezione della bellezza non può avere origine solo dall’apprezzamento della funzionalità dei caratteri sessuali, ma anche, e prima ancora, dall’apprezzamento dei corpi adatti al lavoro, indispensabili per la sopravvivenza della specie. La selezione naturale precede e fonda la selezione sessuale, come insegna Darwin: l’uomo prima produce e poi si riproduce, come ribatte Eldredge. Possiamo dire che è bello quel corpo che manifesta forza, agilità, resistenza, ovvero tutte le caratteristiche necessarie al duro lavoro, alla fuga, all’inseguimento, alla lotta. È bello tutto ciò che è positivo per la nostra specie: un corpo umano adatto alla produzione e alla riproduzione, un frutto necessario per l’alimentazione o un fenomeno astronomico favorevole. Il bello, per una mente laica, l’empatia non è esistita fino a quando non è stato necessario accudire qualcuno o qualcosa. Sembra tuttavia abbastanza evidente che in ogni specie animale domini diversamente l’egoismo e l’altruismo, essendo la socialità maggiore o minore in base alle necessità di ciascuna forma di vita. Cambia anche per ogni popolazione, per ogni individuo, pur all’interno dei caratteri della specie. 3 rappresenta ciò che ha reso possibile la vita sul pianeta Terra. Se fondassimo la percezione della bellezza solo sull’attrazione sessuale, non potremmo poi spiegare l’apprezzamento estetico per il cielo, il mare, gli alberi. Coloro che hanno identificato il bello con l’arte, ovvero con una forma di produzione umana, non si sono resi conto che l’uomo può produrre, ovvero inventare e scoprire, molte cose, come la ruota, l’aratro, la gravitazione, ma non può “inventare” la bellezza attraverso l’arte, come non può inventare la razionalità, l’innamoramento, la socialità. Su questi temi tornerò più diffusamente nei capitoli che seguono. c) L’intera terza parte dell’Origine dell’uomo è dedicata alla “selezione sessuale in relazione all’uomo”, dando luogo ad un mirabile saggio sulla formazione selettiva di molteplici caratteri fisici umani, fatti discendere dalla funzione del gusto estetico nella scelta dei partner sessuali: “Many persons are convinced, as it appears to me with justice, that the members of our aristocracy, including under this term all wealthy families in which primogeniture has long prevailed, from having chosen during many generations from all classes the more beautiful women as their wives, have become handsomer, according to the European standard of beauty, than the middle classes; yet the middle classes are placed under equally favourable conditions of life for the perfect development of the body…but this may be chiefly due to their 3 better food and manner of life ( ). Vi è un doppio nesso tra bellezza e classe sociale, giacché, in primo luogo, i privilegiati possono scegliere i partner più attraenti e, in secondo luogo, le loro migliori condizioni di vita favoriscono un più armonico sviluppo del corpo. “Both sexes, if the females as well as the males were permitted to exert any choice, would have chosen their partners, not for mental charms, or property, or social position, but 4 almost solely from external appearance” ( ). “But as soon as the practice of procuring wives from a distinct tribe was effected through barter, as now occurs in many places, the more attractive women would generally 5 have been purchased” ( ). “The old traveller Chardin, in describing the Persians, says their "blood is now highly refined by frequent intermixtures with the Georgians and Circassians, two nations which surpass all the world in personal beauty. There is hardly a man of rank in Persia who is not 6 born of a Georgian or Circassian mother" ( ). Quando è stato possibile, la scelta del partner su base estetica è risultata primaria, in particolare da parte dei maschi, rispetto agli altri tipi di scelta. “If then the several foregoing propositions be admitted, and I cannot see that they are doubtful, it would be an inexplicable circumstance, if the selection of the more attractive 3 - C. Darwin, cit., p. 356; trad. it., “Molti sono convinti, ed è anche il mio parere, che i membri della nostra aristocrazia…siano diventati di aspetto più attraente di quelli della borghesia, perché per molte generazioni hanno potuto scegliere come mogli le donne più belle appartenenti ad ogni classe; tuttavia la borghesia gode di condizioni ugualmente favorevoli per quel che riguarda il perfetto sviluppo del corpo…Ciò può dipendere però dalle migliori condizioni del vitto e del modo di vivere” (p. 619). 4 - Ivi, p. 368; trad it., “Gli individui di ambo i sessi, quando sia le femmine che i maschi potevano operare liberamente una scelta, sceglievano i loro compagni non per le loro qualità mentali, per la ricchezza o la posizione sociale, ma quasi esclusivamente per l’aspetto esteriore” (p. 627). 5 - Ivi, p. 365; trad. it., “Ma appena subentrò l’uso di procurarsi le mogli da una tribù vicina attraverso il baratto, come avviene ancora in molti luoghi, furono naturalmente acquistate le donne più belle” (p. 625). 6 - Ivi, p. 356-7; trad.it., “Chardin, antico viaggiatore, descrivendo i Persiani dice che «il loro sangue attualmente è ingentilito dai Georgiani e dai Circassi, due popolazioni che eccellono in bellezza su tutte le altre. Non c’è Persiano di rango elevato che non sia nato da madre circassa o georgiana»” (p. 619). 4 women by the more powerful men of each tribe, who would rear on an average a greater number of children, did not after the lapse of many generations modify to a certain extent the 7 character of the tribe” ( ). “…yet if the males which are the strongest and best able to defend or otherwise assist their females and young offspring, were to select the more attractive females, this would 8 suffice for the work of sexual selection” ( ). La scelta estetica è intervenuta selettivamente a modificare i caratteri fisici, le fattezze, la salute dei componenti delle tribù arcaiche. La scelta dei partner sessuali migliori, sia dal punto di vista estetico che riproduttivo, ha reso quindi più attraenti i corpi di coloro che appartengono alle classi sociali privilegiate, e, tendenzialmente, dell’intera umanità, se tutti sono dotati di questa nuova sensibilità per la bellezza. Sulla scelta estetica maschile relativa alla riproduzione si ritrova una testimonianza anche nella Genesi, dove è scritto: “…avvenne che i figliuoli di Dio videro che le figliuole degli uomini erano belle, e presero per moglie quelle che si scelsero fra tutte” (9). È attualmente impossibile condividere molte delle conclusioni di Darwin sulle specifiche differenze tra uomini e donne, o sulla trasmissione dei caratteri fisici, mentali e psicologici, in quanto, non potendo tenere conto dei risultati della moderna genetica, conservano alcuni aspetti della concezione di Lamarck. Nonostante questi limiti, Darwin comprese il ruolo della cultura, e quindi della scelta umana, come fattore ulteriore di selezione, arrivando a distinguere tra selezione sessuale in una umanità primitiva, basata sul potere della forza fisica, e la stessa selezione in una umanità socialmente più evoluta, ove acquista un ruolo la forza sociale del potere. Non dobbiamo quindi credere che Darwin ci fornisca una teoria estetica organica e condivisibile, perché è vero esattamente il contrario: abbiamo solo pochi e rapidi spunti e in alcuni passaggi sulla percezione del bello rivela una concezione vagamente innatista. “No doubt the perceptive powers of man and the lower animals are so constituted that brilliant colours and certain forms, as well as harmonious and rhythmical sounds, give pleasure and are called beautiful; but why this should be so, we know no more than why certain bodily sensations are agreeable and others disagreeable. It is certainly not true that there is in the mind of man any universal standard of beauty with respect to the human 10 body…The men of each race prefer what they are accustomed to behold” ( ). L’estetica moderna, comunque, non ha saputo riprendere questi spunti metodologici per adeguarli ai nuovi livelli che la biologia, la psicologia e l’antropologia hanno raggiunto, limitandosi ad osservazioni particolari e scollegate tra loro. 7 - Ivi, p. 369; trad. it., “Se ciò è vero, e io non dubito che lo sia, sarebbe inesplicabile che la selezione delle donne più attraenti da parte degli individui più vigorosi della tribù e in grado di allevare un maggior numero di figli, non abbia in un certo modo, attraverso molte generazioni, modificato il carattere della tribù” (p. 628). 8 - Ivi, p. 362; trad. it., “…tuttavia se i maschi più forti e più abili nel difendere e assistere le proprie femmine e i propri figli furono in grado di selezionare le femmine più attraenti, ciò sarebbe stato sufficiente perché la selezione sessuale potesse agire” (p. 623). 9 - Genesi, 6, 1-2. 10 - C. Darwin, The descent of man, and selection in relation to sex, cit., p. 353-354; trad. it., L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, cit., “I sensi degli uomini e degli animali inferiori sembrano essere fatti in modo che i colori brillanti ed alcune forme così come i suoni armoniosi e ritmici provochino in loro piacere e siano definiti belli; ma perché questo accada non lo sappiamo. Certamente non è vero che nella mente dell’uomo esista una concezione universale di bellezza rispetto al corpo umano…Gli uomini di ogni razza preferiscono quello a cui sono abituati” (p. 616). 5 2 - La nascita della percezione del bello di natura Gli animali non posseggono la percezione e, tanto meno, il concetto del bello e del brutto, così come non posseggono alcun criterio giudicativo, nemmeno implicito, del tipo morale-immorale, razionale-irrazionale, causaeffetto (11), ovvero dei valori tipicamente umani. Alcuni comportamenti animali sono stati scambiati con atti valutativi, pur essendo tali solo in apparenza. Quando si dice che gli uccelli hanno la percezione del bello, perché a volte scelgono il partner in base al colore del piumaggio, non si tiene conto che la scelta può dipendere dalla maggiore visibilità e non dalla valutazione estetica, che è sempre un modo raffinato di giudicare, assai improbabile in un cervello così semplice. Comunque stiano le cose, posto che nessun criterio valutativo possa essere innato, senza storia adattativa, coloro che attribuiscono ad alcune specie animali una sorta di gusto estetico non fanno altro che spostare all’indietro il problema, assumendosi il compito di individuare un processo evolutivo ancora più arcaico, attraverso cui si sarebbe formato quel gusto specifico (12). a) Se gli animali non posseggono il codice del bello e del brutto, un semplice passaggio logico deve indurci a pensare che il giudizio estetico, come tutti gli altri poco sopra elencati, sia nato e si sia sviluppato nel periodo che intercorre tra il “momento” in cui il “primo” uomo-scimmia dette inizio al processo dell’ominazione e quello in cui si è concluso con l’affermazione di Homo sapiens, quando sono emersi il cervello e la sensibilità dell’uomo moderno (13). Con le prime forme di intelligenza umana e con la nuova sensibilità visiva, ovvero con un nuovo nesso sensibilità-intelletto, inizia a svilupparsi il criterio giudicativo bello-brutto, che non è comparabile con quello di alcuni primati, come vorrebbe la Goodall: “Un po’ alla volta ci si rese conto che le spiegazioni riduttive di comportamenti che rivelavano un'evidente intelligenza erano fuorvianti. Questo portò a compiere una serie di esperimenti che, valutati nel loro complesso, dimostrano chiaramente come molte capacità intellettive prima ritenute peculiari dell’uomo siano in realtà proprie - per quanto in forma più rudimentale - anche di altri esseri non umani e in particolare dei primati non umani e, 14 soprattutto, degli scimpanzé” ( ). 11 - Come ha sostenuto L. Wolpert alla Conferenza del Darwin Day del 12-2-05 alla Casa del Cinema di Villa Borghese a Roma. 12 - Bradshaw scrive: “Da un punto di vista umano è spesso difficile evitare di attribuire un senso estetico al comportamento di certe specie non umane. In Australia, il maschio dell’”uccello del pergolato” (di vari generi) raccoglie oggetti colorati (soprattutto blu) come conchiglie, petali e pezzi di carta e plastica, e con essi decora un “pergolato”, una costruzione di vegetali, da cui corteggia le femmine di passaggio. Se consideriamo l’arte e l’estetica come fini a se stessi, piuttosto che (come in queste pagine) mezzi per il raggiungimento di un fine (riproduttivo), le due forme di comportamento, quella degli uccelli e quella dell’uomo, hanno ben poco in comune” (J. L. Bradshaw, Human Evolution: A neuropsychological perspective, Psychology Press, Howe 1997; trad. it., Evoluzione umana, Fioriti, Roma 2001, p. 74). Diamond pone invece sullo stesso piano la produzione “artistica” di uccelli e uomini. Su questo tema si veda l’intero capitolo Le origini animali dell’arte (J. Diamond, The rise and the fall of the third chimpanzee, Radius, London 1991; trad. it., Il terzo scimpanzè, Bollati-Boringhieri, Torino 1994, p. 218). Leakey e Lewin invece considerano il senso estetico, il senso morale e la capacità di invenzione come risultati dell’evoluzione della mente umana (R. Leakey e R. Lewin, Origins reconsidered: in search of what makes us human, Little, Brown, London 1992; trad. it., Le origini dell’uomo, Bompiani, Milano 1993, p. 196). 13 - Dobzhansky considera che “La sensibilità alla bellezza e la capacità di produrre cose che sono percepite come “belle” sono fra i tratti che elevano l’uomo sopra il bruto. E questo rende particolarmente interessante il problema dell’origine e del significato biologico dell’arte e dell’estetica nell’evoluzione umana” (T. Dobzhansky, Mankind evolving: the evolution of the human species, Yale U.P., N.Y. 1962; trad. it., L’evoluzione della specie umana, Einaudi, Torino 1965, p. 219). 14 - J. Goodall, Through a window: my thirty years with the chimpanzees of Gombe, Houghton Mifflin, Boston 1990; trad. it., Il popolo degli scimpanzé: 30 anni di osservazioni nella giungla di Gombe, Rizzoli, Milano 1991, p. 27. 6 Tuttavia non si riscontra nel suo testo, nonostante questa presunta prossimità, un solo cenno al gusto estetico degli scimpanzé. Questo significa che per alcune categorie del giudizio, e forse per tutte, le differenze tra uomini e scimpanzè non sono semplicemente quantitative, essendo avvenuto un salto qualitativo. Per il rapporto strettissimo che intercorre tra i dati che i sensi sono in grado di raccogliere e il pensiero che si sviluppa su di essi, alla crescita volumetrica del cranio umano, base naturale del pensiero razionale, doveva corrispondere lo sviluppo di una diversa forma di sensibilità, adeguata alle accresciute capacità del nuovo cervello. Ai diversi livelli di concorrenza tra gli ominidi nella lotta per l’esistenza, la più arcaica percezione tattile e olfattiva doveva mostrare i suoi limiti di fronte all’udito, come questo doveva mostrarli di fronte alla vista. Contestualmente mostrava i suoi limiti anche un cervello non in grado di elaborare i nuovi dati: persero la sfida evolutiva quelle specie di ominidi che non seppero adeguare sensi e riflessione ai nuovi tipi di complessità ambientale e sociale. I sensi dell’olfatto e dell’udito, o la percezione visiva di oggetti in movimento, vale a dire quelle facoltà che servono ad individuare prede e predatori, ad avvistare e ad allertare, rappresentano la fonte di gran parte del sapere dei mammiferi: udito, olfatto, percezione cinetica forniscono informazioni per scopi e funzioni poco più che immediati, comunque per un sapere modesto, appena sufficiente per la fuga di fronte ai pericoli o per la conquista di cibo e di sesso. Homo sapiens risponde a questi problemi con soluzioni razionali, proteggendosi nei ricoveri, costruendo strumenti, producendo armi. Ad esser precisi, la mente umana possiede due tipi di intelligenza, anche se in rapporto di reciprocità: quella strumentale e quella scientifica, funzionale alla soluzione dei problemi immediati di vita, la prima, e alla scoperta delle leggi che regolano la natura, la seconda. Udito, olfatto e vista di movimento non sono in grado di fornire dati adeguati né al superamento pratico di molti degli ostacoli che la vita ci oppone, né all’elaborazione teorica di concetti scientifici e matematici: ne è conferma il fatto che negli uomini tutti questi sensi hanno perduto una parte della loro potenza. Per sospettare prima e stabilire poi che la terra ruota intorno al sole, è necessario che la contemplazione visiva fornisca all’intelletto informazioni esatte su oggetti dai contorni ben definiti e in rapporti spaziali e temporali precisi e ripetibili, ovvero su entità in punti determinati dello spazio e dei loro successivi spostamenti. Agli animali manca il senso del tempo matematico, del tempo come successione misurabile di istanti, come regolare scorrimento delle cose fuori di noi. Il tempo per loro è semplicemente attesa, mai cronologia, così come i corpi nello spazio non sono mai forme e misure geometriche. Non è possibile una qualsiasi forma di scienza, né una precisa conoscenza delle distanze, dei percorsi, del territorio, in assenza di una percezione matematica del tempo e di una visione geometrica dello spazio. Senza perdere di vista la distanza che separa l’uomo da alcune specie di primati, bisogna tuttavia riconoscere una certa prossimità per la percezione dello spazio, del tempo, dei colori (15). Sul tema della vista dei primati, così 15 - A. Salza sostiene che i primati della foresta dovevano identificare i frutti nel folto dei rami e che pertanto “una visione nitida e definita evitava anche il rischio di afferrare il ramo in malo modo, e cadere 100 metri più sotto. L’evoluzione dei primati selezionò occhi molto diversi da quelli della lepre. Non c’era bisogno di proteggersi le spalle…Gli occhi si spostarono sul davanti del muso, che diveniva sempre più piatto. In questo modo, i campi visivi degli occhi vengono in parte a sovrapporsi, creando l’effetto stereoscopico che rende tridimensionale la nostra percezione visiva e che permette ai primati di calcolare alla perfezione le distanze tra i rami…a isolare la figura del singolo frutto dallo sfondo della foresta. Gli antenati dei primati erano animali notturni. I primati della foresta, proprio per potersi foraggiare tra i rami, divennero diurni. Alla terza dimensione spaziale aggiunsero così lo sviluppo della sensibilità per una parte dello spettro solare. I primati, oggi, vedono in stereoscopia e a colori…tutto si è 7 importante per capire la formazione successiva della percezione umana e del relativo senso estetico, Weiner ritiene che lo sviluppo della vista e dell’intelligenza sia collegato con lo sviluppo della manipolazione degli oggetti: produrre, pensare e vedere sono un unico processo, compiuto prima, e in forma ridotta, da alcuni primati, e poi, in forma qualitativamente superiore, dall’uomo. Ma era necessaria anche la nuova percezione del tempo e dello spazio, perché si chiudesse il cerchio della maturazione della mente umana. “La percezione dei segnali luminosi e la capacità di indicare con grande esattezza rapporti spaziali o di colore, sembrano altrettanto ricche e dettagliate nelle antropomorfe che nell'uomo, almeno a giudicare dalle connessioni ottiche tra retina e corteccia. Ma è chiaramente molto maggiore nell'uomo l'organizzazione corticale necessaria per interpretare, associare e confrontare le informazioni visive con quelle tattili o uditive, per interpretare e trasferire nell'azione queste immagini complesse attraverso la parola o il movimento, o per accumularle nella memoria. La base neurologica, per quanto riguarda l'aumento visivo, sta nella differenziazione delle aree visive secondarie (le aree visive di associazione), nell'aumento delle connessioni tra queste e le altre aree sensitive e associative, e le aree 16 come quella motoria e della vocalizzazione nel cervello” ( ). Intelligenza umana e sottile percezione per forme spaziali geometriche e per forme temporali misurabili si sono evolute circolarmente insieme, perché la prima ha trovato nella seconda la fonte di tutti i dati da elaborare e la seconda non ha potuto selezionarsi senza essere utile a qualcosa, al pensiero razionale. Ominazione, intelligenza, visione di fenomeni in rapporti reciproci spazio-temporali sono quindi un unico processo. Per questo motivo nessuna scimmia può scagliare una lancia contro un bersaglio, non possedendo uno specifico equilibrio fisico, una intuizione geometrica della distanza e del rapporto fra questa e la velocità (il tempo) necessaria alla lancia per compiere il percorso (17). Lukàcs aveva compreso la storicità dei sensi umani, senza tuttavia afferrare nella giusta misura il salto qualitativo cui va incontro la vista con lo sviluppo del cervello (18). svolto…in un arco di tempo piuttosto lungo, e secondo un processo analogo a quello che ha modificato la mano” (Ominidi, Giunti, Milano 1999, p. 36). 16 - J. S. Weiner, L’origine dell’uomo (1971), fa parte di La grande enciclopedia della narura, Garzanti, Milano 1974, pp. 70-73. Per maggiore chiarezza, riporto alcuni passi che precedono questa citazione: “L'accurata manipolazione degli oggetti nel senso più ampio della parola richiede capacità di percezione sensoriale altamente sviluppate. Queste sono anche caratteristiche degli antropoidi. Lo studio comparativo degli antropoidi viventi rivela senza possibilità di dubbio, ancora una volta, un'evoluzione nel senso di una progressiva modificazione delle strutture adibite al tatto, alla visione e all'odorato, che culminano nell'uomo. Possiamo riconoscere tre orientamenti che si integrano: una progressiva riduzione dei meccanismi nervosi che riguardano l'odorato, un'elaborazione del sistema tattile e un grande sviluppo del sistema visivo. L'elaborazione del sistema uditivo, sebbene pronunciata, non è così notevole come quella della vista… La complessa elaborazione della corteccia visiva è indicata dallo sviluppo, sulla superficie media del lobo occipitale, di un profondo solco calcarino che provoca l'ampio ripiegamento assiale necessario per adattarsi alla completa estensione degli strati recettori visivi che si sviluppano con il grande aumento della dimensione e della complessità cerebrale”. 17 - Sulle modificazioni nelle attività visuospaziali che si verificano con il passaggio dalla scimmia all’uomo si veda di E. Bruner, G. Manzi e J. L. Arsuaga Encephalization and allometric trajectories in the genus Homo: Evidence from the Neandertal and modern lineages, in PNAS, 2003, vol. 100, n° 26, pp. 15335-15340, o il saggio di R. Holloway, Toward a syntetic Theory of human brain evolution, 1996, in J. P. Changeux e J. Chavaillon, Origin of the Human Brain, Clarendon Press, Oxford 1996. Un concetto simile esprime anche D. Falk in The evolution of sex differences in primate brains, in D. Falk e Kathleen R. Gibson, Evolutionary Anatomy of the Primate Cerebral Cortex, Cambridge University Press, 2001, p. 109, ove si legge: ”As noted by Kimura (1992), the spatial task at which man excel include mental rotation of objects, navigating their ways through routes, and guiding or intercepting projectiles. Because all of these tasks involve both vision and movement…” (traduzione mia: “Come è stato osservato da Kimura (1992), l’attività spaziale nella quale l’uomo eccelle include la rotazione mentale degli oggetti, l’orientamento nei percorsi, la guida e l’intercettazione dei proiettili. Poiché tutte queste attività coinvolgono insieme la visione e il movimento…”). 18 - G. Lukàcs, Ästhetik: die Eigenart des Ästhetichen, Neuwied, Luchterhand 1963; trad. it., Estetica, Einaudi, Torino 1973, pp. 125-127. Marx, a cui l’autore si ispira, impostava nei termini di un incerto materialismo il problema dell’arte e del bello. La sua teoria è racchiusa in pochissime notazioni sparse 8 La nascita dell’intelligenza umana, la più affascinante rivoluzione della storia della biologia, non poteva avvenire senza una rivoluzione sensoriale d’appoggio. La semplice osservazione ci conferma che non esistono due specie animali con differenze cerebrali e con identità sensoriali. Le strutture conoscitive del gatto sono in grado di consentire solo a quella conformazione biologica, ma non ad altra, un ricambio organico con la natura. Il nesso sensibilità-pensiero è sempre specifico. b) I sensi rappresentano un filtro tra il mondo e gli esseri viventi, almeno di quelli che ci interessano in questo contesto, consentendo loro di scegliere i comportamenti più vantaggiosi, al fine di preservare e propagare la vita. Ciò comporta per ogni senso la formazione di un gusto specifico, in grado di distinguere tra positivo e negativo, non potendo ogni cosa non essere gradita o sgradita, proprio in quanto favorevole o meno all’esistenza. Tale polarità trova ai suoi estremi il piacere massimo e il dolore massimo, orgasmo riproduttivo, o vita, e il suo contrario, la morte: Eros e Tànatos. Era nella logica delle cose che la sensorialità si accompagnasse con un correlato emotivo premiante, senza il quale gli individui, animali ed umani, non farebbero scelte, lasciandosi morire. L’evoluzione ha selezionato i soggetti più motivati, i più dotati non solo fisicamente, ma anche emotivamente, i più determinati, ovvero coloro che provano più piacere-dolore nelle scelte esistenziali. La polarità piacere-dolore delle sensazioni fisiche e psicologiche doveva essere diversa rispetto a quella della sensazione visiva. Questa, come pensava Kant, è proiettata nello spazio, vive di linee, di rapporti geometrici, di colori, senza che il tempo vi abbia una parte primaria. I sensi interni invece comportano la temporalità, la persistenza e la dinamica dei sapori, dei suoni. Per capire un sapore spesso chiudiamo gli occhi, dovendo immergerci con maggiore intensità dentro di noi nello scorrere della percezione. Viceversa, per garantire l’esattezza di una nostra percezione visiva, abbiamo bisogno di uscire da noi, di andare verso l’esterno. Nel modo in cui si sono distinti nel mondo animale odori positivi o negativi, si è selezionata nell’uomo – all’interno del senso della vista - una specifica sensorialità estetica delle forme visive e dei relativi colori, in grado di in varie opere, non avendo mai scritto un testo sistematico di filosofia. I pochi cenni sembrano fornire le seguenti valutazioni: 1) “Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza”. Delle sovrastrutture della coscienza fa parte anche l’arte, essendo collegata allo sviluppo delle forze produttive e dei rapporti sociali. È questa la classica teoria del materialismo storico (Vorwort (1859) a Zur Kritik der politischen Ökonomie, MEW, Dietz Verlag, Berlin 1971, 13, S. 9; trad. it., Prefazione a Per la critica dell’economia politica, in Opere, Editori Riuniti, Roma 1986, XXX, p. 298; 2) l’arte corre parallela allo sviluppo dei cinque sensi: “L’educazione dei cinque sensi è opera dell’intera storia universale fino a questo tempo”; 3) “la bellezza della forma” si realizza indifferentemente sia nei prodotti artistici che in quelli naturali; 4) il piacere estetico fa capo ad una facoltà. I concetti dei punti 2, 3, e 4 si trovano nei Ökonomisch-philosophische Manuskripte aus dem Jahre 1844, MEW, Dietz Verlag, Berlin, 1968, Ergänzungsbund, I, S. 541; trad. it., Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Opere, cit., 1976, III, p. 329), ove scrive che i sensi e le facoltà umane si sviluppano via via che si oggettivano nella realtà, nella “natura umanizzata”: “È soltanto mediante la dispiegata ricchezza oggettiva dell’ente umano che vengono in parte sviluppati, in parte prodotti la ricchezza della soggettiva umana sensibilità, un orecchio musicale, un occhio per la bellezza della forma, in sensi capaci di fruizioni umane”. Per un verso, il giovane Marx sembra accennare ad una oggettiva bellezza senza storia delle forme naturali, che solo un occhio raffinato da un lungo processo educativo può cogliere, per un altro alla capacità dell’uomo di vedere nella realtà ciò che vi ha posto prima, come gli aveva insegnato Feuerbach, oscillando quindi tra un indipendente bello di natura e un bello artigianale, oggettivazione della coscienza, senza capire materialisticamente il perché del bello e il suo divenire. Marx mescola elementi di materialismo storico, a proposito dello sviluppo della sensibilità, ed elementi di idealismo, in linea con il concetto di uomo come ente generico, quando parla di bellezza della forma e di facoltà estetica, seppure come risultato di un processo evolutivo. A mio giudizio, non esistono le facoltà, ma solo funzioni di risposta, ovvero le strutture neurali in grado di valutare e di rispondere in vario modo ai messaggi che ci giungono dal mondo attraverso la sensibilità. Mi sembra pertanto eccessiva l’interpretazione materialistica di questi passi fornita da C. Salinari in Scritti sull’arte: K. Marx e F. Engels, Laterza, Bari 1967. 9 classificare le cose in piacevoli o spiacevoli, vale a dire belle o brutte, nella cui percezione è venuto meno il coinvolgimento corporeo degli altri tipi di sensorialità, ovvero il piacere-dolore fisico (19). Prima dell’ominazione gli organi sensoriali distinguevano in positivo-negativo soltanto le sensazioni di tipo animale, ove gli opposti si presentano nella forma del gradevolesgradevole, vitale-mortale. Non si dice infatti che è bello un sapore, un odore, un contatto: la polarità bello-brutto è entrata nel giudizio unicamente per le forme e i colori, per ciò che si vede. Non si usa – o non si dovrebbe - per i suoni, nemmeno per quelli della grande musica, che viene giudicata con i predicati della sfera emotiva, come “commovente”, “allegra”, “appassionata”, “stimolante”, “che induce a muovere il corpo” (20), né per le sensazioni corporee da contatto, ove il giudizio assume i predicati della fascia piaceredolore. Solo in relazione alle sensazioni visive i predicati appropriati vanno dal bello al brutto, privi apparentemente di qualsiasi collegamento ad interessi Kant pensava infatti ad un metafisico “piacere disinteressato” - dal momento che l’utilità reale di quelle forme e di quei colori è ignota al soggetto giudicante, perdendosi nella sua storia evolutiva. Ciò che ci ha permesso di vivere è infatti diventato inconsapevolmente ordine e proporzione nel nostro modo di guardare il mondo, essendo state quelle strutture visive vincenti per la sussistenza, per la riproduzione, per l’evoluzione della specie. È bello per l’uomo ciò che produce la sua vita, è brutto ciò che la distrugge, non potendo essere visto positivamente ciò che nega l’esistenza. È bello quindi ciò che ci fornisce un terrestre piacere interessato, anche se non sempre in modo consapevole (21). Agli animali non manca una “intuizione trascendentale” della bellezza, ma solo un tipo di vista collegata ad un particolare sviluppo del cervello, in grado di fornire una specifica percezione del mondo. Nei primissimi anni di vita, il bambino percepisce immediatamente le polarità sensoriali più arcaiche e primitive (gradevole-sgradevole), mentre acquisisce tardi il criterio giudicativo del bello-brutto: all’inizio l’oggetto è una semplice presenza, che può essere desiderata o meno, ma non in quanto bella o brutta. La bellezza rappresenta una scelta ulteriore e indipendente rispetto a ciò che per altro verso lo attrae: solo molto tardi il bambino capisce che la madre è meno bella di un’altra persona a lui estranea, mentre sente subito la gradevolezza o meno del suo contatto, del suo latte, del suo odore. Pur essendo l’interesse di tipo animale la base biologica inconsapevole della fascinazione umana, questa base viene riassorbita nel modulo del giudizio estetico, estensibile a tutti gli oggetti visibili, anche a quelli privi nell’immediato di ogni interesse, o, al limite, anche a quelli che rappresentano in quel momento un danno per noi. Dal momento che i vari tipi di percezione, essendo segnali per noi del valore degli oggetti circostanti, devono servire ad informarci su ciò che è vantaggioso o meno per la nostra esistenza, anche la vista, che è una sensibilità non specifica, potendo captare segnali relativi agli altri sensi, non 19 - Ovviamente tra i due estremi si interpongono tutte le cose neutrali da un punto di vista estetico, quelle che non hanno avuto un ruolo particolarmente positivo o negativo nella storia evolutiva dell’uomo. Ciò che vale per la vista vale anche per tutti gli altri sensi. 20 - Sullo specifico gusto estetico musicale, Ackerman scrive, tra le altre cose: “Come le emozioni più pure, la musica si gonfia e sospira, s’infuria o si placa; in questo senso si comporta in maniera così simile ai nostri sentimenti, che spesso sembra simboleggiarli, rispecchiarli, comunicarli agli altri, liberandoci così dalla complicata e fastidiosa imprecisione delle parole. Un accordo musicale può farci piangere, oppure mandarci la pressione alle stelle” (D. Ackerman, A natural history of the senses, Random House, New York 1990; pubblicato nello stesso anno anche da Chapmans, London; trad. it., Storia naturale dei sensi, Frassinelli, Milano 1992, p. 226). 21 - L’estetica aveva già nel Settecento identificato bellezza e piacevolezza, così come la ritroviamo in Kant e poi in Fiedler, che riducono il bello al gradevole, anche se in una accezione particolare. Kant non poteva rispondere adeguatamente ad una domanda che pure si era posta: perché alcuni fenomeni suscitano in noi un piacere ed altri no? Solo l’antropologia post-darwiniana può rispondere compiutamente a questa domanda. 10 poteva non distinguersi tra due opposti sensoriali, che sono appunto il bello e il brutto, ovvero il piacere e il dispiacere visivi. La vista non ha un suo oggetto specifico di godimento, in quanto è riuscita a trasformare in godimento visivo ciò che è positivo per gli altri sensi. Il piacere olfattivo o tattile animale è diventato piacere per forme e colori. Un piacere della sensualità “oscura” si è trasformato in piacere della sensualità “luminosa”. Ciò che agli animali dà piacere solo al contatto, ora dà piacere anche a distanza, essendo riuscita la vista umana a trasformare in un segnale visivo quei caratteri che sono positivi-negativi per gli altri sensi (22). La vista umana è in grado di capire a distanza, senza bisogno dell’olfatto, quindi in modo più discreto, se un individuo dell’altro sesso è valido o meno per l’accoppiamento, se un cibo è buono, se un territorio è sicuro, se un nemico è più o meno forte. La vista umana abbrevia i tempi e i modi dell’informazione, riuscendo a capire la qualità delle cose dalle forme esteriori, senza rischiare con le arcaiche tecniche di avvicinamento. La vista animale è essenzialmente informativa su ciò che è di fronte, è una sensibilità di servizio, serve ad avvistare e ad avvisare; quella umana, avendo raggiunto una sua autonomia valutativa, oltre a questa funzione, ne possiede una tutta sua, alla pari degli altri sensi, con uno specifico tipo di piacere (23). Possiamo immaginare l’atteggiamento estatico-emotivo degli uomini nel periodo in cui si costituiva la vista umana, con la nuova capacità “segnaletica”, in grado ormai di vedere gli indizi di ciò che è positivo per l’esistenza. In questo modo è nata la “contemplazione” che, prima di essere riflessione concettuale con Homo sapiens, è immersione diretta nelle cose, è ammirazione, ovvero un ri-mirare ciò che soddisfa, è guardare con stupore il positivo. La contemplazione, prima di essere stata un fenomeno mentale, è stata un fenomeno visuale: un guardare con piacere, con meraviglia, con attrazione, ciò che ci fa vivere, che è appunto la percezione della bellezza. Ogni senso può essere sedotto con stimoli specifici: il sapore di un cibo suscita il desiderio di mangiare. La visione del bello è invece atto di seduzione indiretta, creando la voglia di un luogo, di una persona, ovvero di tutto ciò che è desiderabile per gli altri sensi (24). 22 - Poplin, e con lui molti altri, confonde invece gusto estetico e produzione artistica, linguaggio spontaneo e linguaggio simbolico, finendo per ritrovare ogni attività dell’uomo moderno già negli animali o nei primi ominidi. In tal modo gli sfugge la diversità strutturale fra il gusto per il bello e la produzione artistica, nata con l’astrazione più sviluppata (F. Poplin, Aux origines neandertaliennes de l’art, p. 109116, in L’homme de Neandertal, La pensée, 5, 1988). 