parte I - Energia Spazio Ambiente

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parte I - Energia Spazio Ambiente
Enrico Grassi
Scritti filosofici
Parte I
Estetica
La nascita della percezione del
bello nel processo evolutivo
Indice:
1) Darwin e il problema estetico
2) La nascita della percezione del bello di natura
3) Soggettività e universalità del giudizio estetico
4) La bellezza del corpo umano
5) Bello artistico o pertinenza?
6) La pertinenza nell’arte del Novecento
7) Il “brutto” artistico
8) L’artigianato
9) Arte e astrazione
10) Postilla sulla morale
Indice dei nomi
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4- 7
8 - 14
15 - 20
21 - 28
29 - 42
43 - 47
48 - 58
59 - 66
67 – 74
75 – 76
p. 77 - 80
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1 - Darwin e il problema estetico
a) Il concetto del bello è nato anticamente nel vasto regno della
filosofia, ove è rimasto fino ai nostri giorni, non essendo mai riuscito a
diventare problema scientifico. Il discorso deve quindi ripartire dalla
constatazione del fallimento di ogni estetica filosofica, per esplicita
dichiarazione di molti degli addetti ai lavori.
Nella situazione di dominante incertezza, vale forse la pena di tentare
una via del tutto nuova, attraverso i percorsi dell’antropologia. Questa giovane
scienza tenta di ricostruire le successive strutture del cervello umano dai primi
momenti dell’ominazione fino a Homo sapiens, per capire come e perché sia
emersa una specie con determinate caratteristiche cerebrali e sensoriali che
la distinguono dagli altri primati, di cui pure fa parte.
La ricerca pertanto è guidata da un’idea primaria: tutto ciò che
distingue gli uomini dagli altri primati è nato approssimativamente negli ultimi
tre-quattro milioni di anni, quando è iniziata la storia dell’uomo.
Prima di entrare nel merito dell’analisi estetica vera e propria, va fatta
chiarezza sull’uso improprio dei termini in questione. Nella pratica quotidiana
utilizziamo una serie di parole - cosa, buono, bello – in modo molto generico,
per definire sbrigativamente una molteplicità di cose, quando non serve
essere precisi. Spesso infatti attribuiamo il termine “cosa” ad una qualsiasi
realtà; oppure, riferiamo il predicato della bontà sia ad un cibo che a S.
Francesco. Anche per quanto riguarda il termine “bello”, il ventaglio di
accezioni libere è molto vasto. Ci serviamo infatti di questo aggettivo per
definire una poesia, una persona, una catena montuosa, un vestito, una
teoria, una relazione umana, un’abitudine, un evento di qualsiasi genere.
Nella comunicazione sbrigativa tutto ciò funziona, perché riesce a
segnalare la presenza di una positività. Quando invece intendiamo essere
maggiormente connotativi, usiamo termini diversi e più precisi.
L’idea che abbiamo della bellezza è pertanto ancora un je ne sais quoi,
come è stato per la concezione della nostra vita psicologica che, tuttavia,
ormai da un secolo, ha varcato le soglie della scienza, da quando alcuni suoi
aspetti vengono studiati, e in parte risolti, come normali fenomeni fisici del
sistema nervoso centrale. L’estetica non ha raggiunto questa soglia, essendo
rimasta come branca della filosofia, destinata a proporre ipotesi
generalissime.
In questa precaria situazione, credo che sia utile ricominciare dalla
teoria dell’evoluzione e, in particolare, dalla distinzione che Darwin operò tra
produzione e riproduzione della vita, ovvero tra selezione naturale e selezione
sessuale. La prima è destinata a regolamentare i processi relativi alla
sopravvivenza, alla ricerca di ciò che favorisce la vita, in cui gruppi di maschi
e femmine procedono insieme, mentre la seconda, relativa alla scelta dei
partner sessuali, descrive le lotte tra maschi per il possesso delle femmine
migliori (1).
La via aperta da Darwin obbliga infatti a credere - pena la ricaduta in
forme di idealismo e di soggettivismo - alla nascita della percezione del bello,
come di tutte le altre sensibilità o pulsioni, e, più in generale, di tutte le
capacità e di tutte le reattività umane (l’astrazione, la razionalità, l’altruismo,
l’egoismo, la socievolezza, la competitività, la gelosia, l’innamoramento) in un
qualche momento della storia biologica dell’uomo come premio adattativo, o
come resultante di premi adattativi diversi (2). Darwin tuttavia si è occupato
1 - C. Darwin, The descent of man, and selection in relation to sex, Murray, London 1871; trad. it.,
L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, Newton Compton, Roma 1972, p. 647.
2 - Si discute molto da qualche tempo di egoismo ed empatia, di prevalenza dell’uno o dell’altro. Ai testi
di J. Rifkin farò riferimento in un altro capitolo. F. De Waal ha pubblicato nel 2009 The age of Empathy,
Three Rivers Press, N. Y.; trad. it., L’età dell’empatia, Garzanti, Milano 2011. Tutto ciò che appartiene
alla vita ha una data di nascita: l’egoismo si forma con alcune specie di esseri viventi, così come
2
quasi esclusivamente della genealogia evolutiva delle strutture fisiche degli
animali e degli uomini, in una sorta di storia morfologica della vita sulla terra,
ma non si è interessato, se non sporadicamente, alla formazione adattativa
delle molteplici capacità derivate dallo sviluppo del cervello umano in
specifiche condizioni. Se scoprissimo quando e perché è nata la percezione
della bellezza, sconosciuta al regno animale, e perché ha avuto bisogno di un
cervello e di una vista diversi dagli altri primati, scopriremmo anche perché si
è formato il criterio giudicativo bello-brutto. L’estetica di tutti i tempi non si è
mai posta questo problema da un punto di vista genetico, l’unico che potrà
darci informazioni di qualche valore.
Sorprende osservare quotidianamente scienziati e filosofi che, pur
inchinandosi al genio di Darwin, procedono come se la teoria dell’evoluzione
non li riguardasse. Il mito delle facoltà mentali, già presente nel De anima di
Aristotele, vincola ancora le nostre analisi nelle scienze dell’uomo, sempre
alla ricerca di quella parte dell’Io responsabile di un particolare
comportamento, riproponendo in questo modo una qualche metafisica del
soggetto, come se esistessero attività intellettive separate e indipendenti,
caselle dello spirito, una predisposta per la fantasia, un’altra per l’amore, per
l’altruismo, per la matematica, per la libertà, per la religione, giù giù fino a
quelle per la sintesi e per l’analisi.
Più insidiose sono le concessioni all’apriorismo da parte di autori per
altro insospettabili. Chomsky pensa che le strutture sintattiche della lingua
umana siano innate, e Lorenz ritiene che i concetti di causa, sostanza, spazio,
tempo siano degli a priori evolutivi, senza tener conto che mutano con il
progredire della scienza. Il cervello, a mio avviso, possiede attualmente “a
priori” la capacità di astrarre - anche questa con una sua data di nascita ovvero una funzione neurale in grado di operare su dati ricevuti, separandone
gli aspetti comuni e incrociandoli in vario modo.
b) L’antropologia ha il merito di porre il problema della percezione del
bello in termini evolutivi, ma si limita a realizzare inchieste e a comporre
statistiche sugli indici di gradimento rispetto ai corpi e ai visi umani, senza
trovare la via per fondarvi un’estetica generale, in grado di fare i conti con
tutte le forme di bellezza. Le scienze della natura e l’estetica hanno il compito
di individuare le strutture cerebrali e le condizioni ambientali che sono state
necessarie perché potesse formarsi il gusto per il bello. L’ispirazione
darwiniana, evitando ogni metafisica, ci induce a ricondurre questo fenomeno
entro lo sviluppo dei rapporti uomo-natura e uomo-donna, ovvero della
produzione e della riproduzione della vita, ove ha trovato il suo fondamento,
celato nel perché della sua nascita.
L’antropologia, come dicevo, tenta di fondare una teoria della bellezza
del corpo umano su base evolutiva, ma non riesce a superare il “pregiudizio
freudiano”, ancorandola alla sessualità. La percezione della bellezza non può
avere origine solo dall’apprezzamento della funzionalità dei caratteri sessuali,
ma anche, e prima ancora, dall’apprezzamento dei corpi adatti al lavoro,
indispensabili per la sopravvivenza della specie. La selezione naturale
precede e fonda la selezione sessuale, come insegna Darwin: l’uomo prima
produce e poi si riproduce, come ribatte Eldredge. Possiamo dire che è bello
quel corpo che manifesta forza, agilità, resistenza, ovvero tutte le
caratteristiche necessarie al duro lavoro, alla fuga, all’inseguimento, alla lotta.
È bello tutto ciò che è positivo per la nostra specie: un corpo umano adatto
alla produzione e alla riproduzione, un frutto necessario per l’alimentazione o
un fenomeno astronomico favorevole. Il bello, per una mente laica,
l’empatia non è esistita fino a quando non è stato necessario accudire qualcuno o qualcosa. Sembra
tuttavia abbastanza evidente che in ogni specie animale domini diversamente l’egoismo e l’altruismo,
essendo la socialità maggiore o minore in base alle necessità di ciascuna forma di vita. Cambia anche
per ogni popolazione, per ogni individuo, pur all’interno dei caratteri della specie.
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rappresenta ciò che ha reso possibile la vita sul pianeta Terra. Se fondassimo
la percezione della bellezza solo sull’attrazione sessuale, non potremmo poi
spiegare l’apprezzamento estetico per il cielo, il mare, gli alberi.
Coloro che hanno identificato il bello con l’arte, ovvero con una forma di
produzione umana, non si sono resi conto che l’uomo può produrre, ovvero
inventare e scoprire, molte cose, come la ruota, l’aratro, la gravitazione, ma
non può “inventare” la bellezza attraverso l’arte, come non può inventare la
razionalità, l’innamoramento, la socialità.
Su questi temi tornerò più diffusamente nei capitoli che seguono.
c) L’intera terza parte dell’Origine dell’uomo è dedicata alla “selezione
sessuale in relazione all’uomo”, dando luogo ad un mirabile saggio sulla
formazione selettiva di molteplici caratteri fisici umani, fatti discendere dalla
funzione del gusto estetico nella scelta dei partner sessuali:
“Many persons are convinced, as it appears to me with justice, that the members of
our aristocracy, including under this term all wealthy families in which primogeniture has long
prevailed, from having chosen during many generations from all classes the more beautiful
women as their wives, have become handsomer, according to the European standard of
beauty, than the middle classes; yet the middle classes are placed under equally favourable
conditions of life for the perfect development of the body…but this may be chiefly due to their
3
better food and manner of life ( ).
Vi è un doppio nesso tra bellezza e classe sociale, giacché, in primo
luogo, i privilegiati possono scegliere i partner più attraenti e, in secondo
luogo, le loro migliori condizioni di vita favoriscono un più armonico sviluppo
del corpo.
“Both sexes, if the females as well as the males were permitted to exert any choice,
would have chosen their partners, not for mental charms, or property, or social position, but
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almost solely from external appearance” ( ).
“But as soon as the practice of procuring wives from a distinct tribe was effected
through barter, as now occurs in many places, the more attractive women would generally
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have been purchased” ( ).
“The old traveller Chardin, in describing the Persians, says their "blood is now highly
refined by frequent intermixtures with the Georgians and Circassians, two nations which
surpass all the world in personal beauty. There is hardly a man of rank in Persia who is not
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born of a Georgian or Circassian mother" ( ).
Quando è stato possibile, la scelta del partner su base estetica è
risultata primaria, in particolare da parte dei maschi, rispetto agli altri tipi di
scelta.
“If then the several foregoing propositions be admitted, and I cannot see that they are
doubtful, it would be an inexplicable circumstance, if the selection of the more attractive
3 - C. Darwin, cit., p. 356; trad. it., “Molti sono convinti, ed è anche il mio parere, che i membri della
nostra aristocrazia…siano diventati di aspetto più attraente di quelli della borghesia, perché per molte
generazioni hanno potuto scegliere come mogli le donne più belle appartenenti ad ogni classe; tuttavia
la borghesia gode di condizioni ugualmente favorevoli per quel che riguarda il perfetto sviluppo del
corpo…Ciò può dipendere però dalle migliori condizioni del vitto e del modo di vivere” (p. 619).
4 - Ivi, p. 368; trad it., “Gli individui di ambo i sessi, quando sia le femmine che i maschi potevano
operare liberamente una scelta, sceglievano i loro compagni non per le loro qualità mentali, per la
ricchezza o la posizione sociale, ma quasi esclusivamente per l’aspetto esteriore” (p. 627).
5 - Ivi, p. 365; trad. it., “Ma appena subentrò l’uso di procurarsi le mogli da una tribù vicina attraverso il
baratto, come avviene ancora in molti luoghi, furono naturalmente acquistate le donne più belle” (p.
625).
6 - Ivi, p. 356-7; trad.it., “Chardin, antico viaggiatore, descrivendo i Persiani dice che «il loro sangue
attualmente è ingentilito dai Georgiani e dai Circassi, due popolazioni che eccellono in bellezza su tutte
le altre. Non c’è Persiano di rango elevato che non sia nato da madre circassa o georgiana»” (p. 619).
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women by the more powerful men of each tribe, who would rear on an average a greater
number of children, did not after the lapse of many generations modify to a certain extent the
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character of the tribe” ( ).
“…yet if the males which are the strongest and best able to defend or otherwise assist
their females and young offspring, were to select the more attractive females, this would
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suffice for the work of sexual selection” ( ).
La scelta estetica è intervenuta selettivamente a modificare i caratteri
fisici, le fattezze, la salute dei componenti delle tribù arcaiche. La scelta dei
partner sessuali migliori, sia dal punto di vista estetico che riproduttivo, ha
reso quindi più attraenti i corpi di coloro che appartengono alle classi sociali
privilegiate, e, tendenzialmente, dell’intera umanità, se tutti sono dotati di
questa nuova sensibilità per la bellezza.
Sulla scelta estetica maschile relativa alla riproduzione si ritrova una
testimonianza anche nella Genesi, dove è scritto: “…avvenne che i figliuoli di
Dio videro che le figliuole degli uomini erano belle, e presero per moglie
quelle che si scelsero fra tutte” (9).
È attualmente impossibile condividere molte delle conclusioni di Darwin
sulle specifiche differenze tra uomini e donne, o sulla trasmissione dei
caratteri fisici, mentali e psicologici, in quanto, non potendo tenere conto dei
risultati della moderna genetica, conservano alcuni aspetti della concezione di
Lamarck. Nonostante questi limiti, Darwin comprese il ruolo della cultura, e
quindi della scelta umana, come fattore ulteriore di selezione, arrivando a
distinguere tra selezione sessuale in una umanità primitiva, basata sul potere
della forza fisica, e la stessa selezione in una umanità socialmente più
evoluta, ove acquista un ruolo la forza sociale del potere.
Non dobbiamo quindi credere che Darwin ci fornisca una teoria estetica
organica e condivisibile, perché è vero esattamente il contrario: abbiamo solo
pochi e rapidi spunti e in alcuni passaggi sulla percezione del bello rivela una
concezione vagamente innatista.
“No doubt the perceptive powers of man and the lower animals are so constituted that
brilliant colours and certain forms, as well as harmonious and rhythmical sounds, give
pleasure and are called beautiful; but why this should be so, we know no more than why
certain bodily sensations are agreeable and others disagreeable. It is certainly not true that
there is in the mind of man any universal standard of beauty with respect to the human
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body…The men of each race prefer what they are accustomed to behold” ( ).
L’estetica moderna, comunque, non ha saputo riprendere questi spunti
metodologici per adeguarli ai nuovi livelli che la biologia, la psicologia e
l’antropologia hanno raggiunto, limitandosi ad osservazioni particolari e
scollegate tra loro.
7 - Ivi, p. 369; trad. it., “Se ciò è vero, e io non dubito che lo sia, sarebbe inesplicabile che la selezione
delle donne più attraenti da parte degli individui più vigorosi della tribù e in grado di allevare un maggior
numero di figli, non abbia in un certo modo, attraverso molte generazioni, modificato il carattere della
tribù” (p. 628).
8 - Ivi, p. 362; trad. it., “…tuttavia se i maschi più forti e più abili nel difendere e assistere le proprie
femmine e i propri figli furono in grado di selezionare le femmine più attraenti, ciò sarebbe stato
sufficiente perché la selezione sessuale potesse agire” (p. 623).
9 - Genesi, 6, 1-2.
10 - C. Darwin, The descent of man, and selection in relation to sex, cit., p. 353-354; trad. it., L’origine
dell’uomo e la selezione sessuale, cit., “I sensi degli uomini e degli animali inferiori sembrano essere
fatti in modo che i colori brillanti ed alcune forme così come i suoni armoniosi e ritmici provochino in loro
piacere e siano definiti belli; ma perché questo accada non lo sappiamo. Certamente non è vero che
nella mente dell’uomo esista una concezione universale di bellezza rispetto al corpo umano…Gli uomini
di ogni razza preferiscono quello a cui sono abituati” (p. 616).
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2 - La nascita della percezione del bello di natura
Gli animali non posseggono la percezione e, tanto meno, il concetto
del bello e del brutto, così come non posseggono alcun criterio giudicativo,
nemmeno implicito, del tipo morale-immorale, razionale-irrazionale, causaeffetto (11), ovvero dei valori tipicamente umani. Alcuni comportamenti animali
sono stati scambiati con atti valutativi, pur essendo tali solo in apparenza.
Quando si dice che gli uccelli hanno la percezione del bello, perché a volte
scelgono il partner in base al colore del piumaggio, non si tiene conto che la
scelta può dipendere dalla maggiore visibilità e non dalla valutazione estetica,
che è sempre un modo raffinato di giudicare, assai improbabile in un cervello
così semplice. Comunque stiano le cose, posto che nessun criterio valutativo
possa essere innato, senza storia adattativa, coloro che attribuiscono ad
alcune specie animali una sorta di gusto estetico non fanno altro che spostare
all’indietro il problema, assumendosi il compito di individuare un processo
evolutivo ancora più arcaico, attraverso cui si sarebbe formato quel gusto
specifico (12).
a) Se gli animali non posseggono il codice del bello e del brutto, un
semplice passaggio logico deve indurci a pensare che il giudizio estetico,
come tutti gli altri poco sopra elencati, sia nato e si sia sviluppato nel periodo
che intercorre tra il “momento” in cui il “primo” uomo-scimmia dette inizio al
processo dell’ominazione e quello in cui si è concluso con l’affermazione di
Homo sapiens, quando sono emersi il cervello e la sensibilità dell’uomo
moderno (13).
Con le prime forme di intelligenza umana e con la nuova sensibilità
visiva, ovvero con un nuovo nesso sensibilità-intelletto, inizia a svilupparsi il
criterio giudicativo bello-brutto, che non è comparabile con quello di alcuni
primati, come vorrebbe la Goodall:
“Un po’ alla volta ci si rese conto che le spiegazioni riduttive di comportamenti che
rivelavano un'evidente intelligenza erano fuorvianti. Questo portò a compiere una serie di
esperimenti che, valutati nel loro complesso, dimostrano chiaramente come molte capacità
intellettive prima ritenute peculiari dell’uomo siano in realtà proprie - per quanto in forma più
rudimentale - anche di altri esseri non umani e in particolare dei primati non umani e,
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soprattutto, degli scimpanzé” ( ).
11 - Come ha sostenuto L. Wolpert alla Conferenza del Darwin Day del 12-2-05 alla Casa del Cinema di
Villa Borghese a Roma.
12 - Bradshaw scrive: “Da un punto di vista umano è spesso difficile evitare di attribuire un senso
estetico al comportamento di certe specie non umane. In Australia, il maschio dell’”uccello del
pergolato” (di vari generi) raccoglie oggetti colorati (soprattutto blu) come conchiglie, petali e pezzi di
carta e plastica, e con essi decora un “pergolato”, una costruzione di vegetali, da cui corteggia le
femmine di passaggio. Se consideriamo l’arte e l’estetica come fini a se stessi, piuttosto che (come in
queste pagine) mezzi per il raggiungimento di un fine (riproduttivo), le due forme di comportamento,
quella degli uccelli e quella dell’uomo, hanno ben poco in comune” (J. L. Bradshaw, Human Evolution: A
neuropsychological perspective, Psychology Press, Howe 1997; trad. it., Evoluzione umana, Fioriti,
Roma 2001, p. 74). Diamond pone invece sullo stesso piano la produzione “artistica” di uccelli e uomini.
Su questo tema si veda l’intero capitolo Le origini animali dell’arte (J. Diamond, The rise and the fall of
the third chimpanzee, Radius, London 1991; trad. it., Il terzo scimpanzè, Bollati-Boringhieri, Torino
1994, p. 218). Leakey e Lewin invece considerano il senso estetico, il senso morale e la capacità di
invenzione come risultati dell’evoluzione della mente umana (R. Leakey e R. Lewin, Origins
reconsidered: in search of what makes us human, Little, Brown, London 1992; trad. it., Le origini
dell’uomo, Bompiani, Milano 1993, p. 196).
13 - Dobzhansky considera che “La sensibilità alla bellezza e la capacità di produrre cose che sono
percepite come “belle” sono fra i tratti che elevano l’uomo sopra il bruto. E questo rende particolarmente
interessante il problema dell’origine e del significato biologico dell’arte e dell’estetica nell’evoluzione
umana” (T. Dobzhansky, Mankind evolving: the evolution of the human species, Yale U.P., N.Y. 1962;
trad. it., L’evoluzione della specie umana, Einaudi, Torino 1965, p. 219).
14 - J. Goodall, Through a window: my thirty years with the chimpanzees of Gombe, Houghton Mifflin,
Boston 1990; trad. it., Il popolo degli scimpanzé: 30 anni di osservazioni nella giungla di Gombe, Rizzoli,
Milano 1991, p. 27.
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Tuttavia non si riscontra nel suo testo, nonostante questa presunta
prossimità, un solo cenno al gusto estetico degli scimpanzé. Questo significa
che per alcune categorie del giudizio, e forse per tutte, le differenze tra uomini
e scimpanzè non sono semplicemente quantitative, essendo avvenuto un
salto qualitativo.
Per il rapporto strettissimo che intercorre tra i dati che i sensi sono in
grado di raccogliere e il pensiero che si sviluppa su di essi, alla crescita
volumetrica del cranio umano, base naturale del pensiero razionale, doveva
corrispondere lo sviluppo di una diversa forma di sensibilità, adeguata alle
accresciute capacità del nuovo cervello. Ai diversi livelli di concorrenza tra gli
ominidi nella lotta per l’esistenza, la più arcaica percezione tattile e olfattiva
doveva mostrare i suoi limiti di fronte all’udito, come questo doveva mostrarli
di fronte alla vista. Contestualmente mostrava i suoi limiti anche un cervello
non in grado di elaborare i nuovi dati: persero la sfida evolutiva quelle specie
di ominidi che non seppero adeguare sensi e riflessione ai nuovi tipi di
complessità ambientale e sociale.
I sensi dell’olfatto e dell’udito, o la percezione visiva di oggetti in
movimento, vale a dire quelle facoltà che servono ad individuare prede e
predatori, ad avvistare e ad allertare, rappresentano la fonte di gran parte del
sapere dei mammiferi: udito, olfatto, percezione cinetica forniscono
informazioni per scopi e funzioni poco più che immediati, comunque per un
sapere modesto, appena sufficiente per la fuga di fronte ai pericoli o per la
conquista di cibo e di sesso.
Homo sapiens risponde a questi problemi con soluzioni razionali,
proteggendosi nei ricoveri, costruendo strumenti, producendo armi. Ad esser
precisi, la mente umana possiede due tipi di intelligenza, anche se in rapporto
di reciprocità: quella strumentale e quella scientifica, funzionale alla soluzione
dei problemi immediati di vita, la prima, e alla scoperta delle leggi che
regolano la natura, la seconda. Udito, olfatto e vista di movimento non sono in
grado di fornire dati adeguati né al superamento pratico di molti degli ostacoli
che la vita ci oppone, né all’elaborazione teorica di concetti scientifici e
matematici: ne è conferma il fatto che negli uomini tutti questi sensi hanno
perduto una parte della loro potenza. Per sospettare prima e stabilire poi che
la terra ruota intorno al sole, è necessario che la contemplazione visiva
fornisca all’intelletto informazioni esatte su oggetti dai contorni ben definiti e in
rapporti spaziali e temporali precisi e ripetibili, ovvero su entità in punti
determinati dello spazio e dei loro successivi spostamenti. Agli animali manca
il senso del tempo matematico, del tempo come successione misurabile di
istanti, come regolare scorrimento delle cose fuori di noi. Il tempo per loro è
semplicemente attesa, mai cronologia, così come i corpi nello spazio non
sono mai forme e misure geometriche. Non è possibile una qualsiasi forma di
scienza, né una precisa conoscenza delle distanze, dei percorsi, del territorio,
in assenza di una percezione matematica del tempo e di una visione
geometrica dello spazio.
Senza perdere di vista la distanza che separa l’uomo da alcune specie
di primati, bisogna tuttavia riconoscere una certa prossimità per la percezione
dello spazio, del tempo, dei colori (15). Sul tema della vista dei primati, così
15 - A. Salza sostiene che i primati della foresta dovevano identificare i frutti nel folto dei rami e che
pertanto “una visione nitida e definita evitava anche il rischio di afferrare il ramo in malo modo, e cadere
100 metri più sotto. L’evoluzione dei primati selezionò occhi molto diversi da quelli della lepre. Non c’era
bisogno di proteggersi le spalle…Gli occhi si spostarono sul davanti del muso, che diveniva sempre più
piatto. In questo modo, i campi visivi degli occhi vengono in parte a sovrapporsi, creando l’effetto
stereoscopico che rende tridimensionale la nostra percezione visiva e che permette ai primati di
calcolare alla perfezione le distanze tra i rami…a isolare la figura del singolo frutto dallo sfondo della
foresta. Gli antenati dei primati erano animali notturni. I primati della foresta, proprio per potersi
foraggiare tra i rami, divennero diurni. Alla terza dimensione spaziale aggiunsero così lo sviluppo della
sensibilità per una parte dello spettro solare. I primati, oggi, vedono in stereoscopia e a colori…tutto si è
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importante per capire la formazione successiva della percezione umana e del
relativo senso estetico, Weiner ritiene che lo sviluppo della vista e
dell’intelligenza sia collegato con lo sviluppo della manipolazione degli oggetti:
produrre, pensare e vedere sono un unico processo, compiuto prima, e in
forma ridotta, da alcuni primati, e poi, in forma qualitativamente superiore,
dall’uomo. Ma era necessaria anche la nuova percezione del tempo e dello
spazio, perché si chiudesse il cerchio della maturazione della mente umana.
“La percezione dei segnali luminosi e la capacità di indicare con grande esattezza
rapporti spaziali o di colore, sembrano altrettanto ricche e dettagliate nelle antropomorfe che
nell'uomo, almeno a giudicare dalle connessioni ottiche tra retina e corteccia. Ma è
chiaramente molto maggiore nell'uomo l'organizzazione corticale necessaria per interpretare,
associare e confrontare le informazioni visive con quelle tattili o uditive, per interpretare e
trasferire nell'azione queste immagini complesse attraverso la parola o il movimento, o per
accumularle nella memoria. La base neurologica, per quanto riguarda l'aumento visivo, sta
nella differenziazione delle aree visive secondarie (le aree visive di associazione),
nell'aumento delle connessioni tra queste e le altre aree sensitive e associative, e le aree
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come quella motoria e della vocalizzazione nel cervello” ( ).
Intelligenza umana e sottile percezione per forme spaziali geometriche e
per forme temporali misurabili si sono evolute circolarmente insieme, perché
la prima ha trovato nella seconda la fonte di tutti i dati da elaborare e la
seconda non ha potuto selezionarsi senza essere utile a qualcosa, al
pensiero razionale. Ominazione, intelligenza, visione di fenomeni in rapporti
reciproci spazio-temporali sono quindi un unico processo. Per questo motivo
nessuna scimmia può scagliare una lancia contro un bersaglio, non
possedendo uno specifico equilibrio fisico, una intuizione geometrica della
distanza e del rapporto fra questa e la velocità (il tempo) necessaria alla
lancia per compiere il percorso (17). Lukàcs aveva compreso la storicità dei
sensi umani, senza tuttavia afferrare nella giusta misura il salto qualitativo cui
va incontro la vista con lo sviluppo del cervello (18).
svolto…in un arco di tempo piuttosto lungo, e secondo un processo analogo a quello che ha modificato
la mano” (Ominidi, Giunti, Milano 1999, p. 36).