23 - Pur in un apparato filosofico e antropologico non ricevibile, mi sembrano particolarmente interessanti le considerazioni di Gehlen sulla vista, sul pensiero, sul linguaggio. L’autore fonda la sua teoria sul concetto di “esonero” (Entlastung), ossia sulla crescita di strumenti biologici a risparmio energetico per il dominio della realtà. La causa di questo processo di economizzazione risiederebbe nella inadattabilità degli uomini, diversamente dagli animali, agli ambienti naturali, e quindi nella necessità di approntare mezzi adeguati a superare le difficoltà che sono costretti ad affrontare. Per brevità, riporto solo alcuni passi sul tema della vista: “la semplice, superficiale impressione ottica ci fornisce simboli che ci indicano il valore d’uso e le qualità di maneggio delle cose (forma, pesantezza, struttura, durezza peso, eccetera)…il solo occhio, un organo che funziona senza fatica, le coglie nel loro insieme…vede simultaneamente valori d’uso e di maneggio, che in precedenza erano esperiti in un faticoso lavoro diretto…Tutti questi dati l’occhio però li abbraccia con un solo sguardo” (A. Gehlen, Der Mensch: seine Natur und seine Stellung in der Welt, Textkritische Edition unter Einbeziehung des gesamten Textes der 1. Auflage von 1940 / Arnold Gehlen; herausgegeben von Karl-Siegbert Rehberg unter Mitwirkung von Zuhal Bayraktar ... [et al.], trad. it., L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli, Milano 1990, pp. 66, 67, 91). 24 - Per questo aspetto è interessante lo stretto nesso che la poesia cortese ha istituito tra amore e vista a partire da Andrea Cappellano, che in De amore (1185 circa) scrive: “Amor est passio quaedam innata procedens ex visione et immoderata cogitatione formae alterius sexus (L’amore è una passione innata (naturale) che proviene dalla vista e da un pensiero incontrollato della figura (di una persona) dell’altro sesso (trad. nostra) (libro I, proposizione 1); “Quella passione (l’amore) procede dal solo pensiero che l’animo concepisce da ciò che vide” (trad. nostra) (libro I, proposizione 8); (Edizione di riferimento: E. Trojel: Andreas Capellanus regii Francorum De amore libri tres, Hauniae 1892, ristampa, München 1972). Lo stesso tema ritorna in Guido Cavalcanti (1255-1300), che, a proposito della donna amata, innalza un tenero lamento dalle Rime: “Li miè foll’occhi, che prima guardaro vostra figura piena di valore, fuor quei che di voi, donna, m’acusaro nel fero loco ove ten corte Amore” (V, sonetto); ”Voi 11 I nostri sensi sono tra loro in varia maniera correlati, ovvero per un verso indipendenti, in quanto ognuno rileva il mondo dalla sua angolazione percettiva, presiedendo ad un aspetto della realtà, ma al tempo stesso doppiamente connessi sia nell’unità delle cose, da cui diparte la varietà delle percezioni, che nella sintesi mentale, ove tutte si raccolgono (25). Ogni senso rappresenta una particolare apertura verso il mondo secondo due diverse modalità, semplicemente informativa la prima, giudicativa la seconda. Possono informarci che oggi piove, senza che questo rappresenti un bene o un male per noi, senza procurarci un’emozione, o, al contrario, dandoci un piacere o un dolore. La reazione giudicativa estetica rientra nella seconda modalità, non è mai “disinteressata” o neutra, anche se a volte non ce ne rendiamo conto. che per li occhi mi passaste ‘l core” (XIII, sonetto) (I poeti del Duecento, a cura di F. Contini, Ricciardi, Milano, Napoli 1960. Jacopo da Lentini (1210-1260) ritorna sullo stesso tema nei Sonetti: “or come pote sì gran donna entrare per gli occhi miei che si piccioli sone” (III sonetto), oppure “E gli occhi en prima generan l’amore e lo core li dà nutrigamento” (XXIII sonetto) (I passi sono presi da La poesia lirica del Duecento, a cura di C. Salinari, UTET, Torino 1968. 25 - Ho trattato volutamente in modo schematico il tema della sensibilità che divide le cose in mondi sensoriali separati, pur sapendo che esistono alcune interconnessioni immanenti tra i sensi, al fine di evitare che, per insistere sulle relazioni, si perdessero le autonomie. 12 3 - Soggettività e universalità del giudizio estetico a) Il giudizio estetico-visivo è soggettivo, in quanto dipende da una nostra reazione sensoriale di fronte ad un oggetto, ma non individuale, come Kant ben sapeva (26). Il vero problema è nel capire come si sia selezionato un gusto universale, pur dipendendo da una nostra soggettiva reazione di fronte ad alcune cose particolari. Il bello di natura è kantianamente un come se (als ob), come se fosse oggettivo, pur essendo semplicemente universale, condiviso da tutti, nato, come subito vedremo, da una nostra proiezione sulle cose. C’è allora da chiedersi come abbia proceduto la selezione nel separare in modo collettivo il bello dal brutto. Se partiamo dal principio che dietro ad ogni tipo di gusto debba esservi una funzione pratica vitale (27), la strada per la costituzione di un gusto estetico relativo alla natura dovette essere quella della massima funzionalità di alcune forme e colori naturali (cielo, mare, alberi, azzurro, verde), così come la maggiore funzionalità di alcune forme giovanili del corpo umano - più adatte al lavoro, alla corsa, alla procreazione – dovettero essere il fondamento del gusto estetico relativo ai corpi umani (28). È ragionavole quindi pensare che la formazione del gusto per il bello di natura - e quindi anche per i corpi umani, in quanto parte della natura - abbia iniziato il suo processo con l’ominazione, precedendo di circa due milioni di anni la nascita del cosiddetto “bello artistico”, collocabile nel paleolitico superiore, al tempo delle prime pitture rupestri e delle prime statuette femminili (29). Il giudizio estetico è arcaico, perché ha origine dai bisogni primari per l’esistenza, ma è meno primitivo delle valutazioni di tipo animale, come quelle relative alla nutrizione e alla riproduzione, o collegate alla respirazione, al sonno, al giaciglio. 26 - Kant tuttavia non è il filosofo della ricezione, perché la cosa in sé assegna dei vincoli oggettivi al soggetto. Il giudizio riflettente estetico indica che il bello non è oggettivo, ma una semplice reazione del soggetto di fronte ad un oggetto che fornisce un piacere disinteressato, anche se ciò non impedisce che sia universale. T. Dobzhansky, trad. it., cit., p. 219, similmente scrive: “Sia chiaro fin dal principio che la bellezza della natura va riferita ai sentimenti che certi oggetti naturali suscitano nell’uomo, non agli oggetti in sé”. 27 - Per funzionalità intendo il rapporto utile di una cosa rispetto ad un’altra, non perché quella (il sole) sia nata finalisticamente per servire questa (la vegetazione), ma perché il sole ha costituito la condizione, il presupposto naturale, entro cui le piante potessero esistere. Va tuttavia distinta la funzionalità biologica da quella di un qualsiasi manufatto. L’aria e l’acqua sono a fondamento da sempre e per sempre della vita sulla terra, mentre un tavolo, o uno strumento di lavoro, possiede un’utilità delimitata nel tempo, senza poter rappresentare un presupposto necessario dell’esistenza vegetale o animale. 28 - Buss sostiene che tutte le caratteristiche del corpo che si accompagnano con la fecondità si sono fissate nella nostra mente come caratteristiche della bellezza (D. M. Buss, The evolution of desire: strategies of human mating, Basic Book, New York 1994; trad. it., L’evoluzione del desiderio, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 73). A queste, io aggiungerei le caratteristiche che favoriscono il lavoro e quindi la sopravvivenza, ovvero la forza giovanile. Mi sembra molto interessante il passo di Costa e Corazza in cui dichiarano che D. L. Cronin, W. W. Spirduso, J. H. Langlois, G. Freedman (Health, physical fitness and facial attractiveness in older adults, Manoscritto non pubblicato) “pur non rilevando una relazione diretta fra bellezza e salute intesa come numero di malattie, hanno trovato una relazione significativa fra bellezza e salute fisica intesa come resistenza, forza, capacità di svolgere con vigore le attività quotidiane, vigilanza, mancanza di affaticamento, energia e piacere” (M. Costa e L. Corazza, Psicologia della bellezza, Giunti, Milano 2006, p. 67). Il passo è interessante perché la bellezza è collegata alla forza e alla capacità lavorativa. Anche per Aristotele la bellezza è armonia del corpo, strettamente legata alla salute e alla forza. Berti cita un frammento dell’Eudemo a questo proposito: “Poiché la disarmonia del corpo è malattia, o bruttezza, o debolezza, l’armonia del corpo sarà bellezza, salute e potenza (dünamis), ma non anima” (E. Berti, La filosofia di Aristotele, Vita e pensiero, Milano 1997, p. 365). 29 - Il riferimento alle pietre intagliate simmetricamente su entrambe le facce può dimostrare che un milione e seicentomila anni fa era già nato il senso estetico (J. L. Arsuaga, El Collar del Neandertal. En busca de los primeros pensadores, Temas de Hoy, Madrid 1999; trad. it., I primi pensatori, Feltrinelli, Milano 2001, p. 51), ma non è sufficiente a provare che era nata l’arte, perché manca lo sdoppiamento, l’oggettivazione di una immagine, di cui parlerò in seguito. I bifacciali sono artigianato, raffinato quanto si vuole, ma ancora semplice modificazione della natura. 13 Il giudizio estetico è soggettivo, ma non individuale, giacché la selezione ha imposto alcuni valori universali, consistenti – per limitarci alla bellezza del corpo umano - nell’atleticità e nel richiamo sessuale, tali da consentire la formulazione di un canone generalmente condiviso. Tutti i caratteri estranei alla capacità lavorativa e al richiamo sessuale non hanno assunto una valenza estetica, non influenzando pertanto il giudizio di bellezza: mi riferisco al colore della pelle, alla forma del naso e degli occhi, al tipo di capigliatura. Non è quindi per caso che ai concorsi di bellezza partecipino donne e uomini di tutte le razze umane. Il canone universale di bellezza va incontro ad una obiezione, a parer mio, superabile. Alcuni pensano che ogni comunità abbia prodotto la propria vita e i propri gusti in base alle specifiche attività nelle diverse condizioni ambientali, fino ad incidere sui canoni estetici di quel popolo. Alle differenze etniche, vanno inoltre aggiunte le differenze individuali: si pensi alle forme e ai colori che hanno avuto importanza nella nostra infanzia e che ancora determinano inconsapevolmente alcune nostre preferenze estetiche, così come è avvenuto per gli altri gusti sensoriali (30). Tutto ciò è vero, ma è limitato nel tempo, giacché dura fino a quando quella comunità e, spesso, anche quell’individuo, non entreranno in contatto con altre popolazioni, sulla cui base adegueranno i loro criteri valutativi. Fino ad epoca recente i popoli, essendo vissuti in isolamento, hanno inconsciamente prodotto un gusto estetico regionale, commisurato alle tipologie antropologiche esistenti nei loro luoghi, pur condividendo i canoni generali di forza, agilità e sessualità. Sono esistiti popoli con un rapporto medio gambe-tronco diverso da quello di altri gruppi umani, essendosi selezionati in ambienti di alta montagna, ove la capacità polmonare deve essere diversa rispetto a quella di popoli vissuti nelle praterie, e che, a volte, hanno sviluppato un’altezza non comune. Altri, al contrario, vissuti nelle foreste, sono rimasti molto più piccoli. Popoli vissuti in ambienti freddi o caldi, ricchi o poveri di acqua e di verde, inevitabilmente dovevano sviluppare caratteri non sempre omogenei nelle proporzioni e simmetrie corporee o nei colori della pelle, degli occhi, dei capelli, anche se tutti, pur all’interno delle rispettive diversità, hanno percepito come belli quei corpi che favorivano la produzione e la riproduzione. Ciò non ha tuttavia impedito che con l’incremento dei contatti emergesse un senso più comune del bello. I latini e, prima ancora, i greci preferirono il criterio germanico della bellezza umana (altezza, occhi cerulei, capelli biondi), pur non essendo omogeneo con le caratteristiche dei popoli mediterranei. Tutto ciò significa che mediterranei, indiani, alpini, andini, pigmei, vatussi, non appena hanno avuto l’occasione di conoscere corpi come quelli dei bronzi di Riace hanno presto aderito a quel nuovo modello di 30 - Magro pensa che vi sia un senso più o meno universale ed innato del bello relativamente al corpo umano: “...traits that are generally shared by anatomically modern humans could be the standard of our innate sense of beauty…Maintaining separateness of species and thus avoiding the risk of sterile offspring could have been the original functional significance of our innate sense of beauty of human form” (A. M. Magro, Evolutionary-derived anatomical characteristics and universal attractiveness, pubblicato nella rivista “Perceptual and Motor Skills, 1999, 88, p.147-166. Traduzione mia: “I tratti che sono generalmente condivisi dagli uomini anatomicamente moderni potrebbero essere il modello del nostro senso innato della bellezza…Mantenere separate le specie, e quindi avere eliminato il rischio di una prole sterile, potrebbe essere stato il significato funzionale originale del nostro senso innato della bellezza della forma umana”). J. Diamond, cit., p. 150, ha sostenuto, al contrario, che la bellezza è del tutto regionale. Molti studiosi hanno analizzato i caratteri del corpo umano che più attraggono esteticamente, sulla base delle testimonianze raccolte sistematicamente. L’articolo di D. Singh, Adaptive significance of female Physical attractiveness: role of waist-to-hip ratio, in “Journal of Personality and Social Psycology”, 1993, 65, pp. 293-307, arriva a stabilire su base statistica che agli uomini di tutte le razze e culture piacciono esteticamente le donne con valori fisici medi, né troppo magre, né troppo grasse, e con adeguate curvature. Questo tipo di inchiesta, pur avendo una sua utilità, scambia tuttavia la causa con l’effetto, giacché le preferenze espresse, prima di essere causa di selezione sessuale, sono effetto di un precedente processo selettivo, a cui gli antropologi statistici sono meno interessati. 14 bellezza, che, come il loro, esalta i corpi adatti al lavoro e alla riproduzione, sebbene ad un livello di maggiore perfezione o, meglio, di una perfezione meno specifica, meno regionale. Dobbiamo concludere che il senso estetico relativo ai corpi umani è nato particolare presso ogni popolo, ma sulla base di una matrice comune – capacità lavorativa e sessualità – per diventare progressivamente universale. Il processo di mondializzazione, ancora oggi aperto, ha una storia antichissima, nascendo, come dice Darwin, con gli scambi fra comunità diverse delle donne più belle, ma anche di merci, con la nascita delle prime forme di denaro. È iniziato in questo modo quel processo di universalizzazione del gusto, che non esclude che ancora oggi il senso estetico universale condivida il campo con quello particolare e con quello individuale, seppure con un andamento a favore del primo, così come avviene in tutti gli altri campi, dall’economia al diritto internazionale, dal tempo libero alla democrazia. Ciò che ho detto per i corpi umani vale anche, fatte le dovute differenze, per la natura. b) I filosofi si sono divisi sul problema del bello tra soggettivisti ed oggettivisti (31), anche se questi ultimi non saprebbero individuarlo attraverso un qualsiasi strumento scientifico di rilevamento: solo l’accordo universale nel giudicare bella una data cosa li ha indotti a ritenere la bellezza oggettiva. D’altra parte, il soggettivismo relativistico non spiega, per dirla con una battuta, l’elezione di Miss Universo. Lukàcs - che pure aveva avuto un fertile approccio con il problema - fa nascere il bello con la produzione manifatturiera, non tenendo in alcun conto sia l’economia naturale del raccoglitore e del cacciatore che la riproduzione sessuale. Con queste lacune non ha potuto capire la fonte primaria del senso estetico. L’uomo ha avuto un ben più lungo e consistente rapporto con la natura in quanto tale, quando il ricambio organico avveniva direttamente con il semplice prendere, senza la mediazione della mano trasformatrice, in una prassi pre-artigianale, in cui il rapporto con le stagioni, con gli animali, con i frutti spontanei, con i fiori che li annunciano, era immediato, ovvero quando la natura non si era ancora trasformata in materia prima (32). Il criterio estetico, 31 - All’interno di questa secolare diatriba, tutti presero posizione sulla collocazione ontologica del bello. Ecco come viene sintetizzata la discussione da Tatarkiewcz: “La disputa tra oggettivismo e soggettivismo in estetica è di antica data, come in parte si è già visto. La questione è se il valore estetico sia una proprietà delle cose, oppure se si tratti della reazione dell’uomo alle cose stesse. In altre parole: il giudizio estetico è un giudizio che concerne gli oggetti, oppure ciò che i soggetti provano dinanzi ad essi? Detto concisamente: quando indichiamo una cosa «bella» o «estetica», le attribuiamo una proprietà che possiede effettivamente, oppure che non è in suo possesso ma che noi le conferiamo? Insomma: esistono oggetti belli e oggetti brutti, oppure non esistono, nessun oggetto possiede di per sé queste caratteristiche, tutti sono esteticamente neutri: né belli né brutti, e soltanto noi li rendiamo tali? Quando Platone sostiene che «esistono oggetti belli, che sono tali sempre e di per sé» si pronuncia a favore dell’estetica oggettivistica; quando David Hume scrive che «la bellezza degli oggetti risiede unicamente nella mente di chi li guarda» professa invece la teoria del soggettivismo estetico. Vi sono altre controversie simili, in particolare questa: se un oggetto è bello per uno lo è per tutti, oppure può essere bello per alcuni e brutto per altri? L'oggetto della disputa non è più qui il soggettivismo, bensì il relativismo estetico. Quando Platone sostiene che alcune cose sono belle «di per sé» nega il soggettivismo estetico, quando asserisce che sono belle «sempre» nega il relativismo. Quando Hume aggiunge alla proposizione citata che «ogni intelletto percepisce diversamente la bellezza» unisce soggettivismo e relativismo. La fusione di questi due concetti non è tuttavia indispensabile: la storia dell’estetica conosce soggettivismo senza relativismo e relativismo senza soggettivismo” (W. Tatarkiewicz, Dzieje szesciu pojec, Państwowe Wydawnictwo Naukowe, Warszawa 1976; trad. it., Storia di sei idee, Aesthetica, Palermo 1997, p. 221). 32 - G. Lukàcs, cit., pp. 1-45. Il filosofo ungherese distingue nettamente tra bello (o arte) e piacevole (o utile), rispondendo negativamente al problema ”se possa esistere una bellezza al di fuori dell’arte” (p. 687); ”studiosi di estetica come Fischer fanno opera di vuota pedanteria quando cercano, con pretesa di oggettività, di definire belli o brutti dal punto di vista «estetico» i fenomeni della natura” (p. 746), valendo per essi la regola del de gustibus; il piacevole non si solleva mai oltre la vita particolare di un individuo, mentre le elaborazioni estetiche ”costituiscono sempre un processo di purificazione di quegli elementi che sono esclusivamente radicati nell’individualità personale” (p. 666); per ottenere l’arte ”occorre 15 proprio perché formatosi con i grandi e piccoli eventi favorevoli alla vita dell’uomo sulla terra, ha mantenuto fino ad oggi integralmente il suo statuto originario. c) Abbiamo detto che dietro al gusto estetico deve esservi, come per tutti gli altri gusti, una funzione pratica vitale. Sorprende che lo stesso Darwin non tenti di spiegare evolutivamente il motivo per cui gli umani amino i colori, anche se confessa che deve pur esserci un motivo: “No doubt the perceptive powers of man and the lower animals are so constituted that brilliant colours and certain forms, as well as harmonious and rhythmical sounds, give pleasure and are called beautiful; but why this should be so, we know no more than why certain bodily sensations are agreeable and others disagreeable. It is certainly not true that there is in the mind of man any universal standard of beauty with respect to the human 33 body…The men of each race prefer what they are accustomed to behold” ( ). Mi sembra ragionevole pensare che l’uomo, essendo un animale diurno, ami i colori del giorno, i colori del cielo, del mare, delle piante, della terra, del sole. Per questa stessa ragione non ama i colori della notte, il non colore, il nero, l’insidia notturna, il temporale, la cecità, la morte, l’inferno in quanto sono scuri o tali se li immagina. Della notte l’uomo ama la luna e le stelle, gli unici elementi luminosi percepibili. La sensorialità visiva umana si è selezionata premiando – o comunque avvantaggiando - coloro che sentono immediatamente i colori come elementi di vita. I colori, insieme alle forme, ai suoni, agli odori, sono il modo della realtà di rivelarsi a noi, sia in positivo che in negativo. La frase di Darwin “i sensi…sembrano essere fatti in modo…” è limitata, giacché poggia l’accento sul soggetto della percezione, sulla capacità percettiva e non sulla sua genesi evolutiva, e quindi sul rapporto del soggetto con il contenuto della percezione. Il bambino piccolissimo è già in grado di scegliere tra ciò che è più gradevole per lui e ciò che non lo è. Tutto ciò che è connesso con la sua alimentazione, il suo dormire, il suo benessere in generale è percepito da lui positivamente: colori, odori, suoni, forme e consistenze diventano segnali del mondo che desidera, o, al contrario, del mondo che rifiuta. La sensorialità non rappresenta un’aggiunta esteriore al corpo umano, perché nasce e si sviluppa selettivamente con esso. Un determinato senso umano calato in un animale di un’altra specie non sarebbe in grado di percepire nello stesso modo. Le affermazioni di Darwin sono quindi condivisibili parzialmente. Dobbiamo riconsiderarle alla luce della sua teoria generale, per capire quali siano stati i processi evolutivi che hanno interessato il corpo, la mente e la sensibilità umani, permettendo la nascita del senso del bello. Su questo, il nostro autore ci aiuta assai poco, mancando una trattazione specifica, mentre ci apre una strada fertilissima con la sua teoria generale. d) In questo percorso, possiamo rileggere con interesse alcune parti delle opere di Hume dedicate al problema del bello. L’autore, con la consueta compiere una certa universalizzazione oltre questo livello” (675), che è il livello della tipicità; la natura può diventare bella solo nella trasfigurazione artistica; infatti i fenomeni naturali ”assumono un’oggettività estetica solo in virtù dell’elaborazione poetica” (751). In un errore di impostazione simile a quello di Lukàcs cadono autori come Bradshaw e Arsuaga, che, pur spostando molto indietro nel tempo la nascita del senso estetico umano, non riescono tuttavia a svincolarlo dall’attività artigianale. 33 - C. Darwin, The descent of man, and selection in relation to sex, cit., p. 353-354; trad. it., L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, cit., “I sensi degli uomini e degli animali inferiori sembrano essere fatti in modo che i colori brillanti ed alcune forme così come i suoni armoniosi e ritmici provochino in loro piacere e siano definiti belli; ma perché questo accada non lo sappiamo. Certamente non è vero che nella mente dell’uomo esista una concezione universale di bellezza rispetto al corpo umano…Gli uomini di ogni razza preferiscono quello a cui sono abituati” (p. 616). 16 antimetafisica modernità, collega il bello all’utile, dopo averlo definito soggettivo e, al tempo stesso, universale, seppure con qualche incertezza. Alla sua concezione manca, oltre alla distinzione tra bellezza ed arte, la teoria dell’evoluzione, che nascerà un secolo dopo di lui: “Euclid has fully explained all of the qualities of the circle; but has not, in any position, said a word of its beauty. The reason is evident. The beauty is not a quality of the circle…It is 34 only the effect, which that figure produces upon the mind” ( ). “And where any object has a tendency to produce pleasure in its possessor, it is always regarded as beautiful…Thus, the conveniency of a house, the fertility of a field, the strength of a horse, the capacity, security, swift-sailing of a vessel, form the principal beauty 35 of these several objects.” ( ). Per maggiore completezza, riporto altri passi dell’autore che non sarà difficile ricollegare alle tesi che vado elaborando. “The principal part of personal beauty is an air of health and vigour, and such a 36 construction of members as promises strength and activity” ( ). “That shape which produces strength is beautiful in an animal; and that which is a 37 sign of agility, in another ( ). In La regola del gusto Hume ha raccolto le idee essenziali della sua concezione estetica. Vi ribadisce il radicale soggettivismo: il sentimento che proviamo dipende dalla relazione fra l’oggetto e gli organi della mente. La bellezza quindi non è reale, anche se possiamo empiricamente osservare che alcune cose sono riconosciute universalmente belle. Omero è piaciuto sempre e dovunque. “It appears then, that, admidst all the variety and caprice of taste, there are certain general principles of approbation or blame…same particular forms or qualities…are 38 calculated to please, and others to displease” ( ). Esistono tuttavia due fonti di diversità: “The one is the different humours of particolar men; the other, the particolar manners 39 and opinios of our age and country” ( ). 34 - The Philosophical Works of David Hume, ed. by T.H. Green and T.H. Grose, London 1874-75, An Enquiry Concerning Human Understanding (1748), vol IV, Appendix I, p. 263; trad. it., “Euclide ha spiegato bene tutte le qualità del circolo, ma non ha detto nulla, in nessuna proposizione, della bellezza del circolo. La ragione è chiara: la bellezza non è una qualità del circolo…È soltanto l’effetto prodotto da quella figura sulla mente” (Opere filosofiche di David Hume 2, Ricerche sull’intelletto umano e sui principi della morale, Laterza, Roma, Bari 2008, Appendice I, p. 307). 35 - The Philosophical Works of David Hume, cit, vol II, A Treatise of Human Nature (1739), p. 336; trad. it., “Quando un oggetto ha la tendenza a causare piacere a chi lo possiede, lo si considera sempre come bello…Così la convenienza di una casa, la fertilità di un campo, la forza di un cavallo, la capacità, la sicurezza e la rapidità di navigazione di un battello formano la principale bellezza di questi differenti oggetti” (Opere filosofiche di David Hume 1, cit, Trattato sulla natura umana, p. 609). 36 - Treatise, cit, p. 152; trad. it., “Il lato più importante della bellezza di una persona è l’aria di salute e di vigoria ed una disposizione delle membra che faccia prevedere forza ed attività” (Trattato, cit., p. 382). 37 - Treatise, cit., p. 25; trad. it., “Bella in un animale è la forma che esprime forza fisica; in un altro, quella che è segno della sua agilità” (Trattato, cit., p. 314). 38 - The Philosophical Works of David Hume, cit., The Standard of Taste (1757), vol. III, p. 271; trad. it., “Perciò si vede che, pur entro la varietà e i capricci del gusto, vi sono certi principi generali di approvazione o di biasimo…si può calcolare che certi particolari forme o qualità piaceranno, e che altre dispiaceranno” (La regola del gusto, a cura di G. Preti, Laterza, Bari 1967, p. 34). 39 - The Standard of Taste, cit., p. 280; trad. it., “La prima è costituita dai diversi umori degli individui umani [vecchi e giovani]; l’altra, dai particolari costumi e dalle particolari opinioni del nostro tempo e del nostro paese” (La regola del gusto, cit., p. 46). 17 Questi passi evidenziano la contraddizione nel testo humiano tra universalismo e particolarismo estetico. 18 4 - La bellezza del corpo umano a) Nella storia della scultura e della pittura greca, romana, indiana, cinese, ma anche nella Bibbia e in Omero, approssimativamente negli ultimi tre mila anni, vengono rappresentati uomini e donne – divinità, eroi, guerrieri – con caratteri estetici molto simili tra loro e molto simili anche ai caratteri attuali (40). In sintesi, possiamo ribadire che il gusto estetico è omogeneo per alcune forme essenziali alla vita, anche se i gruppi umani isolati hanno dovuto scegliere e rappresentare il meglio tra ciò che offriva il rispettivo popolo e il rispettivo ambiente naturale, pronti tuttavia ad adeguarsi ad un gusto più generale. L’umanità ha sempre celebrato la bellezza del corpo di uomini e donne, elaborandone un istintivo canone estetico. Anche i filosofi che hanno negato il bello di natura, da Platone ad Hegel, fino a Croce, hanno apprezzato, come tutti, il fascino dei corpi. In funzione del prestigio che proveniva dalla venustà, fin dalla preistoria si è cercato di abbellire il corpo con abiti, cosmetici e ornamenti. La gradevolezza fisica fu utilizzata in vario modo dai popoli, dai sovrani, dalla Chiesa. La statura elevata, come dicevo, fu considerata in tutta l’antichità un elemento indispensabile della bellezza. Fu presto vincente il modello germanico: altezza, capelli biondi, pelle chiara, anche se il viso e, del viso, gli occhi rimasero sempre il nucleo centrale dell’ammirazione. Aristotele scrive a tal proposito: “e se le cariche si distribuissero secondo la statura, come alcuni dicono che avvenga in Etiopia, o secondo la bellezza (ê kata kallos), si avrebbe una oligarchia, perché esiguo è il 41 numero delle persone alte e belle” ( ). La bassa statura fu concepita come un elemento di bruttezza, in particolare per i personaggi politicamente autorevoli: Teodora fu spesso denigrata per questo motivo. Anche la magrezza eccessiva, la calvizie o l’estremo pallore erano percepiti come deformitas. La moderna estetica del corpo, pur condividendo questi punti di vista, insiste maggiormente sulle proporzioni dell’intera figura. L’epicureismo collegò direttamente i volti belli e coloriti - “praeclari vultus pulchrique coloris” (42) – con la stimolazione sessuale e con la riproduzione. Spesso l’aspetto fisico venne assimilato al comportamento morale (43). b) Con l’ominazione l’umanità sviluppò una sensualità erotica più raffinata, basata principalmente sulla vista. Tra i primati antropomorfi invece, come in gran parte del mondo animale, quando le femmine sono in calore, indipendentemente dall’età e dalle fattezze, richiamano per via olfattiva i maschi e si accoppiano con tutti quelli per cui non vi siano divieti di sorta. Se gli scimpanzé eleggessero la loro Miss di bellezza, eleggerebbero quella che emana gli odori più sollecitanti, con maggiore appeal olfattivo, a differenza degli uomini che la scelgono in base a linee, proporzioni, colori. Questo giudizio, valido per tutti i mammiferi, va leggermente mitigato, ma non cambiato, per i primati superiori, che rappresentano il gradino evolutivo a noi più vicino, per il fatto che nella stimolazione sessuale dei maschi di alcune 40 - Non è convincente la tesi di Eco sugli innumerevoli modi del bello e del brutto nel tempo e nello spazio (U. Eco, Storia della bellezza e Storia della bruttezza, Bompiani, Milano rispettivamente del 2004 e del 2007). 41 - Aristotele, Politica, IV, 1290b. 42 - Lucrezio, Rer. nat., IV 1037. 43 - Per queste considerazioni cfr. V. Neri, La bellezza del corpo nella società tardoantica. Rappresentazioni visive e valutazioni estetiche tra cultura classica e cristianesimo, Pàtron editore, Bologna 2004, pp. 65-72. 19 scimmie antropomorfe, a causa di una vista più sviluppata, entra in gioco parzialmente anche la percezione visiva delle tumescenze posteriori delle femmine nel periodo fertile. Si potrebbe riconoscere conclusivamente che la Grande Teoria estetica di origine platonico-pitagorica, incentrata sul concetto di proporzione, sia giusta se riproposta in chiave antimetafisica. Noi oggi infatti possiamo dire che è bello un corpo con determinate proporzioni, sapendo che queste non sono un a priori, ma un a posteriori bio-evolutivo, e che sono diverse per ogni cosa. Se gli uomini avessero un braccio più lungo dell’altro, o molto più forte, non sarebbero egualmente abili e produttivi, per gli ovvi scompensi che la difformità provocherebbe. Una mano umana con il pollice opponibile e con le dita lunghe e forti ci appare più bella di qualsiasi altra mano con il pollice non opponibile o con le dita corte e non in scala. L’armonia e la simmetria è quella della nostra mano quando è pienamente funzionale. Occhi troppo grandi o troppo piccoli, troppo vicini o troppo lontani, svolgerebbero meno bene la loro funzione, se la natura ha selezionato le proporzioni che conosciamo. L’uomo ha imparato dalla vita, da ciò che è necessario alla sua sopravvivenza, a stabilire le simmetrie e le regolarità, e quindi ad apprezzarle e gustarle come belle. La percezione estetica del corpo si è tuttavia sviluppata in modo diverso nell’uomo e nella donna, giacché quest’ultima, per la sua particolare condizione sociale, ha dovuto incrementare – almeno in epoche più recenti - il suo appeal per conquistare un compagno, finendo entrambi per occuparsi principalmente dell’estetica femminile. Si potrebbe dire che se i maschi umani sono prevalentemente un prodotto della natura, le donne sono invece il risultato del lavoro convergente di madre-natura, degli uomini e delle stesse donne, che ha aggiunto un elemento ulteriore alle differenze fisiche tra maschi e femmine umani rispetto a quelle che distinguono alcune specie animali. Mentre infatti tra queste lo stacco risiede interamente nel dimorfismo e negli organi riproduttivi, tra uomini e donne, alle dimensioni corporee e al sesso si devono aggiungere le forme. Gambe, fianchi, glutei, torace sono formalmente uguali negli scimpanzé di entrambi i generi, ma vistosamente diversi nella nostra specie. Non è agevole capire perché l’uomo abbia preferito le rotondità e le morbidezze femminili, tanto da favorirne l’affermazione evolutiva, ma, se in tutto deve esserci una ragione naturale, nessun valore potendo essere a priori, c’è da pensare che fossero arcaici richiami sessuali e quindi più gradevoli nell’accoppiamento, ma anche, come dice Buss, positivi indicatori di salute fisica (44). Su questa base deve essersi costituito il senso estetico maschile delle forme visive femminili, ovvero di specifiche linee e proporzioni. Se la migliore fruibilità sessuale del corpo arrotondato ha prodotto un preciso gusto della vista, questo, a sua volta, dovette incrementare ulteriormente 44 - D. Buss, Evolutionary Psychology: The New Sciente of the Mind, cit., pp. 147-167. L’insistenza sulla selezione sessuale a scapito della selezione naturale indica tuttavia una insufficiente valutazione dei problemi relativi alla sopravvivenza e quindi al lavoro. Sulla priorità del lavoro-produzione sulla riproduzione sessuale, anche se con scarsa circolarità tra i due momenti, insiste invece N. Eldredge in Why we do it. Rethinking sex and the selfish gene, Norton, New York 2004; trad. it., Perché lo facciamo. Il gene egoista e il sesso, Einaudi, Torino 2005. Costa e Corazza credono “nei criteri di bellezza universali” (p. 4), ma preferiscono al binomio bellezza-salute quello bellezza-capacità lavorativa o forza (p. 67) (M. Costa e L. Corazza, Psicologia della bellezza, cit., p. 4). Non mi sembra accettabile che il criterio estetico sia innato. L’universalità si spiega anche senza innatismo. Si ha comunque l’impressione che i teorici della bellezza del corpo umano non distinguano sufficientemente tra la percezione della bellezza attraverso i secoli e il discorso che ogni epoca ne ha fatto – un tempo si sarebbe detto tra coscienza ed autocoscienza del problema. La scultura greca, romana e indiana hanno rappresentato il corpo umano in tutte le loro parti, mostrandone un percepibile complessivo apprezzamento non diverso da quello attuale, al di là di ciò che l’ideologia volta per volta esalta. Vigarello narra l’episodio del giovinetto greco che, vista di spalle la statua della Venere appena esposta ad Atene, cerca di copulare con essa. Ciò dimostra che la percezione della bellezza muliebre non è cambiata nel tempo in modo significativo (G. Vigarello, Histoire de la beauté. Le corps et l’art d’embellir de la Renaissance à nos jours, Éditions du Seuil, Paris 2004; trad.it., Storia della bellezza, Donzelli, Roma 2007). 