16 - J. S. Weiner, L’origine dell’uomo (1971), fa parte di La grande enciclopedia della narura,
Garzanti, Milano 1974, pp. 70-73. Per maggiore chiarezza, riporto alcuni passi che precedono questa
citazione: “L'accurata manipolazione degli oggetti nel senso più ampio della parola richiede capacità di
percezione sensoriale altamente sviluppate. Queste sono anche caratteristiche degli antropoidi. Lo
studio comparativo degli antropoidi viventi rivela senza possibilità di dubbio, ancora una volta,
un'evoluzione nel senso di una progressiva modificazione delle strutture adibite al tatto, alla visione e
all'odorato, che culminano nell'uomo. Possiamo riconoscere tre orientamenti che si integrano: una
progressiva riduzione dei meccanismi nervosi che riguardano l'odorato, un'elaborazione del sistema
tattile e un grande sviluppo del sistema visivo. L'elaborazione del sistema uditivo, sebbene pronunciata,
non è così notevole come quella della vista… La complessa elaborazione della corteccia visiva è
indicata dallo sviluppo, sulla superficie media del lobo occipitale, di un profondo solco calcarino che
provoca l'ampio ripiegamento assiale necessario per adattarsi alla completa estensione degli strati
recettori visivi che si sviluppano con il grande aumento della dimensione e della complessità cerebrale”.
17 - Sulle modificazioni nelle attività visuospaziali che si verificano con il passaggio dalla scimmia
all’uomo si veda di E. Bruner, G. Manzi e J. L. Arsuaga Encephalization and allometric trajectories in the
genus Homo: Evidence from the Neandertal and modern lineages, in PNAS, 2003, vol. 100, n° 26, pp.
15335-15340, o il saggio di R. Holloway, Toward a syntetic Theory of human brain evolution, 1996, in J.
P. Changeux e J. Chavaillon, Origin of the Human Brain, Clarendon Press, Oxford 1996. Un concetto
simile esprime anche D. Falk in The evolution of sex differences in primate brains, in D. Falk e Kathleen
R. Gibson, Evolutionary Anatomy of the Primate Cerebral Cortex, Cambridge University Press, 2001, p.
109, ove si legge: ”As noted by Kimura (1992), the spatial task at which man excel include mental
rotation of objects, navigating their ways through routes, and guiding or intercepting projectiles. Because
all of these tasks involve both vision and movement…” (traduzione mia: “Come è stato osservato da
Kimura (1992), l’attività spaziale nella quale l’uomo eccelle include la rotazione mentale degli oggetti,
l’orientamento nei percorsi, la guida e l’intercettazione dei proiettili. Poiché tutte queste attività
coinvolgono insieme la visione e il movimento…”).
18 - G. Lukàcs, Ästhetik: die Eigenart des Ästhetichen, Neuwied, Luchterhand 1963; trad. it., Estetica,
Einaudi, Torino 1973, pp. 125-127. Marx, a cui l’autore si ispira, impostava nei termini di un incerto
materialismo il problema dell’arte e del bello. La sua teoria è racchiusa in pochissime notazioni sparse
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La nascita dell’intelligenza umana, la più affascinante rivoluzione della
storia della biologia, non poteva avvenire senza una rivoluzione sensoriale
d’appoggio. La semplice osservazione ci conferma che non esistono due
specie animali con differenze cerebrali e con identità sensoriali. Le strutture
conoscitive del gatto sono in grado di consentire solo a quella conformazione
biologica, ma non ad altra, un ricambio organico con la natura. Il nesso
sensibilità-pensiero è sempre specifico.
b) I sensi rappresentano un filtro tra il mondo e gli esseri viventi,
almeno di quelli che ci interessano in questo contesto, consentendo loro di
scegliere i comportamenti più vantaggiosi, al fine di preservare e propagare la
vita. Ciò comporta per ogni senso la formazione di un gusto specifico, in
grado di distinguere tra positivo e negativo, non potendo ogni cosa non
essere gradita o sgradita, proprio in quanto favorevole o meno all’esistenza.
Tale polarità trova ai suoi estremi il piacere massimo e il dolore massimo,
orgasmo riproduttivo, o vita, e il suo contrario, la morte: Eros e Tànatos.
Era nella logica delle cose che la sensorialità si accompagnasse con
un correlato emotivo premiante, senza il quale gli individui, animali ed umani,
non farebbero scelte, lasciandosi morire. L’evoluzione ha selezionato i
soggetti più motivati, i più dotati non solo fisicamente, ma anche
emotivamente, i più determinati, ovvero coloro che provano più piacere-dolore
nelle scelte esistenziali.
La polarità piacere-dolore delle sensazioni fisiche e psicologiche
doveva essere diversa rispetto a quella della sensazione visiva. Questa,
come pensava Kant, è proiettata nello spazio, vive di linee, di rapporti
geometrici, di colori, senza che il tempo vi abbia una parte primaria. I sensi
interni invece comportano la temporalità, la persistenza e la dinamica dei
sapori, dei suoni. Per capire un sapore spesso chiudiamo gli occhi, dovendo
immergerci con maggiore intensità dentro di noi nello scorrere della
percezione. Viceversa, per garantire l’esattezza di una nostra percezione
visiva, abbiamo bisogno di uscire da noi, di andare verso l’esterno.
Nel modo in cui si sono distinti nel mondo animale odori positivi o
negativi, si è selezionata nell’uomo – all’interno del senso della vista - una
specifica sensorialità estetica delle forme visive e dei relativi colori, in grado di
in varie opere, non avendo mai scritto un testo sistematico di filosofia. I pochi cenni sembrano fornire le
seguenti valutazioni: 1) “Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario,
il loro essere sociale che determina la loro coscienza”. Delle sovrastrutture della coscienza fa parte
anche l’arte, essendo collegata allo sviluppo delle forze produttive e dei rapporti sociali. È questa la
classica teoria del materialismo storico (Vorwort (1859) a Zur Kritik der politischen Ökonomie, MEW,
Dietz Verlag, Berlin 1971, 13, S. 9; trad. it., Prefazione a Per la critica dell’economia politica, in Opere,
Editori Riuniti, Roma 1986, XXX, p. 298; 2) l’arte corre parallela allo sviluppo dei cinque sensi:
“L’educazione dei cinque sensi è opera dell’intera storia universale fino a questo tempo”; 3) “la bellezza
della forma” si realizza indifferentemente sia nei prodotti artistici che in quelli naturali; 4) il piacere
estetico fa capo ad una facoltà. I concetti dei punti 2, 3, e 4 si trovano nei Ökonomisch-philosophische
Manuskripte aus dem Jahre 1844, MEW, Dietz Verlag, Berlin, 1968, Ergänzungsbund, I, S. 541; trad. it.,
Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Opere, cit., 1976, III, p. 329), ove scrive che i sensi e le
facoltà umane si sviluppano via via che si oggettivano nella realtà, nella “natura umanizzata”: “È
soltanto mediante la dispiegata ricchezza oggettiva dell’ente umano che vengono in parte sviluppati, in
parte prodotti la ricchezza della soggettiva umana sensibilità, un orecchio musicale, un occhio per la
bellezza della forma, in sensi capaci di fruizioni umane”. Per un verso, il giovane Marx sembra
accennare ad una oggettiva bellezza senza storia delle forme naturali, che solo un occhio raffinato da
un lungo processo educativo può cogliere, per un altro alla capacità dell’uomo di vedere nella realtà ciò
che vi ha posto prima, come gli aveva insegnato Feuerbach, oscillando quindi tra un indipendente bello
di natura e un bello artigianale, oggettivazione della coscienza, senza capire materialisticamente il
perché del bello e il suo divenire. Marx mescola elementi di materialismo storico, a proposito dello
sviluppo della sensibilità, ed elementi di idealismo, in linea con il concetto di uomo come ente generico,
quando parla di bellezza della forma e di facoltà estetica, seppure come risultato di un processo
evolutivo. A mio giudizio, non esistono le facoltà, ma solo funzioni di risposta, ovvero le strutture neurali
in grado di valutare e di rispondere in vario modo ai messaggi che ci giungono dal mondo attraverso la
sensibilità. Mi sembra pertanto eccessiva l’interpretazione materialistica di questi passi fornita da C.
Salinari in Scritti sull’arte: K. Marx e F. Engels, Laterza, Bari 1967.
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classificare le cose in piacevoli o spiacevoli, vale a dire belle o brutte, nella cui
percezione è venuto meno il coinvolgimento corporeo degli altri tipi di
sensorialità, ovvero il piacere-dolore fisico (19). Prima dell’ominazione gli
organi sensoriali distinguevano in positivo-negativo soltanto le sensazioni di
tipo animale, ove gli opposti si presentano nella forma del gradevolesgradevole, vitale-mortale. Non si dice infatti che è bello un sapore, un odore,
un contatto: la polarità bello-brutto è entrata nel giudizio unicamente per le
forme e i colori, per ciò che si vede. Non si usa – o non si dovrebbe - per i
suoni, nemmeno per quelli della grande musica, che viene giudicata con i
predicati della sfera emotiva, come “commovente”, “allegra”, “appassionata”,
“stimolante”, “che induce a muovere il corpo” (20), né per le sensazioni
corporee da contatto, ove il giudizio assume i predicati della fascia piaceredolore. Solo in relazione alle sensazioni visive i predicati appropriati vanno dal
bello al brutto, privi apparentemente di qualsiasi collegamento ad interessi Kant pensava infatti ad un metafisico “piacere disinteressato” - dal momento
che l’utilità reale di quelle forme e di quei colori è ignota al soggetto
giudicante, perdendosi nella sua storia evolutiva. Ciò che ci ha permesso di
vivere è infatti diventato inconsapevolmente ordine e proporzione nel nostro
modo di guardare il mondo, essendo state quelle strutture visive vincenti per
la sussistenza, per la riproduzione, per l’evoluzione della specie. È bello per
l’uomo ciò che produce la sua vita, è brutto ciò che la distrugge, non potendo
essere visto positivamente ciò che nega l’esistenza. È bello quindi ciò che ci
fornisce un terrestre piacere interessato, anche se non sempre in modo
consapevole (21). Agli animali non manca una “intuizione trascendentale” della
bellezza, ma solo un tipo di vista collegata ad un particolare sviluppo del
cervello, in grado di fornire una specifica percezione del mondo.
Nei primissimi anni di vita, il bambino percepisce immediatamente le
polarità sensoriali più arcaiche e primitive (gradevole-sgradevole), mentre
acquisisce tardi il criterio giudicativo del bello-brutto: all’inizio l’oggetto è una
semplice presenza, che può essere desiderata o meno, ma non in quanto
bella o brutta. La bellezza rappresenta una scelta ulteriore e indipendente
rispetto a ciò che per altro verso lo attrae: solo molto tardi il bambino capisce
che la madre è meno bella di un’altra persona a lui estranea, mentre sente
subito la gradevolezza o meno del suo contatto, del suo latte, del suo odore.
Pur essendo l’interesse di tipo animale la base biologica inconsapevole
della fascinazione umana, questa base viene riassorbita nel modulo del
giudizio estetico, estensibile a tutti gli oggetti visibili, anche a quelli privi
nell’immediato di ogni interesse, o, al limite, anche a quelli che rappresentano
in quel momento un danno per noi.
Dal momento che i vari tipi di percezione, essendo segnali per noi del
valore degli oggetti circostanti, devono servire ad informarci su ciò che è
vantaggioso o meno per la nostra esistenza, anche la vista, che è una
sensibilità non specifica, potendo captare segnali relativi agli altri sensi, non
19 - Ovviamente tra i due estremi si interpongono tutte le cose neutrali da un punto di vista estetico,
quelle che non hanno avuto un ruolo particolarmente positivo o negativo nella storia evolutiva dell’uomo.
Ciò che vale per la vista vale anche per tutti gli altri sensi.
20 - Sullo specifico gusto estetico musicale, Ackerman scrive, tra le altre cose: “Come le emozioni più
pure, la musica si gonfia e sospira, s’infuria o si placa; in questo senso si comporta in maniera così
simile ai nostri sentimenti, che spesso sembra simboleggiarli, rispecchiarli, comunicarli agli altri,
liberandoci così dalla complicata e fastidiosa imprecisione delle parole. Un accordo musicale può farci
piangere, oppure mandarci la pressione alle stelle” (D. Ackerman, A natural history of the senses,
Random House, New York 1990; pubblicato nello stesso anno anche da Chapmans, London; trad. it.,
Storia naturale dei sensi, Frassinelli, Milano 1992, p. 226).
21 - L’estetica aveva già nel Settecento identificato bellezza e piacevolezza, così come la ritroviamo in
Kant e poi in Fiedler, che riducono il bello al gradevole, anche se in una accezione particolare. Kant non
poteva rispondere adeguatamente ad una domanda che pure si era posta: perché alcuni fenomeni
suscitano in noi un piacere ed altri no? Solo l’antropologia post-darwiniana può rispondere
compiutamente a questa domanda.
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poteva non distinguersi tra due opposti sensoriali, che sono appunto il bello e
il brutto, ovvero il piacere e il dispiacere visivi.
La vista non ha un suo oggetto specifico di godimento, in quanto è
riuscita a trasformare in godimento visivo ciò che è positivo per gli altri sensi.
Il piacere olfattivo o tattile animale è diventato piacere per forme e colori. Un
piacere della sensualità “oscura” si è trasformato in piacere della sensualità
“luminosa”. Ciò che agli animali dà piacere solo al contatto, ora dà piacere
anche a distanza, essendo riuscita la vista umana a trasformare in un segnale
visivo quei caratteri che sono positivi-negativi per gli altri sensi (22). La vista
umana è in grado di capire a distanza, senza bisogno dell’olfatto, quindi in
modo più discreto, se un individuo dell’altro sesso è valido o meno per
l’accoppiamento, se un cibo è buono, se un territorio è sicuro, se un nemico è
più o meno forte. La vista umana abbrevia i tempi e i modi dell’informazione,
riuscendo a capire la qualità delle cose dalle forme esteriori, senza rischiare
con le arcaiche tecniche di avvicinamento. La vista animale è essenzialmente
informativa su ciò che è di fronte, è una sensibilità di servizio, serve ad
avvistare e ad avvisare; quella umana, avendo raggiunto una sua autonomia
valutativa, oltre a questa funzione, ne possiede una tutta sua, alla pari degli
altri sensi, con uno specifico tipo di piacere (23).
Possiamo immaginare l’atteggiamento estatico-emotivo degli uomini
nel periodo in cui si costituiva la vista umana, con la nuova capacità
“segnaletica”, in grado ormai di vedere gli indizi di ciò che è positivo per
l’esistenza. In questo modo è nata la “contemplazione” che, prima di essere
riflessione concettuale con Homo sapiens, è immersione diretta nelle cose, è
ammirazione, ovvero un ri-mirare ciò che soddisfa, è guardare con stupore il
positivo. La contemplazione, prima di essere stata un fenomeno mentale, è
stata un fenomeno visuale: un guardare con piacere, con meraviglia, con
attrazione, ciò che ci fa vivere, che è appunto la percezione della bellezza.
Ogni senso può essere sedotto con stimoli specifici: il sapore di un cibo
suscita il desiderio di mangiare. La visione del bello è invece atto di seduzione
indiretta, creando la voglia di un luogo, di una persona, ovvero di tutto ciò che
è desiderabile per gli altri sensi (24).
22 - Poplin, e con lui molti altri, confonde invece gusto estetico e produzione artistica, linguaggio
spontaneo e linguaggio simbolico, finendo per ritrovare ogni attività dell’uomo moderno già negli animali
o nei primi ominidi. In tal modo gli sfugge la diversità strutturale fra il gusto per il bello e la produzione
artistica, nata con l’astrazione più sviluppata (F. Poplin, Aux origines neandertaliennes de l’art, p. 109116, in L’homme de Neandertal, La pensée, 5, 1988).
23 - Pur in un apparato filosofico e antropologico non ricevibile, mi sembrano particolarmente
interessanti le considerazioni di Gehlen sulla vista, sul pensiero, sul linguaggio. L’autore fonda la sua
teoria sul concetto di “esonero” (Entlastung), ossia sulla crescita di strumenti biologici a risparmio
energetico per il dominio della realtà. La causa di questo processo di economizzazione risiederebbe
nella inadattabilità degli uomini, diversamente dagli animali, agli ambienti naturali, e quindi nella
necessità di approntare mezzi adeguati a superare le difficoltà che sono costretti ad affrontare. Per
brevità, riporto solo alcuni passi sul tema della vista: “la semplice, superficiale impressione ottica ci
fornisce simboli che ci indicano il valore d’uso e le qualità di maneggio delle cose (forma, pesantezza,
struttura, durezza peso, eccetera)…il solo occhio, un organo che funziona senza fatica, le coglie nel loro
insieme…vede simultaneamente valori d’uso e di maneggio, che in precedenza erano esperiti in un
faticoso lavoro diretto…Tutti questi dati l’occhio però li abbraccia con un solo sguardo” (A. Gehlen, Der
Mensch: seine Natur und seine Stellung in der Welt, Textkritische Edition unter Einbeziehung des
gesamten Textes der 1. Auflage von 1940 / Arnold Gehlen; herausgegeben von Karl-Siegbert Rehberg
unter Mitwirkung von Zuhal Bayraktar ... [et al.], trad. it., L’uomo. La sua natura e il suo posto nel
mondo, Feltrinelli, Milano 1990, pp. 66, 67, 91).
24 - Per questo aspetto è interessante lo stretto nesso che la poesia cortese ha istituito tra amore e
vista a partire da Andrea Cappellano, che in De amore (1185 circa) scrive: “Amor est passio quaedam
innata procedens ex visione et immoderata cogitatione formae alterius sexus (L’amore è una passione
innata (naturale) che proviene dalla vista e da un pensiero incontrollato della figura (di una persona)
dell’altro sesso (trad. nostra) (libro I, proposizione 1); “Quella passione (l’amore) procede dal solo
pensiero che l’animo concepisce da ciò che vide” (trad. nostra) (libro I, proposizione 8); (Edizione di
riferimento: E. Trojel: Andreas Capellanus regii Francorum De amore libri tres, Hauniae 1892, ristampa,
München 1972). Lo stesso tema ritorna in Guido Cavalcanti (1255-1300), che, a proposito della donna
amata, innalza un tenero lamento dalle Rime: “Li miè foll’occhi, che prima guardaro vostra figura piena
di valore, fuor quei che di voi, donna, m’acusaro nel fero loco ove ten corte Amore” (V, sonetto); ”Voi
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I nostri sensi sono tra loro in varia maniera correlati, ovvero per un
verso indipendenti, in quanto ognuno rileva il mondo dalla sua angolazione
percettiva, presiedendo ad un aspetto della realtà, ma al tempo stesso
doppiamente connessi sia nell’unità delle cose, da cui diparte la varietà delle
percezioni, che nella sintesi mentale, ove tutte si raccolgono (25).
Ogni senso rappresenta una particolare apertura verso il mondo
secondo due diverse modalità, semplicemente informativa la prima,
giudicativa la seconda. Possono informarci che oggi piove, senza che questo
rappresenti un bene o un male per noi, senza procurarci un’emozione, o, al
contrario, dandoci un piacere o un dolore. La reazione giudicativa estetica
rientra nella seconda modalità, non è mai “disinteressata” o neutra, anche se
a volte non ce ne rendiamo conto.
che per li occhi mi passaste ‘l core” (XIII, sonetto) (I poeti del Duecento, a cura di F. Contini, Ricciardi,
Milano, Napoli 1960. Jacopo da Lentini (1210-1260) ritorna sullo stesso tema nei Sonetti: “or come pote
sì gran donna entrare per gli occhi miei che si piccioli sone” (III sonetto), oppure “E gli occhi en prima
generan l’amore e lo core li dà nutrigamento” (XXIII sonetto) (I passi sono presi da La poesia lirica del
Duecento, a cura di C. Salinari, UTET, Torino 1968.
25 - Ho trattato volutamente in modo schematico il tema della sensibilità che divide le cose in mondi
sensoriali separati, pur sapendo che esistono alcune interconnessioni immanenti tra i sensi, al fine di
evitare che, per insistere sulle relazioni, si perdessero le autonomie.
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3 - Soggettività e universalità del giudizio estetico
a) Il giudizio estetico-visivo è soggettivo, in quanto dipende da una
nostra reazione sensoriale di fronte ad un oggetto, ma non individuale, come
Kant ben sapeva (26). Il vero problema è nel capire come si sia selezionato un
gusto universale, pur dipendendo da una nostra soggettiva reazione di fronte
ad alcune cose particolari. Il bello di natura è kantianamente un come se (als
ob), come se fosse oggettivo, pur essendo semplicemente universale,
condiviso da tutti, nato, come subito vedremo, da una nostra proiezione sulle
cose. C’è allora da chiedersi come abbia proceduto la selezione nel separare
in modo collettivo il bello dal brutto. Se partiamo dal principio che dietro ad
ogni tipo di gusto debba esservi una funzione pratica vitale (27), la strada per
la costituzione di un gusto estetico relativo alla natura dovette essere quella
della massima funzionalità di alcune forme e colori naturali (cielo, mare,
alberi, azzurro, verde), così come la maggiore funzionalità di alcune forme
giovanili del corpo umano - più adatte al lavoro, alla corsa, alla procreazione –
dovettero essere il fondamento del gusto estetico relativo ai corpi umani (28).
È ragionavole quindi pensare che la formazione del gusto per il bello di natura
- e quindi anche per i corpi umani, in quanto parte della natura - abbia iniziato
il suo processo con l’ominazione, precedendo di circa due milioni di anni la
nascita del cosiddetto “bello artistico”, collocabile nel paleolitico superiore, al
tempo delle prime pitture rupestri e delle prime statuette femminili (29). Il
giudizio estetico è arcaico, perché ha origine dai bisogni primari per
l’esistenza, ma è meno primitivo delle valutazioni di tipo animale, come quelle
relative alla nutrizione e alla riproduzione, o collegate alla respirazione, al
sonno, al giaciglio.
26 - Kant tuttavia non è il filosofo della ricezione, perché la cosa in sé assegna dei vincoli oggettivi al
soggetto. Il giudizio riflettente estetico indica che il bello non è oggettivo, ma una semplice reazione del
soggetto di fronte ad un oggetto che fornisce un piacere disinteressato, anche se ciò non impedisce che
sia universale. T. Dobzhansky, trad. it., cit., p. 219, similmente scrive: “Sia chiaro fin dal principio che la
bellezza della natura va riferita ai sentimenti che certi oggetti naturali suscitano nell’uomo, non agli
oggetti in sé”.
27 - Per funzionalità intendo il rapporto utile di una cosa rispetto ad un’altra, non perché quella (il sole)
sia nata finalisticamente per servire questa (la vegetazione), ma perché il sole ha costituito la
condizione, il presupposto naturale, entro cui le piante potessero esistere. Va tuttavia distinta la
funzionalità biologica da quella di un qualsiasi manufatto. L’aria e l’acqua sono a fondamento da sempre
e per sempre della vita sulla terra, mentre un tavolo, o uno strumento di lavoro, possiede un’utilità
delimitata nel tempo, senza poter rappresentare un presupposto necessario dell’esistenza vegetale o
animale.
28 - Buss sostiene che tutte le caratteristiche del corpo che si accompagnano con la fecondità si sono
fissate nella nostra mente come caratteristiche della bellezza (D. M. Buss, The evolution of desire:
strategies of human mating, Basic Book, New York 1994; trad. it., L’evoluzione del desiderio, Laterza,
Roma-Bari 1995, p. 73). A queste, io aggiungerei le caratteristiche che favoriscono il lavoro e quindi la
sopravvivenza, ovvero la forza giovanile. Mi sembra molto interessante il passo di Costa e Corazza in
cui dichiarano che D. L. Cronin, W. W. Spirduso, J. H. Langlois, G. Freedman (Health, physical fitness
and facial attractiveness in older adults, Manoscritto non pubblicato) “pur non rilevando una relazione
diretta fra bellezza e salute intesa come numero di malattie, hanno trovato una relazione significativa fra
bellezza e salute fisica intesa come resistenza, forza, capacità di svolgere con vigore le attività
quotidiane, vigilanza, mancanza di affaticamento, energia e piacere” (M. Costa e L. Corazza, Psicologia
della bellezza, Giunti, Milano 2006, p. 67). Il passo è interessante perché la bellezza è collegata alla
forza e alla capacità lavorativa. Anche per Aristotele la bellezza è armonia del corpo, strettamente
legata alla salute e alla forza. Berti cita un frammento dell’Eudemo a questo proposito: “Poiché la
disarmonia del corpo è malattia, o bruttezza, o debolezza, l’armonia del corpo sarà bellezza, salute e
potenza (dünamis), ma non anima” (E. Berti, La filosofia di Aristotele, Vita e pensiero, Milano 1997, p.
365).
29 - Il riferimento alle pietre intagliate simmetricamente su entrambe le facce può dimostrare che un
milione e seicentomila anni fa era già nato il senso estetico (J. L. Arsuaga, El Collar del Neandertal. En
busca de los primeros pensadores, Temas de Hoy, Madrid 1999; trad. it., I primi pensatori, Feltrinelli,
Milano 2001, p. 51), ma non è sufficiente a provare che era nata l’arte, perché manca lo sdoppiamento,
l’oggettivazione di una immagine, di cui parlerò in seguito. I bifacciali sono artigianato, raffinato quanto
si vuole, ma ancora semplice modificazione della natura.
13
Il giudizio estetico è soggettivo, ma non individuale, giacché la
selezione ha imposto alcuni valori universali, consistenti – per limitarci alla
bellezza del corpo umano - nell’atleticità e nel richiamo sessuale, tali da
consentire la formulazione di un canone generalmente condiviso. Tutti i
caratteri estranei alla capacità lavorativa e al richiamo sessuale non hanno
assunto una valenza estetica, non influenzando pertanto il giudizio di
bellezza: mi riferisco al colore della pelle, alla forma del naso e degli occhi, al
tipo di capigliatura. Non è quindi per caso che ai concorsi di bellezza
partecipino donne e uomini di tutte le razze umane.
Il canone universale di bellezza va incontro ad una obiezione, a parer
mio, superabile. Alcuni pensano che ogni comunità abbia prodotto la propria
vita e i propri gusti in base alle specifiche attività nelle diverse condizioni
ambientali, fino ad incidere sui canoni estetici di quel popolo. Alle differenze
etniche, vanno inoltre aggiunte le differenze individuali: si pensi alle forme e ai
colori che hanno avuto importanza nella nostra infanzia e che ancora
determinano inconsapevolmente alcune nostre preferenze estetiche, così
come è avvenuto per gli altri gusti sensoriali (30).
Tutto ciò è vero, ma è limitato nel tempo, giacché dura fino a quando
quella comunità e, spesso, anche quell’individuo, non entreranno in contatto
con altre popolazioni, sulla cui base adegueranno i loro criteri valutativi.
Fino ad epoca recente i popoli, essendo vissuti in isolamento, hanno
inconsciamente prodotto un gusto estetico regionale, commisurato alle
tipologie antropologiche esistenti nei loro luoghi, pur condividendo i canoni
generali di forza, agilità e sessualità. Sono esistiti popoli con un rapporto
medio gambe-tronco diverso da quello di altri gruppi umani, essendosi
selezionati in ambienti di alta montagna, ove la capacità polmonare deve
essere diversa rispetto a quella di popoli vissuti nelle praterie, e che, a volte,
hanno sviluppato un’altezza non comune. Altri, al contrario, vissuti nelle
foreste, sono rimasti molto più piccoli. Popoli vissuti in ambienti freddi o caldi,
ricchi o poveri di acqua e di verde, inevitabilmente dovevano sviluppare
caratteri non sempre omogenei nelle proporzioni e simmetrie corporee o nei
colori della pelle, degli occhi, dei capelli, anche se tutti, pur all’interno delle
rispettive diversità, hanno percepito come belli quei corpi che favorivano la
produzione e la riproduzione.