20 l’affermazione di tale carattere. È legittimo pertanto ipotizzare che con l’ominazione i maschi abbiano perduto in gran parte l’appeal chimico-olfattivo degli altri primati, ma non quello ottico per le tumescenze posteriori, che, anzi, si è rafforzato, indipendentemente dal ciclo riproduttivo, fino a fissarsi in modo stabile (45). Il bipedismo ha indotto sia nell’uomo che nella donna un forte sviluppo muscolare delle gambe fino ai glutei, ma nelle donne vi è stato un rigonfiamento generale – il seno in particolare - che l’ha distinta dal maschio, come non era avvenuto tra i primati antropomorfi (46). L’ipotesi che gli uomini siano stati attratti e quindi abbiano scelto quelle più dotate in tal senso, vale anche nel caso in cui lo sviluppo anatomico sia dipeso da un altro motivo, dal bisogno materno di accumulare riserve di grasso, come alcuni sostengono, giacché l’accumulo poteva avvenire in una infinità di modi diversi. L’uomo, quando e dove ha potuto, ha scelto per attrazione le donne più dotate in quel senso, contribuendo alla produzione di quel loro “capitale” fisico. Ciò che abbiamo detto per le donne vale anche per alcuni caratteri maschili, seppure in misura minore (47). L’umanità, attraverso la selezione sessuale, ha modellato il corpo in forme e proporzioni di suo gradimento. La selezione naturale aveva prodotto uomini e donne ancora grezzi, ma con la capacità, attraverso la scelta, di raffinare il proprio aspetto, di sviluppare i sensi, le abilità manuali e mentali, collaborando alla propria “creazione” (48). L’umanità, quindi, nei lenti processi produttivi e riproduttivi, è andata fissando fisicamente una serie di prototipi estetico-funzionali, che hanno assunto il rango apparente di “forme trascendentali”. c) Le teorie di Morris sono diventate famose, anche se non sempre apprezzate, avendo collegato la nascita di alcune rotondità femminili alla selezione sessuale: “Lo sviluppo del seno femminile di solito viene considerato più come una caratteristica materna che sessuale, ma pare che al riguardo vi siano scarse prove. Gli altri primati forniscono un'abbondante riserva di latte alla loro prole, pur senza sviluppare dei seni turgidi e rotondi, ben delineati. A questo riguardo la femmina della nostra specie è unica fra tutti i primati. Lo sviluppo di seni sporgenti di forma caratteristica sembra che sia un altro esempio di segnalazione sessuale”. “Osservando la zona frontale della femmina della nostra specie, si può forse scorgere qualche formazione che potrebbe imitare l'antica esposizione genitale delle natiche rotonde e delle labia rosse? La risposta appare evidente come lo è il seno femminile. I seni sporgenti e rotondi della femmina certamente sono una copia delle natiche carnose e le labbra 49 nettamente disegnate intorno alla bocca, copie delle labia rosse” ( ). 45 - A proposito dello steatopigismo, Darwin (The descent of man, cit., p. 611) riporta un passo di Burton sui Somali, che pare “scelgano le mogli allineandole in fila ed estraendone quella che sporge di più a tergo. Nulla viene considerato più orribile da un negro della forma contraria”. 46 - Questa è la tesi di R. Ardrey in The hunting hypothesis, Atheneum, N.Y. 1976; trad. it., L’ipotesi del cacciatore, Giuffre, Milano 1986, p. 128, ripresa da D. Morris, The naked ape, Corgi, London 1967; trad. it., La scimmia nuda, Bompiani, Milano 1968, pp. 69-80, contro cui si è scagliata E. Morgan con la sua tesi acquatica in The descent of the woman, Souvenir Press, London 1972; trad. it., L’origine della donna, Einaudi, Torino 1974, capitoli II e III. 47 - D. M. Buss, L’evoluzione del desiderio, cit., p. 68 segg., ha sostenuto che il criterio estetico ha guidato molto più gli uomini che le donne nelle scelte del partner. Si potrebbe dire, “correggendo” l’Antico Testamento, che la donna non è nata da una costola di Adamo, ma dalla sua vista e dal suo tatto. 48 - P. P. Grassé in L’évolution du vivant, A. Michel, Paris 1973; trad. it., L’evoluzione del vivente, Adelphi, Milano 1979, citato da F. Facchini in Il cammino dell’evoluzione umana, Jaca Book, 1994, p. 227, scriveva : “L’uomo, all’inizio della sua storia, ha subito come ogni animale la legge dell’evoluzione biologica, ma, da quando ha messo da parte gli automatismi sclerotizzanti e ha beneficiato delle prime tradizioni, ha attivamente partecipato alla sua evoluzione. Egli è l’unico essere vivente che è stato, con ogni certezza, parzialmente l’artigiano di sé”. 49 - D. Morris, cit., p. 75 il primo passo, p. 80 il secondo. 21 Le scelte maschili avrebbero selettivamente ricreato nella parte anteriore delle femmine umane alcuni di quei caratteri sessuali posteriori delle femmine degli altri primati non più visibili con il nuovo accoppiamento ventrale. Anche autori poco favorevoli alle tesi di Morris hanno riconosciuto un qualche valore all’ipotesi: “In alI probability the evolutionary development of hair reduction, increased skin sensitivity and tactile changes involving skin tension were all associated with increasing the tactile sensations of coitaI body contact especially in the frontaI presentation. Likewise the breasts of young women taken together with other features (limb contour, complexion, and the like) seem to represent the main visuaI sexuaI releasers for the male. While the latter features may have been due to straightforward intersexual selection by ancient males the former features have probably been selected in both sexes for their effect in improving sexual rewards, in inducing sexual love and in maintaining pair bonds. The same is also likely to be true for the presence of orgasm in women and the absence of the more typical mammalian estrus. The functional significance of all these correlated changes is most plausibly seen within the context of the adaptations of seed-eating and of later partially carnivorous 50 protohominids to open country life with associated shifts in social organization” ( ). Se le rotondità del corpo femminile sono riconducibili alle funzioni della riproduzione, diventa comprensibile quel lieve stacco che possiamo notare tra i due modi dell’unica forma della bellezza-attrazione: il primo, riconducibile alle strutture fisiche dell’efficienza, quando il corpo esibisce forza e agilità, e, il secondo, più direttamente collegato alla sessualità, in grado di suscitare una particolare attrazione, non sempre integralmente sovrapponibile al primo. L’attrazione sessuale accetta qualche rotondità in più nelle donne, proprio perché è connessa alla riproduzione, che spesso comporta una crescita dei seni, dei fianchi e, in generale, dell’intero corpo. Inoltre, la gravidanza, l’allattamento e la cura dei piccoli indeboliscono le capacità produttive della donna, ma non l’attrazione. Un corpo atletico è sempre esteticamente gradevole, ma non sempre un corpo sessualmente attraente è del tutto atletico. Anche la mascolinità è collegata a caratteri sessuali primari e secondari, che non necessariamente combaciano integralmente con la bellezza. Nelle civiltà povere, per motivi comprensibili, il canone estetico ha potuto assumere caratteristiche in parte diverse rispetto a quelle collegate alla forza-agilità. Ciò è avvenuto quando il gusto estetico ha premiato la grassezza, che inevitabilmente si oppone alla forza-agilità, da cui in teoria non dovrebbe mai allontanarsi. d) L’estetica positivistica, pur all’interno di una concezione dell’arte come unica sede della bellezza, ha colto alcuni aspetti del bello naturale. 50 - J. H. Croox, Sexual Selection, Dimorphism, and Social Organization in the Primates, in Sexual Selection and the Descent of Man, a cura di B. Campbell, Heinemann, London 1972, p. 254. Per comodità del lettore, riporto una mia traduzione: “Con ogni probabilità lo sviluppo evolutivo della riduzione del pelo, l’aumento della sensibilità cutanea e i cambiamenti tattili legati alla tensione cutanea erano tutti associati all’aumento delle sensazioni tattili del contatto corporeo durante il coito, specie nella presentazione frontale. Analogamente i seni delle giovani, considerati assieme ad altre caratteristiche (contorno delle gambe, colorito e simili), sembrano rappresentare i principali stimoli visivi sessuali per i maschi. Mentre queste ultime caratteristiche [seni, contorno delle gambe, colorito] possono essere state originate da una selezione sessuale diretta da parte dei maschi ancestrali, le prime [diminuzione del pelo e sensibilità cutanea] si sono probabilmente selezionate in ambedue i sessi per la loro efficacia nel migliorare la ricompensa sessuale [nel rendere il sesso più attraente], inducendo l’amore sessuale e mantenendo i legami di coppia. Gli stessi motivi probabilmente valgono anche per la presenza dell’orgasmo nelle donne e per l’assenza dell’estro tipico dei mammiferi. Il significato funzionale di tutte queste modificazioni correlate tra loro è più plausibile se viene visto nel contesto degli adattamenti di protominidi raccoglitori (seed eating), e in seguito parzialmente carnivori, alla vita negli spazi aperti, associati con i cambiamenti dell’organizzazione sociale”. 22 Lalo, infatti, lo considera come un riflesso del bello artistico, ovvero come trasposizione del linguaggio dell’arte nel linguaggio della natura. In tal modo si capovolge impropriamente, secondo la tesi che vado esponendo, il rapporto tra arte e natura, considerando estetica la prima, anestetica la seconda, ovvero né bella né brutta. In realtà, l’autore ritrova il bello di natura, seppure in forma subordinata, allorquando animali ed esseri umani presentano un corpo adatto a svolgere nel migliore dei modi il lavoro che loro compete. In sostanza, per Lalo la bellezza degli esseri viventi non è altro che il carattere tipico di una specie, che risplende quando gli individui esibiscono salute e forza, una valida giovinezza, così come la bellezza degli esseri inanimati non è altro che la loro grandezza e potenza, in assonanza con il sublime kantiano. Nel regno vegetale vengono considerate belle le forme più lussureggianti. La bellezza è nel tipo più normale, più sano, più potente di ciascuna specie, così come il brutto in natura è ciò che si allontana dal tipo normale. Bello quindi è ciò che è utile, che ci rende felici, che ci dà piacere. L’attrazione sessuale viene posta conseguentemente in primo piano nella costituzione del concetto di bellezza relativamente al corpo umano. Il concetto di natura anestetica mi sembra assai fragile all’interno della stessa opera di Lalo, se per interi capitoli non fa altro che spiegarci le caratteristiche della bellezza naturale, la cui provenienza sarebbe del tutto indipendente dall’arte. Risulta pertanto inspiegabile l’attribuzione all’educazione artistica della nascita del senso umano della bellezza naturale, lasciandoci nel dubbio se per lui l’arte ci insegni a percepire il bello di natura o, viceversa, a fondarlo. Io credo che Lalo abbia risolto malamente il problema che la tradizione prevalente ha consegnato a tutti noi, ovvero che esistono due forme di bellezza, quella naturale e quella artistica, tali per cui sarebbe possibile attribuire a due generi così diversi e, a volte, opposti lo stesso predicato. Rendendosi conto dell’assurdità di questa soluzione, poteva escludere una delle due dal genere estetico; non volendo rinunciare alla “sacralità” del bello artistico, ha provato ad escludere quello naturale senza tuttavia riuscirvi, dal momento che dedica la prima metà del libro qui citato a definirne le caratteristiche oggettive (51). e) Riassumendo, bella è soltanto la parte a noi funzionale di ciò che si vede nel mondo naturale. La vista umana capta l’utile selettivo attraverso forme e colori. La gradevolezza degli altri sensi si metamorfosizza in positività visiva, ovvero in bellezza. Questa, relativamente ai corpi umani, si distingue nelle due varianti della forza-agilità e della attrazione sessuale, di ciò che percepiamo come protettivo della vita e di ciò che percepiamo come riproduttivo della stessa vita. La vita umana – ma tutta la vita biologica - ruota intorno al rapporto positivo con la natura, in quanto fornitrice di tutti i mezzi necessari alla 51 - Ch. Lalo, Introduction a l’esthétique, A. Colin, Paris 1912. Cfr. i capitoli secondo e terzo, intitolati rispettivamente La beauté «anesthétique» de la nature e La beauté «pseudo-esthétique» de la nature. Condivide il concetto particolarmente appropriato di J. Schultz in cui si dichiara che il bello in natura è l’essere o la cosa che noi sentiamo come adatta a formare una società felice (p. 93). La prima qualità delle cose belle è di servirci. Lalo cita Taine come principale ispiratore della sua teoria, anche se quest’ultimo non ha mai formulato la tesi di una natura anestetica. È vero che Taine non utilizza mai il concetto di bello relativamente alla natura, ma ripetutamente parla di perfezione dei corpi umani quando si sommano salute, forza, resistenza, atleticità. Non si capisce tuttavia se l’arte sia bella quando rappresenta in una sintesi organica questi caratteri nella loro tipicità, o se anche questi corpi lo siano oggettivamente (H. A. Taine, Philosophie de l’art, 2 Tomes, sixième edition, Hachette, Paris 1893, parte I, p. 296 e parte V, cap. III, pp. 346-363; trad. it., Filosofia dell’arte, Bompiani, Milano 2001, rispettivamente alle pagine 263 e 337-361). Drudi osserva che se la grande opera d’arte deve esprimere, come vogliono Taine e Lalo, i caratteri profondi e universalmente tipici della realtà umana, contribuendo in tal modo alla conservazione e allo sviluppo dell’individuo e della società, risulta impossibile interpretare per questa via l’arte di opposizione, l’arte critica del proprio tempo, come giustamente osserva anche Zola. La posizione di Taine è conservatrice in quanto l’arte non sempre fa convergere bellezza, verità storica e leggi che governano la realtà (D. Drudi (a cura di), H. Taine, Scritti estetici: metodo e dottrina, Alinea, Firenze 1996, pp. 30-43). 23 generazione e rigenerazione degli esseri viventi. Maschio, femmina e natura sono, almeno per i mammiferi, i tre elementi di una correlazione strettissima. I primi due non possono esistere senza il terzo, ma non viceversa. La natura è l’elemento determinante e può esistere da sola, gli esseri viventi sono gli elementi dominanti, pur essendo dipendenti. In questa correlazione è nata la percezione del bello di natura, ovvero il gusto positivo per molti aspetti del pianeta Terra e dell’intero sistema planetario, in quanto rappresentano la condizione di tutte le possibili condizioni di vita, l’ambiente in cui solo possiamo esistere. Basta ricordare a questo proposito gli infiniti attestati letterari di bellezza riferiti al cielo, agli astri, al sole, alla luna, ai cicli stagionali, all’alba, al tramonto e alle loro celebrazioni religiose e mitologiche comuni a tutti i popoli. Questa nostra abitazione è percepita come bellezza estatica, come sublimità, come grandioso dono gratuito. In questi casi, essa diventa semplice affascinante spettacolo di un qualcosa che è in correlazione con noi, da cui noi dipendiamo, ma che non dipende da noi, che precede la nostra esistenza e che continuerà ad esistere dopo di noi. Nel bello naturale vi è pertanto qualcosa di indifferente, di distante, che non comunica con noi, che non ha nulla da dirci. La bellezza dei corpi umani invece è sempre in un rapporto esistenziale di reciprocità, sempre all’interno di uno scambio, almeno possibile, essendo il con-essere originario. Come possiamo cogliere un particolare valore aggiuntivo nella bellezza-forza-agilità e nella bellezzasessualità, così constatiamo la mancanza di questo plusvalore per il bello naturale. La bellezza naturale risente di questa differenza. La percezione estetica dei corpi umani si accompagna infatti con l’attrazione e con la simpatia, la bellezza naturale è senza attrazione e simpatia. Ci può essere esigenza di cibo, di riparo, di sole, ma tutto ciò si verifica senza scambio psicologico. La natura è la base materiale per la vita biologica e per la sua riproduzione, senza essere né viva né riproduttiva. Diversa quindi è la percezione tra ciò che produce direttamente la vita e ciò che ci permette di vivere, ovvero la sua condizione pimaria. La prima è una percezione con emozione, la seconda è senza emozioni. f) Una prova empirica del nesso capacità lavorativa (forza e agilità giovanili), capacità riproduttiva e bellezza si può rintracciare, prendendo in considerazione il ruolo della selezione indotta dalle scelte umane, in particolare di allevatori e coltivatori, consapevoli o meno, su animali e piante. Seguiamo due passi dal primo capitolo dell’Origine delle specie: “The key is man's power of accumulative selection: nature gives successive variations; man adds them up in certain directions useful to him. In this sense he may be said 52 to have made for himself useful breeds” ( ). “But, for our purpose, a form of Selection, which may be called Unconscious, and which results from every one trying to possess and breed from the best individual animals, is 53 more important” ( ). Ciò che Darwin asserisce a proposito della selezione operata dalle scelte degli allevatori può valere anche per la formazione di alcuni gruppi umani, là dove un forte potere imperiale ha potuto razziare intere popolazioni, 52 - C. Darwin, The origin of species by means of natural selection, or the preservation of favoured races in the struggle for life, cit., p. 22; trad it., L’origine delle specie, cit., “La chiave del problema sta nel potere dell’uomo di operare una selezione accumulativa: la natura fornisce variazioni successive, e l’uomo le accumula nelle direzioni che gli sono utili. In questo senso si può dire che egli si è fabbricato le razze che gli sono vantaggiose” (p. 101). 53 - Ivi, p. 25; trad. it., “Ma per noi è molto più importante un altro tipo di selezione, che possiamo chiamare inconscia, e che deriva dal desiderio di ciascuno di possedere e moltiplicare i migliori individui di ogni specie. Così, un uomo che desidera allevare dei cani pointer cerca naturalmente di procurarsi i migliori individui” (p. 104). 24 per avere la migliore manodopera schiavistica ai prezzi più bassi. È questo il caso, tra i tanti, degli africani trasportati a forza nelle Americhe. Abbiamo assistito ad un fenomeno di annientamento dalle proporzioni immani di interi popoli, dovuto al fatto che, per uno schiavo che arrivava a destinazione, un altro moriva durante le retate o durante il viaggio, e che interi villaggi venivano annientati o, direttamente, con le armi o, indirettamente, con la sottrazione alla comunità delle forze produttive e riproduttive migliori. Questa tragedia doveva presentare una inevitabile ripercussione selettiva, con un risvolto estetico, a riprova del nesso tra capacità lavorativa, capacità riproduttiva e bellezza. Gli afro-americani sono in alta percentuale robusti e sessualmente attraenti, ovvero belli, perché i loro antenati furono selezionati in Africa dagli schiavisti per lavorare duramente nelle piantagioni americane. La scelta dei più forti all’origine, la morte durante la traversata dell’Atlantico dei meno resistenti e il duro lavoro nei campi hanno selezionato un gruppo umano fisicamente eccellente. Gli innumerevoli racconti sui giornali e sui libri dell’epoca da parte di osservatori diretti, oltre a creare in noi un senso di disgusto verso una parte dei nostri antenati, ci permettono di capire perché esistono oggi quelle eccezionali strutture fisiche di uomini e donne nei territori delle tre Americhe. “A gruppi di tre o quattro alla volta, gli schiavi, uomini e donne, vengono accuratamente visitati. Una particolare attenzione viene riposta nell’esame dello stato della bocca e degli occhi…Gli schiavi vengono fatti correre, saltare, parlare, muovere braccia e gambe. Proprio come un mercante di cavalli, il capitano cerca di scoprire i sintomi di affezioni come le ulcere, la scabbia, lo scorbuto o il verme solitario. Se lo schiavo non presenta alcuna evidente malformazione, né traccia di malattie, se non troppo vecchio né troppo giovane, 54 viene destinato a far parte di coloro che compivano il terribile viaggio verso le Americhe” ( ). “Il prezzo…dipende sostanzialmente dall’età (uno schiavo di trentacinque anni è già 55 considerato «vecchio»), dalle condizioni di salute, dalla forza fisica, dall’aspetto generale” ( ). Hansen, in un suo romanzo storico, così rappresenta la tratta delle popolazioni africane da parte delle varie compagnie europee: “La domanda si incentrava sui ceppi di razza negroide che vivono tra la savana e la costa meridionale dell’africa occidentale. I proprietari delle piantagioni delle Indie erano disposti a pagare prezzi notevoli soprattutto per i cosiddetti coromanti…I coromanti erano considerati eccezionalmente robusti e coraggiosi, erano grandi lavoratori, e sopportavano i 56 castighi più duri” ( ). g) Vorrei concludere questo capitolo con una considerazione di carattere epistemologico. L’estetica, come tutte le altre discipline, ha proceduto accostando termini tra loro esterni. Hume capisce invece che il piacere provato di fronte ad alcune cose è interessato, in quanto è collegato alle nostre convenienze, stabilendo un relazione tra bellezza e interesse. Tuttavia, per Hume, il nesso estetico che collega noi al mondo non è sostanziale, presentandosi nella forma dell’accidentalità; se non ci fosse, infatti, la vita cambierebbe di poco, in 54 - J. Meyer, Esclaves et négriers, Gallimard, Paris 1986; trad. it., Schiavi e negrieri: la grande tratta, Universale Electa/Gallimard, Torino 1996, p. 48. 55 - Ivi, p. 72. In una pagina precedente, l’autore riportava ciò che Lord Palmerson ha scritto nei suoi racconti sulla tratta: “Una volta raccolti tutti i prigionieri si procedeva a una prima selezione: gli individui robusti dei due sessi e i bambini a partire dai sei sette anni venivano messi da una parte e irreggimentati nella carovana che avrebbe dovuto raggiungere la costa. I bambini al di sotto dei sei anni venivano massacrati. Vecchi e infermi erano abbandonati, il che significava condannarli a morire d’inedia” (p. 53). 56 - T. Hansen, Slavernes Kyst, Gyldendal, Copenaghen 1967; trad.it., La costa degli schiavi, Iperborea, Milano 2005, p. 36. 25 quanto serve solo ad accompagnare le nostre scelte utilitarie con un certo piacere. Io credo, al contrario, che il rapporto tra percezione estetica e natura sia essenziale per la sopravvivenza della specie, che esiste scegliendo e amando ciò che la fa vivere. La sopravvivenza della specie comporta quel desiderio. La sua esistenza coincide, almeno per un aspetto, con la percezione del bello, che non è un attributo esterno all’esistenza umana, in quanto è alla base delle sue scelte vitali. La sensibilità estetica filtra il positivo e il negativo nel nostro rapporto con il mondo e ci permette di scegliere ciò che è necessario per vivere. La teoria dell’evoluzione, considerata nelle sue implicite conseguenze, ci permette di ipotizzare che l’apprezzamento estetico non vada considerato un piacevole accessorio accidentale, di cui sarebbe un peccato fare a meno. 26 5 - Bello artistico o pertinenza? Attraverso alcuni sensi, la mente non è in grado di rappresentare la natura e l’uomo in tutti i loro molteplici aspetti. È possibile tuttavia creare un’arte dei profumi, dei sapori, della tattilità. In questi casi il risultato è tutto interno a quel senso, giacché si possono produrre odori sempre più gradevoli e differenziati, senza avere la possibilità di narrare con essi direttamente la complessità umana e naturale. È alquanto condivisa l’idea che alla produzione artistica che utilizzi questi sensi non si addica il giudizio estetico del bello-brutto. Maggiore resistenza invece si verifica nei confronti delle arti visive ed uditive. La musica nacque da e per l’eccitazione e la commozione degli animi, per disporli alla guerra, alla caccia, all’amore, all’odio. Per questa sua costituzione, i predicati valutativi della musica non possono essere quelli delle forme visive. Un equivalente discorso vale per i prodotti della culinaria e della profumeria (57), ove l’eccellenza o meno si definisce con altri aggettivi. Anche per l’arte della parola (poesia, letteratura) il criterio valutativo non è il bellobrutto, ma la capacità di evocare un mondo particolare, in grado di coinvolgerci e di farci partecipi di emozioni e di valutazioni. Arte quindi è un termine generico, comprensivo di molte sue specie, da quelle delle forme visive a quelle dei suoni, dei sapori, dei profumi, di ciò che si percepisce con il tatto, ciascuna con un codice di giudizio diverso, adatto al suo mondo sensoriale (58). Dei vari organi sensoriali, con l’ovvio sussidio del cervello, alcuni quindi posseggono la capacità di esprimere direttamente la realtà, altri possono esprimerla con metafore, altri non possono esprimere altro che se stessi. Con le immagini visive della pittura o della scultura, l’uomo può narrare direttamente la realtà e la vita in molti dei loro molteplici aspetti. I suoni possono rievocare gran parte del reale, in particolare quando sono parole, ciascuna con un significato specifico e con infinite modulazioni, un vero e proprio linguaggio. Quando il suono è dato dalle note musicali non si presenta come copia immediata di qualcosa, essendo privo di un qualsiasi significato immediato, anche se un complesso di suoni può dare un risultato significante, in grado di esprimere aspetti della natura e dell’uomo. a) Negli ultimi due millenni è stato accettato il seguente sillogismo sofistico: l’estetica è la scienza del bello, l’arte produce oggetti belli, quindi l’estetica deve occuparsi di arte. Se proviamo ad espungere dalle estetiche più accreditate il correlato gratuitamente aggiuntivo della bellezza, vediamo che conservano spesso un qualche valore. I giudizi positivi di Heidegger su Le scarpe di Van Gogh o di Croce sulla poesia di Leopardi hanno un senso indipendentemente dall’apprezzamento estetico, che è sempre un’aggiunta 57 - Si veda a questo proposito il libro di E. Roudnitska, Le parfum, P. U. F., Paris 1980. L’autore vi sostiene validamente che la profumeria è un’arte e che “la critique du parfum ne s’improvise pas plus que celles de la musique, de la peinture, de la littérature” (75). Commette tuttavia l’errore di definirla arte del bello – un beau parfum – accomunandola alle arti visive, pur contraddicendosi con quanto scrive a proposito delle caratteristiche di tale bellezza, che “pour être belle cette forme devra répondre à notre attente de nouveauté et posséder les qualités fondamentales du grand parfum: caractère, vigueur, pouvoir diffusant, délicatesse, clarté, volume, persistance” (76). Tutti aggettivi pertinenti ad altre modalità sensoriali, ma non all’immagine visiva. Arriva a dire, a proposito del profumo, “une beauté jugée par l’odorat” (72). 58 - A. Montagu parla di espressività della pelle in Touching, Harper and Row, N. Y. 1972; trad. it., Il linguaggio della pelle, Vallardi, Milano 1989, ma non arriva a parlare di arte dell’espressione tattile. E. Souriau in La correspondance des arts, Flammarion, Paris 1947; trad. it., La corrispondenza delle arti, Alinea, Firenze 1988, pur accettando l’esistenza di una miriade di espressioni sensoriali, riduce a sette i “qualia” sensibili che presiedono all’arte, escludendo per motivi più pratici che teorici un’arte dei sapori e dei profumi e di molti altri “clan di qualia” (157-160). 27 esteriore ed inessenziale al concetto espresso. L’errore nasce quando il giudizio di validità viene automaticamente associato alla bellezza (59). Il pregiudizio doveva necessariamente “arricchirsi” di una assurda distinzione tra prodotti umani (artistici) che ricadono sotto il giudizio di bellezza e prodotti umani (artigianali o tecnici) che non vi ricadono, come se l’uomo non producesse tutto nello stesso modo, come se fosse in grado di immettere in alcuni suoi prodotti la bellezza e in altri no. La bellezza è stata trattata come una qualità occulta, al pari del calorico o della forza nel Rinascimento, in grado di entrare e uscire dai prodotti umani secondo le magie più strane: basta una piccola correzione all’opera di un artista per farla entrare, nei casi fortunati, nel regno del bello o uscirne, nei casi sfortunati. Oltre alla natura che è fuori di lui, l’artista rappresenta anche le proprie fantasie, gli stati d’animo, la società, le idee, consce o inconsce che siano; sceglie il fatto da narrare in base ad un suo interesse, che non ha alcun rapporto con il bello di natura, e che spesso gli è del tutto opposto: il dolore, l’angoscia, la malattia, la lotta, la morte. Nell’arte conta solo l’abilità dell’artigiano-artista nel riprodurre o nell’inventare qualcosa. Abilità che si rivela e si rileva nella pertinenza (60). In natura una cosa ci appare bella quando è funzionale alla vita, quando soddisfa i nostri bisogni. Nel mondo della rappresentazione artistica, le immagini sono invece positivamente riuscite quando si adeguano perfettamente alla cosa da comunicare, quando la fanno vivere compiutamente, quando sono oggettivanti, positive o negative che risultino per l’uomo. Non sarebbe possibile una discussione sull’arte, quella che l’artista conduce innanzitutto con se stesso, quando lima la sua opera, se alla base della produzione artistica non vi fosse un elemento discutibile non soggettivo, una decifrabilità oggettiva, la pertinenza appunto (61). Questa non esiste in 59 - Applicazione istituzionale di questa concezione è la creazione del Ministero delle “Belle Arti”. 60 - Riprendo questo concetto da G. Della Volpe in Critica del gusto, Feltrinelli, Milano 1960, dalla pagina 102 in avanti. Con il termine pertinenza intendo ciò che l’autore definisce “pregnanza semantica”, “parole oggettivanti”, “rappresentazione obiettiva e vera attraverso la modulazione linguistica”, in cui consiste la teoria della semanticità contestuale organica, che vale per tutte le arti in generale. Magistrale mi sembra l’analisi che l’autore conduce sulle correzioni d’autore, mostrandoci le frequenti limature che molti poeti hanno apportato alle loro opere per ottenere la massima pertinenza: “celeste confine” si trasforma sapientemente in “ultimo orizzonte” nell’Infinito leopardiano, e “lieta e pudica” si sublima in ”lieta e pensosa” in A Silvia. Della Volpe tuttavia non riesce a criticare il concetto di bellezza della tradizione spiritualistica, giacché si ripresenta in lui nelle vesti della rappresentazione semanticamente poetica, né riesce a spiegare la bellezza naturale, in quanto non rientra nei canoni dell’arte. Mi rendo conto del rischio che il termine pertinenza corre in un’epoca in cui nichilisticamente si crede di potere decostruire l’opera d’arte in una serie di significati equivoci, indeterminati, oscillanti (J. Derrida, L’ecriture et la différence, Seuil, Paris 1967; trad. it., La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971), o si approda ad una estetica della ricezione (H. R. Jauss, Estetica della ricezione (1978), Guida, Napoli 1988), per la quale significati e valori di un’opera non esistono per sé, diventando il risultato di un’azione costruttiva, a partire dalle attese e dalle motivazioni dell’epoca del fruitore, secondo l’ispirazione proveniente da J. Mukarovsky (La funzione, la norma e il valore estetici come fatti sociali (1935), Einaudi, Torino 1973), dall’ermeneutica di H.-G. Gadamer (Wahrheit und Methode, Mohr, Tübingen 1960; trad. it., Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983) e da Opera aperta, Einaudi, Torino 1962, di U. Eco, che però distingue opere chiuse da opere aperte, riservando quest’ultimo ruolo essenzialmente all’arte moderna. 61 - Se la parola “casa” perdesse completamente il suo significato oggettivo - quello che troviamo sul dizionario - per disperdersi nelle infinite ricezioni, non sarebbe possibile conversare. Se dico: “vado a casa”, affermo qualcosa di comunicabile, di oggettivo. Al di là di tutto ciò che può essere pensato del mio andare a casa, una cosa è certa ed oggettiva: che io vado a casa. Se così non fosse, che senso avrebbe, ad esempio, la consultazione dell’orario ferroviario? L’orario ferroviario pertinente è quello che informa con esattezza sull’ora di partenza o di arrivo dei treni, sul binario in cui fermano e partono, sulle cuccette, sul vagone ristorante. La pertinenza è indipendente dal nostro stato d’animo e dalla nostra cultura: a me serve per andare contro voglia alla stazione a prendere una persona antipatica, ad un altro per espatriare pieno di timori e speranze, ad un altro ancora per un appuntamento interessante. Il vissuto di ciascuno varia forse la pertinenza dell’orario ferroviario? Fra “il treno per Milano parte alle 17,30 dal binario 4 e “D’in su la vetta della torre antica passero solitario alla campagna vai”, la pertinenza è nella precisione dei due tipi di informazione, di tempo e di spazio, in un caso, di rimpianto per una vita senza affetti (e tanto altro), in un altro. Ma di questo si deve e si può discutere, per decidere se gli autori ci siano riusciti, ciascuno nella sua sfera di realtà. L’analisi della pertinenza si deve e si può 28 natura, nel senso che la natura non può non essere tale, non essendoci un criterio di valutazione superiore per stabilire se un colore, o una forma, potrebbe essere diverso e migliore, giacché manca un termine di paragone. La pertinenza trova invece il suo campo di applicazione in ogni tipo di rappresentazione, in quanto ha una misura fuori di sé, nella natura da riprodurre o nell’intuizione da realizzare, con cui verificare se sia stata oggettivata pienamente quella cosa o quell’idea. La pertinenza è una sorta di corrispondenza tra il progetto dell’artista e ciò che la rappresentazione esprime. Se dall’immagine prodotta non risulta ciò che l’artista intendeva narrare, vuol dire che l’opera è “morta”, giacché la figura non riesce a manifestare ciò che ha nell’animo, come magistralmente sottolinea Leonardo: “Farai le figure in tale atto, il quale sia sufficiente a dimostrare quello che la figura ha 62 nell’animo: altrimenti la tua arte non sarà laudabile…sarà due volte morta…” ( ). Un artista potrebbe tuttavia creare un’opera non congrua rispetto al suo progetto, ma inconsapevolmente adeguata ad un altro non voluto, per una sorta di pertinenza casuale. In questo caso, l’opera potrebbe essere egualmente valida, ma il fatto non deporrebbe a favore dell’autore. In arte non c’è un giudice esterno come nelle scienze della natura, ove il giudizio definitivo è dato dall’esperimento. La pertinenza in arte si comprende nel confronto con la soluzione non-pertinente. La prova risiede nell’evidenza logica – opposta al gusto immediato di Croce – ovvero nella dimostrabilità della validità di una soluzione rispetto ad altre. Quando non ci si riesce, vuol dire che la critica non ha raggiunto un livello soddisfacente (63). Il criterio della pertinenza ci permette di capire il motivo per cui siamo in grado di gustare un’opera del passato, essendo quelle parole, quelle forme, quei colori ancora adeguati rispetto a quel contenuto, anche se oggi non sarebbe possibile rappresentare le gesta di Achille o dei Crociati, proprio in fare sul dato oggettivo e non sul correlato del vissuto, sul tipo di ricezione. Credo che il materialismo debba salvare il vincolo con l’oggettività, altrimenti tutto evapora dietro la cortina fumogena della soggettività. L’unica sostanza risiederebbe nelle parole mentre vengono pronunciate, perché subito dopo diventerebbero oggetto di un nuova ricezione, perdendo qualsiasi originaria configurazione. Tutto sarebbe non solo transeunte, ma anche evanescente dietro il discorso che crea sempre nuovi mondi. Solo a partire da un punto fermo è possibile che ogni singolo e ogni epoca possano fare all’opera domande diverse e trovare risposte difformi. Prima di essere per noi l’opera è in sé. Sarebbe come se la teoria eliocentrica fosse soggetta agli interessi e ai capricci di individui e culture. Lo stesso Eco, in polemica con i soggettivisti assoluti, restringeva di molto il campo dell’arbitrarietà: tra “casa” e “mare” non ci può essere scambio, la prima non potrà mai confondersi con il secondo. Su “A Silvia” potremmo dire una infinità di cose, ma non che Silvia fosse una prostituta, perché sarebbe oggettivamente sbagliato. A cosa serve dire che “pensosa” è più pertinente di “pudica”, ma che probabilmente ciascuno può recepire diversamente il termine pudica. Questo vale per tutto, anche per l’orario ferroviario. Pertinenza e individualismo recettivo sono due problemi diversi e non collidono. Dietro la “moderna” estetica della ricezione c’è il rischio che si cada nel “de gustibus”, perdendo la possibilità di ogni discussione, della comunicazione effettiva, della ragione e del torto, del passare razionalmente da una posizione ad un’altra. Cose che per altro tutti facciamo quotidianamente e che fanno tutti i soggettivisti, in particolare quando cercano di convincere gli altri sulle loro ragioni. Il relativismo di queste teorie tuttavia non riesce a spiegare il motivo per cui alcune opere d’arte hanno acquisito un valore positivo universale, indipendentemente dal modo soggettivo di ricostruirle. 62 - L. da Vinci, Trattato della pittura (1550), Carabba, Lanciano 1947, p. 102. 63 - Eco precisa il suo pensiero in polemica con la deriva della semiosi ermetica, ovvero con il decostruzionismo estremo, sostenendo che sono possibili infinite letture di un testo, ma non qualsiasi lettura, essendovi un limite invalicabile all’interpretazione di ogni testo. Su questa linea ha composto una vera e propria rassegna sull’uso del termine bello/brutto, raccontandone gli infiniti usi, mescolando natura ed arte, senza porsi in una disposizione critica, descrivendoli e accettandoli tutti, senza distinguere tra i migliori e i peggiori, tra gli usi assurdi e quelli possibili, tra chi ha ragione e chi ha torto (Storia della bellezza e Storia della bruttezza, cit.). Io credo che avrebbe tratto conclusioni diverse se avesse parlato della teoria geocentrica o della morale musulmana sulla donna. Né ha discusso gli altri innumerevoli usi scorretti del termine, come quando si dice “una bella passeggiata”. Una posizione simile assume F. Volpi nella relazione Il valore della traduzione esposta nel seminario svoltosi presso la casa editrice Laterza a Roma il 26 marzo del 2009, riprodotto ora sia in Internet che su “la Repubblica” del 7 luglio 2009. 29 quanto il tema non è realmente percepibile, essendo estraneo alla cultura moderna: la scelta di quel contenuto sarebbe artificiale in sé. In una cultura religiosa o militare è sensato dire: “Cantami o diva del pelide Achille l’ira funesta” e noi percepiamo come valida l’invocazione alla divinità e la presentazione di un eroe infuriato decisivo per le sorti di una guerra. Nessuno pretende di utilizzare i parametri della propria epoca per giudicare Omero. In epoca di liberazione della donna e di libertà sessuale, il verso di Dante “Tanto gentile e tanto onesta pare…” dovrebbe apparirci ridicolo, invece lo cogliamo come immagine appropriata alla cultura della poesia cortese del DueTrecento. Una Madonna rinascimentale è valutata positivamente anche da un laico moderno, perché ne percepisce la consonanza con ciò che l’autore voleva esprimere sulla base dei valori del suo tempo e del suo luogo. Siamo anche in grado di capire la validità di una correzione, di un ripensamento di un autore del passato, collocandoci all’interno delle sue problematiche e del suo linguaggio, o di suggerire correzioni ad un’opera a noi estranea attraverso un processo di immedesimazione. b) Poiché il criterio della pertinenza vale per tutto ciò che l’uomo produce, l’arte deve possedere una specificità nell’uso dei suoi mezzi espressivi – parola, colore, marmo, suono – per essere distinguibile da tutti gli altri tipi di produzione. Innanzitutto, l’arte, a differenza della scienza, non deve dimostrare nulla, non deve confrontarsi con la realtà e con l’esperimento probativo. In secondo luogo, l’arte non crea oggetti utili a qualcosa, come invece avviene per l’industria e per l’artigianato. Il prodotto artistico è fine a se stesso, è un semplice racconto, nel senso più ampio del termine, che deve solo essere guardato e vissuto in un atto senza scopo, senza un secondo fine: il motto “l’arte per l’arte” ha questo significato. Come la scienza possiede una sua specificità linguistica, come l’artigianato e l’industria devono rispettare le regole della fruibilità, per non cadere nella sfera della fantasia artistica, così l’arte possiede una lingua assolutamente libera, senza alcun vincolo di sorta. Non dovendo fare i conti con nulla, non dovendo rispettare i confini della natura o dell’utilizzabilità, può coniare infinite sintassi e infinite semantiche, il cui unico limite si trova nella adeguatezza a ciò che volta per volta l’artista intende rappresentare (64). Il suo codice linguistico muta con il mutare dell’oggetto da narrare. Lo scienziato, l’artista, il medico, il magistrato, il poliziotto adottano una diversa forma linguistica, perché il loro oggetto lo richiede. Il termine “donzelletta” sarebbe fuori luogo nelle descrizioni dello scienziato e del burocrate. L’architetto e il rilevatore di mappe non rappresentano le cose come potrebbe fare Raffaello. Per descrivere un piano regolatore o una specifica crisi dell’uomo moderno, Gropius e Schiele hanno bisogno di linee diverse, di “grammatiche” irriducibili l’una all’altra, perché eterogenei sono gli oggetti da rappresentare, con pertinenze proprie ad ogni tipo di discorso. Quando lo scienziato descrive il sistema eliocentrico, narra di esperimenti rigorosi, riducibili ad esatti rapporti spazio-temporali, espressi nel linguaggio della geometria e della matematica, proprio perché l’adeguatezza nel rappresentare una legge di natura si ottiene con un discorso tecnico, ove il 64 - All’interno della produzione artistica, esistono tuttavia alcune differenze. Approssimativamente con le stesse parole e con la stessa sintassi si è scritta l’Iliade, la Divina Commedia, Madame Bovary, Pastorale americana. Contenuti così diversi hanno mutato di poco negli ultimi millenni la struttura della lingua, se escludiamo qualche rara avanguardia. La stessa affermazione non può essere fatta per la storia della pittura, giacché in questa sfera il contenuto nuovo muta il disegno, fino a farlo scomparire, e, almeno in parte, la “sintassi” nell’uso dei colori. La tavolozza però è sempre la stessa, i colori sono rimasti uguali, ma la loro disposizione è profondamente cambiata. Con le stesse parole e con le stesse regole linguistiche si può dire ogni cosa e il suo contrario. Con le regole pittoriche rinascimentali e con quell’uso del colore non si può esprimere ciò che intende narrare un pittore futurista o informale. Raffaello non può raccontare con la sua tecnica pittorica ciò che comunicano i pittori moderni, pur utilizzando gli stessi colori. Nella scultura moderna vi è un ulteriore elemento di differenza, in quanto muta il materiale stesso, “la lingua” con cui si opera. 30 termine “donzelletta” è sostituito dal temine “ricercatrice”. Se invece descriviamo le pene d’amore o, più in generale, i problemi esistenziali, i termini diventano più liberi. È per questo motivo che Jakobson parla di un uso specifico del linguaggio a proposito della poesia, ponendosi sulla linea di Saussure: “Il compito fondamentale della poetica consiste nel rispondere a questa domanda: Che cosa è che fa di un messaggio verbale un’opera d’arte? Poiché questo compito concerne la differenza specifica che contraddistingue l’arte della parola in relazione alle altre arti e 65 specie di comportamenti verbali, la poetica ha diritto al primo posto fra gli studi letterari… ( ). Una lingua quindi possiede molte funzioni (scientifica, emotiva, conativa, ecc.): la poesia utilizza principalmente quella emotiva, subordinatamente le altre. Un attore del teatro di Stanislavsky pronunciava in cinquanta modi diversi l’espressione “questa sera”, mostrando le infinite modulazioni non tecniche della lingua. L’arte e la scienza trattano a volte le stesse tematiche, ma quando la comunicazione pone l’accento su se stessa, sta a significare che è in funzione il linguaggio poetico. Se “bambino” è il tema del messaggio, il poeta si serve di termini come “bimbo, marmocchio, monello”, e, per dichiarare il tema, può scegliere tra “dorme, dormicchia, riposa, sonnecchia”. In poesia quindi si utilizzano parole (nomi e verbi) equivalenti, ma diverse da quelle tecniche (marmocchio invece di bambino, sonnecchia invece di dorme). L’uso poetico del linguaggio è nel modo di selezionare e combinare (secondo specifici moduli) i termini del discorso (66). Lo stesso discorso si può fare per tutti gli altri mezzi espressivi, per le diverse modalità d’uso di suoni, colori e materiali di ogni genere utilizzati dagli artisti (67). c) Uno dei motivi per cui l’arte è stata giudicata con il binomio predicativo bello-brutto risiede nel fatto che alcune sue specie sono costituite 65 - Linguistica e poetica (1958), in R. Jakobson, Essais de linguistique générale, Les Éditions de Minuit, Paris 1963; trad. it., Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano 1985, pp. 181 e 184. 66 - Ivi, pp. 184-191. Un discorso simile compare in C. Morris, Signs, language and behaviour, Braziller, N.Y. 1946; trad. it., Segni, linguaggio e comportamenti, Longanesi, Milano 1949, pp. 261 e seguenti. Il concetto di linguaggio oggettivante potrebbe far pensare a Heidegger, ma non certamente alle pagine di Hölderlin e l’essenza della poesia (1937), ove il linguaggio assurge idealisticamente, almeno a volte, ad una funzione fondante, al compito di creazione dell’essere, di donazione del mondo e della storia, quanto piuttosto a Sentieri interroti (1950), in cui la parola poetica diventa esposizione e registrazione del mondo, rivelazione o sottrazione dell’essere dal suo nascondimento. 67 - Mi sembra parzialmente utile ai fini di un giudizio di pertinenza l’analisi di tipo strutturale, ovvero sapere che tutte le favole rientrano in un numero delimitato di forme, del tipo delle “formazioni organiche”, in cui c’è sempre qualcuno che dà qualcosa a qualcun altro, il re che dà qualcosa al suo prode per.., il nonno dà a…un cavallo per…, lo stregone da a… una barchetta; che in ogni fiaba si ritrovano le stesse funzioni: allontanamento, divieto, infrazione, investigazione, delazione, tranello, connivenza, danneggiamento - rapimento, trafugamento, saccheggio, uccisione, imprigionamento, tormento, guerra - mediazione (V. Ja. Propp, Morfologia Skazki, Leningrad 1928; trad. it., Morfologia della fiaba, Einaudi, Torino 2000, pp. 3 segg.. Tutto ciò serve utilmente a classificare un racconto, non certo a stabilire se è valido o meno. Un’impressione simile si riceve dall’opera di Genette, giacché la decomposizione di un racconto in tutti i suoi aspetti non ci aiuta nel giudizio di valore, anche se deve entrare a farne parte, essendo un elemento di conoscenza. Ogni aspetto di una narrazione “si presta a qualche accostamento, paragone o effetto di prospettiva. Come qualsiasi opera…è costituita di elementi universali, o almeno transindividuali, che riunisce in una sintesi specifica, in una totalità singolare” (G. Genette, Figures III, Editios du Seuil, Paris 1972; trad. it., Figure III, Einaudi, Torino 1976, p. 71). Ma se ogni opera è un insieme irripetibile, come sostiene Genette - può essere utile conoscere le anacronie, le analessi, le prolessi, ma non servono per la valutazione di quell’insieme unico che è sempre l’opera. Il formalismo ci aiuta a capire le pertinenze, nel senso che si muove su di un gradino preliminare della critica, preparandone il terreno. Serve infatti ad anatomizzare un’opera, a classificarne le tipologie, necessario per la critica delle pertinenze. Sapere infatti in che tipo di favola o di romanzo mi trovo è indispensabile per qualsiasi correzione. Per correggere la Stiratrice di Degas è necessario capire bene la poetica, lo stile, i tipi di colore usati, la tecnica pittorica, le tipologie dei personaggi del pittore e dell’epoca, ma non basta. 31 da oggetti visibili, come nella pittura, nella scultura, nell’architettura. Altre forme d’arte non si basano sulla visione, ma su altri sensi o su altre funzioni mentali, come accade alla musica, alla poesia, alla letteratura, alla culinaria. Non è ragionevole pensare di poter giudicare tutte le forme d’arte con un solo termine generico. Come è possibile valutare con lo stesso aggettivo “bello” un corpo umano, un fiore, un tramonto, un quadro cubista, una scultura astratta, una musica, una poesia, un profumo, un cibo? Una prima distinzione va fatta tra prodotti naturali e prodotti umani, che non possono non ricadere sotto predicati diversi. Ai prodotti naturali non può addirsi il criterio del ben eseguito, dell’adeguazione, della perfezione, che invece è adatto ai prodotti umani, potendo avere un termine di paragone nel progetto dell’autore o in altri prodotti eseguiti con più cura, più adeguati allo scopo. Un corpo atletico e un corpo in putrefazione hanno entrambi una ragion d’essere, un motivo per essere quello che sono, anche se a noi piace solo il primo. Un quadro, invece, può rappresentare un corpo disfatto ed essere valido. Ma anche all’interno della produzione umana vi è differenza tra i manufatti prodotti con le mani e la musica o la poesia che manufatti non sono. Un suono, una parola, un disegno presentano una diversità strutturale che non ci permette di trattarli insieme: la colonna categoriale entro cui inserire un suono è diversa da quella che contiene un disegno. Un tramonto sul mare e un disegno di Leonardo non sono equiparabili. Come dicevo sopra, ai prodotti umani può essere adatto un solo termine, necessariamente generico, che riesca a contenere tutte le diversità, ed è il termine “pertinenza”. Esso indica l’adeguatezza ad uno scopo, una corrispondenza tra ciò che l’operatore intendeva fare e ciò che ha fatto, ovvero la riuscita. Un fattore che ha generato notevoli difficoltà all’estetica risiede nel grado di raffinatezza dell’opera prodotta. Perfezione tecnica e pertinenza non coincidono. Un discorso retoricamente ben formato può essere falso; un quadro pittoricamente perfetto può essere banale. Gran parte dell’arte moderna è tornata a tecniche primitive, a tratti grossolani, a manualità approssimative, pur riscuotendo il plauso generale: il primitivismo è stato infatti una delle note dominanti della modernità. Il doppio errore dell’estetica consiste nello scambio tra bellezza e piacevolezza da una parte e tra bellezza e pertinenza dall’altra. Quante volte si sente giudicare un quadro dalla gradevolezza e dalla familiarità della cosa rappresentata? La percezione di gradevolezza dell’oggetto diventa per lo più un immediato giudizio di valore estetico: mi piace, quindi è valido e bello. Dobbiamo imparare a distinguere nettamente nell’opera tra la pertinenza, l’abilità artigiana e la gradevolezza. La stessa opera può essere positiva da un punto di vista, ma non dagli altri e la pretesa di unificarli è vana. Piacere e pertinenza sottostanno a registri valutativi diversi, come sostiene Van Gogh quando afferma che i disegni di coloro che hanno studiato all’École de Rome “sono piuttosto abili e corretti, ma spiacevoli a guardarsi”. La piacevolezza è penetrata nell’abbigliamento, nelle abitazioni, nelle automobili, negli spettacoli televisivi, nelle merci in generale, ovvero proprio là dove molti estetologi collocano la fine dell’arte e, con essa, dell’estetica (68). Va detto con forza che mai il mondo è stato così “bello” come ora, anche se parallelamente sono aumentate le “bruttezze” e i rischi globali. L’arte forse conosce una storia declinante, come riconosce A. Danto (69), ma la crisi dell’arte non va confusa con la crisi dell’estetica, che, al contrario, conosce un andamento crescente, giacché il bello dei corpi umani, ad esempio, aumenta 68 - Francalanci parla con indignazione del trapasso dell’estetico dall’arte alla merce, commettendo il duplice errore di valutare l’arte come la sede primaria del bello e di disdegnare il bello/piacevole nei prodotti industriali. Cita con scandalo la differenza estetica tra una pinza di epoca preindustriale, prodotta nell’indifferenza della forma, e la pinza di epoca industriale ricca di riflessi estetici (p. 11). Era inevitabile la citazione di Baudrillard (E. L. Francalanci, Estetica degli oggetti, il Mulino, Bologna 2006). 69 - A. Danto, The philosophical disenfranchisement of art, Columbia University Press, New York 1986; trad. it., La destituzione filosofica dell’arte, Tema Celeste, Milano 1992. 32 e si diffonde in virtù di una alimentazione migliore, delle cure mediche, del riscaldamento nelle case, dei lavori meno debilitanti, di una vita in generale più accettabile, che interessa una quantità di persone sempre maggiore. Il piacevole entra finalmente anche nelle piccole cose di uso quotidiano. Non è un caso che la gente preferisca passare un pomeriggio nei grandi magazzini anziché nella piazza, perché in quei luoghi è circondata da cose utili e gradevoli, anche se non è sempre in grado di acquistarle. Perché dovrebbe essere un male che il bello-gradevole si diffonda? In questo modo diventa di tutti, si democratizza, perdendo la sua spocchia aristocratico-borghese. Non può quindi essere un male che le merci, oltre ad essere valide, siano anche piacevoli e seducenti. Il problema nasce quando la seduzione comporta un costo ecologico o penosi sacrifici umani. Ma questo non riguarda il nostro argomento. Schematizzando, è possibile dire che l’estetica sia la scienza dell’unico bello esistente, del bello di natura; che la critica d’arte sia la scienza della pertinenza nelle opere d’arte; e, infine, che la critica in generale rappresenti la scienza della pertinenza nelle opere umane in generale, giacché ogni tipo di realtà ha un suo modo di produzione ed è sottoponibile ad una specifica critica. L’arte, essendo libera di rappresentare ciò che vuole, trova nel come il valore essenziale della sua rappresentazione; la scienza invece, dovendo scoprire le leggi di natura, trova il valore essenziale delle sue rappresentazioni nel che cosa, nella corrispondenza tra il discorso e la realtà. Per essere più precisi, la scienza presenta una doppia pertinenza, una principale e l’altra secondaria. La prima si ritrova nella corrispondenza tra discorso e realtà, ed è essenziale, la seconda si ha nella forma del discorso, che potrebbe essere più o meno rigoroso ed esplicativo. In quest’ultimo caso assistiamo alla confluenza in un'unica opera di arte e scienza. Le opere di Galilei, come molti hanno osservato, pur essendo opere di grande scienza, sono ben più artistiche di tante opere nate nella sfera dell’arte vera e propria. d) Per capire l’essenza dell’arte, si deve partire dall’analisi di una particolare procedura artistica: il pentimento in pittura (e in altre arti manifatturiere) e la limatura in letteratura. Il significato dell’insoddisfazione del Beccafumi e del Botticelli per un braccio o per un viso disposti in una posizione anziché in un'altra, o del bisogno di Leopardi di sostituire il termine “pudica” con il termine “pensosa” in A Silvia, ci suggerisce il criterio da utilizzare per ottenere un giudizio critico delle opere. Il senso di imperfezione che quel colore, quella postura, quel termine suscita nell’artista, ci offre un fondamentale strumento valutativo. Se la scena deve suggerire il dolore dei presenti nel momento della deposizione di Gesù, una particolare inclinazione del volto della Madonna è più adeguata di un’altra posizione, incapace di comunicare afflizione, non certo perché il volto eretto di Maria sia più “brutto” del volto reclinato. Lo stesso viso, più o meno inclinato rispetto all’asse verticale non è più o meno “bello”, è semplicemente più o meno adatto ad esprimere il progetto dell’artista nell’atto di rappresentare la pietà e il dolore dei personaggi della scena. Il volto di Maria ben eretto è meno triste dello stesso volto reclinato, proprio in quanto abbandonato, e quindi incapace di fronteggiare un così grande dolore a testa alta. Il termine pudica non è meno bello del termine pensosa, giacché entrambi comunicano un carattere pregnante della personalità di Silvia. L’unica differenza risiede nel fatto che pudica è meno adatto a rappresentare quell’atmosfera premonitrice della morte prematura della giovinetta che avrebbe il diritto di vivere di positive speranze. È soltanto meno adatto in quel contesto, meno significativo. Gli stessi operatori del restauro dell’Opificio delle pietre dure di Firenze, pur essendo dominante nei loro scritti una tecnicità non giudicativa, a volte si lasciano andare a commenti di tipo valutativo. Nel “Compianto su 33 Cristo morto” del Botticelli ci sono due pentimenti significativi. La testa di S. Giovanni nella prima versione era reclinata sulla spalla della Madonna in un moto di compassione; nella versione finale si presenta eretta e più espressiva, creando un equilibrio diverso con la figura che gli sta alle spalle. Gli autori infatti osservano che: “d’altro canto il volto del santo, realizzato più di scorcio [come era prima del pentimento], rinunciava all’espressività evidente nell’attuale versione dipinta”. Una considerazione simile viene espressa nei confronti del pentimento relativa al manto di Maria Maddalena che nella versione finale non copre più il braccio del santo: “Tale aggiustamento risulta nella versione finale come un arretramento complessivo, in una posizione più obliqua, del corpo del santo [S. Giovanni], in modo da accordarsi con la dinamica più spigolosa della raffigurazione di questa figura, centrale nella rappresentazione 70 dal punto di vista formale, ma anche per la forza emotiva espressa dall’immagine” ( ). A proposito della Madonna col bambino del Beccafumi gli autori della ricerca dichiarano che: “L’indagine radiografica…ha rilevato…al di sotto della Madonna col bambino del 71 cataletto [della Misericordia] una precedente versione assai diversa…e più statica ( ). Pur tenendo conto della possibilità che la correzione possa peggiorare l’opera, il più delle volte il pentimento ci fa percepire con grande evidenza il percorso verso una più compiuta forma finale. Bisogna comunque distinguere tra disegni preparatori e ripensamenti nell’opera finita o in esecuzione. Il pittore sceglie uno tra i diversi studi, lo utilizza più o meno fedelmente nell’opera finale, passando per diversi pentimenti sia durante l’esecuzione che dopo averla finita. Le correzioni sono pentimenti, i disegni preparatori (gli studi) sono una vera e propria ricerca dell’immagine che possa esprimere meglio ciò che si desidera dire. Disegni e pentimenti sono il lavoro necessario per scartare ciò che sicuramente non corrisponde agli scopi dell’artista. Degas ha tentato più volte di correggere La stiratrice (La repasseuse) senza riuscire nell’intento, non avendo trovato una posizione soddisfacente per le braccia, di cui rimangono visibili alcuni tentativi di cambiamento. Il dipinto presenta un braccio lungo il corpo, la cui mano si perde sotto il tavolo, evidentemente incongruo con l’atto dello stirare, in cui il braccio libero deve agire di concerto con il braccio che stira. Vi è infatti una traccia evidente del tentativo dell’autore di riportare il braccio sulla tovaglia. Personalmente ritengo che l’errore più grave in questo quadro non stia nel braccio sinistro, pure sbagliato, ma nella posizione e nell’espressione del viso, che guarda banalmente in avanti, quando era essenziale che seguisse a testa bassa il percorso del ferro da stiro, cosa che puntualmente avviene nei successivi quadri sullo stesso tema. Nel 1907 Klimt disegna uno studio per la Danae in modo molto simile ai suoi innumerevoli disegni “pornografici” di donne che si massaggiano il clitoride. La donna è rappresentata con le ginocchie ritratte al petto in modo tale da scoprire il sesso. L’opera pittorica eseguita qualche mese dopo rivela 70 - E. Buzzegoli, C. Castelli, A. Di Lorenzo, Il “compianto su Cristo morto” del Botticelli del Museo Poldi Pezzoli di Milano: note di minimo intervento e indagini diagnostiche non invasive, in Il restauro dei dipinti: interventi e ricerche, a cura di Marco Ciatti, Centro Di, 2007, p. 171. 71 - A. Aldovrandi, N. Bracci, P. Bracco, C. Castelli, O. Ciappi, M. Ciatti, M. Parsi, A. Ramat, A. Santacesaria, Ricerche e interventi su alcuni dipinti di Domenico Beccafumi, in Il restauro dei dipinti: interventi e ricerche, cit., p. 67. 34 un macroscopico pentimento: Danae si presenta in una posizione non più oscena, anche se più conturbante. “Non è funesta la Danae, non è più una tagliatrice di teste, ma, raccolta nell’ellisse del suo corpo raggomitolato, il volto arrossato e deliquescente di piacere, la mano ancora contratta dalla tensione erotica, essa esprime nella sua uterina dolcezza l’essenza femminile 72 dell’estrema potenza” ( ). Nel disegno preparatorio, l’autore rappresenta direttamente la femminilità oscenamente sensuale, nell’opera finale vuole invece rappresentare una diversa femminilità, ove la sensualità sia egualmente intensa, ma raccolta elegantemente nell’ellisse del corpo raggomitolato. Dirimente, sul piano della critica d’arte, sarebbe l’analisi, per rimanere sempre a Klimt, dei ritratti, ad esempio, di Serena Lederer e di Sonia Knips, per confrontarli con i molteplici disegni preparatori – più di dieci per ciascun quadro – al fine di stabilire che tipo di donna abbia voluto rappresentare e se nell’opera pittorica sia migliorato, come io penso, o meno il risultato rispetto al progetto. L’epistolario di Van Gogh è uno strumento assai “pertinente” per un approfondimento del concetto di pertinenza. Ritorna in molte lettere il bisogno assillante del pittore di riuscire ad esprimere una tonalità, un’impressione che ha colto in natura: “Ciò significa che bisogna sacrificare la tecnica allo scopo di dire meglio…ciò che si ha da dire” (73). “Fino a che punto io abbia reso l’effetto nel mio schizzo, io stesso non so…È stato difficile a dipingersi…Mentre dipingevo mi dicevo: non devo andarmene prima che ci sia in esso qualcosa di una serata d’autunno…Vedo che nel mio lavoro c’è in fondo un’eco di quello 74 che mi ha colpito” ( ). “Alcuni colori sono precisi, ma anche se sono precisi non rendono l’effetto che dovrebbero…l’effetto rimane scarso…Quando li guardo [si riferisce ad altri studi], ritrovo 75 l’atmosfera di quella uggiosa giornata di pioggia” ( ). Van Gogh è consapevole che un quadro, pur avendo colto l’essenza di una condizione naturale o umana, possa non piacere, essendo cose diverse pertinenza e piacevolezza, come sottolinea a proposito dei Mangiatori di patate: “Ho cercato di sottolineare come questa gente che mangia patate al lume della lampada, ha zappato la terra con le stesse mani che ora protende nel piatto…Ho voluto rendere l’idea di un modo di vivere che è del tutto diverso dal nostro di gente civile. Quindi non sono per nulla convinto che debba piacere a tutti…[esso] è un vero quadro contadino. So che lo è. Chi preferisce vedere i contadini col vestito della domenica faccia pure come vuole…Un quadro non deve essere necessariamente profumato…bisogna dipingere i 76 contadini come uno di loro, che pensasse e sentisse come loro” ( ). Pertinenza non vuol dire copia della natura, anzi “si perde l’armonia generale dei toni della natura con una imitazione penosamente esatta”, come dice Van Gogh nella stessa lettera. L’artista è insoddisfatto della propria opera quando non riesce a dire ciò che ha nella mente e negli occhi, come confessa al fratello quando afferma che tra le opere che gli ha inviato: 72 - E. di Stefano, Gustav Klimt. L’oro della seduzione, Giunti, Milano 2006, p. 118. 73 - Lettera a Anton van Rappard dell’aprile 1884, in Van Gogh, Classici dell’Arte Rizzoli, Rizzoli, Milano 1966, p. 7. 74 - Ivi, lettera a Theo del settembre 1882, in V. van Gogh, Lettere a Theo sulla pittura, a cura di T. Gianotti, TEA, Milano 1994, p, 35. 75 - Ivi, lettera a Theo dei primi di agosto 1883, p. 49. 76 - Ivi, lettera a Theo del 30-04-1885, p. 78. 35 “c’è una porcheria che ho dipinto…sulla strada piena di sole per Tarascon…e altre ancora, completamente mal riuscite e lasciate a metà”. Ma la testimonianza più significativa, oserei dire, dirimente sulla tesi di questo libro, mi è sembrata quest’altra dichiarazione: “e quelli che credono che la pittura sia una cosa bella farebbero bene a non vederci 77 che uno studio della natura” ( ). Chaim Potok ha espresso attraverso il personaggio di un suo romanzo alcune veloci osservazioni sulla fattura di un’opera pittorica che ci lasciano ammirati e sorpresi, riassumendo in modo esemplare quanto ho detto sulla pertinenza. Riporto alcuni lunghi passi del romanzo, in cui il personaggiopittore Asher Lev manifesta profonda insoddisfazione per il quadro che rappresenta la madre, non per qualche imperfezione tecnica, perché fosse “brutto”, anzi, lo riteneva “un buon quadro”, ma per lo stacco che rilevava tra ciò che avrebbe voluto far emergere di sua madre, di una mater dolorosa, e ciò che era riuscito a dire. Voleva esibire tutto il dolore che la madre aveva sopportato nella vita, la sua quotidiana crocifissione: ma il risultato non era quello, non corrispondeva, non era pertinente: “Poi guardai il dipinto [della madre] a lungo e sentii che era incompleto. Era un buon quadro, ma era incompleto. I pali del telefono erano solo lontani ricordi della brutale realtà di un crocefisso. Il quadro non diceva completamente ciò che avevo voluto dire; non rifletteva completamente l'angoscia e il tormento che avevo voluto metterci. Dentro di me, una voce ammonitrice parlò tacitamente di frode…Avevo portato nel mondo qualcosa di incompleto. Ne sentivo ora l'incompletezza”. Il pittore sceglie allora di rifare il quadro per esprimere compiutamente la condizione della madre e, dopo aver terminato l’opera, dichiara: “Non ricordo quanto tempo mi ci volle a fare quel quadro… Lo guardai e vidi 78 che era un buon quadro” ( ). e) Nella precedente sezione ho cercato di chiarire il concetto di critica d’arte, il modo in cui essa entra nei caratteri più intimi delle opere, come hanno sempre fatto gli stessi artisti o coloro che analizzano un’opera con strumenti raffinati, ricostruendo le varie tappe della produzione, per capire il perché di quello che è stato prodotto e dei cambiamenti durante e dopo l’esecuzione. Quella che correntemente, ma incautamente, si chiama “critica d’arte” non è altro che lo studio delle condizioni entro cui l’opera è stata prodotta e l’analisi della poetica dell’artista in questione. Serve a ricostruire il suo sistema di valori, la 77 - Ivi, lettera a Theo della metà di agosto 1888, p. 134. 78 - Chaim Potok, My name is Asher Lev, Heinemann, London 1972; trad. it., Il mio nome è Asher Lev, Garzanti, 1996 (I edizione, 1991). Riporto un passo che esprime con esattezza ciò che il pittore intendeva esprimere sulla tela: “II tormento e l’angoscia lacerante che sentivo in lei li posi nella sua bocca, nella torsione del capo, nell'inarcamento del corpo esile, nella stretta dei piccoli pugni, nella tensione delle gambe sottili… Dipinsi in fretta, travolto da uno strano impeto di energia. Per tutto il dolore che hai sofferto, mamma. Per tutto il tormento dei tuoi anni passati e futuri, mamma. Per tutta l'angoscia che questa quadro di dolore ti causerà. Per l'inesprimibile mistero che mette al mondo padri e figIi buoni e permette che una madre Ii veda azzannarsi. Per il Padrone dell'Universo il cui mondo di sofferenza io non capisco. Per i sogni di terrore, per le notti d'attesa, per i ricordi di morte, per l'amore che ho per te, per tutte Ie cose che ricordo, per tutte le cose che dovrei ricordare ma che ho dimenticato, per tutte queste cose ho creato questo quadro - io, un ebreo osservante che lavora su una crocefissione perché nella sua tradizione religiosa non esiste alcun modello estetico al quale far risalire un quadro di angoscia e di tormento estremi”. 36 sua filosofia, il contesto in cui operava, le esigenze del mercato, il tipo di committenza. Questo tipo di approccio, pur essenziale, rimane sempre all’esterno dell’opera. La vera critica è quella che entra nel prodotto artistico a partire dalle intenzioni dell’autore, per seguire tutto il processo di produzione, essendo un discorso sulla realizzazione dell’opera. Bisognerebbe quindi distinguere tra storici e critici delle opere d’arte, senza assegnare primati, ma nella consapevolezza che fanno due mestieri diversi. Come su tutto, anche nei confronti dell’arte sono pertanto possibili molteplici approcci, ognuno valido dal suo angolo visuale. Proverò ad elencarne alcuni (79 ): I) Informazioni sulla vita dell’artista (biografia dell’artista): “Max Ernst nasce a…da una famiglia dall’infanzia…nel 1909 consegue il baccellierato…”. della piccola borghesia…Fin II) Descrizione biografica di ciò che precede e contorna la produzione di una singola opera (biografia della singola opera): “Eseguito a Collioure di ritorno dal viaggio in Africa settentrionale, il cui ricordo è presente nelle palme sullo sfondo” [Matisse: Nudo blu]. III) Elencazione delle parti che compongono l’opera presa in esame (discorso descrittivo delle parti). Utile quando dietro l’immagine si nasconde qualche informazione che non abbiamo: “Sulla destra del dipinto compaiono due soggetti cristiani, la Vergine col Bambino e un Cristo crocifisso, a significare una possibilità di redenzione…Nella Caduta dell’angelo Chagall dà libera espressione ai contrasti cromatici, profondi e stridenti. Al rosso delle ali dell’angelo sullo sfondo scuro oppone il giallo vibrante della mucca, vicino al rabbino vestito di viola”. IV) Cenni di poetica sull’opera in questione, ma ancora generici (Poetica generica): “Con quest’opera [Natura morta con tappeto rosso] si può dire che si apra il ciclo delle grandi nature morte, decorative e sontuose...Matisse introduce una tecnica personale che avrà larghi sviluppi ben oltre il periodo fauve”. “Appartengono al medesimo clima anche i Nuotatori [Carlo Carrà] del 1932: anche qui una contenuta monumentalità, un’accentuazione plastica, un fare grande, esatto, lontano dai particolarismi dell’analisi e tale «da reggere senza sforzo al ricordo de La grande Jatte»”. V) Analisi della poetica di cui è parte l’opera in questione e quindi dell’atmosfera culturale in cui è inscritta la personalità artistica dell’autore (Storia dell’arte): “Il primo e maggiore dei movimenti che nasce nel dopoguerra e domina la scena mondiale per più di un decennio è l’informale. Pur tenendo conto di molte scoperte dei movimenti precedenti, dell’espressionismo, addirittura dell’impressionismo (del tardo Monet), dell’astrattismo (col quale però si trova in opposizione) ecc., l’informale cambia e rinnova quasi ogni elemento dell’opera. Reagisce al preponderante formalismo dell’arte precedente...”. VI) Infine, l’analisi interna dell’opera (Critica d’arte). Come esempi, valgano tutti i casi di analisi della pertinenza riportati nelle pagine precedenti a 79 - Non riporto gli usuali riferimenti sulle citazioni che seguiranno a questi sei punti, essendo scelte a caso in un qualsiasi libro d’arte al fine di mostrare le varie tipologie di discorso sull’opera d’arte. 37 proposito di Botticelli, Beccafumi, Degas, Klimt e Leopardi, tenendo conto della distinzione tra critica delle opere classiche e critica delle opere contemporanee, di cui parlerò nel capitolo successivo. Riporto pertanto due brevi testimonianze: “L’opera appare discontinua per una scarsa fusione tra i modi concitati con i quali sono rese la testa e la parte in basso a sinistra, e il fare largo, solido del 80 paesaggio” ( ). “L’abbattimento di ogni consistente finzione architettonica fa sì che la figura perda sviluppo oltre le spalle del giovane, e rimanga tutta proiettata su un piano ravvicinato: questo ne aumenta il senso di contrazione repentina, conseguente sia alla smorfia di dolore che si disegna sul volto, che alla piega del gomito che l’abbondante camicia fa restare oltre il limite della cornice…Ma è un tocco di genialità la sporgenza 81 della spalla, rilevata dalla luce…”( ). Non ci può essere critica d’arte senza cognizioni relative agli altri approcci sommariamente elencati, essendo indispensabili per capire il messaggio dell’autore, per inscriverlo in un contesto, ma i primi cinque punti senza la critica rimarranno inevitabilmente opere di letteratura storica (82). Relativamente ai primi cinque punti, il discorso sull’arte è rimasto formalmente identico rispetto al passato; si continua infatti ad analizzare l’opera alla stessa maniera di prima, si studiano le condizioni generali dell’ambiente in cui è cresciuto l’artista, si descrive la sua poetica, la tecnica operativa, gli elementi comuni ad altri artisti e quelli che lo distinguono da tutti gli altri. Lo storico continua a descrivere essenzialmente la formazione dell’artista e la sua poetica, il suo modo di produrre arte, ma non entra mai nel merito delle singole opere, come si dovrebbe fare per continuare l’attività dell’artista, per approvare o per correggere. In sostanza, lo storico dell’arte si limita a studiare tutto ciò che precede e che ruota intorno alle opere. Questa attività non è cambiata nel passaggio dall’arte classica a quella contemporanea, diversamente dalla critica d’arte che, invece, deve compiere un salto quando passa ad analizzare l’informale – o le altre innumerevoli forme d’arte contemporanea - essendo mutato il modo della pertinenza, che da analitico è diventato sintetico. Il critico d’arte è colui che non assegna crocianamente pagelle di bellezza alle opere, ma colui che sa farsi artista, che ne sa continuare il lavoro, apprezzando le soluzioni o proponendo ipotesi di limature, di correzioni, di pentimenti. È critico colui che, pur non sapendo produrre opere d’arte, capisce come atteggiare diversamente quel viso, come sfumare quel colore, come sostituire quella parola, quel personaggio, quel finale di un romanzo, per rendere pertinente l’opera. Altrimenti è un semplice fruitore (83). 80 - G. Bruno, Boccioni, Rizzoli, Milano 1969, p. 117. Il passo citato è riferito allo Studio N° 1 della testa della signora Busoni. Un breve racconto di Balzac è esemplare per chiarire ciò che intendo per critica d’arte. “Il vecchio e grande pittore Frenhofer - scrive il romanziere francese - analizza in modo impietoso il quadro di una santa di Porbus, dicendo che “ci si accorge che è incollata sul fondo della tela e che non sarebbe possibile girarle intorno…che non saprebbe voltarsi né cambiare posizione. Non c’è stacco fra questo braccio e lo sfondo del quadro…qui, è una donna; là, è una statua; più in là, un cadavere”. Subito dopo, passando a correggere l’opera dell’amico, dice al giovane Poussin: “Vedi come con tre o quattro tocchi e una lieve velatura bluastra, si poteva far circolare l’aria intorno alla testa…guarda come questo drappeggio ora svolazza, e come si capisce che è il vento a sollevarlo!...Osserva come il satinato lucente che ho appena passato sul petto renda bene il senso della spessa morbidezza d’una pelle di fanciulla...” (Honoré de Balzac, Le chef-d’oeuvre inconnu (1831), la si ritrova in La Comédie Humaine, Gallimard, Parigi 1976-81; trad. it. Il capolavoro sconosciuto, Passigli, Antella (Fi) 1995, ristampato tra “I racconti di Repubblica”, p. 17). 