Ciò non ha tuttavia impedito che con l’incremento dei contatti
emergesse un senso più comune del bello. I latini e, prima ancora, i greci
preferirono il criterio germanico della bellezza umana (altezza, occhi cerulei,
capelli biondi), pur non essendo omogeneo con le caratteristiche dei popoli
mediterranei. Tutto ciò significa che mediterranei, indiani, alpini, andini,
pigmei, vatussi, non appena hanno avuto l’occasione di conoscere corpi come
quelli dei bronzi di Riace hanno presto aderito a quel nuovo modello di
30 - Magro pensa che vi sia un senso più o meno universale ed innato del bello relativamente al corpo
umano: “...traits that are generally shared by anatomically modern humans could be the standard of our
innate sense of beauty…Maintaining separateness of species and thus avoiding the risk of sterile
offspring could have been the original functional significance of our innate sense of beauty of human
form” (A. M. Magro, Evolutionary-derived anatomical characteristics and universal attractiveness,
pubblicato nella rivista “Perceptual and Motor Skills, 1999, 88, p.147-166. Traduzione mia: “I tratti che
sono generalmente condivisi dagli uomini anatomicamente moderni potrebbero essere il modello del
nostro senso innato della bellezza…Mantenere separate le specie, e quindi avere eliminato il rischio di
una prole sterile, potrebbe essere stato il significato funzionale originale del nostro senso innato della
bellezza della forma umana”). J. Diamond, cit., p. 150, ha sostenuto, al contrario, che la bellezza è del
tutto regionale. Molti studiosi hanno analizzato i caratteri del corpo umano che più attraggono
esteticamente, sulla base delle testimonianze raccolte sistematicamente. L’articolo di D. Singh,
Adaptive significance of female Physical attractiveness: role of waist-to-hip ratio, in “Journal of
Personality and Social Psycology”, 1993, 65, pp. 293-307, arriva a stabilire su base statistica che agli
uomini di tutte le razze e culture piacciono esteticamente le donne con valori fisici medi, né troppo
magre, né troppo grasse, e con adeguate curvature. Questo tipo di inchiesta, pur avendo una sua utilità,
scambia tuttavia la causa con l’effetto, giacché le preferenze espresse, prima di essere causa di
selezione sessuale, sono effetto di un precedente processo selettivo, a cui gli antropologi statistici sono
meno interessati.
14
bellezza, che, come il loro, esalta i corpi adatti al lavoro e alla riproduzione,
sebbene ad un livello di maggiore perfezione o, meglio, di una perfezione
meno specifica, meno regionale.
Dobbiamo concludere che il senso estetico relativo ai corpi umani è
nato particolare presso ogni popolo, ma sulla base di una matrice comune –
capacità lavorativa e sessualità – per diventare progressivamente universale.
Il processo di mondializzazione, ancora oggi aperto, ha una storia
antichissima, nascendo, come dice Darwin, con gli scambi fra comunità
diverse delle donne più belle, ma anche di merci, con la nascita delle prime
forme di denaro. È iniziato in questo modo quel processo di
universalizzazione del gusto, che non esclude che ancora oggi il senso
estetico universale condivida il campo con quello particolare e con quello
individuale, seppure con un andamento a favore del primo, così come avviene
in tutti gli altri campi, dall’economia al diritto internazionale, dal tempo libero
alla democrazia. Ciò che ho detto per i corpi umani vale anche, fatte le dovute
differenze, per la natura.
b) I filosofi si sono divisi sul problema del bello tra soggettivisti ed
oggettivisti (31), anche se questi ultimi non saprebbero individuarlo attraverso
un qualsiasi strumento scientifico di rilevamento: solo l’accordo universale nel
giudicare bella una data cosa li ha indotti a ritenere la bellezza oggettiva.
D’altra parte, il soggettivismo relativistico non spiega, per dirla con una
battuta, l’elezione di Miss Universo.
Lukàcs - che pure aveva avuto un fertile approccio con il problema - fa
nascere il bello con la produzione manifatturiera, non tenendo in alcun conto
sia l’economia naturale del raccoglitore e del cacciatore che la riproduzione
sessuale. Con queste lacune non ha potuto capire la fonte primaria del senso
estetico. L’uomo ha avuto un ben più lungo e consistente rapporto con la
natura in quanto tale, quando il ricambio organico avveniva direttamente con il
semplice prendere, senza la mediazione della mano trasformatrice, in una
prassi pre-artigianale, in cui il rapporto con le stagioni, con gli animali, con i
frutti spontanei, con i fiori che li annunciano, era immediato, ovvero quando la
natura non si era ancora trasformata in materia prima (32). Il criterio estetico,
31 - All’interno di questa secolare diatriba, tutti presero posizione sulla collocazione ontologica del bello.
Ecco come viene sintetizzata la discussione da Tatarkiewcz: “La disputa tra oggettivismo e
soggettivismo in estetica è di antica data, come in parte si è già visto. La questione è se il valore
estetico sia una proprietà delle cose, oppure se si tratti della reazione dell’uomo alle cose stesse. In
altre parole: il giudizio estetico è un giudizio che concerne gli oggetti, oppure ciò che i soggetti provano
dinanzi ad essi? Detto concisamente: quando indichiamo una cosa «bella» o «estetica», le attribuiamo
una proprietà che possiede effettivamente, oppure che non è in suo possesso ma che noi le
conferiamo? Insomma: esistono oggetti belli e oggetti brutti, oppure non esistono, nessun oggetto
possiede di per sé queste caratteristiche, tutti sono esteticamente neutri: né belli né brutti, e soltanto noi
li rendiamo tali? Quando Platone sostiene che «esistono oggetti belli, che sono tali sempre e di per sé»
si pronuncia a favore dell’estetica oggettivistica; quando David Hume scrive che «la bellezza degli
oggetti risiede unicamente nella mente di chi li guarda» professa invece la teoria del soggettivismo
estetico. Vi sono altre controversie simili, in particolare questa: se un oggetto è bello per uno lo è per
tutti, oppure può essere bello per alcuni e brutto per altri? L'oggetto della disputa non è più qui il
soggettivismo, bensì il relativismo estetico. Quando Platone sostiene che alcune cose sono belle «di per
sé» nega il soggettivismo estetico, quando asserisce che sono belle «sempre» nega il relativismo.
Quando Hume aggiunge alla proposizione citata che «ogni intelletto percepisce diversamente la
bellezza» unisce soggettivismo e relativismo. La fusione di questi due concetti non è tuttavia
indispensabile: la storia dell’estetica conosce soggettivismo senza relativismo e relativismo senza
soggettivismo” (W. Tatarkiewicz, Dzieje szesciu pojec, Państwowe Wydawnictwo Naukowe, Warszawa
1976; trad. it., Storia di sei idee, Aesthetica, Palermo 1997, p. 221).
32 - G. Lukàcs, cit., pp. 1-45. Il filosofo ungherese distingue nettamente tra bello (o arte) e piacevole (o
utile), rispondendo negativamente al problema ”se possa esistere una bellezza al di fuori dell’arte” (p.
687); ”studiosi di estetica come Fischer fanno opera di vuota pedanteria quando cercano, con pretesa di
oggettività, di definire belli o brutti dal punto di vista «estetico» i fenomeni della natura” (p. 746), valendo
per essi la regola del de gustibus; il piacevole non si solleva mai oltre la vita particolare di un individuo,
mentre le elaborazioni estetiche ”costituiscono sempre un processo di purificazione di quegli elementi
che sono esclusivamente radicati nell’individualità personale” (p. 666); per ottenere l’arte ”occorre
15
proprio perché formatosi con i grandi e piccoli eventi favorevoli alla vita
dell’uomo sulla terra, ha mantenuto fino ad oggi integralmente il suo statuto
originario.
c) Abbiamo detto che dietro al gusto estetico deve esservi, come per
tutti gli altri gusti, una funzione pratica vitale.
Sorprende che lo stesso Darwin non tenti di spiegare evolutivamente il
motivo per cui gli umani amino i colori, anche se confessa che deve pur
esserci un motivo:
“No doubt the perceptive powers of man and the lower animals are so constituted that
brilliant colours and certain forms, as well as harmonious and rhythmical sounds, give
pleasure and are called beautiful; but why this should be so, we know no more than why
certain bodily sensations are agreeable and others disagreeable. It is certainly not true that
there is in the mind of man any universal standard of beauty with respect to the human
33
body…The men of each race prefer what they are accustomed to behold” ( ).
Mi sembra ragionevole pensare che l’uomo, essendo un animale
diurno, ami i colori del giorno, i colori del cielo, del mare, delle piante, della
terra, del sole. Per questa stessa ragione non ama i colori della notte, il non
colore, il nero, l’insidia notturna, il temporale, la cecità, la morte, l’inferno in
quanto sono scuri o tali se li immagina. Della notte l’uomo ama la luna e le
stelle, gli unici elementi luminosi percepibili. La sensorialità visiva umana si è
selezionata premiando – o comunque avvantaggiando - coloro che sentono
immediatamente i colori come elementi di vita.
I colori, insieme alle forme, ai suoni, agli odori, sono il modo della realtà
di rivelarsi a noi, sia in positivo che in negativo. La frase di Darwin “i
sensi…sembrano essere fatti in modo…” è limitata, giacché poggia l’accento
sul soggetto della percezione, sulla capacità percettiva e non sulla sua genesi
evolutiva, e quindi sul rapporto del soggetto con il contenuto della percezione.
Il bambino piccolissimo è già in grado di scegliere tra ciò che è più gradevole
per lui e ciò che non lo è. Tutto ciò che è connesso con la sua alimentazione,
il suo dormire, il suo benessere in generale è percepito da lui positivamente:
colori, odori, suoni, forme e consistenze diventano segnali del mondo che
desidera, o, al contrario, del mondo che rifiuta. La sensorialità non
rappresenta un’aggiunta esteriore al corpo umano, perché nasce e si sviluppa
selettivamente con esso. Un determinato senso umano calato in un animale
di un’altra specie non sarebbe in grado di percepire nello stesso modo. Le
affermazioni di Darwin sono quindi condivisibili parzialmente. Dobbiamo
riconsiderarle alla luce della sua teoria generale, per capire quali siano stati i
processi evolutivi che hanno interessato il corpo, la mente e la sensibilità
umani, permettendo la nascita del senso del bello. Su questo, il nostro autore
ci aiuta assai poco, mancando una trattazione specifica, mentre ci apre una
strada fertilissima con la sua teoria generale.
d) In questo percorso, possiamo rileggere con interesse alcune parti
delle opere di Hume dedicate al problema del bello. L’autore, con la consueta
compiere una certa universalizzazione oltre questo livello” (675), che è il livello della tipicità; la natura
può diventare bella solo nella trasfigurazione artistica; infatti i fenomeni naturali ”assumono
un’oggettività estetica solo in virtù dell’elaborazione poetica” (751). In un errore di impostazione simile a
quello di Lukàcs cadono autori come Bradshaw e Arsuaga, che, pur spostando molto indietro nel tempo
la nascita del senso estetico umano, non riescono tuttavia a svincolarlo dall’attività artigianale.
33 - C. Darwin, The descent of man, and selection in relation to sex, cit., p. 353-354; trad. it., L’origine
dell’uomo e la selezione sessuale, cit., “I sensi degli uomini e degli animali inferiori sembrano essere
fatti in modo che i colori brillanti ed alcune forme così come i suoni armoniosi e ritmici provochino in loro
piacere e siano definiti belli; ma perché questo accada non lo sappiamo. Certamente non è vero che
nella mente dell’uomo esista una concezione universale di bellezza rispetto al corpo umano…Gli uomini
di ogni razza preferiscono quello a cui sono abituati” (p. 616).
16
antimetafisica modernità, collega il bello all’utile, dopo averlo definito
soggettivo e, al tempo stesso, universale, seppure con qualche incertezza.
Alla sua concezione manca, oltre alla distinzione tra bellezza ed arte, la teoria
dell’evoluzione, che nascerà un secolo dopo di lui:
“Euclid has fully explained all of the qualities of the circle; but has not, in any position,
said a word of its beauty. The reason is evident. The beauty is not a quality of the circle…It is
34
only the effect, which that figure produces upon the mind” ( ).
“And where any object has a tendency to produce pleasure in its possessor, it is
always regarded as beautiful…Thus, the conveniency of a house, the fertility of a field, the
strength of a horse, the capacity, security, swift-sailing of a vessel, form the principal beauty
35
of these several objects.” ( ).
Per maggiore completezza, riporto altri passi dell’autore che non sarà
difficile ricollegare alle tesi che vado elaborando.
“The principal part of personal beauty is an air of health and vigour, and such a
36
construction of members as promises strength and activity” ( ).
“That shape which produces strength is beautiful in an animal; and that which is a
37
sign of agility, in another ( ).
In La regola del gusto Hume ha raccolto le idee essenziali della sua
concezione estetica. Vi ribadisce il radicale soggettivismo: il sentimento che
proviamo dipende dalla relazione fra l’oggetto e gli organi della mente. La
bellezza quindi non è reale, anche se possiamo empiricamente osservare che
alcune cose sono riconosciute universalmente belle. Omero è piaciuto
sempre e dovunque.
“It appears then, that, admidst all the variety and caprice of taste, there are certain
general principles of approbation or blame…same particular forms or qualities…are
38
calculated to please, and others to displease” ( ).
Esistono tuttavia due fonti di diversità:
“The one is the different humours of particolar men; the other, the particolar manners
39
and opinios of our age and country” ( ).
34 - The Philosophical Works of David Hume, ed. by T.H. Green and T.H. Grose, London 1874-75, An
Enquiry Concerning Human Understanding (1748), vol IV, Appendix I, p. 263; trad. it., “Euclide ha
spiegato bene tutte le qualità del circolo, ma non ha detto nulla, in nessuna proposizione, della bellezza
del circolo. La ragione è chiara: la bellezza non è una qualità del circolo…È soltanto l’effetto prodotto da
quella figura sulla mente” (Opere filosofiche di David Hume 2, Ricerche sull’intelletto umano e sui
principi della morale, Laterza, Roma, Bari 2008, Appendice I, p. 307).
35 - The Philosophical Works of David Hume, cit, vol II, A Treatise of Human Nature (1739), p. 336;
trad. it., “Quando un oggetto ha la tendenza a causare piacere a chi lo possiede, lo si considera sempre
come bello…Così la convenienza di una casa, la fertilità di un campo, la forza di un cavallo, la capacità,
la sicurezza e la rapidità di navigazione di un battello formano la principale bellezza di questi differenti
oggetti” (Opere filosofiche di David Hume 1, cit, Trattato sulla natura umana, p. 609).
36 - Treatise, cit, p. 152; trad. it., “Il lato più importante della bellezza di una persona è l’aria di salute e
di vigoria ed una disposizione delle membra che faccia prevedere forza ed attività” (Trattato, cit., p.
382).
37 - Treatise, cit., p. 25; trad. it., “Bella in un animale è la forma che esprime forza fisica; in un altro,
quella che è segno della sua agilità” (Trattato, cit., p. 314).
38 - The Philosophical Works of David Hume, cit., The Standard of Taste (1757), vol. III, p. 271; trad. it.,
“Perciò si vede che, pur entro la varietà e i capricci del gusto, vi sono certi principi generali di
approvazione o di biasimo…si può calcolare che certi particolari forme o qualità piaceranno, e che altre
dispiaceranno” (La regola del gusto, a cura di G. Preti, Laterza, Bari 1967, p. 34).
39 - The Standard of Taste, cit., p. 280; trad. it., “La prima è costituita dai diversi umori degli individui
umani [vecchi e giovani]; l’altra, dai particolari costumi e dalle particolari opinioni del nostro tempo e del
nostro paese” (La regola del gusto, cit., p. 46).
17
Questi passi evidenziano la contraddizione nel testo humiano tra
universalismo e particolarismo estetico.
18
4 - La bellezza del corpo umano
a) Nella storia della scultura e della pittura greca, romana, indiana,
cinese, ma anche nella Bibbia e in Omero, approssimativamente negli ultimi
tre mila anni, vengono rappresentati uomini e donne – divinità, eroi, guerrieri –
con caratteri estetici molto simili tra loro e molto simili anche ai caratteri attuali
(40). In sintesi, possiamo ribadire che il gusto estetico è omogeneo per alcune
forme essenziali alla vita, anche se i gruppi umani isolati hanno dovuto
scegliere e rappresentare il meglio tra ciò che offriva il rispettivo popolo e il
rispettivo ambiente naturale, pronti tuttavia ad adeguarsi ad un gusto più
generale.
L’umanità ha sempre celebrato la bellezza del corpo di uomini e donne,
elaborandone un istintivo canone estetico. Anche i filosofi che hanno negato il
bello di natura, da Platone ad Hegel, fino a Croce, hanno apprezzato, come
tutti, il fascino dei corpi. In funzione del prestigio che proveniva dalla venustà,
fin dalla preistoria si è cercato di abbellire il corpo con abiti, cosmetici e
ornamenti. La gradevolezza fisica fu utilizzata in vario modo dai popoli, dai
sovrani, dalla Chiesa.
La statura elevata, come dicevo, fu considerata in tutta l’antichità un
elemento indispensabile della bellezza. Fu presto vincente il modello
germanico: altezza, capelli biondi, pelle chiara, anche se il viso e, del viso, gli
occhi rimasero sempre il nucleo centrale dell’ammirazione. Aristotele scrive a
tal proposito:
“e se le cariche si distribuissero secondo la statura, come alcuni dicono che avvenga
in Etiopia, o secondo la bellezza (ê kata kallos), si avrebbe una oligarchia, perché esiguo è il
41
numero delle persone alte e belle” ( ).
La bassa statura fu concepita come un elemento di bruttezza, in
particolare per i personaggi politicamente autorevoli: Teodora fu spesso
denigrata per questo motivo. Anche la magrezza eccessiva, la calvizie o
l’estremo pallore erano percepiti come deformitas. La moderna estetica del
corpo, pur condividendo questi punti di vista, insiste maggiormente sulle
proporzioni dell’intera figura. L’epicureismo collegò direttamente i volti belli e
coloriti - “praeclari vultus pulchrique coloris” (42) – con la stimolazione
sessuale e con la riproduzione. Spesso l’aspetto fisico venne assimilato al
comportamento morale (43).
b) Con l’ominazione l’umanità sviluppò una sensualità erotica più
raffinata, basata principalmente sulla vista. Tra i primati antropomorfi invece,
come in gran parte del mondo animale, quando le femmine sono in calore,
indipendentemente dall’età e dalle fattezze, richiamano per via olfattiva i
maschi e si accoppiano con tutti quelli per cui non vi siano divieti di sorta. Se
gli scimpanzé eleggessero la loro Miss di bellezza, eleggerebbero quella che
emana gli odori più sollecitanti, con maggiore appeal olfattivo, a differenza
degli uomini che la scelgono in base a linee, proporzioni, colori. Questo
giudizio, valido per tutti i mammiferi, va leggermente mitigato, ma non
cambiato, per i primati superiori, che rappresentano il gradino evolutivo a noi
più vicino, per il fatto che nella stimolazione sessuale dei maschi di alcune
40 - Non è convincente la tesi di Eco sugli innumerevoli modi del bello e del brutto nel tempo e nello
spazio (U. Eco, Storia della bellezza e Storia della bruttezza, Bompiani, Milano rispettivamente del 2004
e del 2007).
41 - Aristotele, Politica, IV, 1290b.
42 - Lucrezio, Rer. nat., IV 1037.
43 - Per queste considerazioni cfr. V. Neri, La bellezza del corpo nella società tardoantica.
Rappresentazioni visive e valutazioni estetiche tra cultura classica e cristianesimo, Pàtron editore,
Bologna 2004, pp. 65-72.
19
scimmie antropomorfe, a causa di una vista più sviluppata, entra in gioco
parzialmente anche la percezione visiva delle tumescenze posteriori delle
femmine nel periodo fertile.
Si potrebbe riconoscere conclusivamente che la Grande Teoria estetica di
origine platonico-pitagorica, incentrata sul concetto di proporzione, sia giusta se
riproposta in chiave antimetafisica. Noi oggi infatti possiamo dire che è bello un
corpo con determinate proporzioni, sapendo che queste non sono un a priori, ma
un a posteriori bio-evolutivo, e che sono diverse per ogni cosa. Se gli uomini
avessero un braccio più lungo dell’altro, o molto più forte, non sarebbero
egualmente abili e produttivi, per gli ovvi scompensi che la difformità
provocherebbe. Una mano umana con il pollice opponibile e con le dita lunghe e
forti ci appare più bella di qualsiasi altra mano con il pollice non opponibile o
con le dita corte e non in scala. L’armonia e la simmetria è quella della nostra
mano quando è pienamente funzionale. Occhi troppo grandi o troppo piccoli,
troppo vicini o troppo lontani, svolgerebbero meno bene la loro funzione, se la
natura ha selezionato le proporzioni che conosciamo. L’uomo ha imparato
dalla vita, da ciò che è necessario alla sua sopravvivenza, a stabilire le
simmetrie e le regolarità, e quindi ad apprezzarle e gustarle come belle.
La percezione estetica del corpo si è tuttavia sviluppata in modo
diverso nell’uomo e nella donna, giacché quest’ultima, per la sua particolare
condizione sociale, ha dovuto incrementare – almeno in epoche più recenti - il
suo appeal per conquistare un compagno, finendo entrambi per occuparsi
principalmente dell’estetica femminile. Si potrebbe dire che se i maschi umani
sono prevalentemente un prodotto della natura, le donne sono invece il
risultato del lavoro convergente di madre-natura, degli uomini e delle stesse
donne, che ha aggiunto un elemento ulteriore alle differenze fisiche tra
maschi e femmine umani rispetto a quelle che distinguono alcune specie
animali. Mentre infatti tra queste lo stacco risiede interamente nel dimorfismo
e negli organi riproduttivi, tra uomini e donne, alle dimensioni corporee e al
sesso si devono aggiungere le forme. Gambe, fianchi, glutei, torace sono
formalmente uguali negli scimpanzé di entrambi i generi, ma vistosamente
diversi nella nostra specie.
Non è agevole capire perché l’uomo abbia preferito le rotondità e le
morbidezze femminili, tanto da favorirne l’affermazione evolutiva, ma, se in
tutto deve esserci una ragione naturale, nessun valore potendo essere a
priori, c’è da pensare che fossero arcaici richiami sessuali e quindi più
gradevoli nell’accoppiamento, ma anche, come dice Buss, positivi indicatori di
salute fisica (44). Su questa base deve essersi costituito il senso estetico
maschile delle forme visive femminili, ovvero di specifiche linee e proporzioni.
Se la migliore fruibilità sessuale del corpo arrotondato ha prodotto un preciso
gusto della vista, questo, a sua volta, dovette incrementare ulteriormente
44 - D. Buss, Evolutionary Psychology: The New Sciente of the Mind, cit., pp. 147-167. L’insistenza
sulla selezione sessuale a scapito della selezione naturale indica tuttavia una insufficiente valutazione
dei problemi relativi alla sopravvivenza e quindi al lavoro. Sulla priorità del lavoro-produzione sulla
riproduzione sessuale, anche se con scarsa circolarità tra i due momenti, insiste invece N. Eldredge in
Why we do it. Rethinking sex and the selfish gene, Norton, New York 2004; trad. it., Perché lo
facciamo. Il gene egoista e il sesso, Einaudi, Torino 2005. Costa e Corazza credono “nei criteri di
bellezza universali” (p. 4), ma preferiscono al binomio bellezza-salute quello bellezza-capacità
lavorativa o forza (p. 67) (M. Costa e L. Corazza, Psicologia della bellezza, cit., p. 4). Non mi sembra
accettabile che il criterio estetico sia innato. L’universalità si spiega anche senza innatismo. Si ha
comunque l’impressione che i teorici della bellezza del corpo umano non distinguano sufficientemente
tra la percezione della bellezza attraverso i secoli e il discorso che ogni epoca ne ha fatto – un tempo si
sarebbe detto tra coscienza ed autocoscienza del problema. La scultura greca, romana e indiana hanno
rappresentato il corpo umano in tutte le loro parti, mostrandone un percepibile complessivo
apprezzamento non diverso da quello attuale, al di là di ciò che l’ideologia volta per volta esalta.
Vigarello narra l’episodio del giovinetto greco che, vista di spalle la statua della Venere appena esposta
ad Atene, cerca di copulare con essa. Ciò dimostra che la percezione della bellezza muliebre non è
cambiata nel tempo in modo significativo (G. Vigarello, Histoire de la beauté. Le corps et l’art d’embellir
de la Renaissance à nos jours, Éditions du Seuil, Paris 2004; trad.it., Storia della bellezza, Donzelli,
Roma 2007).
20
l’affermazione di tale carattere. È legittimo pertanto ipotizzare che con
l’ominazione i maschi abbiano perduto in gran parte l’appeal chimico-olfattivo
degli altri primati, ma non quello ottico per le tumescenze posteriori, che, anzi,
si è rafforzato, indipendentemente dal ciclo riproduttivo, fino a fissarsi in modo
stabile (45).
Il bipedismo ha indotto sia nell’uomo che nella donna un forte sviluppo
muscolare delle gambe fino ai glutei, ma nelle donne vi è stato un
rigonfiamento generale – il seno in particolare - che l’ha distinta dal maschio,
come non era avvenuto tra i primati antropomorfi (46). L’ipotesi che gli uomini
siano stati attratti e quindi abbiano scelto quelle più dotate in tal senso, vale
anche nel caso in cui lo sviluppo anatomico sia dipeso da un altro motivo, dal
bisogno materno di accumulare riserve di grasso, come alcuni sostengono,
giacché l’accumulo poteva avvenire in una infinità di modi diversi. L’uomo,
quando e dove ha potuto, ha scelto per attrazione le donne più dotate in quel
senso, contribuendo alla produzione di quel loro “capitale” fisico. Ciò che
abbiamo detto per le donne vale anche per alcuni caratteri maschili, seppure
in misura minore (47).
L’umanità, attraverso la selezione sessuale, ha modellato il corpo in
forme e proporzioni di suo gradimento. La selezione naturale aveva prodotto
uomini e donne ancora grezzi, ma con la capacità, attraverso la scelta, di
raffinare il proprio aspetto, di sviluppare i sensi, le abilità manuali e mentali,
collaborando alla propria “creazione” (48). L’umanità, quindi, nei lenti processi
produttivi e riproduttivi, è andata fissando fisicamente una serie di prototipi
estetico-funzionali, che hanno assunto il rango apparente di “forme
trascendentali”.
c) Le teorie di Morris sono diventate famose, anche se non sempre
apprezzate, avendo collegato la nascita di alcune rotondità femminili alla
selezione sessuale:
“Lo sviluppo del seno femminile di solito viene considerato più come una
caratteristica materna che sessuale, ma pare che al riguardo vi siano scarse prove. Gli altri
primati forniscono un'abbondante riserva di latte alla loro prole, pur senza sviluppare dei seni
turgidi e rotondi, ben delineati. A questo riguardo la femmina della nostra specie è unica fra
tutti i primati. Lo sviluppo di seni sporgenti di forma caratteristica sembra che sia un altro
esempio di segnalazione sessuale”.
“Osservando la zona frontale della femmina della nostra specie, si può forse scorgere
qualche formazione che potrebbe imitare l'antica esposizione genitale delle natiche rotonde e
delle labia rosse? La risposta appare evidente come lo è il seno femminile. I seni sporgenti e
rotondi della femmina certamente sono una copia delle natiche carnose e le labbra
49
nettamente disegnate intorno alla bocca, copie delle labia rosse” ( ).
45 - A proposito dello steatopigismo, Darwin (The descent of man, cit., p. 611) riporta un passo di
Burton sui Somali, che pare “scelgano le mogli allineandole in fila ed estraendone quella che sporge di
più a tergo. Nulla viene considerato più orribile da un negro della forma contraria”.
46 - Questa è la tesi di R. Ardrey in The hunting hypothesis, Atheneum, N.Y. 1976; trad. it., L’ipotesi del
cacciatore, Giuffre, Milano 1986, p. 128, ripresa da D. Morris, The naked ape, Corgi, London 1967; trad.
it., La scimmia nuda, Bompiani, Milano 1968, pp. 69-80, contro cui si è scagliata E. Morgan con la sua
tesi acquatica in The descent of the woman, Souvenir Press, London 1972; trad. it., L’origine della
donna, Einaudi, Torino 1974, capitoli II e III.
47 - D. M. Buss, L’evoluzione del desiderio, cit., p. 68 segg., ha sostenuto che il criterio estetico ha
guidato molto più gli uomini che le donne nelle scelte del partner. Si potrebbe dire, “correggendo”
l’Antico Testamento, che la donna non è nata da una costola di Adamo, ma dalla sua vista e dal suo
tatto.
48 - P. P. Grassé in L’évolution du vivant, A. Michel, Paris 1973; trad. it., L’evoluzione del vivente,
Adelphi, Milano 1979, citato da F. Facchini in Il cammino dell’evoluzione umana, Jaca Book, 1994, p.
227, scriveva : “L’uomo, all’inizio della sua storia, ha subito come ogni animale la legge dell’evoluzione
biologica, ma, da quando ha messo da parte gli automatismi sclerotizzanti e ha beneficiato delle prime
tradizioni, ha attivamente partecipato alla sua evoluzione. Egli è l’unico essere vivente che è stato, con
ogni certezza, parzialmente l’artigiano di sé”.