81 - Da A. M. Panzera, Caravaggio, Giordano Bruno e l’invisibile natura delle cose, L’Asino d’oro, Roma 2011, p. 95, a proposito di Ragazzo morso da un ramarro del Caravaggio. 82 - Flavio Caroli e Philippe Daverio rappresentano esempi di livello in questa professione di storici. 83 - Divertente e significativa in questo senso, anche se forse non vera, è la scena del film di Forman (Amadeus, 1984), in cui Mozart corregge le note di un brano musicale del sovrano, mostrandogli come 38 Quando non si ha nessuna conoscenza del progetto dell’artista, il critico deve cercare di scovarlo attraverso l’analisi dell’opera per poter parlare di adeguatezza o meno. Non è detto tuttavia che, se non si riesce a capire il progetto, l’opera sia da considerare non-pertinente. La critica si può fare in due modi: partendo dalle intenzioni dichiarate dell’artista o dai suoi disegni o dalle sue prime stesure (i documenti di Van Gogh e di Klimt), o, viceversa, dall’analisi del prodotto artistico per rintracciarne le intenzioni (il Mosè di Freud). Se questa seconda via non dà risultati certi, perché la critica si divide in molteplici interpretazioni contrastanti, vuol dire che l’opera non è pienamente riuscita (84). Le didascalie nelle Mostre ci informano sulla biografia dell’artista, indugiano sui caratteri della scuola di appartenenza dell’autore, sulla sua poetica, ma non ci dicono perché e dove quell’opera è valida o meno. Il curatore non riesce a diventare critico e a lavorare dentro l’opera, girandole sempre intorno: “Gustav Klimt può essere considerato l’artista che portò alle loro più radicali conseguenze quei fenomeni dell’arte del suo tempo comunemente indicati come simbolismo e come pittura dell’art nouveau”; oppure, a proposito di Gauguin: “Un nuovo incontro con il giovane pittore Emile Bernard, che aveva conosciuto l’anno prima, senza prestargli però troppa attenzione, risulta questa volta determinante. Anche lui vuole sfuggire all’impressionismo e cerca di armonizzare la propria arte con le idee della giovane poesia simbolista”. Mille di queste pagine, pure necessarie per entrare nello spirito di un’epoca e di un autore, non ci spiegano se la Danae di Klimt è pertinente o se la coscia, che domina la parte centrale del quadro, sarebbe più adatta se fosse meno robusta e più elegante, o se, così greve come è, esprima meglio la densità erotica che vuole rappresentare. Non è un caso che spesso i veri artisti, parlando di un’opera di un collega, entrino nei contenuti, nelle tecniche operative, come se dovessero eseguirla. Le osservazioni di Van Gogh sulla pittura di Gauguin sono di questo tipo. Il critico che disquisisce genericamente solo di poetiche, di biografie, di atmosfere culturali e di storia dell’epoca, è solo uno storico, se non discute nello specifico il prodotto in questione. Mi rendo conto che questa operazione è, a volte, difficile se non impossibile, quando mancano informazioni dettagliate. In questi casi, sarebbe corretto che il critico denunciasse i limiti oggettivi della sua analisi. Ogni vero sapere ha la sua critica particolare, in grado di entrare concretamente nel merito del tema per ribadire una proposta, una strategia, un’ipotesi, una legge, o, viceversa per contraddirle. La critica politica è tale quando presenta argomenti per avvalorare o per demolire una proposta di legge. La critica scientifica dibatte sulla validità o meno di una ipotesi scientifica. La critica calcistica discute sulla funzionalità di un modulo di gioco nello schieramento dei giocatori in una determinata partita. Non vi è differenza di sostanza tra il critico e gli operatori politici, scientifici o sportivi. L’unica avrebbero dovuto essere, per essere appropriate. 84 - In Il Mosè di Michelangelo Freud non analizza la psiche di Michelangelo per spiegarcene l’arte, ma, al contrario, cerca di capire il tratto psicologico che caratterizza Mosè, al fine di interpretare l’atteggiamento che l’artista intendeva fissare nella statua, per valutare la riuscita o meno dell’opera. Freud rileva una certa difficoltà nel descrivere l’azione umana fissato nel marmo. Cerca di interpretare l’atto che Mosè stava compiendo subito prima di raggiungere la posizione che tutti possiamo contemplare. Discendendo dal monte Sinai, dove ha ricevuto le tavole da Dio, scopre che il suo popolo adora il vitello d’oro. Questo fatto scatena l’ira del profeta. L’interprete deve capire se Mosè è nell’atto di scattare in piedi, rompere le tavole e aggredire il popolo, o se, invece, contro la tradizione biblica, l’autore volesse rappresentarlo nell’atto in cui si trattiene, subito dopo l’impulso vendicativo che lo ha scosso. Freud opta per questa seconda interpretazione, perché solo in questo modo ritiene che sia spiegabile la posizione rilassata della mano rispetto alla barba e del braccio rispetto alle tavole. La conclusione è di estremo interesse per la mia teoria della pertinenza. Freud vi dice che se vi è incertezza e discussione nell’interpretare ciò che Michelangelo volesse rappresentare, allora l’opera non è perfettamente riuscita (S. Freud, Des Moses der Michelangelo, “Imago” 1913, 3 (I), pp. 5-36); trad. it., Il Mosè di Michelangelo, Newton Compton, Roma 1988). 39 differenza risiede nel tipo di operazione che ciascuno svolge: il primo giudica e propone dall’esterno, i secondi operano sul campo. Ma tutti insieme si occupano della stessa cosa: di ciò che si deve fare per realizzare un’opera ben riuscita. 40 6 - La pertinenza nell’arte del Novecento a) Ho l’impressione che all’arte moderna sia capitato ciò che è accaduto all’epistemologia del Novecento, divisa in due scuole principali. Per una, la scienza deve scoprire via via le leggi di natura. Per un’altra, pur variamente divisa al suo interno, la scienza o, meglio, gli scienziati ricreano periodicamente i paradigmi interpretativi della realtà, sulla cui base stabiliscono provvisorie e soggettive leggi di natura. Le varianti emersero essenzialmente, con qualche anticipazione nei decenni precedenti, negli anni Venti e Trenta, in un crescendo tra Neo-empirismo logico, Popper e il secondo Wittgenstein, fino a Feyerabend, Goodman, Gleick. Credo che sia possibile affermare che la rivoluzione relativistica dell’epistemologia corrisponda alla rivoluzione antiformalistica nella sfera dell’arte, in particolare nella pittura. A coloro che innovano senza tagliare i ponti con il passato, alla maniera del cubismo e dell’espressionismo tedesco, si contrappongono coloro che propongono con frequenza assai rapida sempre nuovi modi di fare arte, sempre nuovi paradigmi obbligatoriamente più distanti dal formalismo della tradizione. Come fu possibile immaginare infinite geometrie a partire da fondamenti diversi dello spazio o infiniti possibili paradigmi in logica, così fu possibile ipotizzare nuovi tipi di arte, attraverso cui ogni individuo o gruppo inaugurò un nuovo percorso espressivo. Nella pittura postclassica alcuni hanno continuato fino ad oggi a rappresentare l’uomo e la natura alla vecchia maniera, entro uno spazio inteso come vuoto; alcuni hanno stravolto le figure, collocandole in uno spazio pieno e materiale, corpo tra corpi, a partire da Cézanne (85); altri infine hanno negato integralmente il passato, rifiutando qualsiasi traccia della figura e dello spazio. La prospettiva, la corporeità, l’impressione, il colore, l’espressione, la spazialità sono valori nati dalla logica stessa delle cose e non dalla volontà di gioco di alcuni attori, così come nella storia economico-politica sono nati da una oggettiva dinamica la mondializzazione, il mercato unico, l’antimperialismo, l’eguaglianza tra gli uomini, il punto di vista ecologico. Credo che si possa valutare la nascita delle scuole artistiche alla stessa stregua della nascita delle nuove teorie delle società e della natura: sono valide quelle correnti nate dalle reali dinamiche sociali e scientifiche. Lukàcs aveva tacciato di irrazionalità la concezione borghese della realtà, riservando la razionalità alle scienze della natura e alla teoria proletaria della società, traendone la conseguenza che solo l’arte razional-progressista fosse vera arte. Adorno, pur partendo da premesse simili, arriva ad una conclusione opposta: siccome la società borghese è irrazionale, l’arte deve anch’essa diventare irrazionale per rappresentarla e denunciarla. L’arte delle avanguardie ha seguito Adorno e rifiutato Lukàcs. Il linguaggio artistico ha perduto la comprensibilità universale del passato, assumendo un connotato del tutto privato che ha dovuto ogni volta essere spiegato al pubblico. Una gran parte degli artisti contemporanei ha ritenuto fallita la lingua tradizionale, la semantica e la sintassi degli avi, inventando nuovi mezzi espressivi, uno per ogni corrente e, a volte, uno per ogni artista. Quando il messaggio è arrivato a destinazione, ha mostrato di non essere così irrazionale come taluni pretendevano, Adorno in testa. Era soltanto un sistema segnico disarticolato, non discorsivo, integralmente intuitivo. Dopo l’impressionismo i concetti di bellezza, di forma, di spazio euclideo, di prospettiva entrarono in crisi e tutti i paradigmi dell’arte furono 85 - “Fare l’atmosfera in luogo della figura, significa concepire i corpi non isolati nello spazio, ma come nuclei più o meno compatti di una stessa realtà. Poiché bisogna tenere a mente che le distanze tra un oggetto e l’altro non sono degli spazi vuoti, ma delle continuità di materie di diversa intensità che noi riveliamo con forme e direzioni che non corrispondono alla verità fotografica, né alla fredda realtà analitica, le quali restano esperienze tradizionali” (U. Boccioni, Pittura scultura futuriste, Ed. futuriste di poesia, Milano 1914, citato da G. Bruno (a cura di), Boccioni, Classici dell’arte, Rizzoli, Milano 1969, p. 111). 41 messi in discussione e attaccati duramente. I Dada e il Surrealismo hanno avuto un ruolo rilevante nel processo di dissoluzione che si compie nelle varianti dell’arte informale. Nell’arte classica – riunisco in questo termine tutta la storia dell’arte fino all’espressionismo – si è rappresentata la crisi sociale, il dolore, il presentimento di morte, il peccato, la felicità borghese, la sessualità e le varie sensualità, la bellezza, il vizio, la natura nelle sue tante forme. In una parte dell’arte contemporanea, ci si libera dai contenuti antropomorfici e naturalistici per rappresentare con tutti i materiali possibili la sensazione dello spazio, il libero gioco dei colori, la pura energia, gli effetti materici, senza che a volte sia chiara la strada intrapresa. Il quadro, la scultura, l’assemblaggio di oggetti di vario genere spesso non intendono rappresentare una realtà, ma essere una realtà. Rosemberg, dopo aver coniato il termine “action painting” a proposito delle opere di Pollock, scrive che “bisogna tenere per certo che l’impressione finalmente ottenuta, l’immagine, quale che sia il contenuto, sarà una tensione”. Una tensione, non una rappresentazione di qualcosa (86). Per raggiungere questo scopo, l’arte in molti casi si presenta come esibizione di una azione, la performance (vari tipi di istallazioni, video), o come trasgressione e scandalo, talvolta l’oggetto artistico richiede di essere toccato. Pittura e scultura hanno avuto come contenuti i grandi temi umani, almeno fino a che ha dominato la cultura e la scienza classiche. I contenuti del poema, del dramma, dell’arte sacra e profana – sebbene in una variante aggiornata ai tempi - si ritrovano attualmente nella letteratura e nel cinema, ancora incentrati sull’uomo e sulla natura. La pittura, la scultura e le nuove arti moderne hanno invece gridato a gran voce il rifiuto sprezzante di questi antichi oggetti dell’arte. Esse intendono occuparsi di percezioni, di echi stravolti che l’orecchio, l’occhio, il sesso, la pelle, il sogno, la mente possono provare di fronte al mondo. L’artista deve convertire il reale in una percezione allusiva, filtrando la realtà attraverso un commutatore personale ed esibire questo soggettivo deposito di percezioni, di tensioni, di immaginazioni, in cui l’oggetto, quando c’è, quando non è un puro gioco di colori e di volumi, si nasconde dietro una serie di maschere deformanti. L’arte moderna è tutta in questo gioco del rinvio, dell’allusione, della metafora, dell’accenno, del tratto caratterizzante. Ciò dipende dal fatto che non vuole rappresentare le cose, ma le astrazioni. Burri non intende dipingere una porzione dello spazio empirico, ma la spazialità. Pollock, in una fase della sua vita, per dipingere la liberazione dai valori politici, estetici, morali, utilizzò caotiche scolature di colore. Crea qualche sospetto il fatto che la stragrande maggioranza del pubblico provi a volte imbarazzo di fronte ad alcune opere dell’arte moderna. L’arte, che per millenni ha parlato ai popoli, oggi sembra essersi chiusa entro ristrette cerchie di praticanti, diventando esoterica. b) Come la reazione dello spettatore di fronte ad opere di arte informale è diversa rispetto alla reazione di fronte ad opere di arte classica, così il giudizio critico deve percorrere vie analitiche diverse rispetto alla pertinenza di cui ho trattato in riferimento alla vecchia arte. Lo studio della pertinenza della testa o del braccio della Stiratrice di Degas non serve ad analizzare le scolature di colore di un quadro di Pollock. L’arte informale non risponde alle stesse regole dell’arte formale; la corrispondenza segnosignificato è diversa. Il dolore di una Madonna sul corpo del Cristo morto passa per ogni particolare delle posture di tutte le parti del suo corpo, passa per i colori che non possono essere quelli di una serena Madonna col bambino. Il critico, in questi casi, può discutere ogni particolare significativo, così come può fare per una scultura, per una poesia, per un romanzo di stile classico. 86 - H. Rosenberg, The American Action Painters, “Art News”, dic. 1952, 51/8, p. 22. 42 Non è altrettanto agevole entrare nel merito di una singola macchia di colore nella Composizione VII di Kandisnky (1950) o nella Number 18 di Pollock (1950), o del Concetto spaziale, Venezia d’argento di Fontana (1961), o delle parole di Sanguinetti in Laborintus (dal 1951): sembra che si debba accettare tutto o niente. È come se il rapporto analitico tra segno e significato, tra prodotto ed intenzione, abbia mutato registro. Mentre è comprensibile il progetto rivoluzionario di molte di queste correnti, non è altrettanto comprensibile il modo in cui sia possibile entrare nel merito delle singole parti di un’opera. Non è quindi agevole delimitare il ruolo della critica d’arte nei confronti di una parte della produzione artistica dell’ultimo secolo. La discussione critica tra “pudica” e “pensosa” nel testo leopardiano presenta una precisa razionalità, non è invece altrettanto razionale la discussione sulla lunghezza del taglio su una tela di Fontana o sulla collocazione più a destra o più a sinistra di una serie di puntini in un suo quadro spaziale. La critica perde in questo settore la sua capacità analitica, la sua capacità di entrare nel merito di ogni particolare forma, parola, colore, suono. Con l’arte informale, venendo a mancare il riferimento ad una realtà particolare, con caratteristiche oggettive decifrabili, in quanto indipendenti da noi, si passa ad un giudizio generale di pertinenza non più analitica, ma sintetica. Il giudizio sintetico è possibile tuttavia per una parte delle opere informali, quando emerge un senso di qualche tipo. A volte si rimane sconcertati di fronte all’incomprensibile, quando non riusciamo a capire di che si tratti, quando il nesso tra il quadro e il suo titolo è misterico. Il culmine della difficoltà si raggiunge quando lo stesso autore intitola il quadro “senza titolo” o con un semplice numero. Si ha l’impressione che l’irrazionalismo dadaista non sia finito nel 1923, quando la scuola si è sciolta. Né è facile capire cosa divide nettamente alcuni quadri, anche significativi, di F. Picabia (Edtaonisl, 1913) da altri di J. Dubuffet (Site a l’oiseau, 1974), di J. Pollock (Sentieri ondulati, 1947), di U. Boccioni (Stati d’animo, gli addii, 1911), di R. Delaunay (Le finestre, 1912), di M. Rothko (Untitled red, 1964), di A. Gorky (Acqua del mulino fiorito, 1944), di G. Balla (Velocità d’automobile, luci, rumore, 1913), di M. Larionov (Dominio di rosso, 1911), di A. Soffici (Linee e volumi di una strada, 1912), di W. Kandinsky (Improvvisazione V, 1911), di F. Kupka (Sequenza grigio e oro, 1919), di J. Villon (Ragazzina, 1912), di A. Masson (Il rapimento, 1921) - appartenenti a scuole anche diverse ed opposte - più di quanto un quadro di Picabia (Udnie, 1913) non si distingua da un altro quadro di Picabia (Voilà la femme, 1915). Né dobbiamo sottovalutare il fenomeno del repentino e ripetuto cambiamento di stile e di poetica della maggior parte degli artisti più famosi, primo tra tutti Picasso. Picabia all’inizio del Novecento si ispira all’impressionismo, dopo il 1908 passa al cubismo, ma subito dopo si sposta sull’astrattismo. Dal 1915 è già proto-dadaista, per passare nel 1921 al surrealismo. Nel 1925 torna all’arte figurativa. A cavallo degli anni ‘30-‘40 si occupa di fotografia di nudi femminili, ma conclude la carriera tornando all’astrattismo. È indispensabile comunque fare una netta distinzione tra arte astratta e arte informale, ovvero tra arte che esprime ancora la natura e l’uomo, seppure in modo assai indiretto, e arte che programmaticamente intende rompere qualsiasi riferimento con la realtà per divenire puro gioco di colori e forme. Nel caso dell’arte astratta, la mente dell’artista è una sorta di trasformatore delle percezioni quotidiane, degli input che i sensi ricevono dal mondo, e che riconsegna nell’opera d’arte sotto nuova forma. Come il musicista trasforma la natura e la vita in suoni così il pittore astratto utilizza i colori e le forme attraverso una metafora che conserva il significato delle percezioni ricevute, ovvero attraverso un equivalente figurativo di comportamenti, di esistenzialità, di voci del mondo e della coscienza moderna. Nel caso dell’arte informale, gli artisti inventano un gioco con regole che nulla hanno a che fare con l’esperienza quotidiana, avendo come scopo quello di creare mondi paralleli, 43 alla maniera delle tante geometrie non euclidee, ove l’intuizione perde ogni ruolo. Haftmann ha colto con grande finezza il senso di quel primo tipo di arte che, sebbene astratto, intenda mantenere un legame strettissimo con il mondo oggettivo. Interpretando l’opera di Klee, ci mostra, attraverso l’analisi sintetica di alcuni suoi quadri, questo nesso indissolubile: “Un quadro ad olio del 1929, Strada principale e strade secondarie, ci permette di gettare uno sguardo sui modi di vedere e sentire dell’artista. È un quadro che sembra una antica strana tappezzeria, con strisce e campi sottili, fitti, in cui ogni centimetro è lavorato, picchiettato, cardato come se da una grande lontananza si volesse ricostruire un quadro topografico preciso. Alcune precise linee direzionali attraversano il quadro, strade che si aprono alla nostra vista. E se noi lasciamo che il nostro sguardo segua questi cammini, vediamo che questa sensazione della topografia è restituita attraverso una larga arteria che si va assottigliando, secondo il criterio prospettico, e che attraversa il centro del quadro. L’insieme sembra visto con una prospettiva a volo di uccello, insomma come se si trattasse di una vasta pianura, intelaiata da linee trasversali che suggerisce l’immagine di un paesaggio fluviale, i margini di una larga valle di un antichissimo fiume. Ed è proprio così: si tratta di una immagine sintetica che riproduce il ricordo delle grandi e fertili pianure dell’Egitto”. “Solo nel momento della creazione...in quel lavoro dimentico di se stesso e non volto ad alcunché di oggettivo, l’immagine sprofondata riaffiora, completamente astratta, mai vista 87 in quella forma e tuttavia restituente la totalità di quel paesaggio in una immagine tipica” ( ). Diversa è la poetica di Kandinsky, anche se il riferimento al mondo fuori di noi in qualche modo rimane. Lui stesso scrive che: “La natura e l’arte hanno finalità (e dunque anche mezzi) essenzialmente, organicamente e storicamente diversi”. Il punto di incontro tra l’opera d’arte e la natura non avviene, come in Klee, in una sorta di semplificazione della natura, quanto piuttosto nell’evocazione delle grandi forze cosmiche, nel viverle dall’interno e comunicarle attraverso una semantica inventata dall’artista, che fa coincidere la linea con un elemento di tensione, distinguendo tra linea verticale e linea orizzontale, calda la prima e fredda la seconda. Anche i colori per lui hanno un valore espressivo, tanto che la somma di linee e colori significativi esprimono le forze della natura. Klee narra ancora la natura, Kandinsky le forze che si agitano in essa. Il primo, a suo modo, è ancora pittore “classico”. Tassi scrive a proposito di G. Sutherland: “Il metodo è quello indiretto dell’arte del nostro secolo e nel caso specifico quello di creare «parafrasi emotive della realtà»; cogliere cioè nella realtà l’essenza dei fenomeni e darne figurazioni sorte dal corrispettivo interiore, dar vita cioè a nuove forme che siano simboliche della corrispondenza che si stabilisce emotivamente tra l’essenza delle cose e la 88 profondità dell’uomo” ( ). L’analisi della pertinenza analitica, ad esempio nella pittura figurativa, si basa sulla corrispondenza tra caratteri somatici, da una parte, e caratteri psicologici, esistenziali, sociali, culturali, dall’altra. Il linguaggio del corpo dà origine ad una corrispondenza tra le sue posture e il significato che esse trasmettono. I corpi esprimono sempre qualcosa, hanno sempre un messaggio da rappresentare. Come una persona che finga di provare dolore o sdegno e non riesca ad adeguare perfettamente i suoi atteggiamenti a ciò che vorrebbe esprimere, così l’artista fallisce quando non riesce ad adeguare la cosa rappresentata all’intenzione, al progetto, all’invenzione, quando non finge alla perfezione: grande attore è colui che sa fingere, che sa replicare una condizione umana, che non ci fa percepire la finzione. La pertinenza analitica è una sorta di adequatio intellectus et rei, che si ottiene quando la 87 - W. Haftmann, Paul Klee, Prestel, München 1950; trad. it., P. Klee, Fabbri Editore, Milano 1966. 88 - R. Tassi, Dal surrealismo alle correnti più recenti, Fabbri Editore, Milano 1966. 44 rappresentazione riesce a cogliere un aspetto oggettivo della realtà. La pertinenza nella critica d’arte deve analizzare l’adequatio tra il pensiero dell’artista (il progetto) e il manufatto realizzato, per verificare se la finzione è riuscita, se il gioco non è scoperto. Nell’arte moderna l’adequatio non è più diretta – o analitica - perché si cela dietro qualche forma simbolica della realtà, che riesce ad esprimere le cose solo nell’impressione generale - o sintetica - che suscita in noi. Sarebbe utile per lo spettatore che l’autore comunicasse al pubblico ciò che aveva inteso rappresentare: in questo modo crescerebbe la possibilità per un più ampio pubblico di formarsi un giudizio ragionato, che non si limitasse all’impressione immediata “mi piace - non mi piace”. Diversa è la pertinenza rispetto alla musica anche classica, essendo quest’ultima più simile alle arti informali che a quelle tradizionali se escludiamo alcune regole generali sulla struttura della composizione. 45 7 - Il “brutto” artistico a) Il piacere per il bello di natura e il fascino che suscita in noi l’opera d’arte appartengono a generi diversi. Le donne rappresentate nella Primavera di Botticelli sono belle e brutti i volti delle Demoiselles d’Avignon, senza che questo giudizio riguardi minimamente il valore delle opere. Le donne botticelliane sono belle, così come le donne di Picasso o di de Kooning sono brutte, in modo del tutto irrilevante in una valutazione artistica, che deve capire la pertinenza o meno tra quella rappresentazione e i valori-disvalori che l’autore voleva esprimere. Nelle arti visive quindi il criterio giudicativo bello-brutto segnala un approccio ingenuo, o, nel migliore dei casi, l’uso di un traslato per indicare la validità artistica di un’opera. Lo scarto tra arte e bellezza è stato colto più volte nei secoli passati. Fiedler ha sostenuto che l’arte possiede un valore superiore a quello della bellezza, riposto nel contenuto conoscitivo di ogni rappresentazione con cui l’artista organizza il materiale sensibile. La bellezza per Fiedler rappresenta una forma secondaria del giudizio in generale, perché soggettiva ed arbitraria, in quanto sempre relativa a fenomeni sensoriali e mai a quelli intellettivi che prescindono dalle emozioni. Riconosce che occasionalmente la bellezza possa mescolarsi con l’arte, ma solo nei grandi artisti meridionali, come Leonardo e Raffaello, non in quelli nordici, come Dûrer e Rembrandt, che avrebbero rifiutato di sedurre i sensi, di rappresentare ciò che naturalmente attrae (89). L’artista – a parer mio - vuole semplicemente esprimere attraverso il suo linguaggio di forme e colori un’emozione, un fenomeno sociale, un oggetto naturale. Dire che un’opera d’arte è bella, trascurando il senso primario del dato rappresentato, è parziale ed ingenuo. Nell’arte bisogna cercare l’abilità con cui l’artista ha espresso un concetto-emozione, giacché spesso rappresenta il negativo, la morte, la sofferenza, la guerra. Omero non ci risparmia le scene di disgusto, né queste mancano nella pittura e nella scultura greco-romane, quando raccontano le battaglie e le glorie dei vincitori, o nel medievale ciclo della passione di Cristo (90). Nell’arte moderna, d’altra parte, si percepisce immediatamente che il fine non è il bello. Breugel e Bosch non volevano certamente deliziarci con le loro orride immagini. Né lo volevano Rouault (Studio di odalisca, 1905; Allo specchio, 1905) o Soutine (La donna in rosso, 1922; Maria Lani, 1929). Schiele suscita spesso disgusto 89 - È importante recuperare il nucleo razionale del pensiero idealistico di Fiedler sulla scissione tra i concetti di arte e di bellezza – per altro non definita - e sull’arte come prodotto non di fantasia e sentimento ma di intelletto, anche se non condivido le sue idee sull’arbitrarietà del gusto estetico e dell’universalità del canone artistico (K. Fiedler, Aphorismen, R. Piper, München 1914; trad. it., Aforismi sull’arte, TEA, Milano 1994, antologia di suoi scritti degli ultimi decenni dell’Ottocento). 90 - Lessing pensava ancora nel Settecento che le arti visive non potessero rappresentare il brutto, perché l’opera sarebbe diventata inguardabile. Solo la poesia può rappresentare il brutto, avendo a che fare con l’immaginazione del lettore. La scultura del Laocoonte non spalanca la bocca nell’urlo estremo di dolore per non creare un buco osceno sul volto. Virgilio invece può permettersi di dire nell’Eneide che Laocoonte: “clamores horrendos ad sidera tollit”, perché l’immaginazione del lettore non conserva a lungo l’immagine negativa della bocca spalancata (G. E. Lessing, Laokoon: oder über die Grenzen der Mahlerey und Poesie, Ester Teil, 1766; ripublicato in Sämtliche Werke. De Gruyter, Berlin, New York 1979, vol. XIII, da cui è tratta la traduzione italiana Laocoonte, ovvero dei confini della pittura e della poesia, Aesthetica, Palermo 2000). Tuttavia, già alla fine del secolo, nel 1797, Schlegel in modo rivoluzionario scriveva che “Come la natura, Shakespeare genera il bello e il brutto senza separarli e con la medesima esuberante ricchezza; nessuno dei suoi drammi è interamente bello e mai la bellezza è il criterio che determina la struttura dell’insieme” (F. Schlegel, Über das Studium der Griechischem Poesie, Hofbuchhändler Michaelis, Neustrelitz 1797; trad. it., Sullo studio della poesia greca, Guida, Napoli 1988, p. 88; la traduzione italiana è condotta sulla Kritische Friedrich-Schlegel-Ausgabe, E. Behler, München-Paderborn-Wien 1958, Band I, Studien des klassichen Altertums, 1979). Schlegel attribuisce all’arte greca classica, e in particolare alla tragedia di Sofocle, il perseguimento della perfezione, ove il brutto in tutte le sue forme è stato escluso, al contrario dell’arte moderna, che proprio nelle sue espressioni più alte, in Shakespeare, non può non includerlo. Lo impone la conflittualità del presente - così contrastante con l’armonia della Grecia classica - che ha consentito di aprire la via ad una nuova estetica. 46 con le sue opere, ma è grande proprio per questo, perché riesce pienamente a rappresentare una umanità in crisi. L’Espressionismo e il Cubismo dipingevano volutamente figure sgradevoli per esprimere la loro visione del mondo. L’arte trash della fine del Novecento – Funk Art, Arte abietta, Wiener Aktionismus – rappresenta tutto ciò che si trova sotto la pelle, nelle viscere, come la saliva, la merda, lo sperma. L’uomo sottocutaneo di Friedrich Nietzsche e il gusto per il disgusto di Georges Bataille sono i punti di riferimento di queste forme di arte insieme con il risentimento di Ferdinand Celine nei confronti delle élite, degli intellettuali e del loro mondo simbolico. I limiti del concetto di bello sono evidenti in questo passo di Tatarkiewicz: “Nel nostro secolo invece, tutto è cambiato. Se nell'Ottocento erano state poste le premesse della negazione dell’estetica del bello, nel Novecento sono state tratte le conclusioni, sia da parte degli artisti che dei teorici. Vale a dire: il concetto di bello è talmente impreciso che non è possibile formularne una teoria. Inoltre la bellezza non è una qualità così pregevole come s'era ritenuto per secoli. Non è neppure il fine precipuo dell'arte. Se un'opera d'arte scuote, colpisce fortemente il fruitore, ciò è più importante dell'incantarlo con la sua bellezza. Ma la commozione non si ottiene soltanto con la bellezza, anche tramite la bruttezza. «Oggi amiamo la bruttezza tanto quanto la bellezza», scriveva Apollinaire. Sorsero dubbi se fosse provato, come era stato universalmente ritenuto sin dal Rinascimento, il legame dell'arte con il bello. Le conseguenze furono tratte da Herbert Read: non occorre vincolare l'arte al bello «l'identificazione di arte e bello sta alla radice di tutte le nostre difficoltà nella valutazione della prima: questo non si ripeterà mai troppo spesso, né troppo 91 forte»” ( ). L’arte si esprime attraverso linguaggi particolari – fatti di linee, di colori, di marmo, di suoni, di parole - in grado di esprimere alcuni aspetti della natura e della vita dell’uomo. Il giudizio critico consiste nello stabilire se l’artista sia riuscito o meno in questo tentativo. L’estetica, avendo identificato arte e bellezza, è stata costretta ad espungere il brutto dalla sfera dell’arte. Nell’ultimo secolo tuttavia abbiamo assistito ad una sorta di vendetta del brutto, polarizzandosi il dibattito nel modo seguente: 1) il brutto non esiste nell’arte, perché questa lo esclude o perché trasforma in bello tutto ciò che tocca, compreso il brutto; 2) anche il brutto possiede una sua positività estetica, tanto che si può parlare di una bellezza del brutto, oltre e accanto ad una bellezza del bello (92). La prima risposta elimina uno dei due poli dialettici, pretendendo di escludere il brutto dall’arte, la seconda li comprende entrambi, come in una duplice esteticità, quella del bello e quella del brutto, così da avere un bello bello e un bello brutto. Entrambe tuttavia non possono evitare di presentarsi nella forma del paradosso, la prima, in quanto sostiene che anche ciò che riteniamo esteticamente negativo nella natura e nella vita (morte, malattia, oscenità, dolore, violenza, perversione) diventi positivo nella trasfigurazione artistica, essendo riassorbito dal bello; la seconda, in quanto 91 - W. Tatarkiewicz, cit., p. 169. 92 - Bodei distingue cinque possibili rapporti tra bello e brutto, variamente teorizzati dalla filosofia a partire da Platone (R. Bodei, Le logiche del brutto, in “Aesthetica, pre-print”, n° 10, dicembre 1985, pp. 5-15; questo numero della rivista ha per titolo La disarmonia prestabilita, tratto dal seminario promosso dal Centro internazionale studi di estetica, Palermo, 26-27 ottobre 1984, in occasione dell'edizione italiana dell'Ästetik des Hässlichen di Karl Rosenkranz (Verlag der Gebrüder Bornträger, Königsberg 1853); trad. it., Estetica del Brutto, Aesthetica edizioni, Palermo, 1994, prima ed. 1984). L’autore torna in un'altra opera sul concetto, elencando sette varianti del nesso concettuale bello-brutto (Le forme del bello, il Mulino, Bologna 1995, p. 122). Si ha tuttavia l’impressione - confermata da questo passo del testo: “si è, in altri termini, rimasti sempre entro una medesima logica generale” - che il concetto effettivo sia uno solo, quello di un’arte in cui il bello riesce sempre a trasfigurare il brutto, anche quando, dopo i greci, si è accettato di rappresentare ciò che è sgradevole e male nelle realtà. Tutta la discussione comunque rimane all’interno del concetto di bello artistico, nell’ennesima identificazione di arte e bellezza, nel rifiuto o nell’oblio del bello di natura, secondo la resistente tradizione che vede Hegel tra i suoi fondatori. 47 parla di una positività estetica del brutto, come se questo potesse avere una sua autonomia estetica, un suo diverso e indipendente fascino. Il primo paradosso è antico quanto la cultura occidentale, comparendo già nella Poetica di Aristotele, là dove si legge del diletto che suscitano le imitazioni: “Sembra, in generale, che la poesia tragga origine da due cause, ambedue naturali: l’istinto dell’imitazione…e il piacere (to chairein) che tutti traggono dai prodotti dell’imitazione. Prova ne è quanto accade di fronte alle opere [d’arte]: le immagini particolarmente precise di oggetti che, in sé, vediamo con fastidio, ci dilettiamo a contemplarle (chairomen theôrountes), 93 come nel caso di figure di bestie immonde e di cadaveri” ( ). Aristotele tuttavia non dice che l’arte trasforma il brutto in bello, ma solo che suscita in noi piacere nel vederlo ben rappresentato. La rappresentazione, quando è pertinente, suscita piacere, anche se il contenuto dell’opera è repellente. Credo che Aristotele avrebbe dovuto dire che l’opera ben eseguita susciti ammirazione, ma non piacere, perché il dispiacere, nell’esempio utilizzato, al contrario, aumenta. Kant va più in là, scrivendo che: “L’arte bella mostra la sua preminenza in questo, che può rendere belle quelle cose che in natura sono brutte o spiacevoli. Le furie, le malattie, le devastazioni della guerra, e simili, possono essere molto bellamente descritte come cose dannose, ed essere anche 94 rappresentate nei quadri” ( ). Una posizione molto simile assume De Sanctis, quando, a proposito della Divina Commedia, dichiara che: “L’inferno è il regno del male, la morte dell’anima e il dominio della carne, il caos: esteticamente è il brutto. “Dicesi che il brutto non sia materia d’arte e che l’arte sia rappresentazione del bello. Ma è arte tutto ciò che vive, e niente è nella natura che non possa essere nell’arte. Non è arte quello solo che ha forma difettiva o in sé contraddittoria, cioè l’informe...non è arte il confuso, l’incoerente...L’altro, “bello” o “brutto” che si chiami in natura, esteticamente è sempre bello” 95 ( ). Su queste basi, il nostro letterato può dire che “Mefistofele è più interessante di Fausto, e l’Inferno è più poetico del Paradiso” (96). Il secondo paradosso emerge con chiarezza nelle pagine di Praz dedicate alla bellezza della Medusa, vera specificità del romanticismo: “Il volto livido del capo tronco, il groviglio di vipere, il rigore della morte, la sinistra luce, gli animali schifosi, il ramarro e il pipistrello - sgorga un nuovo senso di bellezza insidiata e contaminata, un brivido nuovo...Pei romantici la bellezza riceve risalto proprio da quelle cose che sembrano contraddirla: dalle cose orride; è bellezza tanto più gustata quanto più triste e dolente...La scoperta dell’orrore come fonte di diletto e di bellezza finì per reagire sul concetto stesso della bellezza: l’orrido...finì per diventare uno degli elementi propri del 97 bello” ( ). 93 - Aristotele, La poetica, Mondadori, Milano 1999, p. 1448b (la traduzione segue il testo curato da R. Kassel, Aristotelis de arte poetica liber, E. Typographeo Clarendoniano, Oxford 1965). 94 - E. Kant, Kritik der Urtheilskraft, Lagarde, Berlino 1790; trad. it., Critica del giudizio, Laterza, Bari 1949, p. 172. 95 - F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Sonzogno, Milano 1950, p. 40. 96 - Ivi, p. 41. 97 - M. Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Sansoni, Firenze 1976, pp. 1921. 48 Quella di Adorno sembra una terza via, in quanto include nell’arte il brutto, non alla maniera di Kant e di De Sanctis, come dura realtà da metamorfosare artisticamente, come il negativo interno al positivo, né alla maniera romantica di Praz, di una sublime bellezza dell’orrido, ma come ciò che rappresenta senza orpelli i punti di crisi della società industriale, direttamente come bruttezza, come oscena denuncia della crudeltà sociale, come arte brutta. Il brutto entra nell’arte per denunciare il mondo, per liberare l’uomo, per accusare il dominio: “…e rende testimonianza per ciò che da quel dominio è rimosso e rinnegato...Possenti valori sociali vengono messi in libertà dal socialmente brutto”…“Ma il fatto che l’arte abbia la forza di racchiudere in sé ciò che le è contrario [il brutto] senza recedere neanche un pò dal proprio anelito e anzi trasformi quell’anelito in una forza di tal genere, è cosa che affratella il momento del brutto alla spiritualizzazione artistica”… “Nelle nuove opere d’arte la crudeltà alza la testa senza più nascondersi; in tal modo essa afferma la verità, ciò che davanti al prepotere della realtà l’arte non può più avere a priori la fiducia di riuscire a trasformare il terribile in forma [in bellezza]. La crudeltà fa parte del ripiegamento critico dell’arte su se stessa; essa dispera di quella pretesa al potere che viene invece tradotta in realtà da un’arte conciliata. La crudeltà esce nuda dalle opere d’arte non appena la 98 loro signoria è scossa” ( ). Pur dichiarando di ripartire da Adorno, Scaramuzza interpreta il brutto come Praz, assegnandogli una sorta di autonomia estetica contrapposta a quella del bello, come se esistesse una bellezza del brutto. Su queste basi egli apprezza l’estetica di Rosenkranz, che tuttavia, come osserva Stella (99), oscilla, insieme a tutti gli altri, compreso Adorno, tra una autonoma esteticità del brutto e un suo superamento entro il bello artistico. Non è facile mettere insieme passi di questo tipo: “Il brutto non può essere inteso che come termine medio tra il bello e il comico. Il comico è impossibile senza un ingrediente di bruttezza, che esso piega e risolve nella libertà del bello...Estetica del brutto suonerà a qualcuno come “ferro ligneo”, perché il brutto è il contrario del bello. Solo che il brutto è inseparabile dal concetto di bello: quest’ultimo lo contiene costantemente...Il bello è la condizione positiva della sua esistenza [prima tesi] e il comico è la forma in cui esso, al cospetto del bello, torna a liberarsi del suo carattere solo 100 negativo” [seconda tesi] ( ). Anche Adorno, come dicevo, che è il più radicale negazionista dell’estetica (del bello) nell’arte moderna, non evita l’ambiguità: “L’identificazione dell’arte col bello è insufficiente…Assorbendo il brutto, il concetto di bellezza è intrinsecamente mutato senza che tuttavia l’estetica possa farne a meno. Quando assorbe il brutto, la bellezza ha la forza sufficiente per ampliarsi attraverso ciò che la 101 contraddice” ( ) Coloro che non hanno saputo riservare il valore bello-brutto ai soli fenomeni naturali oscillano ambiguamente tra i due paradossi sopra citati: ad affermazioni sull’esteticità autonoma del brutto corrispondono passi sulla sua negatività superata nel bello. Insomma, per tutti costoro il brutto è contraddittoriamente indipendente e dipendente dal bello, è e non è bello. Tutto ciò non è una sana contraddizione dialettica, ma una banale contraddizione logica. 98 - T. Adorno, Ästhetische Theorie, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1970; trad. it., Teoria estetica, Einaudi, Torino 1975. I tre passi sono rispettivamente alle pagine 71, 72, 73. 99 - V. Stella, Estetica del bello ed estetica del brutto, in AAVV, La disarmonia prestabilita, cit.. 100 - Questi passi di Rosenkranz si trovano in G. Scaramuzza, Il brutto nell’arte, Il Tripode, Napoli 1995, alle pagine 131, 133, 135. 101 - T. Adorno, Teoria estetica, cit., Paralipomeni, p. 387. 49 Nella realtà naturale, il bello e il brutto posseggono una loro autonomia, pur all’interno di un rapporto di reciprocità. È pertanto possibile che il brutto si presenti nella sua indipendenza, anche se la sua percezione e il suo concetto non possono prescindere dal presentarsi come il non-bello, come un relativo. Non si riesce infine a capire perché il bello dovrebbe essere l’unico in grado di riassorbire il brutto in sé e non il contrario. Perché, se il nesso dialettico tra due poli è paritario, solo uno dei due termini dovrebbe essere dominante, in grado di riassorbire l’altro? c) Il rapporto bello-brutto ha creato innumerevoli fraintendimenti, perché il nesso tra i due termini è regolato dalle complesse regole della dialettica. Cerchiamo di chiarirne il concetto seguendo le pagine di Hegel – padre riconosciuto della dialettica - sulla correlazione. "Nelle determinazioni di rapporto o correlative la contraddizione (Widerspruch) si mostra in maniera immediata. Gli esempi più volgari di Sopra e Sotto, di A destra e A sinistra, di padre e figlio e così via all'infinito, contengon tutti l'opposizione (Gegensatz) in un solo e medesimo. Sopra è, quello che non è il sotto, il Sopra è determinato solo come il non esser sotto, ed è solo in quanto vi è un Sotto, e viceversa; nell'una determinazione sta il suo opposto. Il padre è l'altro del figlio, e il figlio è l'altro del padre, e ciascuno è soltanto questo altro dell'altro; e in pari tempo l'una determinazione è solo relativamente (in Beziehung) all'altra; il loro essere è un unico sussistere. Il padre è anche qualcosa per sé, fuori della relazione al figlio; così però non è padre, ma è un uomo in generale. Allo stesso modo il Sopra e il Sotto, l'A destra e l'A sinistra sono anche dei riflessi in sé, son qualcosa fuori della 102 relazione (ausser der Beziehung etwas sind); ma allora son soltanto luoghi in generale" ( ). I due lati, come si vede, sono al tempo stesso reciproci (gegenseitig) e indifferenti (gleichgültig) (103 ). Correlazione non significa identità; significa relazione reciproca nella rispettiva indipendenza, ovvero contraddizione. "In egual maniera il negativo, che sta di contro al positivo, ha un significato solamente in questa relazione a questo suo altro, lo contiene dunque nel suo concetto. Ma il negativo ha anche senza riferimento (ohne Beziehung) al positivo una sua propria esistenza (ein eigenes 104 Bestehen)" ( ). "Il positivo è quel diverso, che dev'esser per sé (für sich), e insieme (zugleich) non essere indifferente, rispetto alla sua relazione (Beziehung) col suo altro. Il negativo deve essere non meno indipendente (selbständig), esser per sé, la relazione negativa a sé; ma, insieme, come negativo, avere questa sua relazione a sé (diese Beziehung auf sich), il suo 105 positivo, solo nell'altro (sein Positives, nur in andern)" ( ). 102 - Logica, p. 492. (IV, S. 60). Per l'esattezza nel testo tedesco si hanno i termini corrispondenti solo alle parole "nelle determinazioni di rapporto" (in den Verhältnisbestimmungen) e non al termine "correlazione", sebbene dai passi successivi si comprenda che il concetto vuole indicare la relazione reciproca o correlazione. 103 - Enciclopedia, § 414. (V). A questo proposito A. Léonard, in Commentaire littéral de la Logique de Hegel, Vrin, Paris 1974, p. 168, scrive “Cette conjonction, dans le positif et le négatif, de la diversité qui fait leur autonomie e de l’opposition qui les relativise réciproquement constitue leur contradiction explicite”. Al paragrafo 114 dell’Enciclopedia, Hegel rimprovera la scienza e la metafisica per aver considerato le categorie come indipendenti, salvo a stabilire successivamente la loro relatività, “congiungendole con un anche”. 104 - Logica, p. 487 (IV, S. 54). 105 - Ivi, § 120 (V). Se L. Colletti avesse tenuto conto nella sua Intervista politico-filosofica (Laterza, Bari 1975), a proposito dei poli della contraddizione, del für sich, della Selbständigkeit, non avrebbe scritto frasi del genere “E, infatti, ciascuno è soltanto il non dell’altro” o “Entrambi i poli sono niente in sé e per sé” (66-67). Hanno per lo più compreso il nesso fra contraddizione e correlazione gli autori dei due testi collettivi La contraddizione in Aristotele, Kant, Hegel e Marx, CLEUP, Padova 1976, e La contraddizione, Città Nuova, Roma 1977. Anche F. Chierighin vi si riferisce in L’unità del sapere in Hegel, CEDAM, Milano 1963, cap. III, § 3. A. Stella vi ritorna in Il concetto di “relazione” nella “Scienza della Logica” di Hegel, Guerini, Milano 1974, pur in un contesto irricevibile. Hanno condiviso questa posizione testi classici fra cui G. Noèl, La logique de Hegel, Alcan, Paris 1897, p. 7; J. G. Hibben, La 50 La contraddizione quindi si realizza nel momento in cui tra due realtà si viene a determinare un rapporto di relazione reciproca, tale per cui al di fuori di quel rapporto non esistono i due termini della correlazione (padre e figlio), ma all’interno del rapporto mantengono anche una loro autonomia. Bisogna tuttavia tenere presente che per Hegel l’autonomia dei due poli in questione è resa evidente dal fatto che quell’aspetto (la paternitá) è solo uno dei tanti, infiniti, modi di essere di un’entità, tale per cui se il rapporto di reciprocità con l’altro polo esaurisse l’intera sua realtà, non potrebbe avere relazioni con altri enti, in quanto cittadino, ad esempio. Ogni aspetto è tale solo in quella relazione costitutiva, pur mantenendo una sua separata realtà entro e fuori di quel nesso. In sintesi, per Hegel i due poli di una correlazione mantengono una doppia forma di indipendenza. La prima, all’interno della stessa correlazione (il padre è tale solo in rapporto al figlio, ma è anche altro dal figlio, possedendo una sua identità; la seconda, in quanto ciascun ente – un uomo vive anche infinite altre correlazioni, grazie a quella sua identità ricca di molteplici aspetti, che non potrebbe avere se la sua realtà si esaurisse nel rapporto (con il figlio, nell’esempio). d) In quanto il bello e il brutto posseggono una loro autonomia, pur all’interno di un rapporto di reciprocità, è possibile che il brutto si presenti nella sua indipendenza, anche se la sua percezione e il suo concetto non possono prescindere dal presentarsi come il non-bello, come un relativo. L’arte quindi non rende bello il brutto, ma, al contrario, lo esalta, lo fa percepire in tutta la sua bruttezza (l’Antigrazioso di Boccioni). La grande arte riesce ad evidenziare, a rendere immediatamente osservabile, tutto ciò che racconta, il bello come il brutto, la vita quotidiana come i grandi eventi; è un faro indirizzato su una cosa - un fatto, un’emozione, un concetto – che l’uomo comune non sempre è disposto ad osservare. L’opera d’arte rende più bello il bello (Botticelli), più brutto il brutto (Bosch, Schiele), più comico il comico (Chaplin), più appassionante l’appassionante (Paolo e Francesca), più buono il buono (Fra Cristoforo), più materna la maternità (Madre Coraggio, la madre di Cecilia), ovvero esalta tutto ciò che rappresenta (106 ). L’estetica, con la sua pretesa di trasformare in bello il brutto rappresentato, ha operato secondo una dialettica non rigorosa, in cui uno dei due termini ha incluso l’altro, facendogli perdere l’indipendenza, che pure deve conservare. Nella percezione della natura le cose belle sono belle, le brutte brutte, come nel diritto o nella morale, ove tutti accettano che i due termini positivi – giusto e buono - siano indipendenti dai loro rispettivi opposti negativi – ingiusto e cattivo - nonostante l’innegabile reciprocità concettuale. Belle sono le cose non eseguite dagli esseri umani, le cose che nascono spontaneamente in natura. Ciò che l’uomo produce, i suoi manufatti, sono fatti bene o male, risiedendo il loro valore integralmente nell’esecuzione, il cui risultato può essere pertinente, piacevole, raffinato. Non è un caso che l’estetica si sia sempre divisa tra sostenitori del bello di natura e sostenitori del bello artistico, essendo evidente intuitivamente che non è possibile attribuire lo stesso aggettivo a due realtà così eterogenee. Coloro che hanno cercato di farlo, non hanno potuto spiegare l’inspiegabile, non hanno saputo riunire ciò che è diviso. Il tentativo di classificare con lo stesso criterio estetico logica di Hegel, Fratelli Bocca, Torino 1910, cap. XI, p. 131 sgg.; F. Grégoire, Etudes hegelienne, P.U, Louvain-Paris 1958, in pagine di notevole approfondimento; A. Léonard, cit., in particolare al commento dei § § 119 e 120 dell’Enciclopedia; M. Wolff, Der Begriff des Widerspruchs, Hain, 1981, ove ritorna la tesi della contraddizione come identità e indipendenza dei termini relativi. 106 - Dario Fo diceva che a tutti capitano quotidianamente fatti significativi, degni di essere raccontati, ma che la maggior parte delle persone non se ne rende conto, non li percepisce come tali. L’artista, in quanto profondo osservatore, è colui che sa cogliere ovunque gli aspetti importanti della vita e sa farli risaltare per quel che sono. 51 l’Infinito di Leopardi, un albero in fiore e un corpo umano non poteva non essere fallimentare. Non vi è commensurabilità fra le forme di un corpo e le parole dell’Infinito, non sono confrontabili, perché sono eterogenee. La bellezza ci colpisce positivamente per il semplice fatto che una cosa o un individuo è conformato fisicamente così e così. Di fronte ad una poesia la nostra reazione è diversa, come è diversa di fronte ad un cibo, ad un film, ad un profumo. La difficoltà nell’assegnare ad ogni emozione o pensiero un termine adeguato ci induce a definire quasi tutto quello che percepiamo come bello o brutto, buono o cattivo. Questi predicati sono semplificazioni radicali del pensiero ingenuo per definire una molteplicità di stati d’animo, che comporterebbero invece una pluralità di aggettivi diversi. Probabilmente l’equivoco è nato perché l’arte ha rappresentato quasi sempre la divinità o le “grandi potenze umane”, come diceva Hegel, ovvero i grandi contenuti dell’uomo depurati da ogni accidentalità, in particolare nell’arte greca (107 ). Se l’arte ha spesso assunto come contenuto il bello, si capisce perché l’umanità abbia finito per identificarla con la bellezza. Le cose sono cambiate non appena l’arte è passata a rappresentare prevalentemente l’uomo, la società e la natura nei loro aspetti negativi o di crisi, come frequentemente è avvenuto nel Novecento. e) La teoria estetica, non essendo riuscita ad eliminare il problema del bello, lo ha impiantato sulle più varie metafisiche, subordinandolo a tematiche di altro genere, come all’etica o alla politica, senza mai analizzarlo in modo antropologico, nella sede scientifica di appartenenza, ove si studia la formazione evolutiva dei criteri di giudizio della mente umana. La bellezza è stata collocata alternativamente nella proporzione e nella simmetria, nei prodotti di una specifica facoltà, come l’intuizione o la fantasia, nella produzione di nuove forme, nella rivelazione di un mondo nuovo da parte di un vate (108 ). Non si è voluto capire che il rispetto per la simmetria può dare il “bello” come il “brutto”, o, meglio, il pertinente come il non-pertinente, potendo essere ridotta ad una precettistica vuota. Né serve la riduzione dell’arte ad intuizione, perché l’arte, come tutto, è prodotta da tutte le attività cerebrali in proporzioni volta per volta diverse. Ma se anche fosse riducibile ad intuizione, non saremmo in grado di distinguere su questa base quella buona da quella cattiva. Dire poi che l’arte è produzione di forme, è formatività, è come dire banalmente che i prodotti dell’uomo derivino dal fare, dall’attività umana. È sorprendente infine sentire che il poeta è un vate che annuncia o, addirittura, produce un mondo, come se Newton o Darwin non annunciassero un mondo più e meglio di Hölderlin, come se i poeti, al pari degli altri mortali, non fossero a volte portatori di novità, ma altre volte una semplice eco del passato. L’irruzione della tematica del brutto nell’arte è stata decisiva per introdurci in un concetto antimetafisico di bellezza. È merito di Hugo aver capito per primo che la musa moderna: 107 - G. W. F. Hegel, Ästhetik, Aufbau-Verlag, Berlin 1955; trad. it., Estetica, a cura di N. Merker, Einaudi, Torino 1967, p. 539. Gli appunti degli studenti che ascoltarono le lezioni (Vorlesungen) tenute da Hegel tra il 1817 e il 1829 furono raccolti da H. G. Hotho e pubblicati nel 1836-38, rivisti poi nel 1842. Le edizioni successive delle opere complete di G. Lasson (1931) e di H. Glockner (1941 e 1953) utilizzano per l’estetica il testo di Hotho. 108 - M. Heidegger identifica abusivamente l’arte con la verità che si disvela e con la bellezza, rifiutando per questa via sia il bello di natura che il ruolo del brutto nell’arte: “L’apparire ordinato nell’opera è il bello. La bellezza è una delle maniere in cui è-presente [west] la verità” (Holzwege, Klostermann, Frankfurt am Main 1950; trad. it., Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1977, p. 41). Negli anni precedenti la posizione del filosofo era stata ancora più radicale, assegnando alla parola poetica un ruolo creatore: la poesia istituisce ciò che è stabile, sottraendolo al travolgimento; solo la parola del poeta fa essere l’ente quello che è (La poesia di Hölderlin, cit., pp. 49 e 50). L’equivocità tra creazione e disvelamento dell’essere si ritrova negli interpreti del filosofo, come in P. Euron, Martin Heidegger, in F. Salza (a cura di), L’arte e i filosofi, cit., cap. XIII, pp. 143-149. 52 “… sentira que tout dans la création n’est pas humainement beau, que le laid y existe à côté du beau, le difforme près du gracieux, le grotesque au revers du sublime, le mal avec le bien, l’ombre avec la lumière...le grotesque est, selon nous, la plus riche source que la 109 nature puisse ouvrir à l’art” ( ). Le incertezze della teoria del brutto ci inducono a ripartire dai principi che abbiamo assunto all’inizio di questa analisi e che vengono in qualche modo intuiti, seppure entro una cornice ancora metafisica, in questo passo di Kant: “Quando per esempio si dice: “è una bella donna”, non si pensa altro che questo: la natura rappresenta bellamente in questa forma gli scopi che essa si propone nel corpo femminile; perché bisogna guardare, oltre che alla sua semplice forma, ad un concetto, in 110 modo tale che il giudizio sull’oggetto diventa un giudizio logico ed estetico insieme” ( ). È giusto ricercare un motivo per questa nostra reazione di piacere, ma Kant ha torto e ragione insieme nell’attribuirla ad una finalità interna, giacché, pur non esistendo finalità di sorta, è vero che quelle forme femminili hanno un motivo per essere quelle e non altre, ovvero un preciso motivo selettivo. I pregiudizi sul bello e sul brutto artistico sono superati nel momento in cui si comprende che il bello artistico non esiste, come non esiste il brutto artistico, esistendo solo il bello e il brutto di natura, ma non in loro stessi, quanto piuttosto per noi, come percezione e come giudizio riflettente (111 ). La riprova dell’indipendenza del bello dall’arte si ha nel fatto che il bello naturale – pur non essendo oggettivo - è universale, se trascuriamo gli aspetti regionali, che per altro vanno diminuendo con la mondializzazione del gusto, mentre il cosiddetto “bello artistico” è cambiato una infinità di volte, fino ad identificarsi con le deformazioni cubiste, con oggetti qualsiasi (una ruota, uno scolabottiglie), con il brutto, con l’informale. La crisi profonda in cui versa la ricerca del bello nelle opere d’arte, denunciato dagli stessi cultori della materia, prova che non esiste l’oggetto tanto ricercato (112 ). La fisica, nonostante le sue rivoluzioni interne, non ha 109 - “…percepirá che non tutto nel creato è umanamente bello, che il brutto esiste a fianco del bello, il deforme accanto al grazioso, il grottesco come rovescio del sublime, il male con il bene, l’ombra con la luce…il grottesco è, secondo noi, la più ricca sorgente che la natura possa aprire per l’arte” (V. Hugo, Préface a Cromwell, in Thèatre complet, I, Gallimard, Paris 1963, p. 416 e 419, traduzione nostra). Questa tematica ritorna in Francia con G. Bataille in La laideur belle ou la beauté laide dans l’art et la littérature (1949), in Oeuvres complètes, Gallimard, Paris 1988, XI, ove l’autore sembra alquanto prossimo alle posizioni di Adorno. 110 - E. Kant, cit., p. 172. 111 - È apparsa presto ridicola la posizione di quei teorici che nell’Ottocento, seguiti tuttora dal vigente senso comune, hanno pensato che i rospi e le barbabietole fossero brutti e belli gli uccelli. Diversa è l’idea che la percezione della bellezza naturale nasca da uno stato emotivo, da uno stato d’animo (Stimmung), da empatia (Einfühlung), in quanto, pur negando il concetto di bellezza naturale, afferma la possibilità di un apprezzamento estetico della natura, seppure derivato da una condizione psicologica dell’osservatore. Molto interessante sul tema del bello di natura è il saggio di P. D’Angelo, Estetica della natura, Laterza, Roma-Bari 2001. In una rassegna molto ricca, l’autore ci mostra come responsabile del tramonto del concetto di bellezza naturale sia stata non solo l’estetica, ma anche la pratica artistica. Il concetto di bello naturale, dopo essere stato estirpato radicalmente dall’estetica del Novecento, ritorna in un campo che non ha più nulla in comune con l’estetica filosofica, ovvero nel campo delle teorie ecologiche e dell’integrità estetica dei paesaggi, da cui è derivata la proliferazione delle organizzazioni per la salvaguardia della bellezza dei luoghi naturali (prima metà del Novecento) e per la difesa dell’ambiente (seconda metà del Novecento). I teorici hanno oscillato tra un concetto di bellezza naturale, che equipara gli oggetti alle sculture o ad uno scenario bidimensionale, ad una pittura, ed un altro che li considera come se fossero un ambiente. Quest’ultima posizione è entrata in contrasto con la precedente, per il fatto che una politica di difesa delle bellezze naturali può diventare indifferente all’ambiente. Queste teorie hanno avuto una ricaduta artistica, quando nel Novecento sono sorte forme d’arte che non intendono riprodurre la natura, ma agire sul paesaggio, nel senso della conservazione del paesaggio o dell’ambiente, come nella Art in nature, più che nell’americana Land art. 112 - Per Anceschi nessuna estetica ha retto alla critica; si sono infatti moltiplicati i concetti di bellezza, 53 mai dichiarato fallimento, al pari delle altre scienze, che hanno un sicuro oggetto su cui indagare. L’estetica artistica è morta attraverso la morte del suo contenuto, come è capitato a tutte le forme di sapere prive di oggetto reale, dalla mitologia alla magia, dall’astrologia alla teologia. Questi risultati ci permettono di capire perché esistono correnti artistiche moderne che rappresentano quasi esclusivamente il brutto, come modo per esprimere il negativo della nostra epoca, mentre il Rinascimento ha raffigurato quasi esclusivamente il bello nelle opere destinate alla nobiltà, e quasi esclusivamente il dolore e il brutto nell’arte religiosa (crocifissioni, inferno, persecuzioni), se escludiamo le immagini della Madonna col bambino e poco altro ancora. L’estetica ha fornito infinite definizioni del fare artistico, cadute una dopo l’altra, perché tutte valide per alcuni prodotti, ma non valide per altri. Si è preteso di distinguere l’arte dalle altre sfere del fare umano, moltiplicando all’infinito specie, generi, famiglie, e dimenticando che la mente umana che produce arte, religione, giochi, oggetti utili, relazioni, è sempre la stessa, lo stesso organo, la stessa unitaria funzione cerebrale. Liberata dal fardello estetico, l’arte si riduce ad una delle molteplici forme della rappresentazione, la cui differenza non consiste più nell’essere veicolo del bello, come per una sorta di gravidanza estetica, ma nella capacità di immaginare e di narrare una realtà in modo peculiare, diversamente da ogni altro tipo di discorso. Nel giudicare i vari tipi di manufatti artistici dovremmo quindi attentamente distinguere tra classificazione artistica e classificazione estetica. Un’opera che rientra nella prima può non essere bella, come, viceversa, una che rientra nella seconda può non essere arte. f) Pensando all’esuberanza vitale che scavalca ogni limite artistico per andare incontro alla vita, Nietzsche aveva intuito la precarietà della ricerca del bello: tutti gli stili vengono adottati, ma anche oltrepassati e annientati, trapassando in altre forme che li rinnovano perpetuamente. L’arte, in questo suo perenne rinnovarsi, non ha fondamenti trascendentali da sempre e per sempre posti, ponendo volta per volta le sue condizioni di esistenza. Ma se come si sono moltiplicati i concetti di geometria. Ciò nonostante, egli cerca, in modo non comprensibile, una soluzione husserliana, in grado di coordinare la produzione artistica sempre diversa per mezzo di un criterio operativo di connessione, di una legge di coordinamento, di un principio di integrazione, vero a priori estetico (L. Anceschi, Progetto di una sistematica dell’arte, Mursia, Milano 1964, p. 49). M. Modica in Che cos’è l’estetica, Editori Riuniti, Roma 1987, riprende la tematica della varietà dell’esperienza artistica, che arriva a comprendere i ready-made (belli e fatti) di Duschamps, abbandonando la pretesa di una sua definibilità, fino al punto che non sarebbe più necessaria nemmeno la connessione tra arte e bellezza. Dessoir, attraverso una sorta di scetticismo sul metodo, ha rilevato accortamente come, dopo Hegel, bellezza, estetica e arte tendono a separarsi. Approda tuttavia ad una metafisica del bello naturale, incentrata su pretese proporzioni oggettive. Più interessante invece la sua analisi del concetto di bellezza, che viene ridotta a caso particolare dell’estetico insieme ai fenomeni sublimi, graziosi, tragici, comici, che possono essere belli o brutti, valori o disvalori estetici. Diversa da estetica e bellezza risulta essere l’arte, che, sottraendosi alla tirannia del bello, deriverebbe da facoltà formatrici etiche, culturali e sociali, che né l’estetico né il bello possiedono, almeno non necessariamente (M. Dessoir Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft: in den Grundzügen dargestellt, Enke, Stuttgart 1923 (prima ed. 1906); trad. it., Estetica e scienza dell’arte, Unicopli, Milano 1986). Il rapporto fra arte, estetica e bellezza rimane ambiguo nell’autore, poiché ritrova in modo oscuro l’esteticità nell’opera d’arte laddove l’artista “invita a indugiare nella contemplazione e ad abbandonarsi ai vissuti fortemente sentimentali” (M. Dessoir, Allgemeine Kuntwissenschaft, in “Deutsche Literarzeitung”, 44/45 e 46/47, 1914; trad. it., Scienza generale dell’arte, in Dessoir, Utitz, Wind, Panofsky, Estetica e scienza generale dell’arte. I concetti fondamentali, CLUEB, Bologna 2007, p. 62). Anche il concetto di bello non si chiarisce accostando al bello naturale le belle maniere, i corpi belli, le belle dimostrazioni matematiche. Infine, oltre al bello naturale e al bello artistico, si avrebbe un bello delle forme di vita e di relazione, delle istituzioni sociali, di ambiti spirituali (M. Dessoir, Objektivismus in der Ästhetik, in “Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kuntwissenschaft”, 5, 1910; trad. it., L’oggettivismo in estetica, in Dessoir, Utitz, Wind, Panofsky, Estetica e scienza generale dell’arte. I concetti fondamentali, cit). La scarsa chiarezza, al limite della confusione, dimostra che, pur con importanti intuizioni, il nesso tra bellezza ed arte rimane ancora oscuro, e rimarrà tale fino a che il bello non uscirà definitivamente dalla sfera artistica. 54 “l’arte è origine” volubile, l’estetica sarà sottoposta perennemente a questa instabilità, al suo stesso divenire. L’estetica artistica giunge al suo definitivo tramonto con Gadamer e con Derrida, ovvero con coloro che, dopo avere ancorato l’essere alla parola e, più in particolare, all’arte, decostruiscono ogni discorso in un succedersi di interpretazioni irriducibili le une alle altre, sempre nuove e diverse (113 ). La critica all’estetica tradizionale è stata condotta dalle scuole di origine nietzschiana, fenomenologica ed esistenzialistica, ma hanno lasciato intatte le equazioni metafisiche di arte-bellezza e di arte-verità, seppure in un processo ermeneutico-decostruttivo senza fine. L’arte in realtà non ha nulla a che vedere con il bello e con la verità, e di essi non segue le sorti. L’arte, in quanto specifico modulo narrativo, in quanto duplicato di qualsiasi cosa dentro o fuori di noi, è volta per volta intuizione pura o concetto, sentimento o ragione, impegno sociale o disimpegno, formatività o informatività, scienza o magia, dionisiaco o apollineo, scoperta dell’essere o suo nascondimento, liberazione o assoggettamento, guerra o pace, bello o brutto (114 ). Non è 113 - Su queste tematiche heideggeriane cfr. S. Givone, Storia dell’estetica, Laterza, Roma-Bari 1988. Banfi aveva insistito sulla perdita di ogni normativa possibile, sull’infinita varietà dei piani dell’arte, e quindi sulla necessità di approdare ad una estetica sempre aperta, essendo relativa e provvisoria ogni sua definizione (A. Banfi in I problemi di una estetica filosofica, Parenti, Firenze 1961). La molteplicità delle forme d’arte induce Pareyson ad introdurre il concetto di formatività. Nell’arte il fare è assoluto, creativo, intensivo, essendo produzione di organismi nuovi, in una sorta di innovazione ontologica. L’arte per l’arte è formatività per se stessa e non per altri fini, fare una cosa che prima non c’era, unica nel suo genere: è “fare arte” e non “fare con arte” (L. Pareyson, I problemi dell’estetica, Marzorati, Milano 1966, p. 34). Pareyson attribuisce bellezza non solo all’arte, ma a tutta la produzione umana, in quanto “è proprio il carattere formativo dell’intera operosità umana che spiega come si possa parlare di bellezza a proposito di qualsiasi opera: se non c’è opera che non sia insieme forma, si intende come ogni opera riuscita sia sempre anche bella”… “Come la realizzazione di qualsiasi valore è impossibile senza la realizzazione di un valore artistico, così la valutazione di qualsiasi opera è impossibile senza un apprezzamento estetico. Quando si dice, ad esempio, che un'azione morale, una virtù, un carattere, oppure un ragionamento, una dimostrazione, un'opera di pensiero, sono belli, si può pensare che in questi casi la predicazione della bellezza abbia un carattere esclusivamente metaforico e sia destituita di significato proprio. D'un'azione che abbia un chiaro valore morale si dice spesso che si tratta d'una bella azione, e parlando di anime buone si suol dire che sono ornate dalle loro virtù, e d'una persona disposta alla benevolenza, alla cordialità e alla giovialità si dice che ha un bel carattere; e spesso si parla di bei ragionamenti, e d'una dimostrazione singolarmente riuscita, condotta con una linearità di sviluppo e una dovizia di argomentazione che conciliano in sapiente equilibrio la semplicità e la completezza, si dice che ha pregi d'eleganza, e in un'opera di pensiero si può ammirare l'armonia della costruzione in cui circola, con sagace duttilità, il pensiero, a penetrare e sviscerare l'argomento e insieme a stringere il tutto con salda e indivisibile coesione” (Luigi Pareyson, Estetica, teoria della formatività, Bompiani, Milano 1988, p. 19-20). Ciò non esclude che vi sia una speciale intenzionalità formativa dell’arte rispetto alle altre produzioni (ivi, p. 23). Interessante mi sembra il concetto di riuscita dell’opera, che è diversa nell’arte e nelle scienze, ove è controllabile attraverso le leggi di natura (ivi, p. 63); il discorso tuttavia si avvita su se stesso quando prova a stabilire la peculiarità della riuscita dell’opera d’arte: “Nell’arte non c’è altra legge generale se non quella stessa regola individuale dell’opera che deve essere inventata nel corso dell’operazione: la riuscita è criterio a se stessa, sì che non solo la regola, ma l’opera stessa dev’essere inventata nel corso dell’esecuzione, la quale perciò non può avere altra legge che il suo stesso risultato” (ivi, p. 66). Senza il concetto di pertinenza, non riesco a capire come si possa decidere sulla validità di un’opera se non attraverso un rinnovato generico gusto di derivazione crociata. Mi sembra utile il contributo di Pareyson sul concetto di recezione per l’insistenza sul ruolo ineliminabile di entrambi i poli: “nel senso che sia il soggetto che l’oggetto dell’interpretazione devono essere esistenze singolarissime, in sé concluse, dotate di vita propria, indipendenti, irripetibili e inconfondibili (ivi, p. 186). Anche Paci ritiene che ogni forma sia una decisione, un principio di selezione (E. Paci, Tempo e relazione, il Saggiatore, Milano 1965, p. 248). Su posizioni simili, almeno in una prima fase, si trova G. Vattimo in Poesia e ontologia, Mursia, Milano 1967, che interpreta la formatività husserliana nel senso ontologico heideggeriano, di costituzione di un mondo. Bachtin insiste sul concetto di forma estetica assiologica, prodotta da un io-autore-creatore, attivo semanticamente nella scelta del significato (p. 61). Radicalizzando le posizioni, D. Formaggio in Arte, Mondadori, Milano 1981, dopo aver ridotto l’essere a divenire e il divenire a possibilità sempre aperta, con reminiscenze leibniziane e bergsoniane, interpreta l’arte come strumento essenziale nella produzione dell’incessante flusso di forme, sulla scia dell’estetica di Husserl, di Heidegger e di Bachtin (M. M. Bachtin Voprosy literatury i estetiki: issledovanija raznych let, Chudozestvennaja literatura, Moskva 1975; Trad. it., Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 2001). 