49 - D. Morris, cit., p. 75 il primo passo, p. 80 il secondo.
21
Le scelte maschili avrebbero selettivamente ricreato nella parte
anteriore delle femmine umane alcuni di quei caratteri sessuali posteriori delle
femmine degli altri primati non più visibili con il nuovo accoppiamento
ventrale. Anche autori poco favorevoli alle tesi di Morris hanno riconosciuto un
qualche valore all’ipotesi:
“In alI probability the evolutionary development of hair reduction, increased skin
sensitivity and tactile changes involving skin tension were all associated with increasing the
tactile sensations of coitaI body contact especially in the frontaI presentation. Likewise the
breasts of young women taken together with other features (limb contour, complexion, and
the like) seem to represent the main visuaI sexuaI releasers for the male. While the latter
features may have been due to straightforward intersexual selection by ancient males the
former features have probably been selected in both sexes for their effect in improving sexual
rewards, in inducing sexual love and in maintaining pair bonds. The same is also likely to be
true for the presence of orgasm in women and the absence of the more typical mammalian
estrus. The functional significance of all these correlated changes is most plausibly seen
within the context of the adaptations of seed-eating and of later partially carnivorous
50
protohominids to open country life with associated shifts in social organization” ( ).
Se le rotondità del corpo femminile sono riconducibili alle funzioni della
riproduzione, diventa comprensibile quel lieve stacco che possiamo notare tra
i due modi dell’unica forma della bellezza-attrazione: il primo, riconducibile
alle strutture fisiche dell’efficienza, quando il corpo esibisce forza e agilità, e, il
secondo, più direttamente collegato alla sessualità, in grado di suscitare una
particolare attrazione, non sempre integralmente sovrapponibile al primo.
L’attrazione sessuale accetta qualche rotondità in più nelle donne, proprio
perché è connessa alla riproduzione, che spesso comporta una crescita dei
seni, dei fianchi e, in generale, dell’intero corpo. Inoltre, la gravidanza,
l’allattamento e la cura dei piccoli indeboliscono le capacità produttive della
donna, ma non l’attrazione. Un corpo atletico è sempre esteticamente
gradevole, ma non sempre un corpo sessualmente attraente è del tutto
atletico. Anche la mascolinità è collegata a caratteri sessuali primari e
secondari, che non necessariamente combaciano integralmente con la
bellezza.
Nelle civiltà povere, per motivi comprensibili, il canone estetico ha
potuto assumere caratteristiche in parte diverse rispetto a quelle collegate alla
forza-agilità. Ciò è avvenuto quando il gusto estetico ha premiato la
grassezza, che inevitabilmente si oppone alla forza-agilità, da cui in teoria non
dovrebbe mai allontanarsi.
d) L’estetica positivistica, pur all’interno di una concezione dell’arte
come unica sede della bellezza, ha colto alcuni aspetti del bello naturale.
50 - J. H. Croox, Sexual Selection, Dimorphism, and Social Organization in the Primates, in Sexual
Selection and the Descent of Man, a cura di B. Campbell, Heinemann, London 1972, p. 254. Per
comodità del lettore, riporto una mia traduzione: “Con ogni probabilità lo sviluppo evolutivo della
riduzione del pelo, l’aumento della sensibilità cutanea e i cambiamenti tattili legati alla tensione cutanea
erano tutti associati all’aumento delle sensazioni tattili del contatto corporeo durante il coito, specie nella
presentazione frontale. Analogamente i seni delle giovani, considerati assieme ad altre caratteristiche
(contorno delle gambe, colorito e simili), sembrano rappresentare i principali stimoli visivi sessuali per i
maschi. Mentre queste ultime caratteristiche [seni, contorno delle gambe, colorito] possono essere state
originate da una selezione sessuale diretta da parte dei maschi ancestrali, le prime [diminuzione del
pelo e sensibilità cutanea] si sono probabilmente selezionate in ambedue i sessi per la loro efficacia nel
migliorare la ricompensa sessuale [nel rendere il sesso più attraente], inducendo l’amore sessuale e
mantenendo i legami di coppia. Gli stessi motivi probabilmente valgono anche per la presenza
dell’orgasmo nelle donne e per l’assenza dell’estro tipico dei mammiferi. Il significato funzionale di tutte
queste modificazioni correlate tra loro è più plausibile se viene visto nel contesto degli adattamenti di
protominidi raccoglitori (seed eating), e in seguito parzialmente carnivori, alla vita negli spazi aperti,
associati con i cambiamenti dell’organizzazione sociale”.
22
Lalo, infatti, lo considera come un riflesso del bello artistico, ovvero come
trasposizione del linguaggio dell’arte nel linguaggio della natura. In tal modo si
capovolge impropriamente, secondo la tesi che vado esponendo, il rapporto
tra arte e natura, considerando estetica la prima, anestetica la seconda,
ovvero né bella né brutta. In realtà, l’autore ritrova il bello di natura, seppure in
forma subordinata, allorquando animali ed esseri umani presentano un corpo
adatto a svolgere nel migliore dei modi il lavoro che loro compete. In
sostanza, per Lalo la bellezza degli esseri viventi non è altro che il carattere
tipico di una specie, che risplende quando gli individui esibiscono salute e
forza, una valida giovinezza, così come la bellezza degli esseri inanimati non
è altro che la loro grandezza e potenza, in assonanza con il sublime kantiano.
Nel regno vegetale vengono considerate belle le forme più lussureggianti. La
bellezza è nel tipo più normale, più sano, più potente di ciascuna specie, così
come il brutto in natura è ciò che si allontana dal tipo normale. Bello quindi è
ciò che è utile, che ci rende felici, che ci dà piacere. L’attrazione sessuale
viene posta conseguentemente in primo piano nella costituzione del concetto
di bellezza relativamente al corpo umano.
Il concetto di natura anestetica mi sembra assai fragile all’interno della
stessa opera di Lalo, se per interi capitoli non fa altro che spiegarci le
caratteristiche della bellezza naturale, la cui provenienza sarebbe del tutto
indipendente
dall’arte. Risulta pertanto
inspiegabile
l’attribuzione
all’educazione artistica della nascita del senso umano della bellezza naturale,
lasciandoci nel dubbio se per lui l’arte ci insegni a percepire il bello di natura
o, viceversa, a fondarlo. Io credo che Lalo abbia risolto malamente il
problema che la tradizione prevalente ha consegnato a tutti noi, ovvero che
esistono due forme di bellezza, quella naturale e quella artistica, tali per cui
sarebbe possibile attribuire a due generi così diversi e, a volte, opposti lo
stesso predicato. Rendendosi conto dell’assurdità di questa soluzione, poteva
escludere una delle due dal genere estetico; non volendo rinunciare alla
“sacralità” del bello artistico, ha provato ad escludere quello naturale senza
tuttavia riuscirvi, dal momento che dedica la prima metà del libro qui citato a
definirne le caratteristiche oggettive (51).
e) Riassumendo, bella è soltanto la parte a noi funzionale di ciò che si
vede nel mondo naturale. La vista umana capta l’utile selettivo attraverso
forme e colori. La gradevolezza degli altri sensi si metamorfosizza in positività
visiva, ovvero in bellezza. Questa, relativamente ai corpi umani, si distingue
nelle due varianti della forza-agilità e della attrazione sessuale, di ciò che
percepiamo come protettivo della vita e di ciò che percepiamo come
riproduttivo della stessa vita.
La vita umana – ma tutta la vita biologica - ruota intorno al rapporto
positivo con la natura, in quanto fornitrice di tutti i mezzi necessari alla
51 - Ch. Lalo, Introduction a l’esthétique, A. Colin, Paris 1912. Cfr. i capitoli secondo e terzo, intitolati
rispettivamente La beauté «anesthétique» de la nature e La beauté «pseudo-esthétique» de la nature.
Condivide il concetto particolarmente appropriato di J. Schultz in cui si dichiara che il bello in natura è
l’essere o la cosa che noi sentiamo come adatta a formare una società felice (p. 93). La prima qualità
delle cose belle è di servirci. Lalo cita Taine come principale ispiratore della sua teoria, anche se
quest’ultimo non ha mai formulato la tesi di una natura anestetica. È vero che Taine non utilizza mai il
concetto di bello relativamente alla natura, ma ripetutamente parla di perfezione dei corpi umani quando
si sommano salute, forza, resistenza, atleticità. Non si capisce tuttavia se l’arte sia bella quando
rappresenta in una sintesi organica questi caratteri nella loro tipicità, o se anche questi corpi lo siano
oggettivamente (H. A. Taine, Philosophie de l’art, 2 Tomes, sixième edition, Hachette, Paris 1893, parte
I, p. 296 e parte V, cap. III, pp. 346-363; trad. it., Filosofia dell’arte, Bompiani, Milano 2001,
rispettivamente alle pagine 263 e 337-361). Drudi osserva che se la grande opera d’arte deve
esprimere, come vogliono Taine e Lalo, i caratteri profondi e universalmente tipici della realtà umana,
contribuendo in tal modo alla conservazione e allo sviluppo dell’individuo e della società, risulta
impossibile interpretare per questa via l’arte di opposizione, l’arte critica del proprio tempo, come
giustamente osserva anche Zola. La posizione di Taine è conservatrice in quanto l’arte non sempre fa
convergere bellezza, verità storica e leggi che governano la realtà (D. Drudi (a cura di), H. Taine, Scritti
estetici: metodo e dottrina, Alinea, Firenze 1996, pp. 30-43).
23
generazione e rigenerazione degli esseri viventi. Maschio, femmina e natura
sono, almeno per i mammiferi, i tre elementi di una correlazione strettissima. I
primi due non possono esistere senza il terzo, ma non viceversa. La natura è
l’elemento determinante e può esistere da sola, gli esseri viventi sono gli
elementi dominanti, pur essendo dipendenti.
In questa correlazione è nata la percezione del bello di natura, ovvero il
gusto positivo per molti aspetti del pianeta Terra e dell’intero sistema
planetario, in quanto rappresentano la condizione di tutte le possibili
condizioni di vita, l’ambiente in cui solo possiamo esistere. Basta ricordare a
questo proposito gli infiniti attestati letterari di bellezza riferiti al cielo, agli astri,
al sole, alla luna, ai cicli stagionali, all’alba, al tramonto e alle loro celebrazioni
religiose e mitologiche comuni a tutti i popoli.
Questa nostra abitazione è percepita come bellezza estatica, come
sublimità, come grandioso dono gratuito. In questi casi, essa diventa semplice
affascinante spettacolo di un qualcosa che è in correlazione con noi, da cui
noi dipendiamo, ma che non dipende da noi, che precede la nostra esistenza
e che continuerà ad esistere dopo di noi. Nel bello naturale vi è pertanto
qualcosa di indifferente, di distante, che non comunica con noi, che non ha
nulla da dirci. La bellezza dei corpi umani invece è sempre in un rapporto
esistenziale di reciprocità, sempre all’interno di uno scambio, almeno
possibile, essendo il con-essere originario. Come possiamo cogliere un
particolare valore aggiuntivo nella bellezza-forza-agilità e nella bellezzasessualità, così constatiamo la mancanza di questo plusvalore per il bello
naturale. La bellezza naturale risente di questa differenza. La percezione
estetica dei corpi umani si accompagna infatti con l’attrazione e con la
simpatia, la bellezza naturale è senza attrazione e simpatia. Ci può essere
esigenza di cibo, di riparo, di sole, ma tutto ciò si verifica senza scambio
psicologico. La natura è la base materiale per la vita biologica e per la sua
riproduzione, senza essere né viva né riproduttiva. Diversa quindi è la
percezione tra ciò che produce direttamente la vita e ciò che ci permette di
vivere, ovvero la sua condizione pimaria. La prima è una percezione con
emozione, la seconda è senza emozioni.
f) Una prova empirica del nesso capacità lavorativa (forza e agilità
giovanili), capacità riproduttiva e bellezza si può rintracciare, prendendo in
considerazione il ruolo della selezione indotta dalle scelte umane, in
particolare di allevatori e coltivatori, consapevoli o meno, su animali e piante.
Seguiamo due passi dal primo capitolo dell’Origine delle specie:
“The key is man's power of accumulative selection: nature gives successive
variations; man adds them up in certain directions useful to him. In this sense he may be said
52
to have made for himself useful breeds” ( ).
“But, for our purpose, a form of Selection, which may be called Unconscious, and
which results from every one trying to possess and breed from the best individual animals, is
53
more important” ( ).
Ciò che Darwin asserisce a proposito della selezione operata dalle
scelte degli allevatori può valere anche per la formazione di alcuni gruppi
umani, là dove un forte potere imperiale ha potuto razziare intere popolazioni,
52 - C. Darwin, The origin of species by means of natural selection, or the preservation of favoured
races in the struggle for life, cit., p. 22; trad it., L’origine delle specie, cit., “La chiave del problema sta
nel potere dell’uomo di operare una selezione accumulativa: la natura fornisce variazioni successive, e
l’uomo le accumula nelle direzioni che gli sono utili. In questo senso si può dire che egli si è fabbricato
le razze che gli sono vantaggiose” (p. 101).
53 - Ivi, p. 25; trad. it., “Ma per noi è molto più importante un altro tipo di selezione, che possiamo
chiamare inconscia, e che deriva dal desiderio di ciascuno di possedere e moltiplicare i migliori individui
di ogni specie. Così, un uomo che desidera allevare dei cani pointer cerca naturalmente di procurarsi i
migliori individui” (p. 104).
24
per avere la migliore manodopera schiavistica ai prezzi più bassi. È questo il
caso, tra i tanti, degli africani trasportati a forza nelle Americhe. Abbiamo
assistito ad un fenomeno di annientamento dalle proporzioni immani di interi
popoli, dovuto al fatto che, per uno schiavo che arrivava a destinazione, un
altro moriva durante le retate o durante il viaggio, e che interi villaggi venivano
annientati o, direttamente, con le armi o, indirettamente, con la sottrazione
alla comunità delle forze produttive e riproduttive migliori. Questa tragedia
doveva presentare una inevitabile ripercussione selettiva, con un risvolto
estetico, a riprova del nesso tra capacità lavorativa, capacità riproduttiva e
bellezza. Gli afro-americani sono in alta percentuale robusti e sessualmente
attraenti, ovvero belli, perché i loro antenati furono selezionati in Africa dagli
schiavisti per lavorare duramente nelle piantagioni americane. La scelta dei
più forti all’origine, la morte durante la traversata dell’Atlantico dei meno
resistenti e il duro lavoro nei campi hanno selezionato un gruppo umano
fisicamente eccellente.
Gli innumerevoli racconti sui giornali e sui libri dell’epoca da parte di
osservatori diretti, oltre a creare in noi un senso di disgusto verso una parte
dei nostri antenati, ci permettono di capire perché esistono oggi quelle
eccezionali strutture fisiche di uomini e donne nei territori delle tre Americhe.
“A gruppi di tre o quattro alla volta, gli schiavi, uomini e donne, vengono
accuratamente visitati. Una particolare attenzione viene riposta nell’esame dello stato della
bocca e degli occhi…Gli schiavi vengono fatti correre, saltare, parlare, muovere braccia e
gambe. Proprio come un mercante di cavalli, il capitano cerca di scoprire i sintomi di affezioni
come le ulcere, la scabbia, lo scorbuto o il verme solitario. Se lo schiavo non presenta alcuna
evidente malformazione, né traccia di malattie, se non troppo vecchio né troppo giovane,
54
viene destinato a far parte di coloro che compivano il terribile viaggio verso le Americhe” ( ).
“Il prezzo…dipende sostanzialmente dall’età (uno schiavo di trentacinque anni è già
55
considerato «vecchio»), dalle condizioni di salute, dalla forza fisica, dall’aspetto generale” ( ).
Hansen, in un suo romanzo storico, così rappresenta la tratta delle
popolazioni africane da parte delle varie compagnie europee:
“La domanda si incentrava sui ceppi di razza negroide che vivono tra la savana e la
costa meridionale dell’africa occidentale. I proprietari delle piantagioni delle Indie erano
disposti a pagare prezzi notevoli soprattutto per i cosiddetti coromanti…I coromanti erano
considerati eccezionalmente robusti e coraggiosi, erano grandi lavoratori, e sopportavano i
56
castighi più duri” ( ).
g) Vorrei concludere questo capitolo con una considerazione di
carattere epistemologico.
L’estetica, come tutte le altre discipline, ha proceduto accostando
termini tra loro esterni. Hume capisce invece che il piacere provato di fronte
ad alcune cose è interessato, in quanto è collegato alle nostre convenienze,
stabilendo un relazione tra bellezza e interesse. Tuttavia, per Hume, il nesso
estetico che collega noi al mondo non è sostanziale, presentandosi nella
forma dell’accidentalità; se non ci fosse, infatti, la vita cambierebbe di poco, in
54 - J. Meyer, Esclaves et négriers, Gallimard, Paris 1986; trad. it., Schiavi e negrieri: la grande tratta,
Universale Electa/Gallimard, Torino 1996, p. 48.
55 - Ivi, p. 72. In una pagina precedente, l’autore riportava ciò che Lord Palmerson ha scritto nei suoi
racconti sulla tratta: “Una volta raccolti tutti i prigionieri si procedeva a una prima selezione: gli individui
robusti dei due sessi e i bambini a partire dai sei sette anni venivano messi da una parte e
irreggimentati nella carovana che avrebbe dovuto raggiungere la costa. I bambini al di sotto dei sei anni
venivano massacrati. Vecchi e infermi erano abbandonati, il che significava condannarli a morire
d’inedia” (p. 53).
56 - T. Hansen, Slavernes Kyst, Gyldendal, Copenaghen 1967; trad.it., La costa degli schiavi,
Iperborea, Milano 2005, p. 36.
25
quanto serve solo ad accompagnare le nostre scelte utilitarie con un certo
piacere.
Io credo, al contrario, che il rapporto tra percezione estetica e natura
sia essenziale per la sopravvivenza della specie, che esiste scegliendo e
amando ciò che la fa vivere. La sopravvivenza della specie comporta quel
desiderio. La sua esistenza coincide, almeno per un aspetto, con la
percezione del bello, che non è un attributo esterno all’esistenza umana, in
quanto è alla base delle sue scelte vitali. La sensibilità estetica filtra il positivo
e il negativo nel nostro rapporto con il mondo e ci permette di scegliere ciò
che è necessario per vivere. La teoria dell’evoluzione, considerata nelle sue
implicite conseguenze, ci permette di ipotizzare che l’apprezzamento estetico
non vada considerato un piacevole accessorio accidentale, di cui sarebbe un
peccato fare a meno.
26
5 - Bello artistico o pertinenza?
Attraverso alcuni sensi, la mente non è in grado di rappresentare la
natura e l’uomo in tutti i loro molteplici aspetti. È possibile tuttavia creare
un’arte dei profumi, dei sapori, della tattilità. In questi casi il risultato è tutto
interno a quel senso, giacché si possono produrre odori sempre più gradevoli
e differenziati, senza avere la possibilità di narrare con essi direttamente la
complessità umana e naturale. È alquanto condivisa l’idea che alla
produzione artistica che utilizzi questi sensi non si addica il giudizio estetico
del bello-brutto. Maggiore resistenza invece si verifica nei confronti delle arti
visive ed uditive.
La musica nacque da e per l’eccitazione e la commozione degli animi,
per disporli alla guerra, alla caccia, all’amore, all’odio. Per questa sua
costituzione, i predicati valutativi della musica non possono essere quelli delle
forme visive. Un equivalente discorso vale per i prodotti della culinaria e della
profumeria (57), ove l’eccellenza o meno si definisce con altri aggettivi. Anche
per l’arte della parola (poesia, letteratura) il criterio valutativo non è il bellobrutto, ma la capacità di evocare un mondo particolare, in grado di
coinvolgerci e di farci partecipi di emozioni e di valutazioni. Arte quindi è un
termine generico, comprensivo di molte sue specie, da quelle delle forme
visive a quelle dei suoni, dei sapori, dei profumi, di ciò che si percepisce con il
tatto, ciascuna con un codice di giudizio diverso, adatto al suo mondo
sensoriale (58).
Dei vari organi sensoriali, con l’ovvio sussidio del cervello, alcuni quindi
posseggono la capacità di esprimere direttamente la realtà, altri possono
esprimerla con metafore, altri non possono esprimere altro che se stessi. Con
le immagini visive della pittura o della scultura, l’uomo può narrare
direttamente la realtà e la vita in molti dei loro molteplici aspetti. I suoni
possono rievocare gran parte del reale, in particolare quando sono parole,
ciascuna con un significato specifico e con infinite modulazioni, un vero e
proprio linguaggio. Quando il suono è dato dalle note musicali non si presenta
come copia immediata di qualcosa, essendo privo di un qualsiasi significato
immediato, anche se un complesso di suoni può dare un risultato significante,
in grado di esprimere aspetti della natura e dell’uomo.
a) Negli ultimi due millenni è stato accettato il seguente sillogismo
sofistico: l’estetica è la scienza del bello, l’arte produce oggetti belli, quindi
l’estetica deve occuparsi di arte. Se proviamo ad espungere dalle estetiche
più accreditate il correlato gratuitamente aggiuntivo della bellezza, vediamo
che conservano spesso un qualche valore. I giudizi positivi di Heidegger su
Le scarpe di Van Gogh o di Croce sulla poesia di Leopardi hanno un senso
indipendentemente dall’apprezzamento estetico, che è sempre un’aggiunta
57 - Si veda a questo proposito il libro di E. Roudnitska, Le parfum, P. U. F., Paris 1980. L’autore vi
sostiene validamente che la profumeria è un’arte e che “la critique du parfum ne s’improvise pas plus
que celles de la musique, de la peinture, de la littérature” (75). Commette tuttavia l’errore di definirla arte
del bello – un beau parfum – accomunandola alle arti visive, pur contraddicendosi con quanto scrive a
proposito delle caratteristiche di tale bellezza, che “pour être belle cette forme devra répondre à notre
attente de nouveauté et posséder les qualités fondamentales du grand parfum: caractère, vigueur,
pouvoir diffusant, délicatesse, clarté, volume, persistance” (76). Tutti aggettivi pertinenti ad altre
modalità sensoriali, ma non all’immagine visiva. Arriva a dire, a proposito del profumo, “une beauté
jugée par l’odorat” (72).
58 - A. Montagu parla di espressività della pelle in Touching, Harper and Row, N. Y. 1972; trad. it., Il
linguaggio della pelle, Vallardi, Milano 1989, ma non arriva a parlare di arte dell’espressione tattile. E.
Souriau in La correspondance des arts, Flammarion, Paris 1947; trad. it., La corrispondenza delle arti,
Alinea, Firenze 1988, pur accettando l’esistenza di una miriade di espressioni sensoriali, riduce a sette i
“qualia” sensibili che presiedono all’arte, escludendo per motivi più pratici che teorici un’arte dei sapori e
dei profumi e di molti altri “clan di qualia” (157-160).
27
esteriore ed inessenziale al concetto espresso. L’errore nasce quando il
giudizio di validità viene automaticamente associato alla bellezza (59).
Il pregiudizio doveva necessariamente “arricchirsi” di una assurda
distinzione tra prodotti umani (artistici) che ricadono sotto il giudizio di
bellezza e prodotti umani (artigianali o tecnici) che non vi ricadono, come se
l’uomo non producesse tutto nello stesso modo, come se fosse in grado di
immettere in alcuni suoi prodotti la bellezza e in altri no. La bellezza è stata
trattata come una qualità occulta, al pari del calorico o della forza nel
Rinascimento, in grado di entrare e uscire dai prodotti umani secondo le
magie più strane: basta una piccola correzione all’opera di un artista per farla
entrare, nei casi fortunati, nel regno del bello o uscirne, nei casi sfortunati.
Oltre alla natura che è fuori di lui, l’artista rappresenta anche le proprie
fantasie, gli stati d’animo, la società, le idee, consce o inconsce che siano;
sceglie il fatto da narrare in base ad un suo interesse, che non ha alcun
rapporto con il bello di natura, e che spesso gli è del tutto opposto: il dolore,
l’angoscia, la malattia, la lotta, la morte. Nell’arte conta solo l’abilità
dell’artigiano-artista nel riprodurre o nell’inventare qualcosa. Abilità che si
rivela e si rileva nella pertinenza (60). In natura una cosa ci appare bella
quando è funzionale alla vita, quando soddisfa i nostri bisogni. Nel mondo
della rappresentazione artistica, le immagini sono invece positivamente
riuscite quando si adeguano perfettamente alla cosa da comunicare, quando
la fanno vivere compiutamente, quando sono oggettivanti, positive o negative
che risultino per l’uomo.
Non sarebbe possibile una discussione sull’arte, quella che l’artista
conduce innanzitutto con se stesso, quando lima la sua opera, se alla base
della produzione artistica non vi fosse un elemento discutibile non soggettivo,
una decifrabilità oggettiva, la pertinenza appunto (61). Questa non esiste in
59 - Applicazione istituzionale di questa concezione è la creazione del Ministero delle “Belle Arti”.
60 - Riprendo questo concetto da G. Della Volpe in Critica del gusto, Feltrinelli, Milano 1960, dalla
pagina 102 in avanti. Con il termine pertinenza intendo ciò che l’autore definisce “pregnanza
semantica”, “parole oggettivanti”, “rappresentazione obiettiva e vera attraverso la modulazione
linguistica”, in cui consiste la teoria della semanticità contestuale organica, che vale per tutte le arti in
generale. Magistrale mi sembra l’analisi che l’autore conduce sulle correzioni d’autore, mostrandoci le
frequenti limature che molti poeti hanno apportato alle loro opere per ottenere la massima pertinenza:
“celeste confine” si trasforma sapientemente in “ultimo orizzonte” nell’Infinito leopardiano, e “lieta e
pudica” si sublima in ”lieta e pensosa” in A Silvia. Della Volpe tuttavia non riesce a criticare il concetto
di bellezza della tradizione spiritualistica, giacché si ripresenta in lui nelle vesti della rappresentazione
semanticamente poetica, né riesce a spiegare la bellezza naturale, in quanto non rientra nei canoni
dell’arte. Mi rendo conto del rischio che il termine pertinenza corre in un’epoca in cui nichilisticamente si
crede di potere decostruire l’opera d’arte in una serie di significati equivoci, indeterminati, oscillanti (J.
Derrida, L’ecriture et la différence, Seuil, Paris 1967; trad. it., La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino
1971), o si approda ad una estetica della ricezione (H. R. Jauss, Estetica della ricezione (1978), Guida,
Napoli 1988), per la quale significati e valori di un’opera non esistono per sé, diventando il risultato di
un’azione costruttiva, a partire dalle attese e dalle motivazioni dell’epoca del fruitore, secondo
l’ispirazione proveniente da J. Mukarovsky (La funzione, la norma e il valore estetici come fatti sociali
(1935), Einaudi, Torino 1973), dall’ermeneutica di H.-G. Gadamer (Wahrheit und Methode, Mohr,
Tübingen 1960; trad. it., Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983) e da Opera aperta, Einaudi, Torino
1962, di U. Eco, che però distingue opere chiuse da opere aperte, riservando quest’ultimo ruolo
essenzialmente all’arte moderna.
61 - Se la parola “casa” perdesse completamente il suo significato oggettivo - quello che troviamo sul
dizionario - per disperdersi nelle infinite ricezioni, non sarebbe possibile conversare. Se dico: “vado a
casa”, affermo qualcosa di comunicabile, di oggettivo. Al di là di tutto ciò che può essere pensato del
mio andare a casa, una cosa è certa ed oggettiva: che io vado a casa. Se così non fosse, che senso
avrebbe, ad esempio, la consultazione dell’orario ferroviario? L’orario ferroviario pertinente è quello che
informa con esattezza sull’ora di partenza o di arrivo dei treni, sul binario in cui fermano e partono, sulle
cuccette, sul vagone ristorante. La pertinenza è indipendente dal nostro stato d’animo e dalla nostra
cultura: a me serve per andare contro voglia alla stazione a prendere una persona antipatica, ad un
altro per espatriare pieno di timori e speranze, ad un altro ancora per un appuntamento interessante. Il
vissuto di ciascuno varia forse la pertinenza dell’orario ferroviario? Fra “il treno per Milano parte alle
17,30 dal binario 4 e “D’in su la vetta della torre antica passero solitario alla campagna vai”, la
pertinenza è nella precisione dei due tipi di informazione, di tempo e di spazio, in un caso, di rimpianto
per una vita senza affetti (e tanto altro), in un altro. Ma di questo si deve e si può discutere, per decidere
se gli autori ci siano riusciti, ciascuno nella sua sfera di realtà. L’analisi della pertinenza si deve e si può
28
natura, nel senso che la natura non può non essere tale, non essendoci un
criterio di valutazione superiore per stabilire se un colore, o una forma,
potrebbe essere diverso e migliore, giacché manca un termine di paragone.
La pertinenza trova invece il suo campo di applicazione in ogni tipo di
rappresentazione, in quanto ha una misura fuori di sé, nella natura da
riprodurre o nell’intuizione da realizzare, con cui verificare se sia stata
oggettivata pienamente quella cosa o quell’idea. La pertinenza è una sorta di
corrispondenza tra il progetto dell’artista e ciò che la rappresentazione
esprime. Se dall’immagine prodotta non risulta ciò che l’artista intendeva
narrare, vuol dire che l’opera è “morta”, giacché la figura non riesce a
manifestare ciò che ha nell’animo, come magistralmente sottolinea Leonardo:
“Farai le figure in tale atto, il quale sia sufficiente a dimostrare quello che la figura ha
62
nell’animo: altrimenti la tua arte non sarà laudabile…sarà due volte morta…” ( ).
Un artista potrebbe tuttavia creare un’opera non congrua rispetto al
suo progetto, ma inconsapevolmente adeguata ad un altro non voluto, per
una sorta di pertinenza casuale. In questo caso, l’opera potrebbe essere
egualmente valida, ma il fatto non deporrebbe a favore dell’autore.
In arte non c’è un giudice esterno come nelle scienze della natura, ove
il giudizio definitivo è dato dall’esperimento. La pertinenza in arte si
comprende nel confronto con la soluzione non-pertinente. La prova risiede
nell’evidenza logica – opposta al gusto immediato di Croce – ovvero nella
dimostrabilità della validità di una soluzione rispetto ad altre. Quando non ci si
riesce, vuol dire che la critica non ha raggiunto un livello soddisfacente (63).
Il criterio della pertinenza ci permette di capire il motivo per cui siamo in
grado di gustare un’opera del passato, essendo quelle parole, quelle forme,
quei colori ancora adeguati rispetto a quel contenuto, anche se oggi non
sarebbe possibile rappresentare le gesta di Achille o dei Crociati, proprio in
fare sul dato oggettivo e non sul correlato del vissuto, sul tipo di ricezione. Credo che il materialismo
debba salvare il vincolo con l’oggettività, altrimenti tutto evapora dietro la cortina fumogena della
soggettività. L’unica sostanza risiederebbe nelle parole mentre vengono pronunciate, perché subito
dopo diventerebbero oggetto di un nuova ricezione, perdendo qualsiasi originaria configurazione. Tutto
sarebbe non solo transeunte, ma anche evanescente dietro il discorso che crea sempre nuovi mondi.
Solo a partire da un punto fermo è possibile che ogni singolo e ogni epoca possano fare all’opera
domande diverse e trovare risposte difformi. Prima di essere per noi l’opera è in sé. Sarebbe come se la
teoria eliocentrica fosse soggetta agli interessi e ai capricci di individui e culture. Lo stesso Eco, in
polemica con i soggettivisti assoluti, restringeva di molto il campo dell’arbitrarietà: tra “casa” e “mare”
non ci può essere scambio, la prima non potrà mai confondersi con il secondo. Su “A Silvia” potremmo
dire una infinità di cose, ma non che Silvia fosse una prostituta, perché sarebbe oggettivamente
sbagliato. A cosa serve dire che “pensosa” è più pertinente di “pudica”, ma che probabilmente ciascuno
può recepire diversamente il termine pudica. Questo vale per tutto, anche per l’orario ferroviario.
Pertinenza e individualismo recettivo sono due problemi diversi e non collidono. Dietro la “moderna”
estetica della ricezione c’è il rischio che si cada nel “de gustibus”, perdendo la possibilità di ogni
discussione, della comunicazione effettiva, della ragione e del torto, del passare razionalmente da una
posizione ad un’altra. Cose che per altro tutti facciamo quotidianamente e che fanno tutti i soggettivisti,
in particolare quando cercano di convincere gli altri sulle loro ragioni. Il relativismo di queste teorie
tuttavia non riesce a spiegare il motivo per cui alcune opere d’arte hanno acquisito un valore positivo
universale, indipendentemente dal modo soggettivo di ricostruirle.
62 - L. da Vinci, Trattato della pittura (1550), Carabba, Lanciano 1947, p. 102.
63 - Eco precisa il suo pensiero in polemica con la deriva della semiosi ermetica, ovvero con il
decostruzionismo estremo, sostenendo che sono possibili infinite letture di un testo, ma non qualsiasi
lettura, essendovi un limite invalicabile all’interpretazione di ogni testo. Su questa linea ha composto
una vera e propria rassegna sull’uso del termine bello/brutto, raccontandone gli infiniti usi, mescolando
natura ed arte, senza porsi in una disposizione critica, descrivendoli e accettandoli tutti, senza
distinguere tra i migliori e i peggiori, tra gli usi assurdi e quelli possibili, tra chi ha ragione e chi ha torto
(Storia della bellezza e Storia della bruttezza, cit.). Io credo che avrebbe tratto conclusioni diverse se
avesse parlato della teoria geocentrica o della morale musulmana sulla donna. Né ha discusso gli altri
innumerevoli usi scorretti del termine, come quando si dice “una bella passeggiata”. Una posizione
simile assume F. Volpi nella relazione Il valore della traduzione esposta nel seminario svoltosi presso la
casa editrice Laterza a Roma il 26 marzo del 2009, riprodotto ora sia in Internet che su “la Repubblica”
del 7 luglio 2009.
29
quanto il tema non è realmente percepibile, essendo estraneo alla cultura
moderna: la scelta di quel contenuto sarebbe artificiale in sé. In una cultura
religiosa o militare è sensato dire: “Cantami o diva del pelide Achille l’ira
funesta” e noi percepiamo come valida l’invocazione alla divinità e la
presentazione di un eroe infuriato decisivo per le sorti di una guerra. Nessuno
pretende di utilizzare i parametri della propria epoca per giudicare Omero. In
epoca di liberazione della donna e di libertà sessuale, il verso di Dante “Tanto
gentile e tanto onesta pare…” dovrebbe apparirci ridicolo, invece lo cogliamo
come immagine appropriata alla cultura della poesia cortese del DueTrecento. Una Madonna rinascimentale è valutata positivamente anche da un
laico moderno, perché ne percepisce la consonanza con ciò che l’autore
voleva esprimere sulla base dei valori del suo tempo e del suo luogo. Siamo
anche in grado di capire la validità di una correzione, di un ripensamento di un
autore del passato, collocandoci all’interno delle sue problematiche e del suo
linguaggio, o di suggerire correzioni ad un’opera a noi estranea attraverso un
processo di immedesimazione.
b) Poiché il criterio della pertinenza vale per tutto ciò che l’uomo
produce, l’arte deve possedere una specificità nell’uso dei suoi mezzi
espressivi – parola, colore, marmo, suono – per essere distinguibile da tutti gli
altri tipi di produzione. Innanzitutto, l’arte, a differenza della scienza, non deve
dimostrare nulla, non deve confrontarsi con la realtà e con l’esperimento
probativo. In secondo luogo, l’arte non crea oggetti utili a qualcosa, come
invece avviene per l’industria e per l’artigianato. Il prodotto artistico è fine a se
stesso, è un semplice racconto, nel senso più ampio del termine, che deve
solo essere guardato e vissuto in un atto senza scopo, senza un secondo
fine: il motto “l’arte per l’arte” ha questo significato.
Come la scienza possiede una sua specificità linguistica, come
l’artigianato e l’industria devono rispettare le regole della fruibilità, per non
cadere nella sfera della fantasia artistica, così l’arte possiede una lingua
assolutamente libera, senza alcun vincolo di sorta. Non dovendo fare i conti
con nulla, non dovendo rispettare i confini della natura o dell’utilizzabilità, può
coniare infinite sintassi e infinite semantiche, il cui unico limite si trova nella
adeguatezza a ciò che volta per volta l’artista intende rappresentare (64). Il
suo codice linguistico muta con il mutare dell’oggetto da narrare. Lo
scienziato, l’artista, il medico, il magistrato, il poliziotto adottano una diversa
forma linguistica, perché il loro oggetto lo richiede. Il termine “donzelletta”
sarebbe fuori luogo nelle descrizioni dello scienziato e del burocrate.
L’architetto e il rilevatore di mappe non rappresentano le cose come potrebbe
fare Raffaello. Per descrivere un piano regolatore o una specifica crisi
dell’uomo moderno, Gropius e Schiele hanno bisogno di linee diverse, di
“grammatiche” irriducibili l’una all’altra, perché eterogenei sono gli oggetti da
rappresentare, con pertinenze proprie ad ogni tipo di discorso. Quando lo
scienziato descrive il sistema eliocentrico, narra di esperimenti rigorosi,
riducibili ad esatti rapporti spazio-temporali, espressi nel linguaggio della
geometria e della matematica, proprio perché l’adeguatezza nel
rappresentare una legge di natura si ottiene con un discorso tecnico, ove il
64 - All’interno della produzione artistica, esistono tuttavia alcune differenze. Approssimativamente con
le stesse parole e con la stessa sintassi si è scritta l’Iliade, la Divina Commedia, Madame Bovary,
Pastorale americana. Contenuti così diversi hanno mutato di poco negli ultimi millenni la struttura della
lingua, se escludiamo qualche rara avanguardia. La stessa affermazione non può essere fatta per la
storia della pittura, giacché in questa sfera il contenuto nuovo muta il disegno, fino a farlo scomparire, e,
almeno in parte, la “sintassi” nell’uso dei colori. La tavolozza però è sempre la stessa, i colori sono
rimasti uguali, ma la loro disposizione è profondamente cambiata. Con le stesse parole e con le stesse
regole linguistiche si può dire ogni cosa e il suo contrario. Con le regole pittoriche rinascimentali e con
quell’uso del colore non si può esprimere ciò che intende narrare un pittore futurista o informale.
Raffaello non può raccontare con la sua tecnica pittorica ciò che comunicano i pittori moderni, pur
utilizzando gli stessi colori. Nella scultura moderna vi è un ulteriore elemento di differenza, in quanto
muta il materiale stesso, “la lingua” con cui si opera.
30
termine “donzelletta” è sostituito dal temine “ricercatrice”. Se invece
descriviamo le pene d’amore o, più in generale, i problemi esistenziali, i
termini diventano più liberi. È per questo motivo che Jakobson parla di un uso
specifico del linguaggio a proposito della poesia, ponendosi sulla linea di
Saussure:
“Il compito fondamentale della poetica consiste nel rispondere a questa domanda:
Che cosa è che fa di un messaggio verbale un’opera d’arte? Poiché questo compito concerne
la differenza specifica che contraddistingue l’arte della parola in relazione alle altre arti e
65
specie di comportamenti verbali, la poetica ha diritto al primo posto fra gli studi letterari… ( ).
Una lingua quindi possiede molte funzioni (scientifica, emotiva,
conativa, ecc.): la poesia utilizza principalmente quella emotiva,
subordinatamente le altre. Un attore del teatro di Stanislavsky pronunciava in
cinquanta modi diversi l’espressione “questa sera”, mostrando le infinite
modulazioni non tecniche della lingua. L’arte e la scienza trattano a volte le
stesse tematiche, ma quando la comunicazione pone l’accento su se stessa,
sta a significare che è in funzione il linguaggio poetico. Se “bambino” è il tema
del messaggio, il poeta si serve di termini come “bimbo, marmocchio,
monello”, e, per dichiarare il tema, può scegliere tra “dorme, dormicchia,
riposa, sonnecchia”. In poesia quindi si utilizzano parole (nomi e verbi)
equivalenti, ma diverse da quelle tecniche (marmocchio invece di bambino,
sonnecchia invece di dorme). L’uso poetico del linguaggio è nel modo di
selezionare e combinare (secondo specifici moduli) i termini del discorso (66).
Lo stesso discorso si può fare per tutti gli altri mezzi espressivi, per le diverse
modalità d’uso di suoni, colori e materiali di ogni genere utilizzati dagli artisti
(67).
c) Uno dei motivi per cui l’arte è stata giudicata con il binomio
predicativo bello-brutto risiede nel fatto che alcune sue specie sono costituite
65 - Linguistica e poetica (1958), in R. Jakobson, Essais de linguistique générale, Les Éditions de
Minuit, Paris 1963; trad. it., Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano 1985, pp. 181 e 184.
66 - Ivi, pp. 184-191. Un discorso simile compare in C. Morris, Signs, language and behaviour, Braziller,
N.Y. 1946; trad. it., Segni, linguaggio e comportamenti, Longanesi, Milano 1949, pp. 261 e seguenti. Il
concetto di linguaggio oggettivante potrebbe far pensare a Heidegger, ma non certamente alle pagine di
Hölderlin e l’essenza della poesia (1937), ove il linguaggio assurge idealisticamente, almeno a volte, ad
una funzione fondante, al compito di creazione dell’essere, di donazione del mondo e della storia,
quanto piuttosto a Sentieri interroti (1950), in cui la parola poetica diventa esposizione e registrazione
del mondo, rivelazione o sottrazione dell’essere dal suo nascondimento.
67 - Mi sembra parzialmente utile ai fini di un giudizio di pertinenza l’analisi di tipo strutturale, ovvero
sapere che tutte le favole rientrano in un numero delimitato di forme, del tipo delle “formazioni
organiche”, in cui c’è sempre qualcuno che dà qualcosa a qualcun altro, il re che dà qualcosa al suo
prode per.., il nonno dà a…un cavallo per…, lo stregone da a… una barchetta; che in ogni fiaba si
ritrovano le stesse funzioni: allontanamento, divieto, infrazione, investigazione, delazione, tranello,
connivenza, danneggiamento - rapimento, trafugamento, saccheggio, uccisione, imprigionamento,
tormento, guerra - mediazione (V. Ja. Propp, Morfologia Skazki, Leningrad 1928; trad. it., Morfologia
della fiaba, Einaudi, Torino 2000, pp. 3 segg.. Tutto ciò serve utilmente a classificare un racconto, non
certo a stabilire se è valido o meno. Un’impressione simile si riceve dall’opera di Genette, giacché la
decomposizione di un racconto in tutti i suoi aspetti non ci aiuta nel giudizio di valore, anche se deve
entrare a farne parte, essendo un elemento di conoscenza. Ogni aspetto di una narrazione “si presta a
qualche accostamento, paragone o effetto di prospettiva. Come qualsiasi opera…è costituita di elementi
universali, o almeno transindividuali, che riunisce in una sintesi specifica, in una totalità singolare” (G.
Genette, Figures III, Editios du Seuil, Paris 1972; trad. it., Figure III, Einaudi, Torino 1976, p. 71). Ma se
ogni opera è un insieme irripetibile, come sostiene Genette - può essere utile conoscere le anacronie, le
analessi, le prolessi, ma non servono per la valutazione di quell’insieme unico che è sempre l’opera. Il
formalismo ci aiuta a capire le pertinenze, nel senso che si muove su di un gradino preliminare della
critica, preparandone il terreno. Serve infatti ad anatomizzare un’opera, a classificarne le tipologie,
necessario per la critica delle pertinenze. Sapere infatti in che tipo di favola o di romanzo mi trovo è
indispensabile per qualsiasi correzione. Per correggere la Stiratrice di Degas è necessario capire bene
la poetica, lo stile, i tipi di colore usati, la tecnica pittorica, le tipologie dei personaggi del pittore e
dell’epoca, ma non basta.
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da oggetti visibili, come nella pittura, nella scultura, nell’architettura. Altre
forme d’arte non si basano sulla visione, ma su altri sensi o su altre funzioni
mentali, come accade alla musica, alla poesia, alla letteratura, alla culinaria.
Non è ragionevole pensare di poter giudicare tutte le forme d’arte con un solo
termine generico. Come è possibile valutare con lo stesso aggettivo “bello” un
corpo umano, un fiore, un tramonto, un quadro cubista, una scultura astratta,
una musica, una poesia, un profumo, un cibo?
Una prima distinzione va fatta tra prodotti naturali e prodotti umani, che
non possono non ricadere sotto predicati diversi. Ai prodotti naturali non può
addirsi il criterio del ben eseguito, dell’adeguazione, della perfezione, che
invece è adatto ai prodotti umani, potendo avere un termine di paragone nel
progetto dell’autore o in altri prodotti eseguiti con più cura, più adeguati allo
scopo. Un corpo atletico e un corpo in putrefazione hanno entrambi una
ragion d’essere, un motivo per essere quello che sono, anche se a noi piace
solo il primo. Un quadro, invece, può rappresentare un corpo disfatto ed
essere valido. Ma anche all’interno della produzione umana vi è differenza tra
i manufatti prodotti con le mani e la musica o la poesia che manufatti non
sono. Un suono, una parola, un disegno presentano una diversità strutturale
che non ci permette di trattarli insieme: la colonna categoriale entro cui
inserire un suono è diversa da quella che contiene un disegno. Un tramonto
sul mare e un disegno di Leonardo non sono equiparabili. Come dicevo
sopra, ai prodotti umani può essere adatto un solo termine, necessariamente
generico, che riesca a contenere tutte le diversità, ed è il termine “pertinenza”.
Esso indica l’adeguatezza ad uno scopo, una corrispondenza tra ciò che
l’operatore intendeva fare e ciò che ha fatto, ovvero la riuscita.
Un fattore che ha generato notevoli difficoltà all’estetica risiede nel
grado di raffinatezza dell’opera prodotta. Perfezione tecnica e pertinenza non
coincidono. Un discorso retoricamente ben formato può essere falso; un
quadro pittoricamente perfetto può essere banale. Gran parte dell’arte
moderna è tornata a tecniche primitive, a tratti grossolani, a manualità
approssimative, pur riscuotendo il plauso generale: il primitivismo è stato
infatti una delle note dominanti della modernità.
Il doppio errore dell’estetica consiste nello scambio tra bellezza e
piacevolezza da una parte e tra bellezza e pertinenza dall’altra. Quante volte
si sente giudicare un quadro dalla gradevolezza e dalla familiarità della cosa
rappresentata? La percezione di gradevolezza dell’oggetto diventa per lo più
un immediato giudizio di valore estetico: mi piace, quindi è valido e bello.
Dobbiamo imparare a distinguere nettamente nell’opera tra la pertinenza,
l’abilità artigiana e la gradevolezza. La stessa opera può essere positiva da
un punto di vista, ma non dagli altri e la pretesa di unificarli è vana. Piacere e
pertinenza sottostanno a registri valutativi diversi, come sostiene Van Gogh
quando afferma che i disegni di coloro che hanno studiato all’École de Rome
“sono piuttosto abili e corretti, ma spiacevoli a guardarsi”.
La piacevolezza è penetrata nell’abbigliamento, nelle abitazioni, nelle
automobili, negli spettacoli televisivi, nelle merci in generale, ovvero proprio là
dove molti estetologi collocano la fine dell’arte e, con essa, dell’estetica (68).
Va detto con forza che mai il mondo è stato così “bello” come ora, anche se
parallelamente sono aumentate le “bruttezze” e i rischi globali. L’arte forse
conosce una storia declinante, come riconosce A. Danto (69), ma la crisi
dell’arte non va confusa con la crisi dell’estetica, che, al contrario, conosce un
andamento crescente, giacché il bello dei corpi umani, ad esempio, aumenta
68 - Francalanci parla con indignazione del trapasso dell’estetico dall’arte alla merce, commettendo il
duplice errore di valutare l’arte come la sede primaria del bello e di disdegnare il bello/piacevole nei
prodotti industriali. Cita con scandalo la differenza estetica tra una pinza di epoca preindustriale,
prodotta nell’indifferenza della forma, e la pinza di epoca industriale ricca di riflessi estetici (p. 11). Era
inevitabile la citazione di Baudrillard (E. L. Francalanci, Estetica degli oggetti, il Mulino, Bologna 2006).
69 - A. Danto, The philosophical disenfranchisement of art, Columbia University Press, New York 1986;
trad. it., La destituzione filosofica dell’arte, Tema Celeste, Milano 1992.
32
e si diffonde in virtù di una alimentazione migliore, delle cure mediche, del
riscaldamento nelle case, dei lavori meno debilitanti, di una vita in generale
più accettabile, che interessa una quantità di persone sempre maggiore. Il
piacevole entra finalmente anche nelle piccole cose di uso quotidiano. Non è
un caso che la gente preferisca passare un pomeriggio nei grandi magazzini
anziché nella piazza, perché in quei luoghi è circondata da cose utili e
gradevoli, anche se non è sempre in grado di acquistarle. Perché dovrebbe
essere un male che il bello-gradevole si diffonda? In questo modo diventa di
tutti, si democratizza, perdendo la sua spocchia aristocratico-borghese. Non
può quindi essere un male che le merci, oltre ad essere valide, siano anche
piacevoli e seducenti. Il problema nasce quando la seduzione comporta un
costo ecologico o penosi sacrifici umani. Ma questo non riguarda il nostro
argomento.
Schematizzando, è possibile dire che l’estetica sia la scienza dell’unico
bello esistente, del bello di natura; che la critica d’arte sia la scienza della
pertinenza nelle opere d’arte; e, infine, che la critica in generale rappresenti la
scienza della pertinenza nelle opere umane in generale, giacché ogni tipo di
realtà ha un suo modo di produzione ed è sottoponibile ad una specifica
critica.
L’arte, essendo libera di rappresentare ciò che vuole, trova nel come il
valore essenziale della sua rappresentazione; la scienza invece, dovendo
scoprire le leggi di natura, trova il valore essenziale delle sue
rappresentazioni nel che cosa, nella corrispondenza tra il discorso e la realtà.
Per essere più precisi, la scienza presenta una doppia pertinenza, una
principale e l’altra secondaria. La prima si ritrova nella corrispondenza tra
discorso e realtà, ed è essenziale, la seconda si ha nella forma del discorso,
che potrebbe essere più o meno rigoroso ed esplicativo. In quest’ultimo caso
assistiamo alla confluenza in un'unica opera di arte e scienza. Le opere di
Galilei, come molti hanno osservato, pur essendo opere di grande scienza,
sono ben più artistiche di tante opere nate nella sfera dell’arte vera e propria.
d) Per capire l’essenza dell’arte, si deve partire dall’analisi di una
particolare procedura artistica: il pentimento in pittura (e in altre arti
manifatturiere) e la limatura in letteratura. Il significato dell’insoddisfazione del
Beccafumi e del Botticelli per un braccio o per un viso disposti in una
posizione anziché in un'altra, o del bisogno di Leopardi di sostituire il termine
“pudica” con il termine “pensosa” in A Silvia, ci suggerisce il criterio da
utilizzare per ottenere un giudizio critico delle opere.
Il senso di imperfezione che quel colore, quella postura, quel termine
suscita nell’artista, ci offre un fondamentale strumento valutativo. Se la scena
deve suggerire il dolore dei presenti nel momento della deposizione di Gesù,
una particolare inclinazione del volto della Madonna è più adeguata di un’altra
posizione, incapace di comunicare afflizione, non certo perché il volto eretto di
Maria sia più “brutto” del volto reclinato. Lo stesso viso, più o meno inclinato
rispetto all’asse verticale non è più o meno “bello”, è semplicemente più o
meno adatto ad esprimere il progetto dell’artista nell’atto di rappresentare la
pietà e il dolore dei personaggi della scena. Il volto di Maria ben eretto è
meno triste dello stesso volto reclinato, proprio in quanto abbandonato, e
quindi incapace di fronteggiare un così grande dolore a testa alta. Il termine
pudica non è meno bello del termine pensosa, giacché entrambi comunicano
un carattere pregnante della personalità di Silvia. L’unica differenza risiede
nel fatto che pudica è meno adatto a rappresentare quell’atmosfera
premonitrice della morte prematura della giovinetta che avrebbe il diritto di
vivere di positive speranze. È soltanto meno adatto in quel contesto, meno
significativo.
Gli stessi operatori del restauro dell’Opificio delle pietre dure di
Firenze, pur essendo dominante nei loro scritti una tecnicità non giudicativa, a
volte si lasciano andare a commenti di tipo valutativo. Nel “Compianto su
33
Cristo morto” del Botticelli ci sono due pentimenti significativi. La testa di S.
Giovanni nella prima versione era reclinata sulla spalla della Madonna in un
moto di compassione; nella versione finale si presenta eretta e più
espressiva, creando un equilibrio diverso con la figura che gli sta alle spalle.
Gli autori infatti osservano che:
“d’altro canto il volto del santo, realizzato più di scorcio [come era prima del
pentimento], rinunciava all’espressività evidente nell’attuale versione dipinta”.
Una considerazione simile viene espressa nei confronti del pentimento
relativa al manto di Maria Maddalena che nella versione finale non copre più il
braccio del santo:
“Tale aggiustamento risulta nella versione finale come un arretramento complessivo,
in una posizione più obliqua, del corpo del santo [S. Giovanni], in modo da accordarsi con la
dinamica più spigolosa della raffigurazione di questa figura, centrale nella rappresentazione
70
dal punto di vista formale, ma anche per la forza emotiva espressa dall’immagine” ( ).
A proposito della Madonna col bambino del Beccafumi gli autori della
ricerca dichiarano che:
“L’indagine radiografica…ha rilevato…al di sotto della Madonna col bambino del
71
cataletto [della Misericordia] una precedente versione assai diversa…e più statica ( ).
Pur tenendo conto della possibilità che la correzione possa peggiorare
l’opera, il più delle volte il pentimento ci fa percepire con grande evidenza il
percorso verso una più compiuta forma finale.
Bisogna comunque distinguere tra disegni preparatori e ripensamenti
nell’opera finita o in esecuzione. Il pittore sceglie uno tra i diversi studi, lo
utilizza più o meno fedelmente nell’opera finale, passando per diversi
pentimenti sia durante l’esecuzione che dopo averla finita. Le correzioni sono
pentimenti, i disegni preparatori (gli studi) sono una vera e propria ricerca
dell’immagine che possa esprimere meglio ciò che si desidera dire. Disegni e
pentimenti sono il lavoro necessario per scartare ciò che sicuramente non
corrisponde agli scopi dell’artista.
Degas ha tentato più volte di correggere La stiratrice (La repasseuse)
senza riuscire nell’intento, non avendo trovato una posizione soddisfacente
per le braccia, di cui rimangono visibili alcuni tentativi di cambiamento. Il
dipinto presenta un braccio lungo il corpo, la cui mano si perde sotto il tavolo,
evidentemente incongruo con l’atto dello stirare, in cui il braccio libero deve
agire di concerto con il braccio che stira. Vi è infatti una traccia evidente del
tentativo dell’autore di riportare il braccio sulla tovaglia. Personalmente
ritengo che l’errore più grave in questo quadro non stia nel braccio sinistro,
pure sbagliato, ma nella posizione e nell’espressione del viso, che guarda
banalmente in avanti, quando era essenziale che seguisse a testa bassa il
percorso del ferro da stiro, cosa che puntualmente avviene nei successivi
quadri sullo stesso tema.
Nel 1907 Klimt disegna uno studio per la Danae in modo molto simile
ai suoi innumerevoli disegni “pornografici” di donne che si massaggiano il
clitoride. La donna è rappresentata con le ginocchie ritratte al petto in modo
tale da scoprire il sesso. L’opera pittorica eseguita qualche mese dopo rivela
70 - E. Buzzegoli, C. Castelli, A. Di Lorenzo, Il “compianto su Cristo morto” del Botticelli del Museo Poldi
Pezzoli di Milano: note di minimo intervento e indagini diagnostiche non invasive, in Il restauro dei
dipinti: interventi e ricerche, a cura di Marco Ciatti, Centro Di, 2007, p. 171.
71 - A. Aldovrandi, N. Bracci, P. Bracco, C. Castelli, O. Ciappi, M. Ciatti, M. Parsi, A. Ramat, A.
Santacesaria, Ricerche e interventi su alcuni dipinti di Domenico Beccafumi, in Il restauro dei dipinti:
interventi e ricerche, cit., p. 67.
34
un macroscopico pentimento: Danae si presenta in una posizione non più
oscena, anche se più conturbante.
“Non è funesta la Danae, non è più una tagliatrice di teste, ma, raccolta nell’ellisse del
suo corpo raggomitolato, il volto arrossato e deliquescente di piacere, la mano ancora
contratta dalla tensione erotica, essa esprime nella sua uterina dolcezza l’essenza femminile
72
dell’estrema potenza” ( ).
Nel disegno preparatorio, l’autore rappresenta direttamente la
femminilità oscenamente sensuale, nell’opera finale vuole invece
rappresentare una diversa femminilità, ove la sensualità sia egualmente
intensa, ma raccolta elegantemente nell’ellisse del corpo raggomitolato.