114 - Il marxismo ha sbagliato ad identificare la grande arte con il progresso sociale, con la categoria storica emergente, con la rivoluzione, conducendo al flagello dell’arte socialista. Balzac è diventato il 55 quindi morto il bello artistico, e con esso l’estetica, perché non è mai esistito, se non come uno dei suoi possibili contenuti. Questo significa che tutto ciò che è stato detto dell’arte si riferiva ad un qualche tipo di stile, avendo i filosofi dell’arte sempre teorizzato una delle tante precettistiche, uno dei tanti modi di fare arte, ovvero una delle tante poetiche. Non è accettabile che si prenda un aspetto di una realtà molteplice e complessa e lo si trasformi in elemento universale, né che si faccia della propria epoca e, spesso, della propria persona il perno su cui ruota la storia, il momento in cui cambia il paradigma. Tutto invece è intreccio, nel passato come nel presente, anche se con dominanze e subordinazioni sempre diverse. prototipo dell’arte possibile, rendendo impossibile capire la positività del Vaso con iris (1890) o dei Rami di mandorlo in fiore (1890) di Van Gogh. 56 8 - L’artigianato Tutto ciò che esiste si distingue in prodotti dell’uomo e in cose nate spontaneamente in natura nei lunghi processi evolutivi. La colonna delle cose prodotte dall’uomo – sia manuali che intellettuali – possono essere ben fatte o mal fatte; la colonna delle cose naturali non ricadono in questo giudizio dicotomico, giacché in natura tutto è quello che deve essere. Tuttavia dobbiamo operare alcune sottili distinzioni, per evitare un banale manicheismo definitorio, che ci impedirebbe di classificare in modo appropriato alcuni prodotti più complessi. a) L’artigianato arcaico, i cui primi reperti oltrepassano il milione di anni, si limita ad imitare oggetti e funzioni presenti in natura e osservati per caso. L’arte, invece, nasce di recente, con Homo sapiens, quando compare una specifica forma di astrazione, di cui tratterò nel prossimo capitolo. Raggiunto questo nuovo livello di astrazione, anche l’artigianato si rinnova, diventando inventivo. L’arte nasce e rimane racconto libero; l’artigianato assume la libertà inventiva dell’arte, ma non può oltrepassare il vincolo dell’utilità, del servire a….Per questa intrinseca differenza, la tipologia dei giudizi sui prodotti artistici e sui prodotti artigianali deve rimanere in parte diversa (115 ). Possiamo constatare quotidianamente l’uso generalizzato della valutazione estetica non solo per i prodotti d’arte, ma anche per i manufatti artigianali. Un tramonto, un corpo umano o animale, un’automobile, un vestito, una scultura vengono infatti catalogati alla rinfusa sotto lo stesso predicato della bellezza-bruttezza. Ciò è comprensibile – pur essendo sbagliato – per le opere artistiche che rappresentano natura e persone, poiché assumono per contaminazione il giudizio estetico dei loro contenuti. Il manufatto artigianale invece, avendo a che fare con prodotti artificiali utili, non dovrebbe essere interessato, nemmeno per contaminazione, al criterio della bellezza. Il rapporto positivo uomo-natura ha fissato ciò che è propizio alla vita umana, presupposto della percezione del bello, ma non ha potuto fare la stessa cosa con i manufatti (automobili, vestiti), per i quali rimane il solo giudizio di pertinenza. Perché mai allora anche i prodotti dell’artigianato vengono spesso percepiti come belli o brutti al pari degli enti naturali (116 )? Per superare questa difficoltà, dobbiamo partire dalla constatazione che il lavoro artigiano può essere esercitato in tutti i campi della realtà e che i suoi prodotti, sempre utili a qualcosa e a qualcuno, possono essere molto vari: necessari (cibi), divertenti (giocattoli), erotici, religiosi, offensivi (armi), 115 - Danto si chiede che cosa succeda quando una scatola di spugnette detergenti – il famoso Brillo Box di Andy Warhol del 1964 - esposta sugli scaffali di un supermercato, diventa opera d’arte venendo esposta in un museo. La stessa domanda dobbiamo porcela per l’orinatoio di Marcel Duchamp – Fontana del 1917 – e per tutti i generi di ready made. Io non credo che avvenga la trasformazione di un manufatto artigianale o industriale in un’opera d’arte quando il prodotto in questione viene a perdere la sua dimensione di merce. Il Brillo Box non viene arricchito di nuovi significati, gli viene solo tolta la funzione pratica, quella di servire a qualcosa. Scollegato dal contesto merceologico, diventa oggetto diverso, ma non per questo artistico. Le opere d’arte nascono da un’idea e acquistano il loro valore dal rapporto di pertinenza tra il progetto e ciò che viene realizzato. Nel ready made manca il progetto e il processo di esecuzione da parte dell’artista – vero luogo di nascita del valore artistico di un’opera sostituito dalla scelta più o meno casuale di un oggetto prodotto per altre finalità, con altre intenzioni. Non si capisce infatti come si dovrebbe valutare la pertinenza, mancando il rapporto tra un progetto e la sua realizzazione. Diversa mi sembra la situazione per l’arte postmoderna di Michelangelo Pistoletto, che, ritagliando una fotografia da lui progettata, decontestualizza la figura dallo sfondo sociale e ambientale in cui era collocata. In questo caso, il processo creativo dell’artista è completo, andando dalla ideazione alla realizzazione, diversamente dal Brillo Box, che può essere sostituito da qualsiasi altro oggetto. L’artista, si fa per dire, si è limitato a raccoglierlo e a depositarlo in un museo. Lo stesso Arthur Danto non riesce a rispondere al problema che aveva posto all’inizio di The Transfiguration of the Commonplace. A Philosophy of art, Harward University Press, Cambridge-London 1981; trad. it., La trasformazione del banale. Una filosofia dell’arte, Laterza, Roma-Bari 2008. 116 - Nell’artigianato comprendo anche l’industria e la tecnologia moderne. 57 ma anche belli-brutti, nel caso in cui l’artigiano lavori nel settore delle cose considerate belle-brutte (natura e uomo-donna). Se l’artigiano produce carrozze, la pertinenza si rivelerà nella capacità di trasportare comodamente le persone; se produce giocattoli, la pertinenza risiederà nella capacità di divertire o meno i bambini. Solo nel caso in cui l’artigiano lavori su cose bellebrutte, come quando un chirurgo modifica il naso ipertrofico ed aquilino di una persona, la pertinenza inevitabilmente consisterà nella bellezza-bruttezza del risultato ottenuto. Bisogna tuttavia distinguere – come già dicevo in una nota - tra due tipi di utilità, quella dei fenomeni naturali, come il sole, l’acqua, le piante, che da sempre e per sempre rendono possibile la vita sulla terra per l’intera specie, e i prodotti artigianali che facilitano la vita, ma non hanno un ruolo primario per l’esistenza umana. Primario è ciò che serve all’umanità per esistere e riprodursi, senza i quali non esisterebbe: la donna, l’uomo, la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco - gli antichi elementi naturali. I manufatti rendono la vita migliore, ma non sono decisivi per la vita della specie, anche perché mutano nel tempo, con il mutare della tecnica e delle necessità umane. L’artigiano può produrre cose esteticamente positive sia attraverso l’imitazione della natura migliore (modificando il naso di una persona sul modello di un naso regolare), sia inducendo la natura a produrre un bosco, un fiore, ovvero ciò che normalmente è ritenuto esteticamente valido. Come il “cavallaro” di Platone rende migliori i cavalli, così il curatore dei corpi – animali e vegetali – rende i corpi più simili ai prototipi della rispettiva specie ritenuti migliori. Abbiamo quindi un’apparente contraddizione, generata dal fatto che il manufatto artigianale, essendo per lo più un semplice prodotto utile all’uomo, sarà, in generale, pertinente o meno, ma non bello-brutto. Coincidendo in alcuni casi con il prodotto naturale – come nel caso della chirurgia estetica – dovrà presentare una doppia pertinenza, sia sul piano della funzionalità dell’organo operato che sul piano estetico. Anche l’arte può rappresentare nei suoi manufatti tutti i tipi di realtà, compresa la bellezza e la bruttezza. La differenza con l’artigianato risiede nel fatto che il prodotto artigianale è una realtà, mentre il prodotto artistico è solo una rappresentazione, ovvero una finzione. Per dirla in altro modo, se Botticelli truccasse una donna bella, la bellezza diventerebbe più evidente, essendo il trucco una sottolineatura di ciò che già esiste; quando invece Botticelli dipinge una donna bella, il quadro non per questo è bello, perché l’essere naturale, la donna reale, non c’è più, essendo diventata una rappresentazione, una massa di colori sulla tela, bene o male eseguita. Un ulteriore elemento di complicazione deriva dal fatto che un artigiano, anche quando non lavora direttamente su cose belle-brutte – il naso in questione - può utilizzare alcune caratteristiche delle cose naturali belle, come la potenza, l’aerodinamicità, la simmetria, la cromaticità, così che aerei, automobili, case, abiti, mobili, possano essere giudicati, in modo proprio, pertinenti o meno, e, in modo improprio, per prossimità, belli o brutti. Infatti, in alcuni casi, i manufatti industriali e arigianali particolarmente riusciti possono esprimere la forza o l’impronta di alcuni animali veloci e potenti, in modo da rievocare nella nostra mente ciò che universalmente è considerato bello – si pensi al Concorde che imitava le fattezze di un rapace. In realtà, un tale giudizio è illecito, perché il rapace imitato nell’aereo, se ben riprodotto, è solo pertinente, come avverrebbe in una scultura o in una pittura. b) Il rapporto tra natura e manifattura è reso ancora più complesso dal fatto che la natura è ormai fortemente antropizzata, e lo sarà sempre di più. Basti pensare alla selezione operata dagli uomini sugli animali o sul paesaggio stesso, attraverso l’agricoltura e l’allevamento. Il paesaggio poi è spesso modificato dalle case, dalle recinzioni, dai giardini, dalle cave per i 58 materiali da costruzione, dalle strade. Abbiamo modificato persino il clima, rendendo sempre più difficile distinguere tra natura in sé e prodotto umano. Il problema nasce per il fatto che l’uomo non solo modifica la natura, ma può “crearla” o sconvolgerla. Vi è differenza tra potare un albero, disboscare una collina e creare un bosco. Nel primo caso si ha il semplice aggiustamento di un fenomeno naturale, nel secondo la distruzione, nel terzo la creazione. La stessa cosa possiamo fare con le persone: si possono aggiustare (con il trucco, con l’abbigliamento), distruggere o trasformare (con interventi chirurgici, con la ginnastica, con l’alimentazione). L’artigianato, l’industria e la scienza permettono quindi all’uomo di entrare nei meccanismi naturali, piegando la natura ai suoi progetti. In alcuni casi l’uomo sembra diventare natura naturans, produttore di natura: in questa funzione produce oggetti che rientrano nel novero delle cose giudicabili belle o brutte. Andiamo incontro ad un’ulteriore complicazione del problema, quando le due attività umane di intervento sulla natura – quella produttiva di natura e quella imitativa - si intrecciano in una singola operazione. Una collina con una chiesetta sulla cima, un piccolo cimitero e un sentiero costeggiato da cipressi, può creare imbarazzo ad un giudizio meditato, perché in questo scenario coesistono tutti i tipi di intervento umano su di un fenomeno naturale preesistente (la collina e la vegetazione spontanea): quello di veicolo naturale, in grado di indurre la produzione di altra natura (i cipressi), quello artigianale (la chiesa, la strada, la potatura degli alberi), quello artistico, di chi ha progettato il tutto come un ambiente unitario o ha prodotto le opere d’arte dentro la chiesa o ha disegnato la stessa chiesa. Il giudizio in questi casi deve rispettare la complessità, giudicando separatamente i vari aspetti. Si dovrebbe dire: la collina è bella-brutta in quanto natura; i cipressi e il bosco cresciuti per opera dell’uomo sono bellibrutti in quanto ancora natura; la chiesa, la strada, le potature sono invece più o meno pertinenti in sé e rispetto all’ambiente. Giudicare il tutto bello o brutto è sbagliato, perché non tiene conto della complessità di una realtà con molte stratificazioni. È possibile invece valutare l’insieme come gradevolesgradevole, secondo un punto di vista personale. Diverso è ancora il lavoro di coloro che organizzano la natura secondo un disegno inventato – artisti di Land Art o semplici giardinieri e agricoltori – per creare un ambiente studiatamente selvaggio, o un giardino all’italiana, all’inglese, alla giapponese. La pertinenza sarà giudicata in base alla corrispondenza tra il prodotto e il progetto prefissato. Se poi sarà percepito come bello o brutto, essendo anche un fenomeno naturale, ce lo suggerirà il nostro gusto estetico. In questo caso, le varie procedure artigianali risultano inglobate in una sorta di progetto artistico, ove arte e artigianato si fondono per consegnarci un prodotto misto: pertinenza e bellezza vi si incontrano in una diversa e più complessa modulazione rispetto al naso modificato dal chirurgo ad imitazione dei nasi migliori. Anche un singolo fenomeno può richiedere una valutazione multipla, giacché i vari predicati non possono mai essere unificati. Si può dire infatti: il Concorde imita in modo pertinente un rapace; ma non è pertinente in quanto aereo, ovvero da un punto di vista meccanico. Si potrebbero aggiungere molti altri giudizi di pertinenza o meno in relazione ad altri aspetti, gli uni indipendenti dagli altri, anche se alla fine è possibile dare un giudizio di insieme, del tipo: tutto considerato, l’aereo è o non è valido. Provo ad insistere su questo tema spinoso. L’artigianato e la natura si incontrano in molti modi: una donna truccata non perde la bellezza perché si è aggiunto un fattore artigianale, anzi è più bella, se il trucco è ben fatto. Il trucco infatti può rimarcare ed evidenziare la sue caratteristiche naturali. In questo caso il giudizio di bellezza è ancora corretto e si somma ad un giudizio di pertinenza per il lavoro del truccatore. Nel caso invece del lavoro di un chirurgo, bellezza e pertinenza si sommano diversamente. La chirurgia 59 estetica non inventa, copia semplicemente i modelli più apprezzati, quindi riproduce la bellezza. In questo caso, la pertinenza consiste nel creare in un viso una linea e una proporzione che prima non esistevano. Il naso, che prima era brutto, ora è bello. Lo stesso vale per l’albero potato, per la collina curata. Il chirurgo e il giardiniere lavorano quindi in modo appropriato quando riescono ad imitare i modelli naturali belli, mentre il truccatore si limita a mettere in evidenza ciò che già esiste. La non-pertinenza, nel caso della chirurgia estetica, riguarda invece – oltre alla non riuscita dell’intervento l’inopportunità di rendere giovane il viso di una persona molto vecchia, creando un contrasto evidente, un fuori tempo, o di dedicarsi ai problemi estetici quando la situazione lo sconsiglia, un fuori luogo. c) Vorrei insistere sulla circolarità che si istituisce tra uomo e natura, utilizzando la dialettica hegelo-marxista, per calibrare con maggiore esattezza il ruolo dell’uomo nei confronti dei complessi processi naturali. Tutti osserviamo che la coscienza umana, attraverso vari tipi di prassi, si oggettiva in nuove forme naturali. La natura può essere, e non soltanto apparire, come prodotto della coscienza e della prassi umana. È questo il tema dell'oggettivazione che Marx mutua, modificato, da Hegel. La coscienza umana rappresenta una forma complessa di evoluzione della natura stessa - ovvero della natura che "si è fatta" uomo. Va sottolineato questo doppio ruolo della coscienza naturale, di essere prodotto della natura prima e di produttore di natura poi. Ciò che l'uomo produce con la sua prassi si ripresenta allo stesso uomo come natura. Riferendosi al prodotto del lavoro nell’industria umana, Marx utilizza la dialettica nel modo seguente: "Questo fatto non esprime niente altro che questo: che l'oggetto, prodotto dal lavoro, prodotto suo, sorge di fronte al lavoro come un ente estraneo, come una potenza indipendente dal producente. Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto (in einem Gegenstand fixiert), che si è fatto oggettivo: è l'oggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione (Die Verwirklichung der Arbeit ist ihre 117 Vergegenständlichung" ( ). La soggettività si è oggettivata, riproponendosi come natura: ciò che prima era sovrastruttura ora è struttura. Un principio tuttavia deve essere riconosciuto come fondamentale: l'originarietà ontologica della natura, anche dopo che è sorta la coscienza manipolatoria dell'uomo attraverso il lavoro. La natura passa, con l'uomo, dalla meccanicità alla possibilità della scelta, ovvero all'alternativa. È in questo processo che si passa dalla determinanza della natura alla dominanza dell'uomo-natura sulla natura, attraverso cui le leggi naturali possono essere dominate e modificate, ma non eliminate. "Nella sua produzione, l'uomo può soltanto operare come la natura stessa (wie die 118 Natur selbst): cioè unicamente modificando le forme dei materiali" ( ). La perdita della percezione della continuità natura-pensiero da parte di molti teorici, presenta come esito la caduta in forme di soggettivismo esasperato, ovvero in una delle tante forme della metafisica del soggetto. Porre la "libertà" all'inizio della storia della coscienza, come ha fatto un settore importante della cultura, fino all'esistenzialismo compreso, o porla al culmine 117 - Opere filosofiche, III, p. 298.. (MEW, Ergänzungsband, cit., p. 511). 118 - Il capitale, I, p. 75. (23, S. 57). 60 di un processo di evoluzione naturale (119 ), porta a risultati simili se per libertà dalla natura non si intende il semplice dominio delle leggi della stessa natura. Va alquanto mitigato il giudizio espresso sopra intorno all’uomo, inteso come creatore di cose naturali belle o brutte. In realtà, l’uomo non produce natura, giacché si limita o ad imitarla, come nel caso della chirurgia estetica, o ad inserirsi nei processi naturali per indurre la natura a creare, seguendo le sue stesse leggi, nuove forme reali. Il produttore di orchidee fa un lavoro pertinente, un buon lavoro, quando crea un fiore che, sulla base del nostro apprezzamento dei fenomeni naturali, piace esteticamente. Se producesse un fiore nero, con forme non morbide e con un cattivo odore, lo percepiremmo come brutto, come certe razze canine selezionate dall’uomo, che non corrispondono ai nostri criteri estetici. I produttori di nuove specie animali e vegetali si comportano in modo pertinente se riescono ad indurre la natura a produrre ciò che desiderano, ovvero cose belle, se volevano cose belle, o stravaganti, o addirittura brutte e sgradevoli, se questo era nelle loro intenzioni. Volendo raccogliere in un quadro sintetico quanto è stato detto in questo capitolo, posso dire che l’uomo – in quanto produttore di manufatti non è mai creatore di bellezza, essendo questo compito unico della natura quando è percepita dall’uomo. Tuttavia il lavoro umano può intervenire sulla natura, contribuendo alla produzione estetica in vario modo: 1) copiando la natura percepita come migliore (chirurgia estetica); 2) imitando la natura (il Concorde); 3) curando la natura (potatura, trucco); 4) inducendo la natura a produrre cose percepite come belle (un bosco, una persona sana). Tuttavia, copiare, imitare, curare, indurre, non significa creare, produrre il bello. Il lavoro artigiano non potrà mai diventare natura naturans, rimarrà sempre un lavoro estetico di servizio, di appoggio, di induzione. d) Nei prossimi paragrafi cercherò di mettere in luce alcuni caratteri del lavoro artigianale e delle relative pertinenze. Consapevolmente o meno, tutti distinguiamo tra bellezza e piacevolezza, nel senso che mentre siamo convinti che una bella donna, per riprendere l’esempio kantiano, debba essere bella per tutti, non tutti, e non sempre, pretendiamo che valga per altri la piacevolezza che proviamo per il ritratto di una persona cara, o per il vino delle Canarie, per continuare con esempi kantiani. Esistono, insomma, una molteplicità di piaceri che appartengono solo a ciascuno di noi, perché sono legati alla nostra storia personale e alla nostra specifica biologia. Non è comunque impossibile – ed è frequente nelle persone meno sorvegliate – scambiare il piano della piacevolezza con quello della bellezza. Va considerato pertanto un vizio radicato nella mente umana il considerare bello per tutti ciò che piace a ciascuno di noi, in base alle forme, agli odori, ai colori entro cui si è formato il nostro gusto soggettivo a partire dalla prima infanzia e dall’ambiente socioculturale. Ogni giudizio relativo ad un manufatto non estetico intreccia quindi in vario modo tre punti di vista, oltre a tutti gli infiniti altri che in questo contesto non ci interessano: la pertinenza, la raffinatezza e la piacevolezza, con tutta la vaghezza che questo ultimo termine comporta. Il giudizio di piacevolezza è vago per il fatto che in alcuni casi è condiviso dalla maggioranza delle persone, nel senso che i più, ma non tutti, provano piacere-dispiacere di fronte allo stesso evento. In altri casi, la reazione riguarda molti; ma, in altri ancora, è del tutto soggettiva: solo a me, o a pochi, piace il mio fermacarte. Pertanto, quando si parla di piacevolezza, bisognerebbe sempre aggiungere 119 - V. Andreoli, La terza via della psichiatria, Mondadori, Milano 1980, capp V e VI. 61 “per me”, “per molti”, “per quasi tutti”. Nello schema che segue, al termine piacevole andrebbe aggiunto “per quasi tutti”. Vanno preliminarmente definiti i termini in questione: 1) bella è quella entità naturale che appaga la vista di tutta la specie umana; 2) pertinente è quel manufatto che realizza alla perfezione ciò che l’autore voleva esprimere o fare: in questi casi si usa dire “questa cosa è riuscita”. I prodotti della natura, non essendo dei manufatti, non possono essere pertinenti, non dovendo corrispondere a nulla; 3) piacevole è tutto ciò che è percepito positivamente dai nostri sensi (un cibo, un profumo, la vista di una persona cara, un massaggio). Utilizziamo il termine piacevole come sinonimo di gradevole e per esso non pretendiamo l’universalità o la condivisione; 4) raffinato è quel manufatto – o azione - che è stato eseguito da un esperto con maestria (una sedia, un comportamento, un quadro, un cibo). Per rappresentare in sintesi quanto intendo dire, immaginiamo di dover giudicare una sedia prodotta da un artigiano. Essa non è mai bella o brutta, è semplicemente pertinente quando raggiunge il risultato per cui è stata prodotta, ovvero la comodità. Questa funzione tuttavia può trovarsi sia in un manufatto raffinato che in uno rozzo e in entrambi i casi, può essere sia piacevole che spiacevole, come tutte le cose che ci circondano. Intrecciando liberamente i termini, la sedia può risultare comoda-raffinata-piacevole, comoda-raffinata–spiacevole, comoda-non raffinata-piacevole, comoda-non raffinata-spiacevole, ma anche scomoda-raffinata-piacevole, scomodaraffinata-spiacevole, scomoda-non raffinata-piacevole, scomoda-non raffinataspiacevole. Eccone lo schema: raffinata piacevole spiacevole pertinente (comoda) non-raffinata raffinata piacevole spiacevole piacevole spiacevole non-pertinente (scomoda) non-raffinata piacevole spiacevole e) Abbiamo detto che la pittura e la scultura rappresentano spesso cose sgradevoli, ma che la pertinenza è il fattore che ne determina il valore. Diversamente vanno le cose per l’architettura, che da sempre lavora su un oggetto necessario per vincere la lotta per l’esistenza: la casa, il riparo. Essa non produce solo racconti, come l’arte, ma anche cose utilizzabili, come l’artigianato, che richiedono tuttavia un disegno, un progetto prima intuito e poi oggettivato. Per questo motivo le prime case “moderne” furono prodotte da Homo sapiens, l’unico che sapesse progettare un disegno e realizzarlo. Il momento artistico di un edificio è il disegno libero dell’architetto, che è simile al prodotto del pittore. La differenza è che quest’ultimo è solo un disegno, 62 mentre l’altro è un disegno che deve trasformarsi in realtà abitabile, è un progetto (120 ). Quando in una casa manca l’aria o la luce, o gli spazi sono troppo angusti o troppo ampi o mal disposti per la loro destinazione, o quando i colori sono eccessivi, o mancano gli spazi esterni, i giardini, gli alberi, allora ne diamo un giudizio negativo. La pertinenza in architettura è quindi un incrocio di tante pertinenze interne ed esterne al corpo architettonico. I primi spazi abitativi sono stati ottenuti svuotando il corpo della montagna, creando uno spazio interno, una pancia vuota dentro la natura piena; successivamente, il luogo si è ottenuto ritagliando con muri lo spazio infinito intorno a noi, disegnandolo con la pietra, con il legno, con il fango, con le pelli. Ogni popolo, ogni classe ha chiuso lo spazio in base alle sue possibilità e ai suoi gusti. Lo spazio, insieme ai muri, è l’elemento primario della casa. I muri delimitano un luogo, lo creano. La pertinenza architettonica, permettendo di vivere meglio, è anche piacevole. La pertinenza/utilità dell’architettura, quando si unisce alla raffinatezza, piace doppiamente. Si può avere raffinatezza senza pertinenza/utilità, ma non utilità senza pertinenza: una casa pertinente è sempre pienamente fruibile. Lo stesso vale per un vestito. La pittura, la scultura e la letteratura possono rappresentare, in modo adeguato o meno, tutto l’esistente e il pensabile senza danneggiare nessuno. Quando l’architettura produce un manufatto non pertinente ne penalizza l’uso pratico. Una casa in cui tutte le stanze fossero comunicanti, fornirebbe una cattiva abitabilità, non sarebbe adeguata, anche se potrebbe essere elegante e rifinita, ovvero raffinata. f) Va infine detto che la pertinenza di un manufatto presenta un doppio statuto: in rapporto a sé e in rapporto a chi lo utilizza. Un abito sontuoso, come portavano nei secoli passati le regine nelle grandi occasioni, e che possiamo ancora vedere nei quadri di alcuni pittori (121 ), può essere considerato pertinente in quel contesto, in quanto doveva esibire la ricchezza e la potenza della sovrana e marcare la distanza e la superiorità rispetto ai sudditi. Quello stesso vestito, indossato da una borghese o da una contadina, risulterebbe non solo non-pertinente, in quanto non consentirebbe di operare liberamente con il corpo, ma addirittura ridicolo, per lo stacco evidente tra la funzione del vestito e il ruolo della persona in questione. Per fare un esempio moderno, un abito da sera di Capucci renderebbe ridicola una donna che lo indossasse in un ufficio durante il lavoro; sarebbe invece pertinente in una sfilata di moda, contribuendo a creare un effetto statuario nella modella che lo indossasse. Ci sono quindi alcuni manufatti artigianali che sono sempre pertinenti in rapporto a se stessi e in rapporto a chi ne ha bisogno (il martello, la forchetta). Altri possono essere pertinenti in sé, adeguati al progetto, un abito regale, ma inservibili per la quasi totalità degli esseri umani, inutili. Altri ancora possono essere adeguati solo in alcune situazioni. Una poltrona, ad esempio, sarebbe non-pertinente dietro ad uno sportello delle poste, ove l’impiegato deve lavorare continuamente. Diverso sarebbe in altre situazioni. Un vestito non può mai essere definito “bello” in sé, ma sicuramente può contribuire, in alcuni casi, a rendere più attraente la persona che lo indossa, ma anche più ridicola, in altri. Può star bene ad una persona anziana, ma non ad una giovane, in quanto esalta o deprime certe 120 - Probabilmente l’uomo-artigiano fu già in grado di costruirsi un riparo, ad imitazione dei ripari naturali: tettoie e capanne si possono rinvenire in natura sotto o fra gli alberi. Imitarli non fu difficile per Homo erectus. Piero Angela, in una delle sue trasmissioni di divulgazione culturale, ha fatto riferimento al rinvenimento delle basi di quella che dovette essere una capanna databile a 380 mila anni fa. 121 - Famosi sono i ritratti in abiti grandiosi di Elisabetta I come il Ritratto dell’ermellino o il Ditchley Portrait, o l’Armada Portrait o il Parliament Robes e tanti altri ancora, quasi tutti di autore incerto o ignoto, come anche impressionanti sono gli abiti di Marianna d’Austria o dell’Infanta Margherita del Velasquez. 63 caratteristiche del corpo, del portamento, del rango, dell’età. In sintesi, si può dire che un abito è adeguato, per quella particolare funzione, ma non per altre. Lo stesso vestito è perfetto per certe occasioni ed è migliore di altri vestiti per raggiungere l’effimero effetto desiderato, anche se è assolutamente inadatto per la quasi totalità delle altre occasioni. Le cose belle, invece, un albero in fiore o un bel corpo giovane, in quanto appartengono alla natura, non sono mai ridicole o inadatte. 64 9 - Arte ed astrazione a) I primi reperti artistici, essendo coevi – o di poco posteriori all’avvento dell’uomo moderno, vanno considerati documenti di incomparabile valore al fine di decifrare l’intervallo evolutivo che distingue Homo sapiens dall’uomo di Neandertal e dagli altri più antichi predecessori. Per illuminare questo oscuro passaggio, è indispensabile la collaborazione tra l’antropologia fisica, che studia le diverse geometrie del cranio (122 ), l’antropologia culturale e la filosofia, in quanto cercano di rintracciare ciò che l’uomo è stato attraverso ciò che ha fatto. Il senso della bellezza è un gusto umano antichissimo, formatosi grazie ad una particolare struttura visivo-intellettiva. L’arte invece nasce con l’uomo moderno, quando acquisisce la facoltà di rappresentare fuori di sé ciò che percepisce dentro di sé, di riprodurre a due o tre dimensioni gli oggetti della realtà, del pensiero, della fantasia (123 ). Con una battuta, si potrebbe dire che la percezione del bello e il giudizio estetico sono arcaici, mentre l’arte è moderna. Duplicare un oggetto significa astrarne l’immagine e fissarla in linee e colori o nelle forme plastiche della scultura (124 ). Più in generale, astrarre significa estrarre, tirar fuori da uno o più concreti, da loro parti o aspetti, un elemento comune nella forma di una immagine, di un simbolo, di una parola. L’astrazione è la caratteristica che connota la mente dell’uomo moderno. Una mente che non astragga compiutamente, che non duplichi la realtà, non ha una sua indipendenza, non possiede un io separabile e riflessivo. La mente che invece è capace di porsi di fronte al mondo in piena autonomia, distinguendosi anche dalle proprie immagini, diventa il presupposto di un’ulteriore capacità, quella di giocare con esse, di muoverle in libertà, di accostarle e separarle a piacere, di moltiplicarle, in un vortice rappresentativo che è, a sua volta, la base del linguaggio evoluto, in quanto combinatoria infinita di un numero finito di immagini-segni. Queste considerazioni ci inducono a pensare che l’umanità precedente al Sapiens non avesse un linguaggio bene articolato. L’aumento della massa cerebrale e la maggiore complessità delle reti sinaptiche hanno reso possibile l’invio dell’immagine da una parte all’altra del cervello, di rappresentarla in modo diverso, di dislocarla. L’astrazione nasce da una sorta di elasticizzazione del pensiero, quando aumentano le connessioni e si intrecciano le reti neurali. La mente riesce a sezionare le immagini e i concetti, a tirarne fuori parti o aspetti, a rovesciarne gli ordini, come cominciano a fare i bambini già prima dei tre anni, quando, per gioco, si scambiano i ruoli, assumendo a turno quello della madre o di un’altra persona: “facciamo che io ero…”, o quando animano bambole e oggetti vari. 122 - E. Bruner ha condotto studi rigorosi su questi temi con gli strumenti della geometria morfometrica, come in Geometric morphometrics and paleoneurology: brain shape evolution in the genus Homo, “Journal of Human Evolution”, 47, 2004, 279-303. 123 - Mi riferisco in particolare alla pittura e alla scultura del paleolitico superiore europeo, circa 35.000 anni fa, ma anche a quelle coeve di altri continenti. Accettano questa datazione anche S. McBrearty e A. S. Brooks in The revolution that wasn’t: a new interpretation of the origin of modern human behavior, in “Journal of Human Evolution”, 2000, vol. 39, n° 5, 453-563, pur essendo contrarie alla tesi di un’improvvisa rivoluzione che avrebbe portato alla comparsa dell’uomo moderno 40-50 mila anni fa. Le autrici sostengono infatti che le molteplici caratteristiche di Homo sapiens comincino a manifestarsi, sebbene separatamente, a partire da 280.000 anni fa. La produzione di immagini, ovvero la produzione artistica, tuttavia viene fatta risalire approssimativamente a 40.000 anni fa. Credo comunque che non si possa parlare di uomo moderno compiuto fino a che non si presentano insieme tutte le caratteristiche elencate nel loro prospetto, in particolare quelle di una specifica astrazione. 124 - E. Anati in Origini dell’arte e della concettualità, Iaca Book, Milano 1988, p. 98, aveva scritto: “D’altro canto, l’arte grafica e figurativa, anche la più naturalistica, è sempre un’astrazione, perché costituisce la figurazione, e quindi la trasfigurazione, di una realtà della quale si sceglie una parte, sia essa visuale, simbolica o concettuale”. Non serve in questa sede discutere sulla precedenza tra arte naturalistica e arte astratta, essendo entrambe due forme di astrazione. Si veda a tal proposito Dall’astrazione all’organicità, De Luca, Roma 1958, in cui A. C. Blanc attacca la tesi di R. Bianchi Bandinelli, che aveva difeso la tesi dell’origine naturalistica. 65 b) Attraverso i reperti della produzione umana, possiamo tentare di ricostruire la storia dell’evoluzione cerebrale dell’uomo. Il primo episodio documentabile di astrazione umana pienamente evoluta si ha nel paleolitico superiore europeo con le prime forme d’arte nella scultura e nella pittura, trenta-quarantamila anni fa, quando nacque il disegno (125 ). La pittura e la scultura sono una sorta di finzione, in cui un’immagine sta per un’altra cosa, la rappresenta, come in un modello, dove si concentra una variegata realtà (126 ). Non conosciamo quali siano state le tappe che hanno contraddistinto il passaggio dall’immersione della mente nella natura alla sua emancipazione attraverso l’astrazione; conosciamo invece alcuni prodotti delle diverse condizioni mentali. Una prima arcaica tappa si è avuta quando è nato l’artigianato, ovvero quando l’uomo è stato in grado di modificare e aggiungere qualcosa alla natura (una lancia da un ramo, un raschiatoio da un sasso), ciò comportando un grado di astrazione, anche se non molto elevato, dal momento che è la stessa esperienza a mostrarci come un legno appuntito sia più penetrante di uno che non lo è. Ben più elevata è l’attività che si esercita con la produzione artistica vera e propria, che presuppone la capacità di riprodurre in immagini la natura e le idee. L’umanità che ha preceduto l’uomo moderno non ha dipinto, non ha scolpito, probabilmente non ha posseduto un linguaggio, se non quello elementare “una parola–una cosa”, molto diverso rispetto a quello basato su astrazioni di astrazioni e su regole sintattiche (127 ). Ancora più primitivo è il suono che emette un animale quando indica un pericolo particolare, essendo una reazione istintiva (128 ). 125 - I Delluc ipotizzano che il disegno nasca all’inizio dell’aurignaziano, 30.000 anni fa, in alcune località del Perigord in Francia e del Baden-Würtenberg in Germania, per poi espandersi in altre regioni (B. e G. Delluc, in Le grand Atlas de l’Art, Encyclopaedia Universalis, Paris 1993; trad. it., Atlante dell’arte, Garzanti, Torino 2001, vol. I, La prima arte dei grandi cacciatori in Europa, pp. 18-20. F. Facchini aveva sostenuto questa tesi in Evoluzione, uomo e ambiente, UTET, Torino 1958, p. 158. E. Anati, Origini dell’arte e della concettualità, cit., parla spesso di “linguaggio visuale”, nato per evoluzione e rivoluzione con la produzione artistica di Homo sapiens moderno. Non condivido le affermazioni di Honour e Fleming che fanno risalire la nascita dell’arte ai prodotti più raffinati dell’artigianato, 750.000 anni fa, giacché non tengono conto della profonda differenza che intercorre tra artigianato e arte, tra gusto per il bello e produzione artistica (H. Honour e J. Fleming, A World history of art, Macmillan Reference Books, London 1982; trad. it., Storia universale dell’arte, Laterza, Roma-Bari 1982, p. 13). Un numero assai ristretto di archeologi ha collocato nel paleolitico inferiore (da 500.000 a 300.000 anni a. C.) alcuni reperti, che o non sono sculture ma semplici ciottoli con qualche vaga rassomiglianza ad una testa umana operata dal caso, come spesso accade con i profili delle montagne o, quando sono delle vere e proprie sculture, devono essere datati in modo diverso. 126 - L’antropologia studia l’evoluzione di specifiche zone cerebrali e la loro riorganizzazione in nuove strutture, base anatomica dell’emersione del pensiero dell’uomo moderno, la cui caratteristica più evidente è data dalla notevole fluidificazione delle attività mentali. Gli studi sulle nuove capacità di Homo sapiens si vanno moltiplicando in questi ultimi anni. Alcuni analizzano la nascita del linguaggio sintattico e della matematica, quindi la capacità di simbolizzare, altri si occupano del comportamento innovativo, non ripetitivo o imitativo, altri del mantenimento nella memoria delle immagini e dei rapporti spaziali, altri del controllo centralizzato delle funzioni cerebrali, altri ancora dell’anticipazione di eventi futuri. Per Coolidge e Wynn decisiva è stata la nascita di una particolare memoria, che ha permesso di immagazzinare per brevissimo tempo le informazioni, di “tenere a mente le cose”. Questa rinnovata capacità avrebbe reso possibili le nuove funzioni esecutive di cui si parlava sopra (F. L. Coolidge e T. Wynn, A cognitive and neuropsychological perspective on the Châtelperronian, in “Journal of Anthropological Research”, vol. 60, 2004, pp. 55-69). Io credo che queste analisi colgano aspetti essenziali dello sviluppo del pensiero di Homo sapiens, ma che non tocchino il tema dell’astrazione, sostituito dal tema della fluidificazione, che non riesce a mostrare il grande salto qualitativo che la mente compie con la nascita dei processi di sdoppiamento. 127 - Craig ci ricorda che i bambini si esprimono prima con parole singole, per lo più sostantivi, anche se spesso servono a comunicare pensieri complessi (G. J. Craig in Human development, Englewood Cliffs, Prentice-Hall, London 1980; trad. it., Lo sviluppo umano, il Mulino, Bologna 1982). 