Dirimente, sul piano della critica d’arte, sarebbe l’analisi, per rimanere sempre
a Klimt, dei ritratti, ad esempio, di Serena Lederer e di Sonia Knips, per
confrontarli con i molteplici disegni preparatori – più di dieci per ciascun
quadro – al fine di stabilire che tipo di donna abbia voluto rappresentare e se
nell’opera pittorica sia migliorato, come io penso, o meno il risultato rispetto al
progetto.
L’epistolario di Van Gogh è uno strumento assai “pertinente” per un
approfondimento del concetto di pertinenza. Ritorna in molte lettere il bisogno
assillante del pittore di riuscire ad esprimere una tonalità, un’impressione che
ha colto in natura: “Ciò significa che bisogna sacrificare la tecnica allo scopo
di dire meglio…ciò che si ha da dire” (73).
“Fino a che punto io abbia reso l’effetto nel mio schizzo, io stesso non so…È stato
difficile a dipingersi…Mentre dipingevo mi dicevo: non devo andarmene prima che ci sia in
esso qualcosa di una serata d’autunno…Vedo che nel mio lavoro c’è in fondo un’eco di quello
74
che mi ha colpito” ( ).
“Alcuni colori sono precisi, ma anche se sono precisi non rendono l’effetto che
dovrebbero…l’effetto rimane scarso…Quando li guardo [si riferisce ad altri studi], ritrovo
75
l’atmosfera di quella uggiosa giornata di pioggia” ( ).
Van Gogh è consapevole che un quadro, pur avendo colto l’essenza di
una condizione naturale o umana, possa non piacere, essendo cose diverse
pertinenza e piacevolezza, come sottolinea a proposito dei Mangiatori di
patate:
“Ho cercato di sottolineare come questa gente che mangia patate al lume della
lampada, ha zappato la terra con le stesse mani che ora protende nel piatto…Ho voluto
rendere l’idea di un modo di vivere che è del tutto diverso dal nostro di gente civile. Quindi
non sono per nulla convinto che debba piacere a tutti…[esso] è un vero quadro contadino. So
che lo è. Chi preferisce vedere i contadini col vestito della domenica faccia pure come
vuole…Un quadro non deve essere necessariamente profumato…bisogna dipingere i
76
contadini come uno di loro, che pensasse e sentisse come loro” ( ).
Pertinenza non vuol dire copia della natura, anzi “si perde l’armonia
generale dei toni della natura con una imitazione penosamente esatta”, come
dice Van Gogh nella stessa lettera. L’artista è insoddisfatto della propria
opera quando non riesce a dire ciò che ha nella mente e negli occhi, come
confessa al fratello quando afferma che tra le opere che gli ha inviato:
72 - E. di Stefano, Gustav Klimt. L’oro della seduzione, Giunti, Milano 2006, p. 118.
73 - Lettera a Anton van Rappard dell’aprile 1884, in Van Gogh, Classici dell’Arte Rizzoli, Rizzoli, Milano
1966, p. 7.
74 - Ivi, lettera a Theo del settembre 1882, in V. van Gogh, Lettere a Theo sulla pittura, a cura di T.
Gianotti, TEA, Milano 1994, p, 35.
75 - Ivi, lettera a Theo dei primi di agosto 1883, p. 49.
76 - Ivi, lettera a Theo del 30-04-1885, p. 78.
35
“c’è una porcheria che ho dipinto…sulla strada piena di sole per Tarascon…e altre
ancora, completamente mal riuscite e lasciate a metà”.
Ma la testimonianza più significativa, oserei dire, dirimente sulla tesi di
questo libro, mi è sembrata quest’altra dichiarazione:
“e quelli che credono che la pittura sia una cosa bella farebbero bene a non vederci
77
che uno studio della natura” ( ).
Chaim Potok ha espresso attraverso il personaggio di un suo romanzo
alcune veloci osservazioni sulla fattura di un’opera pittorica che ci lasciano
ammirati e sorpresi, riassumendo in modo esemplare quanto ho detto sulla
pertinenza. Riporto alcuni lunghi passi del romanzo, in cui il personaggiopittore Asher Lev manifesta profonda insoddisfazione per il quadro che
rappresenta la madre, non per qualche imperfezione tecnica, perché fosse
“brutto”, anzi, lo riteneva “un buon quadro”, ma per lo stacco che rilevava tra
ciò che avrebbe voluto far emergere di sua madre, di una mater dolorosa, e
ciò che era riuscito a dire. Voleva esibire tutto il dolore che la madre aveva
sopportato nella vita, la sua quotidiana crocifissione: ma il risultato non era
quello, non corrispondeva, non era pertinente:
“Poi guardai il dipinto [della madre] a lungo e sentii che era incompleto. Era un
buon quadro, ma era incompleto. I pali del telefono erano solo lontani ricordi della
brutale realtà di un crocefisso. Il quadro non diceva completamente ciò che avevo
voluto dire; non rifletteva completamente l'angoscia e il tormento che avevo voluto
metterci. Dentro di me, una voce ammonitrice parlò tacitamente di frode…Avevo
portato nel mondo qualcosa di incompleto. Ne sentivo ora l'incompletezza”.
Il pittore sceglie allora di rifare il quadro per esprimere
compiutamente la condizione della madre e, dopo aver terminato l’opera,
dichiara:
“Non ricordo quanto tempo mi ci volle a fare quel quadro… Lo guardai e vidi
78
che era un buon quadro” ( ).
e) Nella precedente sezione ho cercato di chiarire il concetto di
critica d’arte, il modo in cui essa entra nei caratteri più intimi delle opere,
come hanno sempre fatto gli stessi artisti o coloro che analizzano
un’opera con strumenti raffinati, ricostruendo le varie tappe della
produzione, per capire il perché di quello che è stato prodotto e dei
cambiamenti durante e dopo l’esecuzione. Quella che correntemente,
ma incautamente, si chiama “critica d’arte” non è altro che lo studio
delle condizioni entro cui l’opera è stata prodotta e l’analisi della poetica
dell’artista in questione. Serve a ricostruire il suo sistema di valori, la
77 - Ivi, lettera a Theo della metà di agosto 1888, p. 134.
78 - Chaim Potok, My name is Asher Lev, Heinemann, London 1972; trad. it., Il mio nome è Asher Lev,
Garzanti, 1996 (I edizione, 1991). Riporto un passo che esprime con esattezza ciò che il pittore
intendeva esprimere sulla tela: “II tormento e l’angoscia lacerante che sentivo in lei li posi nella sua
bocca, nella torsione del capo, nell'inarcamento del corpo esile, nella stretta dei piccoli pugni,
nella tensione delle gambe sottili… Dipinsi in fretta, travolto da uno strano impeto di energia. Per
tutto il dolore che hai sofferto, mamma. Per tutto il tormento dei tuoi anni passati e futuri,
mamma. Per tutta l'angoscia che questa quadro di dolore ti causerà. Per l'inesprimibile mistero
che mette al mondo padri e figIi buoni e permette che una madre Ii veda azzannarsi. Per il
Padrone dell'Universo il cui mondo di sofferenza io non capisco. Per i sogni di terrore, per le
notti d'attesa, per i ricordi di morte, per l'amore che ho per te, per tutte Ie cose che ricordo, per
tutte le cose che dovrei ricordare ma che ho dimenticato, per tutte queste cose ho creato questo
quadro - io, un ebreo osservante che lavora su una crocefissione perché nella sua tradizione
religiosa non esiste alcun modello estetico al quale far risalire un quadro di angoscia e di
tormento estremi”.
36
sua filosofia, il contesto in cui operava, le esigenze del mercato, il tipo di
committenza. Questo tipo di approccio, pur essenziale, rimane sempre
all’esterno dell’opera. La vera critica è quella che entra nel prodotto
artistico a partire dalle intenzioni dell’autore, per seguire tutto il processo
di produzione, essendo un discorso sulla realizzazione dell’opera.
Bisognerebbe quindi distinguere tra storici e critici delle opere d’arte,
senza assegnare primati, ma nella consapevolezza che fanno due
mestieri diversi.
Come su tutto, anche nei confronti dell’arte sono pertanto possibili
molteplici approcci, ognuno valido dal suo angolo visuale. Proverò ad
elencarne alcuni (79 ):
I) Informazioni sulla vita dell’artista (biografia dell’artista):
“Max Ernst nasce a…da una famiglia
dall’infanzia…nel 1909 consegue il baccellierato…”.
della
piccola
borghesia…Fin
II) Descrizione biografica di ciò che precede e contorna la
produzione di una singola opera (biografia della singola opera):
“Eseguito a Collioure di ritorno dal viaggio in Africa settentrionale, il cui ricordo
è presente nelle palme sullo sfondo” [Matisse: Nudo blu].
III) Elencazione delle parti che compongono l’opera presa in
esame (discorso descrittivo delle parti). Utile quando dietro l’immagine
si nasconde qualche informazione che non abbiamo:
“Sulla destra del dipinto compaiono due soggetti cristiani, la Vergine col
Bambino e un Cristo crocifisso, a significare una possibilità di redenzione…Nella
Caduta dell’angelo Chagall dà libera espressione ai contrasti cromatici, profondi e
stridenti. Al rosso delle ali dell’angelo sullo sfondo scuro oppone il giallo vibrante della
mucca, vicino al rabbino vestito di viola”.
IV) Cenni di poetica sull’opera in questione, ma ancora generici
(Poetica generica):
“Con quest’opera [Natura morta con tappeto rosso] si può dire che si apra il ciclo
delle grandi nature morte, decorative e sontuose...Matisse introduce una tecnica personale
che avrà larghi sviluppi ben oltre il periodo fauve”.
“Appartengono al medesimo clima anche i Nuotatori [Carlo Carrà] del 1932: anche
qui una contenuta monumentalità, un’accentuazione plastica, un fare grande, esatto, lontano
dai particolarismi dell’analisi e tale «da reggere senza sforzo al ricordo de La grande Jatte»”.
V) Analisi della poetica di cui è parte l’opera in questione e quindi
dell’atmosfera culturale in cui è inscritta la personalità artistica dell’autore
(Storia dell’arte):
“Il primo e maggiore dei movimenti che nasce nel dopoguerra e domina la scena
mondiale per più di un decennio è l’informale. Pur tenendo conto di molte scoperte dei
movimenti precedenti, dell’espressionismo, addirittura dell’impressionismo (del tardo Monet),
dell’astrattismo (col quale però si trova in opposizione) ecc., l’informale cambia e rinnova
quasi ogni elemento dell’opera. Reagisce al preponderante formalismo dell’arte
precedente...”.
VI) Infine, l’analisi interna dell’opera (Critica d’arte). Come esempi,
valgano tutti i casi di analisi della pertinenza riportati nelle pagine precedenti a
79 - Non riporto gli usuali riferimenti sulle citazioni che seguiranno a questi sei punti, essendo scelte a
caso in un qualsiasi libro d’arte al fine di mostrare le varie tipologie di discorso sull’opera d’arte.
37
proposito di Botticelli, Beccafumi, Degas, Klimt e Leopardi, tenendo conto
della distinzione tra critica delle opere classiche e critica delle opere
contemporanee, di cui parlerò nel capitolo successivo. Riporto pertanto due
brevi testimonianze:
“L’opera appare discontinua per una scarsa fusione tra i modi concitati con i
quali sono rese la testa e la parte in basso a sinistra, e il fare largo, solido del
80
paesaggio” ( ).
“L’abbattimento di ogni consistente finzione architettonica fa sì che la figura
perda sviluppo oltre le spalle del giovane, e rimanga tutta proiettata su un piano
ravvicinato: questo ne aumenta il senso di contrazione repentina, conseguente sia alla
smorfia di dolore che si disegna sul volto, che alla piega del gomito che l’abbondante
camicia fa restare oltre il limite della cornice…Ma è un tocco di genialità la sporgenza
81
della spalla, rilevata dalla luce…”( ).
Non ci può essere critica d’arte senza cognizioni relative agli altri
approcci sommariamente elencati, essendo indispensabili per capire il
messaggio dell’autore, per inscriverlo in un contesto, ma i primi cinque punti
senza la critica rimarranno inevitabilmente opere di letteratura storica (82).
Relativamente ai primi cinque punti, il discorso sull’arte è rimasto
formalmente identico rispetto al passato; si continua infatti ad analizzare
l’opera alla stessa maniera di prima, si studiano le condizioni generali
dell’ambiente in cui è cresciuto l’artista, si descrive la sua poetica, la tecnica
operativa, gli elementi comuni ad altri artisti e quelli che lo distinguono da tutti
gli altri. Lo storico continua a descrivere essenzialmente la formazione
dell’artista e la sua poetica, il suo modo di produrre arte, ma non entra mai nel
merito delle singole opere, come si dovrebbe fare per continuare l’attività
dell’artista, per approvare o per correggere. In sostanza, lo storico dell’arte si
limita a studiare tutto ciò che precede e che ruota intorno alle opere. Questa
attività non è cambiata nel passaggio dall’arte classica a quella
contemporanea, diversamente dalla critica d’arte che, invece, deve compiere
un salto quando passa ad analizzare l’informale – o le altre innumerevoli
forme d’arte contemporanea - essendo mutato il modo della pertinenza, che
da analitico è diventato sintetico.
Il critico d’arte è colui che non assegna crocianamente pagelle di
bellezza alle opere, ma colui che sa farsi artista, che ne sa continuare il
lavoro, apprezzando le soluzioni o proponendo ipotesi di limature, di
correzioni, di pentimenti. È critico colui che, pur non sapendo produrre opere
d’arte, capisce come atteggiare diversamente quel viso, come sfumare quel
colore, come sostituire quella parola, quel personaggio, quel finale di un
romanzo, per rendere pertinente l’opera. Altrimenti è un semplice fruitore (83).
80 - G. Bruno, Boccioni, Rizzoli, Milano 1969, p. 117. Il passo citato è riferito allo Studio N° 1 della testa
della signora Busoni. Un breve racconto di Balzac è esemplare per chiarire ciò che intendo per critica
d’arte. “Il vecchio e grande pittore Frenhofer - scrive il romanziere francese - analizza in modo impietoso
il quadro di una santa di Porbus, dicendo che “ci si accorge che è incollata sul fondo della tela e che
non sarebbe possibile girarle intorno…che non saprebbe voltarsi né cambiare posizione. Non c’è stacco
fra questo braccio e lo sfondo del quadro…qui, è una donna; là, è una statua; più in là, un cadavere”.
Subito dopo, passando a correggere l’opera dell’amico, dice al giovane Poussin: “Vedi come con tre o
quattro tocchi e una lieve velatura bluastra, si poteva far circolare l’aria intorno alla testa…guarda come
questo drappeggio ora svolazza, e come si capisce che è il vento a sollevarlo!...Osserva come il
satinato lucente che ho appena passato sul petto renda bene il senso della spessa morbidezza d’una
pelle di fanciulla...” (Honoré de Balzac, Le chef-d’oeuvre inconnu (1831), la si ritrova in La Comédie
Humaine, Gallimard, Parigi 1976-81; trad. it. Il capolavoro sconosciuto, Passigli, Antella (Fi) 1995,
ristampato tra “I racconti di Repubblica”, p. 17).
81 - Da A. M. Panzera, Caravaggio, Giordano Bruno e l’invisibile natura delle cose, L’Asino d’oro, Roma
2011, p. 95, a proposito di Ragazzo morso da un ramarro del Caravaggio.
82 - Flavio Caroli e Philippe Daverio rappresentano esempi di livello in questa professione di storici.
83 - Divertente e significativa in questo senso, anche se forse non vera, è la scena del film di Forman
(Amadeus, 1984), in cui Mozart corregge le note di un brano musicale del sovrano, mostrandogli come
38
Quando non si ha nessuna conoscenza del progetto dell’artista, il
critico deve cercare di scovarlo attraverso l’analisi dell’opera per poter parlare
di adeguatezza o meno. Non è detto tuttavia che, se non si riesce a capire il
progetto, l’opera sia da considerare non-pertinente. La critica si può fare in
due modi: partendo dalle intenzioni dichiarate dell’artista o dai suoi disegni o
dalle sue prime stesure (i documenti di Van Gogh e di Klimt), o, viceversa,
dall’analisi del prodotto artistico per rintracciarne le intenzioni (il Mosè di
Freud). Se questa seconda via non dà risultati certi, perché la critica si divide
in molteplici interpretazioni contrastanti, vuol dire che l’opera non è
pienamente riuscita (84).
Le didascalie nelle Mostre ci informano sulla biografia dell’artista,
indugiano sui caratteri della scuola di appartenenza dell’autore, sulla sua
poetica, ma non ci dicono perché e dove quell’opera è valida o meno. Il
curatore non riesce a diventare critico e a lavorare dentro l’opera, girandole
sempre intorno: “Gustav Klimt può essere considerato l’artista che portò alle
loro più radicali conseguenze quei fenomeni dell’arte del suo tempo
comunemente indicati come simbolismo e come pittura dell’art nouveau”;
oppure, a proposito di Gauguin: “Un nuovo incontro con il giovane pittore
Emile Bernard, che aveva conosciuto l’anno prima, senza prestargli però
troppa attenzione, risulta questa volta determinante. Anche lui vuole sfuggire
all’impressionismo e cerca di armonizzare la propria arte con le idee della
giovane poesia simbolista”. Mille di queste pagine, pure necessarie per
entrare nello spirito di un’epoca e di un autore, non ci spiegano se la Danae di
Klimt è pertinente o se la coscia, che domina la parte centrale del quadro,
sarebbe più adatta se fosse meno robusta e più elegante, o se, così greve
come è, esprima meglio la densità erotica che vuole rappresentare. Non è un
caso che spesso i veri artisti, parlando di un’opera di un collega, entrino nei
contenuti, nelle tecniche operative, come se dovessero eseguirla. Le
osservazioni di Van Gogh sulla pittura di Gauguin sono di questo tipo. Il critico
che disquisisce genericamente solo di poetiche, di biografie, di atmosfere
culturali e di storia dell’epoca, è solo uno storico, se non discute nello
specifico il prodotto in questione. Mi rendo conto che questa operazione è, a
volte, difficile se non impossibile, quando mancano informazioni dettagliate. In
questi casi, sarebbe corretto che il critico denunciasse i limiti oggettivi della
sua analisi.
Ogni vero sapere ha la sua critica particolare, in grado di entrare
concretamente nel merito del tema per ribadire una proposta, una strategia,
un’ipotesi, una legge, o, viceversa per contraddirle. La critica politica è tale
quando presenta argomenti per avvalorare o per demolire una proposta di
legge. La critica scientifica dibatte sulla validità o meno di una ipotesi
scientifica. La critica calcistica discute sulla funzionalità di un modulo di gioco
nello schieramento dei giocatori in una determinata partita. Non vi è differenza
di sostanza tra il critico e gli operatori politici, scientifici o sportivi. L’unica
avrebbero dovuto essere, per essere appropriate.
84 - In Il Mosè di Michelangelo Freud non analizza la psiche di Michelangelo per spiegarcene l’arte, ma,
al contrario, cerca di capire il tratto psicologico che caratterizza Mosè, al fine di interpretare
l’atteggiamento che l’artista intendeva fissare nella statua, per valutare la riuscita o meno dell’opera.
Freud rileva una certa difficoltà nel descrivere l’azione umana fissato nel marmo. Cerca di interpretare
l’atto che Mosè stava compiendo subito prima di raggiungere la posizione che tutti possiamo
contemplare. Discendendo dal monte Sinai, dove ha ricevuto le tavole da Dio, scopre che il suo popolo
adora il vitello d’oro. Questo fatto scatena l’ira del profeta. L’interprete deve capire se Mosè è nell’atto di
scattare in piedi, rompere le tavole e aggredire il popolo, o se, invece, contro la tradizione biblica,
l’autore volesse rappresentarlo nell’atto in cui si trattiene, subito dopo l’impulso vendicativo che lo ha
scosso. Freud opta per questa seconda interpretazione, perché solo in questo modo ritiene che sia
spiegabile la posizione rilassata della mano rispetto alla barba e del braccio rispetto alle tavole. La
conclusione è di estremo interesse per la mia teoria della pertinenza. Freud vi dice che se vi è
incertezza e discussione nell’interpretare ciò che Michelangelo volesse rappresentare, allora l’opera non
è perfettamente riuscita (S. Freud, Des Moses der Michelangelo, “Imago” 1913, 3 (I), pp. 5-36); trad. it.,
Il Mosè di Michelangelo, Newton Compton, Roma 1988).
39
differenza risiede nel tipo di operazione che ciascuno svolge: il primo giudica
e propone dall’esterno, i secondi operano sul campo. Ma tutti insieme si
occupano della stessa cosa: di ciò che si deve fare per realizzare un’opera
ben riuscita.
40
6 - La pertinenza nell’arte del Novecento
a) Ho l’impressione che all’arte moderna sia capitato ciò che è
accaduto all’epistemologia del Novecento, divisa in due scuole principali. Per
una, la scienza deve scoprire via via le leggi di natura. Per un’altra, pur
variamente divisa al suo interno, la scienza o, meglio, gli scienziati ricreano
periodicamente i paradigmi interpretativi della realtà, sulla cui base
stabiliscono provvisorie e soggettive leggi di natura. Le varianti emersero
essenzialmente, con qualche anticipazione nei decenni precedenti, negli anni
Venti e Trenta, in un crescendo tra Neo-empirismo logico, Popper e il
secondo Wittgenstein, fino a Feyerabend, Goodman, Gleick. Credo che sia
possibile affermare che la rivoluzione relativistica dell’epistemologia
corrisponda alla rivoluzione antiformalistica nella sfera dell’arte, in particolare
nella pittura. A coloro che innovano senza tagliare i ponti con il passato, alla
maniera del cubismo e dell’espressionismo tedesco, si contrappongono
coloro che propongono con frequenza assai rapida sempre nuovi modi di fare
arte, sempre nuovi paradigmi obbligatoriamente più distanti dal formalismo
della tradizione. Come fu possibile immaginare infinite geometrie a partire da
fondamenti diversi dello spazio o infiniti possibili paradigmi in logica, così fu
possibile ipotizzare nuovi tipi di arte, attraverso cui ogni individuo o gruppo
inaugurò un nuovo percorso espressivo.
Nella pittura postclassica alcuni hanno continuato fino ad oggi a
rappresentare l’uomo e la natura alla vecchia maniera, entro uno spazio
inteso come vuoto; alcuni hanno stravolto le figure, collocandole in uno spazio
pieno e materiale, corpo tra corpi, a partire da Cézanne (85); altri infine hanno
negato integralmente il passato, rifiutando qualsiasi traccia della figura e dello
spazio. La prospettiva, la corporeità, l’impressione, il colore, l’espressione, la
spazialità sono valori nati dalla logica stessa delle cose e non dalla volontà di
gioco di alcuni attori, così come nella storia economico-politica sono nati da
una oggettiva dinamica la mondializzazione, il mercato unico,
l’antimperialismo, l’eguaglianza tra gli uomini, il punto di vista ecologico.
Credo che si possa valutare la nascita delle scuole artistiche alla stessa
stregua della nascita delle nuove teorie delle società e della natura: sono
valide quelle correnti nate dalle reali dinamiche sociali e scientifiche.
Lukàcs aveva tacciato di irrazionalità la concezione borghese della
realtà, riservando la razionalità alle scienze della natura e alla teoria proletaria
della società, traendone la conseguenza che solo l’arte razional-progressista
fosse vera arte. Adorno, pur partendo da premesse simili, arriva ad una
conclusione opposta: siccome la società borghese è irrazionale, l’arte deve
anch’essa diventare irrazionale per rappresentarla e denunciarla. L’arte delle
avanguardie ha seguito Adorno e rifiutato Lukàcs. Il linguaggio artistico ha
perduto la comprensibilità universale del passato, assumendo un connotato
del tutto privato che ha dovuto ogni volta essere spiegato al pubblico. Una
gran parte degli artisti contemporanei ha ritenuto fallita la lingua tradizionale,
la semantica e la sintassi degli avi, inventando nuovi mezzi espressivi, uno
per ogni corrente e, a volte, uno per ogni artista. Quando il messaggio è
arrivato a destinazione, ha mostrato di non essere così irrazionale come taluni
pretendevano, Adorno in testa. Era soltanto un sistema segnico disarticolato,
non discorsivo, integralmente intuitivo.
Dopo l’impressionismo i concetti di bellezza, di forma, di spazio
euclideo, di prospettiva entrarono in crisi e tutti i paradigmi dell’arte furono
85 - “Fare l’atmosfera in luogo della figura, significa concepire i corpi non isolati nello spazio, ma come
nuclei più o meno compatti di una stessa realtà. Poiché bisogna tenere a mente che le distanze tra un
oggetto e l’altro non sono degli spazi vuoti, ma delle continuità di materie di diversa intensità che noi
riveliamo con forme e direzioni che non corrispondono alla verità fotografica, né alla fredda realtà
analitica, le quali restano esperienze tradizionali” (U. Boccioni, Pittura scultura futuriste, Ed. futuriste di
poesia, Milano 1914, citato da G. Bruno (a cura di), Boccioni, Classici dell’arte, Rizzoli, Milano 1969, p.
111).
41
messi in discussione e attaccati duramente. I Dada e il Surrealismo hanno
avuto un ruolo rilevante nel processo di dissoluzione che si compie nelle
varianti dell’arte informale. Nell’arte classica – riunisco in questo termine tutta
la storia dell’arte fino all’espressionismo – si è rappresentata la crisi sociale, il
dolore, il presentimento di morte, il peccato, la felicità borghese, la sessualità
e le varie sensualità, la bellezza, il vizio, la natura nelle sue tante forme. In
una parte dell’arte contemporanea, ci si libera dai contenuti antropomorfici e
naturalistici per rappresentare con tutti i materiali possibili la sensazione dello
spazio, il libero gioco dei colori, la pura energia, gli effetti materici, senza che
a volte sia chiara la strada intrapresa. Il quadro, la scultura, l’assemblaggio di
oggetti di vario genere spesso non intendono rappresentare una realtà, ma
essere una realtà. Rosemberg, dopo aver coniato il termine “action painting” a
proposito delle opere di Pollock, scrive che “bisogna tenere per certo che
l’impressione finalmente ottenuta, l’immagine, quale che sia il contenuto, sarà
una tensione”. Una tensione, non una rappresentazione di qualcosa (86). Per
raggiungere questo scopo, l’arte in molti casi si presenta come esibizione di
una azione, la performance (vari tipi di istallazioni, video), o come
trasgressione e scandalo, talvolta l’oggetto artistico richiede di essere toccato.
Pittura e scultura hanno avuto come contenuti i grandi temi umani,
almeno fino a che ha dominato la cultura e la scienza classiche. I contenuti
del poema, del dramma, dell’arte sacra e profana – sebbene in una variante
aggiornata ai tempi - si ritrovano attualmente nella letteratura e nel cinema,
ancora incentrati sull’uomo e sulla natura. La pittura, la scultura e le nuove arti
moderne hanno invece gridato a gran voce il rifiuto sprezzante di questi
antichi oggetti dell’arte. Esse intendono occuparsi di percezioni, di echi
stravolti che l’orecchio, l’occhio, il sesso, la pelle, il sogno, la mente possono
provare di fronte al mondo. L’artista deve convertire il reale in una percezione
allusiva, filtrando la realtà attraverso un commutatore personale ed esibire
questo soggettivo deposito di percezioni, di tensioni, di immaginazioni, in cui
l’oggetto, quando c’è, quando non è un puro gioco di colori e di volumi, si
nasconde dietro una serie di maschere deformanti. L’arte moderna è tutta in
questo gioco del rinvio, dell’allusione, della metafora, dell’accenno, del tratto
caratterizzante. Ciò dipende dal fatto che non vuole rappresentare le cose,
ma le astrazioni. Burri non intende dipingere una porzione dello spazio
empirico, ma la spazialità. Pollock, in una fase della sua vita, per dipingere la
liberazione dai valori politici, estetici, morali, utilizzò caotiche scolature di
colore.
Crea qualche sospetto il fatto che la stragrande maggioranza del
pubblico provi a volte imbarazzo di fronte ad alcune opere dell’arte moderna.
L’arte, che per millenni ha parlato ai popoli, oggi sembra essersi chiusa entro
ristrette cerchie di praticanti, diventando esoterica.
b) Come la reazione dello spettatore di fronte ad opere di arte
informale è diversa rispetto alla reazione di fronte ad opere di arte classica,
così il giudizio critico deve percorrere vie analitiche diverse rispetto alla
pertinenza di cui ho trattato in riferimento alla vecchia arte. Lo studio della
pertinenza della testa o del braccio della Stiratrice di Degas non serve ad
analizzare le scolature di colore di un quadro di Pollock. L’arte informale non
risponde alle stesse regole dell’arte formale; la corrispondenza segnosignificato è diversa. Il dolore di una Madonna sul corpo del Cristo morto
passa per ogni particolare delle posture di tutte le parti del suo corpo, passa
per i colori che non possono essere quelli di una serena Madonna col
bambino. Il critico, in questi casi, può discutere ogni particolare significativo,
così come può fare per una scultura, per una poesia, per un romanzo di stile
classico.
86 - H. Rosenberg, The American Action Painters, “Art News”, dic. 1952, 51/8, p. 22.
42
Non è altrettanto agevole entrare nel merito di una singola macchia di
colore nella Composizione VII di Kandisnky (1950) o nella Number 18 di
Pollock (1950), o del Concetto spaziale, Venezia d’argento di Fontana (1961),
o delle parole di Sanguinetti in Laborintus (dal 1951): sembra che si debba
accettare tutto o niente. È come se il rapporto analitico tra segno e significato,
tra prodotto ed intenzione, abbia mutato registro. Mentre è comprensibile il
progetto rivoluzionario di molte di queste correnti, non è altrettanto
comprensibile il modo in cui sia possibile entrare nel merito delle singole parti
di un’opera. Non è quindi agevole delimitare il ruolo della critica d’arte nei
confronti di una parte della produzione artistica dell’ultimo secolo. La
discussione critica tra “pudica” e “pensosa” nel testo leopardiano presenta
una precisa razionalità, non è invece altrettanto razionale la discussione sulla
lunghezza del taglio su una tela di Fontana o sulla collocazione più a destra o
più a sinistra di una serie di puntini in un suo quadro spaziale. La critica perde
in questo settore la sua capacità analitica, la sua capacità di entrare nel
merito di ogni particolare forma, parola, colore, suono.
Con l’arte informale, venendo a mancare il riferimento ad una realtà
particolare, con caratteristiche oggettive decifrabili, in quanto indipendenti da
noi, si passa ad un giudizio generale di pertinenza non più analitica, ma
sintetica. Il giudizio sintetico è possibile tuttavia per una parte delle opere
informali, quando emerge un senso di qualche tipo. A volte si rimane
sconcertati di fronte all’incomprensibile, quando non riusciamo a capire di che
si tratti, quando il nesso tra il quadro e il suo titolo è misterico. Il culmine della
difficoltà si raggiunge quando lo stesso autore intitola il quadro “senza titolo” o
con un semplice numero. Si ha l’impressione che l’irrazionalismo dadaista
non sia finito nel 1923, quando la scuola si è sciolta. Né è facile capire cosa
divide nettamente alcuni quadri, anche significativi, di F. Picabia (Edtaonisl,
1913) da altri di J. Dubuffet (Site a l’oiseau, 1974), di J. Pollock (Sentieri
ondulati, 1947), di U. Boccioni (Stati d’animo, gli addii, 1911), di R. Delaunay
(Le finestre, 1912), di M. Rothko (Untitled red, 1964), di A. Gorky (Acqua del
mulino fiorito, 1944), di G. Balla (Velocità d’automobile, luci, rumore, 1913), di
M. Larionov (Dominio di rosso, 1911), di A. Soffici (Linee e volumi di una
strada, 1912), di W. Kandinsky (Improvvisazione V, 1911), di F. Kupka
(Sequenza grigio e oro, 1919), di J. Villon (Ragazzina, 1912), di A. Masson (Il
rapimento, 1921) - appartenenti a scuole anche diverse ed opposte - più di
quanto un quadro di Picabia (Udnie, 1913) non si distingua da un altro quadro
di Picabia (Voilà la femme, 1915). Né dobbiamo sottovalutare il fenomeno del
repentino e ripetuto cambiamento di stile e di poetica della maggior parte
degli artisti più famosi, primo tra tutti Picasso. Picabia all’inizio del Novecento
si ispira all’impressionismo, dopo il 1908 passa al cubismo, ma subito dopo si
sposta sull’astrattismo. Dal 1915 è già proto-dadaista, per passare nel 1921 al
surrealismo. Nel 1925 torna all’arte figurativa. A cavallo degli anni ‘30-‘40 si
occupa di fotografia di nudi femminili, ma conclude la carriera tornando
all’astrattismo.
È indispensabile comunque fare una netta distinzione tra arte astratta e
arte informale, ovvero tra arte che esprime ancora la natura e l’uomo, seppure
in modo assai indiretto, e arte che programmaticamente intende rompere
qualsiasi riferimento con la realtà per divenire puro gioco di colori e forme. Nel
caso dell’arte astratta, la mente dell’artista è una sorta di trasformatore delle
percezioni quotidiane, degli input che i sensi ricevono dal mondo, e che
riconsegna nell’opera d’arte sotto nuova forma. Come il musicista trasforma la
natura e la vita in suoni così il pittore astratto utilizza i colori e le forme
attraverso una metafora che conserva il significato delle percezioni ricevute,
ovvero attraverso un equivalente figurativo di comportamenti, di esistenzialità,
di voci del mondo e della coscienza moderna. Nel caso dell’arte informale, gli
artisti inventano un gioco con regole che nulla hanno a che fare con
l’esperienza quotidiana, avendo come scopo quello di creare mondi paralleli,
43
alla maniera delle tante geometrie non euclidee, ove l’intuizione perde ogni
ruolo.
Haftmann ha colto con grande finezza il senso di quel primo tipo di arte
che, sebbene astratto, intenda mantenere un legame strettissimo con il
mondo oggettivo. Interpretando l’opera di Klee, ci mostra, attraverso l’analisi
sintetica di alcuni suoi quadri, questo nesso indissolubile:
“Un quadro ad olio del 1929, Strada principale e strade secondarie, ci permette di
gettare uno sguardo sui modi di vedere e sentire dell’artista. È un quadro che sembra una
antica strana tappezzeria, con strisce e campi sottili, fitti, in cui ogni centimetro è lavorato,
picchiettato, cardato come se da una grande lontananza si volesse ricostruire un quadro
topografico preciso. Alcune precise linee direzionali attraversano il quadro, strade che si
aprono alla nostra vista. E se noi lasciamo che il nostro sguardo segua questi cammini,
vediamo che questa sensazione della topografia è restituita attraverso una larga arteria che si
va assottigliando, secondo il criterio prospettico, e che attraversa il centro del quadro.
L’insieme sembra visto con una prospettiva a volo di uccello, insomma come se si trattasse di
una vasta pianura, intelaiata da linee trasversali che suggerisce l’immagine di un paesaggio
fluviale, i margini di una larga valle di un antichissimo fiume. Ed è proprio così: si tratta di una
immagine sintetica che riproduce il ricordo delle grandi e fertili pianure dell’Egitto”.
“Solo nel momento della creazione...in quel lavoro dimentico di se stesso e non volto
ad alcunché di oggettivo, l’immagine sprofondata riaffiora, completamente astratta, mai vista
87
in quella forma e tuttavia restituente la totalità di quel paesaggio in una immagine tipica” ( ).
Diversa è la poetica di Kandinsky, anche se il riferimento al mondo
fuori di noi in qualche modo rimane. Lui stesso scrive che: “La natura e l’arte
hanno finalità (e dunque anche mezzi) essenzialmente, organicamente e
storicamente diversi”. Il punto di incontro tra l’opera d’arte e la natura non
avviene, come in Klee, in una sorta di semplificazione della natura, quanto
piuttosto nell’evocazione delle grandi forze cosmiche, nel viverle dall’interno e
comunicarle attraverso una semantica inventata dall’artista, che fa coincidere
la linea con un elemento di tensione, distinguendo tra linea verticale e linea
orizzontale, calda la prima e fredda la seconda. Anche i colori per lui hanno
un valore espressivo, tanto che la somma di linee e colori significativi
esprimono le forze della natura. Klee narra ancora la natura, Kandinsky le
forze che si agitano in essa. Il primo, a suo modo, è ancora pittore “classico”.
Tassi scrive a proposito di G. Sutherland:
“Il metodo è quello indiretto dell’arte del nostro secolo e nel caso specifico quello di
creare «parafrasi emotive della realtà»; cogliere cioè nella realtà l’essenza dei fenomeni e
darne figurazioni sorte dal corrispettivo interiore, dar vita cioè a nuove forme che siano
simboliche della corrispondenza che si stabilisce emotivamente tra l’essenza delle cose e la
88
profondità dell’uomo” ( ).
L’analisi della pertinenza analitica, ad esempio nella pittura figurativa,
si basa sulla corrispondenza tra caratteri somatici, da una parte, e caratteri
psicologici, esistenziali, sociali, culturali, dall’altra. Il linguaggio del corpo dà
origine ad una corrispondenza tra le sue posture e il significato che esse
trasmettono. I corpi esprimono sempre qualcosa, hanno sempre un
messaggio da rappresentare. Come una persona che finga di provare dolore
o sdegno e non riesca ad adeguare perfettamente i suoi atteggiamenti a ciò
che vorrebbe esprimere, così l’artista fallisce quando non riesce ad adeguare
la cosa rappresentata all’intenzione, al progetto, all’invenzione, quando non
finge alla perfezione: grande attore è colui che sa fingere, che sa replicare
una condizione umana, che non ci fa percepire la finzione. La pertinenza
analitica è una sorta di adequatio intellectus et rei, che si ottiene quando la
87 - W. Haftmann, Paul Klee, Prestel, München 1950; trad. it., P. Klee, Fabbri Editore, Milano 1966.
88 - R. Tassi, Dal surrealismo alle correnti più recenti, Fabbri Editore, Milano 1966.
44
rappresentazione riesce a cogliere un aspetto oggettivo della realtà. La
pertinenza nella critica d’arte deve analizzare l’adequatio tra il pensiero
dell’artista (il progetto) e il manufatto realizzato, per verificare se la finzione è
riuscita, se il gioco non è scoperto. Nell’arte moderna l’adequatio non è più
diretta – o analitica - perché si cela dietro qualche forma simbolica della
realtà, che riesce ad esprimere le cose solo nell’impressione generale - o
sintetica - che suscita in noi. Sarebbe utile per lo spettatore che l’autore
comunicasse al pubblico ciò che aveva inteso rappresentare: in questo modo
crescerebbe la possibilità per un più ampio pubblico di formarsi un giudizio
ragionato, che non si limitasse all’impressione immediata “mi piace - non mi
piace”.
Diversa è la pertinenza rispetto alla musica anche classica, essendo
quest’ultima più simile alle arti informali che a quelle tradizionali se
escludiamo alcune regole generali sulla struttura della composizione.
45
7 - Il “brutto” artistico
a) Il piacere per il bello di natura e il fascino che suscita in noi l’opera
d’arte appartengono a generi diversi. Le donne rappresentate nella Primavera
di Botticelli sono belle e brutti i volti delle Demoiselles d’Avignon, senza che
questo giudizio riguardi minimamente il valore delle opere. Le donne
botticelliane sono belle, così come le donne di Picasso o di de Kooning sono
brutte, in modo del tutto irrilevante in una valutazione artistica, che deve
capire la pertinenza o meno tra quella rappresentazione e i valori-disvalori
che l’autore voleva esprimere. Nelle arti visive quindi il criterio giudicativo
bello-brutto segnala un approccio ingenuo, o, nel migliore dei casi, l’uso di un
traslato per indicare la validità artistica di un’opera.
Lo scarto tra arte e bellezza è stato colto più volte nei secoli passati.
Fiedler ha sostenuto che l’arte possiede un valore superiore a quello della
bellezza, riposto nel contenuto conoscitivo di ogni rappresentazione con cui
l’artista organizza il materiale sensibile. La bellezza per Fiedler rappresenta
una forma secondaria del giudizio in generale, perché soggettiva ed arbitraria,
in quanto sempre relativa a fenomeni sensoriali e mai a quelli intellettivi che
prescindono dalle emozioni. Riconosce che occasionalmente la bellezza
possa mescolarsi con l’arte, ma solo nei grandi artisti meridionali, come
Leonardo e Raffaello, non in quelli nordici, come Dûrer e Rembrandt, che
avrebbero rifiutato di sedurre i sensi, di rappresentare ciò che naturalmente
attrae (89).
L’artista – a parer mio - vuole semplicemente esprimere attraverso il
suo linguaggio di forme e colori un’emozione, un fenomeno sociale, un
oggetto naturale. Dire che un’opera d’arte è bella, trascurando il senso
primario del dato rappresentato, è parziale ed ingenuo. Nell’arte bisogna
cercare l’abilità con cui l’artista ha espresso un concetto-emozione, giacché
spesso rappresenta il negativo, la morte, la sofferenza, la guerra. Omero non
ci risparmia le scene di disgusto, né queste mancano nella pittura e nella
scultura greco-romane, quando raccontano le battaglie e le glorie dei vincitori,
o nel medievale ciclo della passione di Cristo (90). Nell’arte moderna, d’altra
parte, si percepisce immediatamente che il fine non è il bello. Breugel e
Bosch non volevano certamente deliziarci con le loro orride immagini. Né lo
volevano Rouault (Studio di odalisca, 1905; Allo specchio, 1905) o Soutine
(La donna in rosso, 1922; Maria Lani, 1929). Schiele suscita spesso disgusto
89 - È importante recuperare il nucleo razionale del pensiero idealistico di Fiedler sulla scissione tra i
concetti di arte e di bellezza – per altro non definita - e sull’arte come prodotto non di fantasia e
sentimento ma di intelletto, anche se non condivido le sue idee sull’arbitrarietà del gusto estetico e
dell’universalità del canone artistico (K. Fiedler, Aphorismen, R. Piper, München 1914; trad. it., Aforismi
sull’arte, TEA, Milano 1994, antologia di suoi scritti degli ultimi decenni dell’Ottocento).
90 - Lessing pensava ancora nel Settecento che le arti visive non potessero rappresentare il brutto,
perché l’opera sarebbe diventata inguardabile. Solo la poesia può rappresentare il brutto, avendo a che
fare con l’immaginazione del lettore. La scultura del Laocoonte non spalanca la bocca nell’urlo estremo
di dolore per non creare un buco osceno sul volto. Virgilio invece può permettersi di dire nell’Eneide che
Laocoonte: “clamores horrendos ad sidera tollit”, perché l’immaginazione del lettore non conserva a
lungo l’immagine negativa della bocca spalancata (G. E. Lessing, Laokoon: oder über die Grenzen der
Mahlerey und Poesie, Ester Teil, 1766; ripublicato in Sämtliche Werke. De Gruyter, Berlin, New York
1979, vol. XIII, da cui è tratta la traduzione italiana Laocoonte, ovvero dei confini della pittura e della
poesia, Aesthetica, Palermo 2000). Tuttavia, già alla fine del secolo, nel 1797, Schlegel in modo
rivoluzionario scriveva che “Come la natura, Shakespeare genera il bello e il brutto senza separarli e
con la medesima esuberante ricchezza; nessuno dei suoi drammi è interamente bello e mai la bellezza
è il criterio che determina la struttura dell’insieme” (F. Schlegel, Über das Studium der Griechischem
Poesie, Hofbuchhändler Michaelis, Neustrelitz 1797; trad. it., Sullo studio della poesia greca, Guida,
Napoli 1988, p. 88; la traduzione italiana è condotta sulla Kritische Friedrich-Schlegel-Ausgabe, E.
Behler, München-Paderborn-Wien 1958, Band I, Studien des klassichen Altertums, 1979). Schlegel
attribuisce all’arte greca classica, e in particolare alla tragedia di Sofocle, il perseguimento della
perfezione, ove il brutto in tutte le sue forme è stato escluso, al contrario dell’arte moderna, che proprio
nelle sue espressioni più alte, in Shakespeare, non può non includerlo. Lo impone la conflittualità del
presente - così contrastante con l’armonia della Grecia classica - che ha consentito di aprire la via ad
una nuova estetica.
46
con le sue opere, ma è grande proprio per questo, perché riesce pienamente
a rappresentare una umanità in crisi. L’Espressionismo e il Cubismo
dipingevano volutamente figure sgradevoli per esprimere la loro visione del
mondo. L’arte trash della fine del Novecento – Funk Art, Arte abietta, Wiener
Aktionismus – rappresenta tutto ciò che si trova sotto la pelle, nelle viscere,
come la saliva, la merda, lo sperma. L’uomo sottocutaneo di Friedrich
Nietzsche e il gusto per il disgusto di Georges Bataille sono i punti di
riferimento di queste forme di arte insieme con il risentimento di Ferdinand
Celine nei confronti delle élite, degli intellettuali e del loro mondo simbolico.
I limiti del concetto di bello sono evidenti in questo passo di
Tatarkiewicz:
“Nel nostro secolo invece, tutto è cambiato. Se nell'Ottocento erano state poste le
premesse della negazione dell’estetica del bello, nel Novecento sono state tratte le
conclusioni, sia da parte degli artisti che dei teorici. Vale a dire: il concetto di bello è talmente
impreciso che non è possibile formularne una teoria. Inoltre la bellezza non è una qualità così
pregevole come s'era ritenuto per secoli. Non è neppure il fine precipuo dell'arte. Se un'opera
d'arte scuote, colpisce fortemente il fruitore, ciò è più importante dell'incantarlo con la sua
bellezza. Ma la commozione non si ottiene soltanto con la bellezza, anche tramite la
bruttezza. «Oggi amiamo la bruttezza tanto quanto la bellezza», scriveva Apollinaire. Sorsero
dubbi se fosse provato, come era stato universalmente ritenuto sin dal Rinascimento, il
legame dell'arte con il bello. Le conseguenze furono tratte da Herbert Read: non occorre
vincolare l'arte al bello «l'identificazione di arte e bello sta alla radice di tutte le nostre
difficoltà nella valutazione della prima: questo non si ripeterà mai troppo spesso, né troppo
91
forte»” ( ).
L’arte si esprime attraverso linguaggi particolari – fatti di linee, di colori,
di marmo, di suoni, di parole - in grado di esprimere alcuni aspetti della natura
e della vita dell’uomo. Il giudizio critico consiste nello stabilire se l’artista sia
riuscito o meno in questo tentativo. L’estetica, avendo identificato arte e
bellezza, è stata costretta ad espungere il brutto dalla sfera dell’arte.
Nell’ultimo secolo tuttavia abbiamo assistito ad una sorta di vendetta del
brutto, polarizzandosi il dibattito nel modo seguente: 1) il brutto non esiste
nell’arte, perché questa lo esclude o perché trasforma in bello tutto ciò che
tocca, compreso il brutto; 2) anche il brutto possiede una sua positività
estetica, tanto che si può parlare di una bellezza del brutto, oltre e accanto ad
una bellezza del bello (92). La prima risposta elimina uno dei due poli dialettici,
pretendendo di escludere il brutto dall’arte, la seconda li comprende entrambi,
come in una duplice esteticità, quella del bello e quella del brutto, così da
avere un bello bello e un bello brutto. Entrambe tuttavia non possono evitare
di presentarsi nella forma del paradosso, la prima, in quanto sostiene che
anche ciò che riteniamo esteticamente negativo nella natura e nella vita
(morte, malattia, oscenità, dolore, violenza, perversione) diventi positivo nella
trasfigurazione artistica, essendo riassorbito dal bello; la seconda, in quanto
91 - W. Tatarkiewicz, cit., p. 169.
92 - Bodei distingue cinque possibili rapporti tra bello e brutto, variamente teorizzati dalla filosofia a
partire da Platone (R. Bodei, Le logiche del brutto, in “Aesthetica, pre-print”, n° 10, dicembre 1985, pp.
5-15; questo numero della rivista ha per titolo La disarmonia prestabilita, tratto dal seminario promosso
dal Centro internazionale studi di estetica, Palermo, 26-27 ottobre 1984, in occasione dell'edizione
italiana dell'Ästetik des Hässlichen di Karl Rosenkranz (Verlag der Gebrüder Bornträger, Königsberg
1853); trad. it., Estetica del Brutto, Aesthetica edizioni, Palermo, 1994, prima ed. 1984). L’autore torna
in un'altra opera sul concetto, elencando sette varianti del nesso concettuale bello-brutto (Le forme del
bello, il Mulino, Bologna 1995, p. 122). Si ha tuttavia l’impressione - confermata da questo passo del
testo: “si è, in altri termini, rimasti sempre entro una medesima logica generale” - che il concetto effettivo
sia uno solo, quello di un’arte in cui il bello riesce sempre a trasfigurare il brutto, anche quando, dopo i
greci, si è accettato di rappresentare ciò che è sgradevole e male nelle realtà. Tutta la discussione
comunque rimane all’interno del concetto di bello artistico, nell’ennesima identificazione di arte e
bellezza, nel rifiuto o nell’oblio del bello di natura, secondo la resistente tradizione che vede Hegel tra i
suoi fondatori.
47
parla di una positività estetica del brutto, come se questo potesse avere una
sua autonomia estetica, un suo diverso e indipendente fascino.
Il primo paradosso è antico quanto la cultura occidentale, comparendo
già nella Poetica di Aristotele, là dove si legge del diletto che suscitano le
imitazioni:
“Sembra, in generale, che la poesia tragga origine da due cause, ambedue naturali:
l’istinto dell’imitazione…e il piacere (to chairein) che tutti traggono dai prodotti dell’imitazione.
Prova ne è quanto accade di fronte alle opere [d’arte]: le immagini particolarmente precise di
oggetti che, in sé, vediamo con fastidio, ci dilettiamo a contemplarle (chairomen theôrountes),
93
come nel caso di figure di bestie immonde e di cadaveri” ( ).
Aristotele tuttavia non dice che l’arte trasforma il brutto in bello, ma solo
che suscita in noi piacere nel vederlo ben rappresentato. La
rappresentazione, quando è pertinente, suscita piacere, anche se il contenuto
dell’opera è repellente. Credo che Aristotele avrebbe dovuto dire che l’opera
ben eseguita susciti ammirazione, ma non piacere, perché il dispiacere,
nell’esempio utilizzato, al contrario, aumenta.
Kant va più in là, scrivendo che:
“L’arte bella mostra la sua preminenza in questo, che può rendere belle quelle cose
che in natura sono brutte o spiacevoli. Le furie, le malattie, le devastazioni della guerra, e
simili, possono essere molto bellamente descritte come cose dannose, ed essere anche
94
rappresentate nei quadri” ( ).
Una posizione molto simile assume De Sanctis, quando, a proposito
della Divina Commedia, dichiara che:
“L’inferno è il regno del male, la morte dell’anima e il dominio della carne, il caos:
esteticamente è il brutto.
“Dicesi che il brutto non sia materia d’arte e che l’arte sia rappresentazione del bello.
Ma è arte tutto ciò che vive, e niente è nella natura che non possa essere nell’arte. Non è arte
quello solo che ha forma difettiva o in sé contraddittoria, cioè l’informe...non è arte il confuso,
l’incoerente...L’altro, “bello” o “brutto” che si chiami in natura, esteticamente è sempre bello”
95
( ).
Su queste basi, il nostro letterato può dire che “Mefistofele è più
interessante di Fausto, e l’Inferno è più poetico del Paradiso” (96).
Il secondo paradosso emerge con chiarezza nelle pagine di Praz
dedicate alla bellezza della Medusa, vera specificità del romanticismo:
“Il volto livido del capo tronco, il groviglio di vipere, il rigore della morte, la sinistra
luce, gli animali schifosi, il ramarro e il pipistrello - sgorga un nuovo senso di bellezza
insidiata e contaminata, un brivido nuovo...Pei romantici la bellezza riceve risalto proprio da
quelle cose che sembrano contraddirla: dalle cose orride; è bellezza tanto più gustata quanto
più triste e dolente...La scoperta dell’orrore come fonte di diletto e di bellezza finì per reagire
sul concetto stesso della bellezza: l’orrido...finì per diventare uno degli elementi propri del
97
bello” ( ).
93 - Aristotele, La poetica, Mondadori, Milano 1999, p. 1448b (la traduzione segue il testo curato da R.
Kassel, Aristotelis de arte poetica liber, E. Typographeo Clarendoniano, Oxford 1965).
94 - E. Kant, Kritik der Urtheilskraft, Lagarde, Berlino 1790; trad. it., Critica del giudizio, Laterza, Bari
1949, p. 172.
95 - F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Sonzogno, Milano 1950, p. 40.
96 - Ivi, p. 41.
97 - M. Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Sansoni, Firenze 1976, pp. 1921.
48
Quella di Adorno sembra una terza via, in quanto include nell’arte il
brutto, non alla maniera di Kant e di De Sanctis, come dura realtà da
metamorfosare artisticamente, come il negativo interno al positivo, né alla
maniera romantica di Praz, di una sublime bellezza dell’orrido, ma come ciò
che rappresenta senza orpelli i punti di crisi della società industriale,
direttamente come bruttezza, come oscena denuncia della crudeltà sociale,
come arte brutta. Il brutto entra nell’arte per denunciare il mondo, per liberare
l’uomo, per accusare il dominio:
“…e rende testimonianza per ciò che da quel dominio è rimosso e
rinnegato...Possenti valori sociali vengono messi in libertà dal socialmente brutto”…“Ma il
fatto che l’arte abbia la forza di racchiudere in sé ciò che le è contrario [il brutto] senza
recedere neanche un pò dal proprio anelito e anzi trasformi quell’anelito in una forza di tal
genere, è cosa che affratella il momento del brutto alla spiritualizzazione artistica”… “Nelle
nuove opere d’arte la crudeltà alza la testa senza più nascondersi; in tal modo essa afferma
la verità, ciò che davanti al prepotere della realtà l’arte non può più avere a priori la fiducia di
riuscire a trasformare il terribile in forma [in bellezza]. La crudeltà fa parte del ripiegamento
critico dell’arte su se stessa; essa dispera di quella pretesa al potere che viene invece
tradotta in realtà da un’arte conciliata. La crudeltà esce nuda dalle opere d’arte non appena la
98
loro signoria è scossa” ( ).
Pur dichiarando di ripartire da Adorno, Scaramuzza interpreta il brutto
come Praz, assegnandogli una sorta di autonomia estetica contrapposta a
quella del bello, come se esistesse una bellezza del brutto. Su queste basi
egli apprezza l’estetica di Rosenkranz, che tuttavia, come osserva Stella (99),
oscilla, insieme a tutti gli altri, compreso Adorno, tra una autonoma esteticità
del brutto e un suo superamento entro il bello artistico. Non è facile mettere
insieme passi di questo tipo:
“Il brutto non può essere inteso che come termine medio tra il bello e il comico. Il
comico è impossibile senza un ingrediente di bruttezza, che esso piega e risolve nella libertà
del bello...Estetica del brutto suonerà a qualcuno come “ferro ligneo”, perché il brutto è il
contrario del bello. Solo che il brutto è inseparabile dal concetto di bello: quest’ultimo lo
contiene costantemente...Il bello è la condizione positiva della sua esistenza [prima tesi] e il
comico è la forma in cui esso, al cospetto del bello, torna a liberarsi del suo carattere solo
100
negativo” [seconda tesi] ( ).
Anche Adorno, come dicevo, che è il più radicale negazionista
dell’estetica (del bello) nell’arte moderna, non evita l’ambiguità:
“L’identificazione dell’arte col bello è insufficiente…Assorbendo il brutto, il concetto di
bellezza è intrinsecamente mutato senza che tuttavia l’estetica possa farne a meno. Quando
assorbe il brutto, la bellezza ha la forza sufficiente per ampliarsi attraverso ciò che la
101
contraddice” ( )
Coloro che non hanno saputo riservare il valore bello-brutto ai soli
fenomeni naturali oscillano ambiguamente tra i due paradossi sopra citati: ad
affermazioni sull’esteticità autonoma del brutto corrispondono passi sulla sua
negatività superata nel bello. Insomma, per tutti costoro il brutto è
contraddittoriamente indipendente e dipendente dal bello, è e non è bello.
Tutto ciò non è una sana contraddizione dialettica, ma una banale
contraddizione logica.
98 - T. Adorno, Ästhetische Theorie, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1970; trad. it., Teoria estetica,
Einaudi, Torino 1975. I tre passi sono rispettivamente alle pagine 71, 72, 73.
99 - V. Stella, Estetica del bello ed estetica del brutto, in AAVV, La disarmonia prestabilita, cit..
100 - Questi passi di Rosenkranz si trovano in G. Scaramuzza, Il brutto nell’arte, Il Tripode, Napoli
1995, alle pagine 131, 133, 135.
101 - T. Adorno, Teoria estetica, cit., Paralipomeni, p. 387.