128 - G. Clark è del parere che gli scimpanzé posseggano “un registro di espressioni emozionali”, ma non un linguaggio, non potendo esprimere o designare oggetti (World prehistory in new perspective, Cambridge Univ. Press, Cambridge 1961; trad. it., La preistoria del mondo, Garzanti, Milano 1967, p. 37). Tattersall è convinto della radicale diversità tra il linguaggio delle scimmie antropomorfe e quello degli uomini: “Le antropomorfe imparano a formulare richieste, ma al contrario dei bambini, anche dei 66 Quando l’uomo comprese la possibilità di utilizzare un sasso tagliente, imparando anche a riprodurlo, produsse insieme il suo concetto e la sua parola, sebbene fosse ancora assente il discorso vero e proprio. Quando invece riuscì non solo a produrre e riprodurre utensili, ma a fondare un evoluto mondo di segni (parole e immagini) come equivalente del mondo reale, nacquero insieme linguaggio ed astrazione moderni (129 ). Il primo disegno infatti va interpretato come il più antico tentativo di scrittura, che si è realizzato quando le immagini sono state oggettivate di fronte a noi nella forma simbolica più elementare, la copia bidimensionale. Il disegno e la scrittura sono quindi invenzioni, derivate da una capacità da poco operante nel cervello umano. L’umanità prima ha capito che poteva raccontare e comunicare qualcosa, disegnado uno o più eventi; poi si è resa conto che le figure stilizzate, rese essenziali, potevano indicare tutte le cose con la stessa caratteristica – la figura di una barca sta per tutte le barche – diventando degli universali fantastici, come direbbe Vico. L’immagine di un cane è un’astrazione dalla realtà; la figura stilizzata che sta per tutti i cani astrae un elemento comune a tutte le figure astratte dello stesso tipo, è un’astrazione di astrazioni. Quando alle figure si sostituiranno le parole composte di lettere di un alfabeto, il processo sarà compiuto (130 ). c) Anche se non è agevole, è possibile avanzare ipotesi sulle varie tappe attraverso cui è passata l’astrazione umana. L’attività artistica è diversa e superiore rispetto a quella empirico-artigianale, poiché già lavora con immagini fluidificate, ma è inferiore rispetto all’astrazione concettuale vera e propria, al pensiero scientifico, che rappresenta realtà non semplici, come “giustizia”, “economia”, in cui un suono o una immagine non stanno per una cosa singola, ma per un insieme di attività, di rapporti, di utilità. L’intelligenza artigianale, prima forma di astrazione umana, che abilita a produrre strumenti di lavoro, precedette di due milioni di anni l’intelligenza con astrazione e con simboli linguistici più complessi, e quindi l’arte. Non è esatto pertanto identificare nel termine greco “téchne” arte e artigianato, ovvero qualsiasi manufatto umano, perché sono in parte diverse, almeno nelle forme originarie, le attività mentali che presiedono alle rispettive produzioni. L’artigiano arcaico trasforma le cose naturali in prodotti utili all’uomo, trasferendo in un materiale grezzo uno schema appreso casualmente dalla natura; non disegna, non inventa, non mescola forme e funzioni, imita ciò che la natura fa spontaneamente – una punta, un raschiatoio, un contenitore. La produzione per imitazione è la forma più semplice di creatività, giacché non ha bisogno di un modello mentale, di una matrice da riprodurre all’esterno, nel più piccoli, nessuna ha mai tentato di dare inizio ad una conversazione…erano riuscite ad afferrare la nozione che simboli verbali, gestuali e altri possono stare al posto di concetti e oggetti” (I. Tattersall Becoming human: evolution and human uniqueness, Oxford University Press, Oxford 1998; trad. it., Il cammino dell’uomo: perché siamo diversi dagli altri animali, Garzanti, Milano 1998, p. 61). In un'altra opera sostiene che, il protolinguaggio dei primati è caratterizzato da un suono/un significato, da una vocalizzazione/un contenuto, mentre quello umano è un sistema di categorizzazioni del mondo (Id. The monkey in the mirror: essays on the science of what makes us human, Oxford University Press, Oxford 2002; trad.it., La scimmia allo specchio: saggi sulla scienza di cio che ci rende umani, Meltemi, Roma 2003, (p. 126). 129 - E. Anati, Origini dell’arte e della concettualità, cit., scrive a questo proposito: “La logica dell’arte preistorica è la stessa che ha dato origine al linguaggio e poi alla scrittura.” (p. 104). Successivamente, ribadisce che l’arte è un mezzo di comunicazione (p. 118) e che costituisce un grandioso archivio della concettualità (p. 177). Il disegno e la scrittura sono quindi invenzioni, come la ruota, derivate da una capacità già tutta operante nel cervello umano. Non è il caso di discuterne in questa sede, ma ho l’impressione che alla grande epopea dell’arte e del linguaggio si possa applicare la teoria vichiana del verum et factum convertuntur. 130 - Vi è una lunga storia di questa invenzione, che forse è nata come pittografia per scopi religiosi, poi si è consapevolmente trasformata in ideografia, infine, negli ultimi millenni, in scrittura sillabica e alfabetica (D. Diringer, The alphabet: a key to the history of mankind, Hutchinson, London 1968, terza edizione; trad. it., L’alfabeto nella storia della civiltà, Giunti e Barbera, Firenze 1969). 67 senso che il modello è anch’esso esterno, è in quella cosa trovata per caso. Un bambino impara imitando gesti, parole, comportamenti senza prima interiorizzarli, senza trasformarli in modelli mentali liberi, modificabili (131 ). L’artigiano arcaico infatti riproduce solo cose percepite con i sensi: vedendo che una pietra, spaccatasi spontaneamente, é adatta per raschiare la pelle degli animali uccisi, comincia a spaccare le pietre per procurarsi altri raschiatoi. La punta bifacciale è forse il derivato più raffinato di questo artigianato da imitazione della natura, perché presenta il perfezionamento di un aspetto che nella realtà è sempre approssimativo. La vista e l’intelligenza degli animali non sono adatti alla progettazione e alla lavorazione delle materie prime per la produzione di manufatti regolari. Il lavoro umano comporta la ricerca e la preparazione di materiali, ma anche la previsione del risultato del processo lavorativo. La prima lama utilizzata può essere rinvenuta per caso, ma la consapevolezza di aver trovato qualcosa di utile e la capacità di riprodurla a piacere, dopo averla progettata, comporta un cervello più evoluto di quello dei primati non umani. Una scimmia può imparare casualmente ad usare un ramo appuntito trovato sul terreno per catturare le formiche, l’artigiano arcaico è capace di produrre la punta nel ramo, l’artista è in grado di disegnare con linee e colori quel bastoncino, di riprodurlo in forma diversa. La conoscenza quindi nasce dall’esperienza e, in prima istanza, dall’imitazione più semplice. Successivamente l’esperienza diventa più complessa, grazie all’emergere della mente astraente, che elabora i dati percepiti, li mescola, li deduce, li induce, ne intuisce altri compatibili, anche se diversi, formando modelli di ciò che non è immediatamente in natura (arco e freccia, ruota). La mente ormai sa immaginare ed esternare in una rappresentazione anche i sentimenti, i saperi, i fenomeni sociali. L’artigianato quindi precede l’arte e da essa è indipendente; l’arte invece, pur essendo distinta dall’artigianato, lo presuppone, giacché non può esserci arte senza attività manipolatoria, essendo l’arte un artigianato con astrazione superiore. Lo scultore lavora, per un certo aspetto, come l’artigiano arcaico che smussa le pietre per ottenere le punte, ma, per un altro, è diverso, perché oggettiva un modello mentale con un materiale diverso da quello reale. Dialetticamente, l’arte, pur derivando dall’artigianato, lo subordina a sé, lo sussume (132 ). Utilizzando il concetto di modo di produzione in maniera approssimativa, si potrebbe dire che, così come l’artigianato è un modo di produzione, lo è anche la sua forma più raffinata, l’arte, che produce beni finalizzati ad un consumo superfluo: detto in modo logicamente contraddittorio, è un modo di produzione improduttivo. Anche i prodotti artigianal-industriali spesso non sono necessari per la sopravvivenza, ma sempre sono utili. Il modo di produzione artistico ha seguito tutte le modalità del modo di produzione artigianale e dei suoi rapporti di produzione, come si configurano nella bottega dell’artista, e come l’artigianato ha attraversato tutti i modi di produzione, fino al modo di produzione industriale, sempre subordinato ad essi. 131 - Probabilmente questo è uno dei motivi per cui i bambini imparano le lingue alla perfezione, non interponendo un filtro tra i suoni e le strutture sintattiche da imparare e la loro riproduzione imitativa. 132 - Condivido la distinzione heideggeriana di J. Lacoste in La philosophie de l’art, PUF, Paris 1981, p. 102, tra artigianato ed arte, tra fabbricazione e creazione, fra strumento e presentazione di un mondo, tra colui che fabbrica le scarpe del contadino e Van Gogh che, dipingendole, rivela in profondità l’essenza del mondo contadino. In una considerazione più generale, va tenuto presente che lo sviluppo cerebrale, da cui nacque la possibilità di un artigianato più raffinato e, successivamente, dell’arte, si verificò con il cambiamento e miglioramento della dieta umana, come hanno studiato W. R. Leonard e M. L. Roberston in Comparative Primate Energetics and Hominid Evolution, in “American Journal of Phisical Anthropology”, 102: 265-281, 1997. Sul rapporto tra risorse caloriche, spesa energetica encefalica e longevità si veda di E. Bruner e G. Manzi Adattamento biologico, comportamento sociale e longevità in Homo Sapiens, in L’età matura e la longevità nella donna dalla preistoria ai nostri giorni, Atti del Convegno, La Sapienza, Roma, 5 marzo 2002. 68 L’artigianato è una attività per la sopravvivenza, un lavoro utile; l’arte è un lavoro-gioco, un lavoro libero, che nasce quando la mente è in grado di astrarre pienamente e quando il gruppo di appartenenza dell’artista produce un surplus necessario per il mantenimento dei lavoratori improduttivi. d) Sappiamo ormai che esiste una profonda differenza percettivointellettiva che separa, pur all’interno del genere Homo, la mente dell’artigiano primitivo da quella dell’uomo che dipinse nelle grotte. Se per entrambe le attività è richiesta l’astrazione, è necessario che se ne diano due forme molto diverse tra loro. A questo proposito mi sembra opportuna la distinzione operata da Piaget tra intelligenza pratica e intelligenza conoscitiva, tra linguaggio primitivo, in cui parole e cose non sono ancora due realtà diverse, e linguaggio simbolico che separa le due sfere. Il bambino risolve a livello pratico-operativo molti problemi che non sa risolvere con operazioni logiche, essendo il linguaggio una condizione non necessaria per tali funzioni. A tal proposito Piaget scrive che: “Invece verso i sette-otto anni vediamo che si costituiscono sistemi di operazioni logiche non basati ancora sulle proposizioni come tali, ma sugli oggetti stessi, le loro classi e relazioni, e organizzati solo in occasione di manipolazioni reali o immaginarie di questi 133 oggetti” ( ). Abbiamo quindi due forme di astrazione e di abilità. Maynard Smith pensa che ancora 100.000 anni fa i moduli mentali (intelligenza sociale, tecnologica, naturale) fossero separati, e che soltanto 50.000 mila anni fa, con un grande balzo, entrassero in comunicazione tra di loro, rendendo possibile la nascita del linguaggio sviluppato grammaticalmente e l’arte (134 ). Ho l’impressione che la comunicazione fra i tre livelli di intelligenza fosse già attiva precedentemente, se produrre strumenti di lavoro comporta la comunicazione con un gruppo e la conoscenza della natura, come del resto riconosce lo stesso autore, quando parla di grammatica primitiva. Bisogna invece pensare ad un’astrazione minore, all’artigiano che possiede l’immagine che deve riprodurre nella pietra o nel legno, ma non sa ancora disegnarla, 133 - J. Piaget, Six études de psychologie, Denoel, Paris 1964; trad. it., Lo sviluppo mentale del bambino e altri studi di psicologia, Einaudi, Torino 1996, p. 96. Nella pagina successiva scrive ancora: “Le operazioni + e -, ecc. sono coordinamenti fra azioni prima ancora di poter essere trasposte in una forma verbale; non è quindi il linguaggio la causa della loro formazione…”. Bruner avanza una ipotesi simile sull’origine non linguistica delle regole del linguaggio: la predicazione soggetto-predicato, ad esempio, si manifesterebbe nell’attività motoria del bambino verso i dodici mesi, quando acquisisce la capacità di tener fermo un oggetto in una mano e di operare con l’altra su di esso (J. S. Bruner, Processes of cognitive growth: infancy, Clark University Press, Worcester, Mass 1968; trad. it., Prime fasi dello sviluppo cognitivo, Armando Armando, Roma 1971, pp. 97-101). Anche Maynard Smith e Szathmáry parlano di grammatica delle azioni (J. Maynard Smith e E. Szathmáry, The origins of life: from the birth of life to the origin of language, Oxford Univ. Press, Oxford 1999; trad. it., Le origini della vita: dalle molecole organiche alla nascita del linguaggio, Einaudi, Torino 2001, p. 263). Tattersall riferisce di un esperimento fatto da studiosi giapponesi su due gruppi di studenti: al primo gruppo fu insegnato a parole come produrre degli strumenti litici; al secondo fu insegnata la stessa cosa con le sole azioni, senza parole. I risultati furono identici. L’autore ne trae la conseguenza condivisibile che si può essere abili artigiani senza possedere capacità simboliche evolute (I. Tattersall, The monkey in the mirror: essays on science and what makes us human, Harcourt, New York , S. Diego, London 2002; trad. it., La scimmia allo specchio: saggi sulla scienza di ciò che ci rende umani, Meltemi, Roma 2003). Anche M. Donald è convinto che l’uomo moderno possieda due tipi di capacità di pensiero, quelle che non dipendono dal linguaggio e quelle che vi dipendono. Deve infatti esistere un livello intermedio fra le strutture cognitive dell’uomo attuale e quelle delle scimmie antropomorfe, se Homo erectus possedeva tecniche produttive che comportavano meccanismi mentali di invenzione, coordinazione, trasmissione e memorizzazione complessi, superiori a quelli delle scimmie, ma inferiori a quelli di Homo sapiens. Capacità che ritroviamo in bambini, cerebrolesi, sordomuti e ignoranti (Origins of the modern mind: three stages in the evolution of culture and cognition, Harvard Univ. Press, Cambridge, Mass. 1991; trad. it., L’evoluzione della mente, Garzanti, Milano 1996, p. 57 e segg., e pp. 195-199). 134 - J. Maynard Smith, op. cit., p. 261. 69 separarla, farne un progetto scritto, un modello comunicabile, vale a dire una terza cosa intermedia tra la sua immagine e la punta scolpita. Deve esserci stata una fase della storia umana in cui l’uomo ha iniziato a manifestare una capacità di astrazione prima ancora che esistesse un linguaggio evoluto, non riducibile a semplici suoni e gesti. Siamo nell’epoca del primo artigianato umano, la cui origine si perde nella notte dei tempi dell’umanità. Tra questa forma di astrazione e quella dei sapiens esiste probabilmente una via intermedia, una terza via dell’astrazione. In assenza di una risposta scientifica verificabile, avanzo una ipotesi “filosofica”, rielaborando in libertà una teoria alquanto confusa, anche se fondamentale, di Vico, che, in alcuni casi, ha anticipato filosofi e linguisti moderni (135 ). La lingua sembra presentare una doppia configurazione, quella poetico-eroica e quella razionale. La prima caratterizza un parlare più arcaico e si presenta con due peculiarità linguistiche: strutture elementari e “universali fantastici”. Le prime lingue dovettero essere molto semplici, basate su parole monosillabiche, su pronomi, su nomi, su verbi all’imperativo per dare i comandi e non dovettero avere termini astratti come giustizia, moralità, economia, sostituiti da termini di cose o persone o divinità che potessero rappresentare direttamente con i loro corpi i concetti in questione. La lingua non può non parlare per universali, ma gli universali fantastici si esprimono in modo percettivo, con immagini. La mitologia non è altro che l’espressione di concetti sotto forma di personaggi concreti. Le stesse grandi istituzioni sociali, la costituzione, le leggi, il diritto vengono indicate con il nome dei re e dei legislatori che le hanno emanate. Il primo linguaggio dovette pertanto essere una sorta di elenco mitologico in cui tutto veniva designato attraverso figure corporee, come nelle favole. Ercole è un universale fantastico che sta per la forza umana e, forse, per le fatiche sopportate dagli uomini per liberare la terra dalle foreste e dare inizio all’agricoltura. Dietro ogni figura mitologica si cela sempre un grande evento che ha interessato l’umanità. La mitologia e le religioni rappresentano la storia delle grandi categorie esistenziali dell’uomo attraverso il comportamento di eroi e di divinità, o attraverso comandamenti, precetti, raccomandazioni comportamentali, comunque sempre attraverso casi specifici. La Bibbia ne è l’esempio perfetto. Rambo è solo apparentemente un universale fantastico moderno, dietro cui si cela la forza bruta scatenata contro qualche ingiustizia occasionalmente subita. In realtà è un particolare fantastico, come molti personaggi delle favole, che non rappresentano una categoria esistenziale della vita umana. I bambini, che poco e male universalizzano, pensano per lo più attraverso narrazioni concrete, esempi significativi. Anche gli adulti meno acculturati evitano, appena possono, il colloquio mantenuto sul filo dell’astrazione simbolica, preferendo le storie personali. La politica non è esente dall’uso di universali fantastici per parlare alla gente comune: alcuni personaggi politici fanno di tutto per diventare tali, cercando di incarnare qualche aspetto della modernità. In sintesi, abbiamo almeno tre gradi di astrazione umana: 1) operativa, senza linguaggio, quando l’uomo primitivo, con la nuova prensilità e con la vista estetico-spaziale, divenne presto artigiano, riuscendo a riprodurre e a perfezionare alcuni oggetti che si trovano casualmente in natura; 2) fantastica, con linguaggio figurativo, quando Homo sapiens cominciò ad utilizzare termini universali ma non razionali, realizzando la grande rivoluzione della duplicazione, con cui ebbe origine il linguaggio orale vero e proprio, la narrazione, e il linguaggio scritto, ovvero l’arte, la narrazione per immagini 135 - GB. Vico, Principj di scienza nuova (1744, terza edizione), Ricciardi, Napoli 1953, libro secondo, Della sapienza poetica. 70 (136 ); 3) simbolica, allorquando Homo sapiens trasformò gli universali fantastici in linguaggio composto di termini universali di tipo razionale. L’uomo moderno passa inconsapevolmente da un piano all’altro, utilizzando tutte le forme dell’astrazione, tutti i linguaggi creati dall’umanità nella sua lunga storia. e) Gli esseri umani non possiedono strutture logiche innate, ma solo strutture cerebrali, neuroni e sinapsi in un reticolo vastissimo. Via via che il cervello scopre i meccanismi naturali, adegua i suoi comportamenti alle regole oggettive. Il calcolo proposizionale inverso (la negazione), il braccio che viene ritratto se percosso o minacciato, nell’esempio di Piaget, non vale solo per il bambino, ma anche per la scimmia, e non presuppone una logica innata, quanto piuttosto la comprensione di come vadano le cose nel mondo. La logica (la norma), prima di essere nel pensiero, è nella natura, e l’uomo deve solo imparare a leggerla nelle cose, anche quando i percorsi mentali per arrivarvi sono molto complessi. Homo erectus pertanto non possiede strutture logiche innate superiori a quelle delle scimmie, ma soltanto un cervello più ampio e articolato, una capacità maggiore di capire le norme che regolano la realtà (137 ). Supera la scimmia perché è in grado di formare nella mente 136 - Alcuni estetologi, dopo il tramonto di tutte le varianti delle teorie del bello, hanno continuato a pensare alla possibilità di una estetica, non più in virtù del suo metafisico contenuto, il bello per l’appunto, ma di una specificità linguistica, di un modo particolare di narrare le cose. Richards e Ogden individuavano in uno specifico linguaggio emotivo la caratteristica dell’arte (J. A. Richards e C. K. Ogden in The meaning of meaning: a study of the influence of language upon thought and of the science of symbolism, Routledge and Kegan Paul Ltd, London 1923; trad. it.. Il significato del significato: studio dell'influsso del linguaggio sul pensiero e della scienza del simbolismo, il Saggiatore, Milano 1966). Morris sosteneva che l’arte si distingue dalla scienza o dalla religione non per i contenuti, ma per la funzione dominante che il segno iconico (o segno estetico o immagine) assolve nel significare (C. Morris Signs, language and behaviour, Prentice-Hall, New York 1946; trad. it., Segni linguaggio e comportamento, Longanesi, Milano 1949). R. Jakobson (Saggi di linguistica generale, cit.) assegnava alla funzione emotiva di una parte del linguaggio la specificità dell’arte. Pur da una angolazione diversa, Cassirer, partendo dal presupposto che l’uomo è animal symbolicum, sosteneva che l’arte consiste in un linguaggio simbolico diverso da quello scientifico, ma non in contraddizione con esso, intuendo le forme pure delle cose, le strutture visibili (E. Cassirer in An essay on man: an introduction to a philosophy of human culture, Doubleday, Garden City, NY 1944; trad. it., Saggio sull’uomo, Longanesi, Milano 1948). 137 - Maynard Smith, era convinto, pur con qualche titubanza, che innata è una predisposizione neurale e non un analizzatore già del tutto sviluppato (J. Maynard Smith, The origins of life: from the birth of life to the origin of language, cit., p. 242). L’equivoco idealistico compare più decisamente in un autore non sospetto come Lorenz che dà l’impressione di scambiare l’evoluzione filogenetica con l’innatismo culturale, in cui cadono anche N. Chomsky con la sua grammatica generativa - la mente possiederebbe la facoltà del linguaggio come dotazione biologica, come se fosse innata - e J. Eibl Eibesfeldt con i suoi comportamenti universali (K. Lorenz, Die Ruckseite des Spiegels: Versuch einer Naturgeschichte menschlichen Erkennens, Aufl, Munchen, Zurich 1973; trad. it., L’altra faccia dello specchio: per una storia naturale della conoscenza, Adelphi, Milano 1974). Lorenz crede che i concetti di causa, sostanza, spazio, tempo, siano degli a priori evolutivi, non tenendo conto, tra l’altro, del loro sviluppo storico. Le uniche cose a priori sono le più o meno sviluppate funzioni cerebrali. Ciò che l’evoluzione ci lascia universalmente in eredità non è un sapere, ma un cervello in grado di cogliere le stesse leggi, gli stessi moduli comportamentali, in quanto ovvi e necessari in determinate condizioni. Sarebbe logicamente assurdo, contrario alla natura delle cose, che un cane, per ingraziarsi qualcuno, mostrasse i denti con aggressività, o che un uomo, per salutare un amico, gli sferrasse un pugno. Le strutture sintattiche non sono innate, innata è la capacità di capire che la realtà è costituita in modo tale che può essere descritta solo in quel modo. La mente non trova le regole entro di sé, ma le scopre fuori di sé. Il concetto di “sotto” viene capito dal bambino nel momento in cui fa passare il trenino sotto il tavolo. Cade in questo scambio anche la Sullivan quando sostiene che Helen Keller (cieca e sorda dalla prima infanzia) apprende quello che già sa (riportato da K. Lorenz, L’altra faccia dello specchio: per una storia naturale della conoscenza, cit., p. 313). Di parere contrario sembra Piaget, scrivendo che “se le coordinazioni nervose determinano la cornice di possibilità e impossibilità nell’interno della quale si costruiranno le strutture logiche, tali coordinazioni non contengono a priori, preformate, queste strutture in quanto logiche, cioè in quanto strumenti di pensiero. È quindi necessaria una vera e propria costruzione per passare dal sistema nervoso alla logica, e questa non può di conseguenza venir considerata come innata…Inoltre è ovvio che le leggi fisiche degli oggetti sono conformi alle regole di conservazione (o di identità), di transitività, di commutatività, ecc., come alle operazioni di addizione (e il loro inverso, la dissociazione o sottrazione) e di moltiplicazione (e il loro inverso, l’astrazione logica: se A x B = AB 71 l’immagine di una punta insieme al suo modulo di produzione. Possiede un vero e proprio schema empirico kantiano, che consiste appunto nella sequenza delle operazioni necessarie per ottenere quel manufatto, dividendo in operazioni semplici e successive il lavoro indispensabile per quel fine. La scimmia può utilizzare una punta, ma non sa analizzarla cartesianamente nelle operazioni elementari, non è artigiana, non sa come costruirla. In chiusura, vorrei riferire una mia semplice perplessità. Se le funzioni mentali di tutti gli animali si sono formate nella correlazione evolutiva tra cervello e ambiente, in grado di risolvere i problemi esistenziali primari, evitando di sviluppare ulteriori inutili capacità, non è chiaro come e perché la mente umana sia diventata uno strumento di conoscenza che ha oltrepassato di molto questi limiti. Per la prima volta nella storia della biologia, la mente è cresciuta ben al di là del suo necessario uso pratico, adatto alla soluzione dei problemi che riguardano la sopravvivenza, entrando nella sfera del pensiero teorico, per spaziare oltre la soglia del bisogno vitale. Al di sopra di un certo livello evolutivo, con l’astrazione, la mente si è liberata dalle catene che l’avevano imprigionata nella rete del calcolo utilitario e ha guardato finalmente il mondo con la freddezza dell’osservatore neutrale, per un gusto conoscitivo fine a se stesso. La mente è diventata come il computer di quel famoso film, in cui alla fine il computer si ribella al suo stesso produttore, all’uomo, che, per averlo programmato in modo molto raffinato, allo scopo di risolvere i problemi più complessi, finisce per trovarselo di fronte in una imprevedibile autonomia, avendone perduto il controllo. allora AB : A = B), cioè, in altre parole, alle strutture logiche più generali” ( J. Piaget, Lo sviluppo mentale del bambino e altri studi di psicologia, cit., pp. 131 e 132). Contro l’innatismo si è espresso G. Liotti (La dimensione interpersonale della coscienza, Carocci, Roma 1994). Posizione simile avevano assunto G. M. Edelman (Brigth Air, Brilliant Fire: on the Matter of Mind, Basic Book, New York, 1992; trad. it., Sulla materia della mente, Adelphi, Milano 1993) e D. Dennet, che è sferzante sul concetto di Io unitario (Consciousness Explained, Little, Browns & Co., London 1991; Trad. it., Coscienza, Rizzoli, Milano 1993). 72 10 - Postilla sulla morale Non è questa la sede per affrontare il tema della morale umana e del suo eventuale nesso con alcune forme di solidarietà che si riscontrano nel regno animale. Tuttavia, brevemente, si può dire che tutto ciò che è servito a spiegare la nascita della percezione estetica, attraverso cui gli esseri umani hanno iniziato a distinguere le cose in belle e brutte, spiega anche l’origine del senso morale, sulla cui base distinguiamo le azioni in buone e cattive. Ciò che è stato necessario alla specie umana per vincere la battaglia evolutiva ha assunto l’aspetto della positività morale. Vico diceva: “Ma gli uomini, per la loro corrotta natura, sono tiranneggiati dall'amor propio, per lo quale non sieguono principalmente che la propia utilità; onde eglino, volendo tutto l'utile per se e niuna parte per lo compagno, non posson essi porre in conato le passioni per indirizzarle a giustizia. Quindi stabiliamo: che l'uomo nello stato bestiale ama solamente la sua salvezza; presa moglie e fatti figliuoli, ama la sua salvezza con la salvezza delle famiglie; venuto a vita civile, ama la sua salvezza con la salvezza delle città; distesi gl'imperi sopra più popoli, ama la sua salvezza con la salvezza delle nazioni; unite le nazioni in guerre, paci, allianze, commerzi, ama la sua salvezza con la salvezza di tutto il gener umano: l'uomo in tutte queste circostanze ama principalmente l'utilità propia…per gli quali ordini, non potendo l'uomo conseguire ciò che vuole, almeno voglia conseguire ciò che dee dell'utilità; ch'è quel che 138 dicesi «giusto» ( ). Il volere per sé e il volere per gli altri sono entrambi indispensabili per la sopravvivenza della specie. Il volere per la totalità si presenta con un carattere storico, essendo storica ogni totalità. Questa può essere volta per volta la famiglia, il clan, il villaggio, lo Stato nazionale, l’intera umanità – la specie - o anche l’intero pianeta. Il problema ecologico è diventato infatti planetario solo di recente, coinvolgendo tutti i popoli della terra e rendendo credibile l’etica della natura di Jonas (139 ). Come per l’estetica, ad alcuni giudizi morali condivisi da tutti – il ripudio del maltrattamento dei bambini, del tradimento, della menzogna, delle stragi – si accompagnano giudizi regionali, formatisi in condizioni particolari, in gruppi con necessità locali, ma anche giudizi individuali, nati nel contesto in cui ciascuno è vissuto. L’unica differenza profonda tra la nascita della percezione estetica e quella morale risiede nella necessità, per la prima, di approntare prioritariamente, oltre ad un cervello molto più complesso, un occhio, un modo di vedere diverso rispetto a quello dominante nel regno animale. Per l’affermazione del senso morale non è stato necessario un organo sensoriale rinnovato e potenziato, essendo sufficiente un cervello in grado di selezionare i comportamenti utili alla salvaguardia di una organizzazione sociale riccamente strutturata, relativamente alla quale i comportamenti egoisticoindividuali non premiano selettivamente il gruppo. In sostanza, l’uomo ha capito, ad un livello qualitativamente superiore rispetto agli animali sociali, ma non sempre consapevolmente, che volere per la totalità di quel momento storico - che può essere il clan o l’intera umanità - è vincente per la specie rispetto al volere per sé. Ovviamente la realtà è meno lineare del concetto e l’egoismo individuale in molti casi continua a sovrapporsi a quello della specie, suscitando delusioni e frustrazioni in coloro che credono nella necessità del volere per l’insieme, sapendo che il gruppo sociale in cui è dominante il volere individuale rispetto a quello universale è destinato comunque al fallimento nei tempi medi o lunghi. 138 - GB. Vico, Principi di scienza nuova (1744), Ricciardi, Milano-Napoli 1953, sez. IV, Del Metodo, p. 485. Tutta l’opera è utilissima per capire l’origine della morale umana. 139 - H. Jonas, Das Prinzip Verantwortung, Insel, Frankfurt am Main 1979, trad. it., Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 1993. 73 L’altruismo animale per i piccoli, per il partner sessuale, per il branco, si è formato selettivamente, non potendo tra i mammiferi sopravvivere quella specie che, ad esempio, non curi i piccoli. La superiorità dell’altruismo umano rispetto a quello delle specie animali, anche delle più socializzate, non risiede in un diverso tipo di selezione naturale, che è una per tutti gli esseri viventi, ma nella capacità degli uomini di creare società molto più complesse di quelle animali. Ad un altruismo da branco è seguito, nel nuovo contesto, un altruismo da società (140 ). Le regole degli accoppiamenti umani, ad esempio, contemplano, oltre al rispetto di norme eugenetiche contro l’incesto, considerazioni politiche, economiche, militari sulle relazioni tra clan diversi. Ciò che vale per la riproduzione vale anche per la divisione del cibo o del lavoro, essendo decaduta la legge del più forte fisicamente. L’uomo quindi non possiede una morale innata superiore a quella degli animali, possiede invece un cervello e una società più evoluti, che richiedono solidarietà diverse e più ampie, in grado di tenere insieme una molteplicità di fattori e di variabili. Con la società umana nascono esigenze comunitarie prima inesistenti, che rappresentano la condizione in cui si forma il volere collettivo. Se infatti esiste una comunità, deve essere esistito e deve esistere il volere comunitario. Il problema quindi non è come e quando nasca la morale, ma come e quando nasca la comunità. Questa ovviamente sopporta un grado di egoismo individuale, di più in quei settori dove è possibile volere per sé senza danneggiare irreparabilmente la collettività. I gruppi umani che non hanno accettato le regole dell’insieme sono scomparsi o sono decaduti, come ha ben dimostrato Diamond (141 ). L’intelletto umano ha separato in due dottrine indipendenti ciò che vive in correlazione - il volere per tutti e il volere per sé - come se ogni individuo non vivesse sempre e comunque entro una struttura comune. La morale – o volere per tutti – e l’economia – o volere per sé - si presentano infatti come due corpi di regole opposte. Senza la superiore riunificazione delle due normative, finisce per prevalere da una parte il mercato, come sede dell’egoismo, dell’homo homini lupus, e dall’altra quello spazio incerto occupato dalle buone intenzioni di coloro che vogliono per tutti, come se ci fossero due umanità contrapposte, o, nel migliore dei casi, come se ognuno di noi dovesse volere in alcuni casi solo per sé e in altri solo per gli altri, la mattina in modo economico, la sera in modo morale, sulla base di un io morale diviso dall’io economico. 140 - Si parla molto in questo periodo di neuroni specchio, che fanno dipendere l’altruismo umano da strutture cerebrali specifiche e non da un semplice calcolo egoistico, che si adegui via via che si allargano le nostre relazioni, i nostri vincoli. Va tuttavia riconosciuto che l’altruismo umano è diverso rispetto a quello animale, se permette solidarietà diverse in quantità e in qualità rispetto alla solidarietà immediata degli animali. Non credo tuttavia che questo tipo di empatia, come vuole Rifkin (The Age of Empathy, Penguin, New York 2009; trad. it., La civiltà dell’empatia, Mondadori, Milano 2010), possa eliminare la solidarietà derivata dal calcolo egoistico delle utilità, se queste ultime hanno bisogno degli altri per potersi affermare. La mondializzazione dell’economia, del clima, della politica, dell’emigrazione, dell’energia non può non creare una sorta di egoismo altruistico, una volontà di risolvere i nostri problemi insieme a quelli degli altri, convergendo ormai gli interessi di tutti. L’altruismo originario – quello dei neuroni specchio – e l’altruismo derivato dal calcolo non sono facilmente distinguibili, oscurandosi la loro origine nella intima e sconosciuta intenzione di ciascuno. Un concetto tuttavia deve essere chiaro, che “in principio” non esisteva né egoismo né altruismo, ma solo processi chimici. Con la nascita della sensibilità e del pensiero, i processi selettivi hanno fissato nel nostro sistema cerebrale strutture che presiedono alla volontà egoistica e strutture che presiedono alla volontà altruistica, con una data di nascita per l’una e per l’altra. Perché si formi il volere è indispensabile una sorta di vita psicologica, un desiderare, un preferire, un soffrire all’interno di una complessa vita di relazione, ove è inevitabile lottare o condividere, ovvero amare ed odiare, e quindi scegliere. 141 - J. Diamond, Collapse: how societies choose to fail or succeed, Viking, N.Y. 2005; trad. it., Collasso: come le società scelgono di morire o di vivere, Einaudi, Torino 2005. 74 Indice dei nomi Ackerman D. Adorno TH. A. Aldovrandi A. Anati E. Anceschi L. Andreoli V. Angela P. Ardrey R. Aristotele Arsuaga J. L. Bachtin M. Balzac H. Banfi A. Bataille G. Baudrillard J. Berti E. Bianchi Bandinelli R. Blanc A. C. Boccioni U. Bodei R. Bracci N. Bracco P. Bradshaw J. L. Brooks A. S. Bruner E. Bruner J. S. Bruno G. Buss D. M. Buzzegoli E. Cappellano A. Caroli F. Cassirer E. Castelli C. Cavalcanti G. Cézanne P. Changeux J. P. Chavaillon J. Chierighin F. Chomsky N. Ciappi O. Ciatti N. Clark G. Colletti L. Coolidge F. L. Corazza L. Costa M. Craig G. J. Croox J. H. Da Lentini J. D’Angelo P. Danto A. Darwin C. D’Averio P. Degas E. Della Volpe G. Delluc B. 75 Delluc G. Dennet D. Derrida J. De Sanctis F. Dessoir M. De Waal F. Diamond J. Di Lorenzo A. Diringer D. Di Stefano E. Dobzhansky T. Donald M. Duchamp M. Eco U. Edelman G.M. Eibl Eibesfeldt J. Engels F. Euron P. Facchini F. Falk D. Feyerabend P. Fiedler K. Fleming J. Fo D. Fontana L. Formaggio D. Forman M. Francalanci E. L. Freud S. Gadamer H. G. Gehlen A. Genette G. Gibson K. R. Givone S. Gleick J. Goodall J. Goodman N. Grassé P. P. Grégoire F. Haftmann W. Hansen T. Hegel G. W. F. Heidegger M. Hibben J. G. Honour H. Hugo V. Hume D. Husserl E. Jakobson R. Jauss H. R. Jonas H. Kandinsky W. Kant E. Klimt G. Lacoste J. Lalo Ch. Leakey R. Léonard A. 76 Leonard W. R. Leonardo Lessing G. E. Lewin R. Liotti G. Lorenz K. Lucrezio Lukàcs G. Magro A. M. Manzi G. Marx K. Maynard Smith J. McBrearty S. Meyer J. Modica M. Montagu A. Morgan E. Morris C. Morris D. Mukarowsky J. Neri V. Noèl G. Ogden C. K. Paci E. Panzera A. M. Pareyson L. Parsi M. Piaget J. Pollock J. Poplin F. Popper K. Potok Ch. Praz M. Propp V. Ja. Richards J. A. Rifkin J. Roberston M. L. Rosenberg H. Rosenkranz K. Roudnitska E. Salinari C. Salza A. Salza F. Sanguinetti E. Scaramuzza G. Schlegel F. Singh D. Souriau E. Stella V. Szathmàry E. Taine H. R. Tassi R. Tatarkiewcz W. Tattersall I. Van Gogh V. Vattimo G. Vico GB. Vigarello G. 77 Volpi F. Warhol A. Weiner J. S. Wittgenstein L. Wolf M. Wolpert L. Wynn T. Zola E. 78