49
Nella realtà naturale, il bello e il brutto posseggono una loro autonomia,
pur all’interno di un rapporto di reciprocità. È pertanto possibile che il brutto si
presenti nella sua indipendenza, anche se la sua percezione e il suo concetto
non possono prescindere dal presentarsi come il non-bello, come un relativo.
Non si riesce infine a capire perché il bello dovrebbe essere l’unico in
grado di riassorbire il brutto in sé e non il contrario. Perché, se il nesso
dialettico tra due poli è paritario, solo uno dei due termini dovrebbe essere
dominante, in grado di riassorbire l’altro?
c) Il rapporto bello-brutto ha creato innumerevoli fraintendimenti,
perché il nesso tra i due termini è regolato dalle complesse regole della
dialettica. Cerchiamo di chiarirne il concetto seguendo le pagine di Hegel –
padre riconosciuto della dialettica - sulla correlazione.
"Nelle determinazioni di rapporto o correlative la contraddizione (Widerspruch) si
mostra in maniera immediata. Gli esempi più volgari di Sopra e Sotto, di A destra e A sinistra,
di padre e figlio e così via all'infinito, contengon tutti l'opposizione (Gegensatz) in un solo e
medesimo. Sopra è, quello che non è il sotto, il Sopra è determinato solo come il non esser
sotto, ed è solo in quanto vi è un Sotto, e viceversa; nell'una determinazione sta il suo
opposto. Il padre è l'altro del figlio, e il figlio è l'altro del padre, e ciascuno è soltanto questo
altro dell'altro; e in pari tempo l'una determinazione è solo relativamente (in Beziehung)
all'altra; il loro essere è un unico sussistere. Il padre è anche qualcosa per sé, fuori della
relazione al figlio; così però non è padre, ma è un uomo in generale. Allo stesso modo il
Sopra e il Sotto, l'A destra e l'A sinistra sono anche dei riflessi in sé, son qualcosa fuori della
102
relazione (ausser der Beziehung etwas sind); ma allora son soltanto luoghi in generale" ( ).
I due lati, come si vede, sono al tempo stesso reciproci (gegenseitig) e
indifferenti (gleichgültig) (103 ). Correlazione non significa identità; significa
relazione reciproca nella rispettiva indipendenza, ovvero contraddizione.
"In egual maniera il negativo, che sta di contro al positivo, ha un significato solamente
in questa relazione a questo suo altro, lo contiene dunque nel suo concetto. Ma il negativo ha
anche senza riferimento (ohne Beziehung) al positivo una sua propria esistenza (ein eigenes
104
Bestehen)" ( ).
"Il positivo è quel diverso, che dev'esser per sé (für sich), e insieme (zugleich) non
essere indifferente, rispetto alla sua relazione (Beziehung) col suo altro. Il negativo deve
essere non meno indipendente (selbständig), esser per sé, la relazione negativa a sé; ma,
insieme, come negativo, avere questa sua relazione a sé (diese Beziehung auf sich), il suo
105
positivo, solo nell'altro (sein Positives, nur in andern)" ( ).
102 - Logica, p. 492. (IV, S. 60). Per l'esattezza nel testo tedesco si hanno i termini corrispondenti solo
alle parole "nelle determinazioni di rapporto" (in den Verhältnisbestimmungen) e non al termine
"correlazione", sebbene dai passi successivi si comprenda che il concetto vuole indicare la relazione
reciproca o correlazione.
103 - Enciclopedia, § 414. (V). A questo proposito A. Léonard, in Commentaire littéral de la Logique de
Hegel, Vrin, Paris 1974, p. 168, scrive “Cette conjonction, dans le positif et le négatif, de la diversité qui
fait leur autonomie e de l’opposition qui les relativise réciproquement constitue leur contradiction
explicite”. Al paragrafo 114 dell’Enciclopedia, Hegel rimprovera la scienza e la metafisica per aver
considerato le categorie come indipendenti, salvo a stabilire successivamente la loro relatività,
“congiungendole con un anche”.
104 - Logica, p. 487 (IV, S. 54).
105 - Ivi, § 120 (V). Se L. Colletti avesse tenuto conto nella sua Intervista politico-filosofica (Laterza,
Bari 1975), a proposito dei poli della contraddizione, del für sich, della Selbständigkeit, non avrebbe
scritto frasi del genere “E, infatti, ciascuno è soltanto il non dell’altro” o “Entrambi i poli sono niente in sé
e per sé” (66-67). Hanno per lo più compreso il nesso fra contraddizione e correlazione gli autori dei due
testi collettivi La contraddizione in Aristotele, Kant, Hegel e Marx, CLEUP, Padova 1976, e La
contraddizione, Città Nuova, Roma 1977. Anche F. Chierighin vi si riferisce in L’unità del sapere in
Hegel, CEDAM, Milano 1963, cap. III, § 3. A. Stella vi ritorna in Il concetto di “relazione” nella “Scienza
della Logica” di Hegel, Guerini, Milano 1974, pur in un contesto irricevibile. Hanno condiviso questa
posizione testi classici fra cui G. Noèl, La logique de Hegel, Alcan, Paris 1897, p. 7; J. G. Hibben, La
50
La contraddizione quindi si realizza nel momento in cui tra due realtà si
viene a determinare un rapporto di relazione reciproca, tale per cui al di fuori
di quel rapporto non esistono i due termini della correlazione (padre e figlio),
ma all’interno del rapporto mantengono anche una loro autonomia.
Bisogna tuttavia tenere presente che per Hegel l’autonomia dei due poli
in questione è resa evidente dal fatto che quell’aspetto (la paternitá) è solo
uno dei tanti, infiniti, modi di essere di un’entità, tale per cui se il rapporto di
reciprocità con l’altro polo esaurisse l’intera sua realtà, non potrebbe avere
relazioni con altri enti, in quanto cittadino, ad esempio. Ogni aspetto è tale
solo in quella relazione costitutiva, pur mantenendo una sua separata realtà
entro e fuori di quel nesso.
In sintesi, per Hegel i due poli di una correlazione mantengono una
doppia forma di indipendenza. La prima, all’interno della stessa correlazione
(il padre è tale solo in rapporto al figlio, ma è anche altro dal figlio,
possedendo una sua identità; la seconda, in quanto ciascun ente – un uomo vive anche infinite altre correlazioni, grazie a quella sua identità ricca di
molteplici aspetti, che non potrebbe avere se la sua realtà si esaurisse nel
rapporto (con il figlio, nell’esempio).
d) In quanto il bello e il brutto posseggono una loro autonomia, pur
all’interno di un rapporto di reciprocità, è possibile che il brutto si presenti
nella sua indipendenza, anche se la sua percezione e il suo concetto non
possono prescindere dal presentarsi come il non-bello, come un relativo.
L’arte quindi non rende bello il brutto, ma, al contrario, lo esalta, lo fa
percepire in tutta la sua bruttezza (l’Antigrazioso di Boccioni). La grande arte
riesce ad evidenziare, a rendere immediatamente osservabile, tutto ciò che
racconta, il bello come il brutto, la vita quotidiana come i grandi eventi; è un
faro indirizzato su una cosa - un fatto, un’emozione, un concetto – che l’uomo
comune non sempre è disposto ad osservare. L’opera d’arte rende più bello il
bello (Botticelli), più brutto il brutto (Bosch, Schiele), più comico il comico
(Chaplin), più appassionante l’appassionante (Paolo e Francesca), più buono
il buono (Fra Cristoforo), più materna la maternità (Madre Coraggio, la madre
di Cecilia), ovvero esalta tutto ciò che rappresenta (106 ).
L’estetica, con la sua pretesa di trasformare in bello il brutto
rappresentato, ha operato secondo una dialettica non rigorosa, in cui uno dei
due termini ha incluso l’altro, facendogli perdere l’indipendenza, che pure
deve conservare. Nella percezione della natura le cose belle sono belle, le
brutte brutte, come nel diritto o nella morale, ove tutti accettano che i due
termini positivi – giusto e buono - siano indipendenti dai loro rispettivi opposti
negativi – ingiusto e cattivo - nonostante l’innegabile reciprocità concettuale.
Belle sono le cose non eseguite dagli esseri umani, le cose che
nascono spontaneamente in natura. Ciò che l’uomo produce, i suoi manufatti,
sono fatti bene o male, risiedendo il loro valore integralmente nell’esecuzione,
il cui risultato può essere pertinente, piacevole, raffinato. Non è un caso che
l’estetica si sia sempre divisa tra sostenitori del bello di natura e sostenitori
del bello artistico, essendo evidente intuitivamente che non è possibile
attribuire lo stesso aggettivo a due realtà così eterogenee. Coloro che hanno
cercato di farlo, non hanno potuto spiegare l’inspiegabile, non hanno saputo
riunire ciò che è diviso. Il tentativo di classificare con lo stesso criterio estetico
logica di Hegel, Fratelli Bocca, Torino 1910, cap. XI, p. 131 sgg.; F. Grégoire, Etudes hegelienne, P.U,
Louvain-Paris 1958, in pagine di notevole approfondimento; A. Léonard, cit., in particolare al commento
dei § § 119 e 120 dell’Enciclopedia; M. Wolff, Der Begriff des Widerspruchs, Hain, 1981, ove ritorna la
tesi della contraddizione come identità e indipendenza dei termini relativi.
106 - Dario Fo diceva che a tutti capitano quotidianamente fatti significativi, degni di essere raccontati,
ma che la maggior parte delle persone non se ne rende conto, non li percepisce come tali. L’artista, in
quanto profondo osservatore, è colui che sa cogliere ovunque gli aspetti importanti della vita e sa farli
risaltare per quel che sono.
51
l’Infinito di Leopardi, un albero in fiore e un corpo umano non poteva non
essere fallimentare. Non vi è commensurabilità fra le forme di un corpo e le
parole dell’Infinito, non sono confrontabili, perché sono eterogenee. La
bellezza ci colpisce positivamente per il semplice fatto che una cosa o un
individuo è conformato fisicamente così e così. Di fronte ad una poesia la
nostra reazione è diversa, come è diversa di fronte ad un cibo, ad un film, ad
un profumo. La difficoltà nell’assegnare ad ogni emozione o pensiero un
termine adeguato ci induce a definire quasi tutto quello che percepiamo come
bello o brutto, buono o cattivo. Questi predicati sono semplificazioni radicali
del pensiero ingenuo per definire una molteplicità di stati d’animo, che
comporterebbero invece una pluralità di aggettivi diversi. Probabilmente
l’equivoco è nato perché l’arte ha rappresentato quasi sempre la divinità o le
“grandi potenze umane”, come diceva Hegel, ovvero i grandi contenuti
dell’uomo depurati da ogni accidentalità, in particolare nell’arte greca (107 ). Se
l’arte ha spesso assunto come contenuto il bello, si capisce perché l’umanità
abbia finito per identificarla con la bellezza. Le cose sono cambiate non
appena l’arte è passata a rappresentare prevalentemente l’uomo, la società e
la natura nei loro aspetti negativi o di crisi, come frequentemente è avvenuto
nel Novecento.
e) La teoria estetica, non essendo riuscita ad eliminare il problema del
bello, lo ha impiantato sulle più varie metafisiche, subordinandolo a tematiche
di altro genere, come all’etica o alla politica, senza mai analizzarlo in modo
antropologico, nella sede scientifica di appartenenza, ove si studia la
formazione evolutiva dei criteri di giudizio della mente umana. La bellezza è
stata collocata alternativamente nella proporzione e nella simmetria, nei
prodotti di una specifica facoltà, come l’intuizione o la fantasia, nella
produzione di nuove forme, nella rivelazione di un mondo nuovo da parte di
un vate (108 ).
Non si è voluto capire che il rispetto per la simmetria può dare il “bello”
come il “brutto”, o, meglio, il pertinente come il non-pertinente, potendo
essere ridotta ad una precettistica vuota. Né serve la riduzione dell’arte ad
intuizione, perché l’arte, come tutto, è prodotta da tutte le attività cerebrali in
proporzioni volta per volta diverse. Ma se anche fosse riducibile ad intuizione,
non saremmo in grado di distinguere su questa base quella buona da quella
cattiva. Dire poi che l’arte è produzione di forme, è formatività, è come dire
banalmente che i prodotti dell’uomo derivino dal fare, dall’attività umana. È
sorprendente infine sentire che il poeta è un vate che annuncia o, addirittura,
produce un mondo, come se Newton o Darwin non annunciassero un mondo
più e meglio di Hölderlin, come se i poeti, al pari degli altri mortali, non fossero
a volte portatori di novità, ma altre volte una semplice eco del passato.
L’irruzione della tematica del brutto nell’arte è stata decisiva per
introdurci in un concetto antimetafisico di bellezza. È merito di Hugo aver
capito per primo che la musa moderna:
107 - G. W. F. Hegel, Ästhetik, Aufbau-Verlag, Berlin 1955; trad. it., Estetica, a cura di N. Merker,
Einaudi, Torino 1967, p. 539. Gli appunti degli studenti che ascoltarono le lezioni (Vorlesungen) tenute
da Hegel tra il 1817 e il 1829 furono raccolti da H. G. Hotho e pubblicati nel 1836-38, rivisti poi nel 1842.
Le edizioni successive delle opere complete di G. Lasson (1931) e di H. Glockner (1941 e 1953)
utilizzano per l’estetica il testo di Hotho.
108 - M. Heidegger identifica abusivamente l’arte con la verità che si disvela e con la bellezza, rifiutando
per questa via sia il bello di natura che il ruolo del brutto nell’arte: “L’apparire ordinato nell’opera è il
bello. La bellezza è una delle maniere in cui è-presente [west] la verità” (Holzwege, Klostermann,
Frankfurt am Main 1950; trad. it., Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1977, p. 41). Negli anni
precedenti la posizione del filosofo era stata ancora più radicale, assegnando alla parola poetica un
ruolo creatore: la poesia istituisce ciò che è stabile, sottraendolo al travolgimento; solo la parola del
poeta fa essere l’ente quello che è (La poesia di Hölderlin, cit., pp. 49 e 50). L’equivocità tra creazione e
disvelamento dell’essere si ritrova negli interpreti del filosofo, come in P. Euron, Martin Heidegger, in F.
Salza (a cura di), L’arte e i filosofi, cit., cap. XIII, pp. 143-149.
52
“… sentira que tout dans la création n’est pas humainement beau, que le laid y existe
à côté du beau, le difforme près du gracieux, le grotesque au revers du sublime, le mal avec
le bien, l’ombre avec la lumière...le grotesque est, selon nous, la plus riche source que la
109
nature puisse ouvrir à l’art” ( ).
Le incertezze della teoria del brutto ci inducono a ripartire dai principi
che abbiamo assunto all’inizio di questa analisi e che vengono in qualche
modo intuiti, seppure entro una cornice ancora metafisica, in questo passo di
Kant:
“Quando per esempio si dice: “è una bella donna”, non si pensa altro che questo: la
natura rappresenta bellamente in questa forma gli scopi che essa si propone nel corpo
femminile; perché bisogna guardare, oltre che alla sua semplice forma, ad un concetto, in
110
modo tale che il giudizio sull’oggetto diventa un giudizio logico ed estetico insieme” ( ).
È giusto ricercare un motivo per questa nostra reazione di piacere, ma
Kant ha torto e ragione insieme nell’attribuirla ad una finalità interna, giacché,
pur non esistendo finalità di sorta, è vero che quelle forme femminili hanno un
motivo per essere quelle e non altre, ovvero un preciso motivo selettivo.
I pregiudizi sul bello e sul brutto artistico sono superati nel momento in
cui si comprende che il bello artistico non esiste, come non esiste il brutto
artistico, esistendo solo il bello e il brutto di natura, ma non in loro stessi,
quanto piuttosto per noi, come percezione e come giudizio riflettente (111 ). La
riprova dell’indipendenza del bello dall’arte si ha nel fatto che il bello naturale
– pur non essendo oggettivo - è universale, se trascuriamo gli aspetti
regionali, che per altro vanno diminuendo con la mondializzazione del gusto,
mentre il cosiddetto “bello artistico” è cambiato una infinità di volte, fino ad
identificarsi con le deformazioni cubiste, con oggetti qualsiasi (una ruota, uno
scolabottiglie), con il brutto, con l’informale.
La crisi profonda in cui versa la ricerca del bello nelle opere d’arte,
denunciato dagli stessi cultori della materia, prova che non esiste l’oggetto
tanto ricercato (112 ). La fisica, nonostante le sue rivoluzioni interne, non ha
109 - “…percepirá che non tutto nel creato è umanamente bello, che il brutto esiste a fianco del bello, il
deforme accanto al grazioso, il grottesco come rovescio del sublime, il male con il bene, l’ombra con la
luce…il grottesco è, secondo noi, la più ricca sorgente che la natura possa aprire per l’arte” (V. Hugo,
Préface a Cromwell, in Thèatre complet, I, Gallimard, Paris 1963, p. 416 e 419, traduzione nostra).
Questa tematica ritorna in Francia con G. Bataille in La laideur belle ou la beauté laide dans l’art et la
littérature (1949), in Oeuvres complètes, Gallimard, Paris 1988, XI, ove l’autore sembra alquanto
prossimo alle posizioni di Adorno.
110 - E. Kant, cit., p. 172.
111 - È apparsa presto ridicola la posizione di quei teorici che nell’Ottocento, seguiti tuttora dal vigente
senso comune, hanno pensato che i rospi e le barbabietole fossero brutti e belli gli uccelli. Diversa è
l’idea che la percezione della bellezza naturale nasca da uno stato emotivo, da uno stato d’animo
(Stimmung), da empatia (Einfühlung), in quanto, pur negando il concetto di bellezza naturale, afferma la
possibilità di un apprezzamento estetico della natura, seppure derivato da una condizione psicologica
dell’osservatore. Molto interessante sul tema del bello di natura è il saggio di P. D’Angelo, Estetica della
natura, Laterza, Roma-Bari 2001. In una rassegna molto ricca, l’autore ci mostra come responsabile del
tramonto del concetto di bellezza naturale sia stata non solo l’estetica, ma anche la pratica artistica. Il
concetto di bello naturale, dopo essere stato estirpato radicalmente dall’estetica del Novecento, ritorna
in un campo che non ha più nulla in comune con l’estetica filosofica, ovvero nel campo delle teorie
ecologiche e dell’integrità estetica dei paesaggi, da cui è derivata la proliferazione delle organizzazioni
per la salvaguardia della bellezza dei luoghi naturali (prima metà del Novecento) e per la difesa
dell’ambiente (seconda metà del Novecento). I teorici hanno oscillato tra un concetto di bellezza
naturale, che equipara gli oggetti alle sculture o ad uno scenario bidimensionale, ad una pittura, ed un
altro che li considera come se fossero un ambiente. Quest’ultima posizione è entrata in contrasto con la
precedente, per il fatto che una politica di difesa delle bellezze naturali può diventare indifferente
all’ambiente. Queste teorie hanno avuto una ricaduta artistica, quando nel Novecento sono sorte forme
d’arte che non intendono riprodurre la natura, ma agire sul paesaggio, nel senso della conservazione
del paesaggio o dell’ambiente, come nella Art in nature, più che nell’americana Land art.
112 - Per Anceschi nessuna estetica ha retto alla critica; si sono infatti moltiplicati i concetti di bellezza,
53
mai dichiarato fallimento, al pari delle altre scienze, che hanno un sicuro
oggetto su cui indagare. L’estetica artistica è morta attraverso la morte del
suo contenuto, come è capitato a tutte le forme di sapere prive di oggetto
reale, dalla mitologia alla magia, dall’astrologia alla teologia. Questi risultati ci
permettono di capire perché esistono correnti artistiche moderne che
rappresentano quasi esclusivamente il brutto, come modo per esprimere il
negativo della nostra epoca, mentre il Rinascimento ha raffigurato quasi
esclusivamente il bello nelle opere destinate alla nobiltà, e quasi
esclusivamente il dolore e il brutto nell’arte religiosa (crocifissioni, inferno,
persecuzioni), se escludiamo le immagini della Madonna col bambino e poco
altro ancora.
L’estetica ha fornito infinite definizioni del fare artistico, cadute una
dopo l’altra, perché tutte valide per alcuni prodotti, ma non valide per altri. Si è
preteso di distinguere l’arte dalle altre sfere del fare umano, moltiplicando
all’infinito specie, generi, famiglie, e dimenticando che la mente umana che
produce arte, religione, giochi, oggetti utili, relazioni, è sempre la stessa, lo
stesso organo, la stessa unitaria funzione cerebrale.
Liberata dal fardello estetico, l’arte si riduce ad una delle molteplici
forme della rappresentazione, la cui differenza non consiste più nell’essere
veicolo del bello, come per una sorta di gravidanza estetica, ma nella capacità
di immaginare e di narrare una realtà in modo peculiare, diversamente da
ogni altro tipo di discorso. Nel giudicare i vari tipi di manufatti artistici
dovremmo quindi attentamente distinguere tra classificazione artistica e
classificazione estetica. Un’opera che rientra nella prima può non essere
bella, come, viceversa, una che rientra nella seconda può non essere arte.
f) Pensando all’esuberanza vitale che scavalca ogni limite artistico per
andare incontro alla vita, Nietzsche aveva intuito la precarietà della ricerca del
bello: tutti gli stili vengono adottati, ma anche oltrepassati e annientati,
trapassando in altre forme che li rinnovano perpetuamente. L’arte, in questo
suo perenne rinnovarsi, non ha fondamenti trascendentali da sempre e per
sempre posti, ponendo volta per volta le sue condizioni di esistenza. Ma se
come si sono moltiplicati i concetti di geometria. Ciò nonostante, egli cerca, in modo non comprensibile,
una soluzione husserliana, in grado di coordinare la produzione artistica sempre diversa per mezzo di
un criterio operativo di connessione, di una legge di coordinamento, di un principio di integrazione, vero
a priori estetico (L. Anceschi, Progetto di una sistematica dell’arte, Mursia, Milano 1964, p. 49). M.
Modica in Che cos’è l’estetica, Editori Riuniti, Roma 1987, riprende la tematica della varietà
dell’esperienza artistica, che arriva a comprendere i ready-made (belli e fatti) di Duschamps,
abbandonando la pretesa di una sua definibilità, fino al punto che non sarebbe più necessaria
nemmeno la connessione tra arte e bellezza. Dessoir, attraverso una sorta di scetticismo sul metodo,
ha rilevato accortamente come, dopo Hegel, bellezza, estetica e arte tendono a separarsi. Approda
tuttavia ad una metafisica del bello naturale, incentrata su pretese proporzioni oggettive. Più
interessante invece la sua analisi del concetto di bellezza, che viene ridotta a caso particolare
dell’estetico insieme ai fenomeni sublimi, graziosi, tragici, comici, che possono essere belli o brutti,
valori o disvalori estetici. Diversa da estetica e bellezza risulta essere l’arte, che, sottraendosi alla
tirannia del bello, deriverebbe da facoltà formatrici etiche, culturali e sociali, che né l’estetico né il bello
possiedono, almeno non necessariamente (M. Dessoir Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft: in
den Grundzügen dargestellt, Enke, Stuttgart 1923 (prima ed. 1906); trad. it., Estetica e scienza dell’arte,
Unicopli, Milano 1986). Il rapporto fra arte, estetica e bellezza rimane ambiguo nell’autore, poiché ritrova
in modo oscuro l’esteticità nell’opera d’arte laddove l’artista “invita a indugiare nella contemplazione e
ad abbandonarsi ai vissuti fortemente sentimentali” (M. Dessoir, Allgemeine Kuntwissenschaft, in
“Deutsche Literarzeitung”, 44/45 e 46/47, 1914; trad. it., Scienza generale dell’arte, in Dessoir, Utitz,
Wind, Panofsky, Estetica e scienza generale dell’arte. I concetti fondamentali, CLUEB, Bologna 2007, p.
62). Anche il concetto di bello non si chiarisce accostando al bello naturale le belle maniere, i corpi belli,
le belle dimostrazioni matematiche. Infine, oltre al bello naturale e al bello artistico, si avrebbe un bello
delle forme di vita e di relazione, delle istituzioni sociali, di ambiti spirituali (M. Dessoir, Objektivismus in
der Ästhetik, in “Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kuntwissenschaft”, 5, 1910; trad. it.,
L’oggettivismo in estetica, in Dessoir, Utitz, Wind, Panofsky, Estetica e scienza generale dell’arte. I
concetti fondamentali, cit). La scarsa chiarezza, al limite della confusione, dimostra che, pur con
importanti intuizioni, il nesso tra bellezza ed arte rimane ancora oscuro, e rimarrà tale fino a che il bello
non uscirà definitivamente dalla sfera artistica.
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“l’arte è origine” volubile, l’estetica sarà sottoposta perennemente a questa
instabilità, al suo stesso divenire.
L’estetica artistica giunge al suo definitivo tramonto con Gadamer e
con Derrida, ovvero con coloro che, dopo avere ancorato l’essere alla parola
e, più in particolare, all’arte, decostruiscono ogni discorso in un succedersi di
interpretazioni irriducibili le une alle altre, sempre nuove e diverse (113 ).
La critica all’estetica tradizionale è stata condotta dalle scuole di
origine nietzschiana, fenomenologica ed esistenzialistica, ma hanno lasciato
intatte le equazioni metafisiche di arte-bellezza e di arte-verità, seppure in un
processo ermeneutico-decostruttivo senza fine. L’arte in realtà non ha nulla a
che vedere con il bello e con la verità, e di essi non segue le sorti. L’arte, in
quanto specifico modulo narrativo, in quanto duplicato di qualsiasi cosa
dentro o fuori di noi, è volta per volta intuizione pura o concetto, sentimento o
ragione, impegno sociale o disimpegno, formatività o informatività, scienza o
magia, dionisiaco o apollineo, scoperta dell’essere o suo nascondimento,
liberazione o assoggettamento, guerra o pace, bello o brutto (114 ). Non è
113 - Su queste tematiche heideggeriane cfr. S. Givone, Storia dell’estetica, Laterza, Roma-Bari 1988.
Banfi aveva insistito sulla perdita di ogni normativa possibile, sull’infinita varietà dei piani dell’arte, e
quindi sulla necessità di approdare ad una estetica sempre aperta, essendo relativa e provvisoria ogni
sua definizione (A. Banfi in I problemi di una estetica filosofica, Parenti, Firenze 1961). La molteplicità
delle forme d’arte induce Pareyson ad introdurre il concetto di formatività. Nell’arte il fare è assoluto,
creativo, intensivo, essendo produzione di organismi nuovi, in una sorta di innovazione ontologica.
L’arte per l’arte è formatività per se stessa e non per altri fini, fare una cosa che prima non c’era, unica
nel suo genere: è “fare arte” e non “fare con arte” (L. Pareyson, I problemi dell’estetica, Marzorati,
Milano 1966, p. 34). Pareyson attribuisce bellezza non solo all’arte, ma a tutta la produzione umana, in
quanto “è proprio il carattere formativo dell’intera operosità umana che spiega come si possa parlare di
bellezza a proposito di qualsiasi opera: se non c’è opera che non sia insieme forma, si intende come
ogni opera riuscita sia sempre anche bella”… “Come la realizzazione di qualsiasi valore è impossibile
senza la realizzazione di un valore artistico, così la valutazione di qualsiasi opera è impossibile senza
un apprezzamento estetico. Quando si dice, ad esempio, che un'azione morale, una virtù, un carattere,
oppure un ragionamento, una dimostrazione, un'opera di pensiero, sono belli, si può pensare che in
questi casi la predicazione della bellezza abbia un carattere esclusivamente metaforico e sia destituita
di significato proprio. D'un'azione che abbia un chiaro valore morale si dice spesso che si tratta d'una
bella azione, e parlando di anime buone si suol dire che sono ornate dalle loro virtù, e d'una persona
disposta alla benevolenza, alla cordialità e alla giovialità si dice che ha un bel carattere; e spesso si
parla di bei ragionamenti, e d'una dimostrazione singolarmente riuscita, condotta con una linearità di
sviluppo e una dovizia di argomentazione che conciliano in sapiente equilibrio la semplicità e la
completezza, si dice che ha pregi d'eleganza, e in un'opera di pensiero si può ammirare l'armonia della
costruzione in cui circola, con sagace duttilità, il pensiero, a penetrare e sviscerare l'argomento e
insieme a stringere il tutto con salda e indivisibile coesione” (Luigi Pareyson, Estetica, teoria della
formatività, Bompiani, Milano 1988, p. 19-20). Ciò non esclude che vi sia una speciale intenzionalità
formativa dell’arte rispetto alle altre produzioni (ivi, p. 23). Interessante mi sembra il concetto di riuscita
dell’opera, che è diversa nell’arte e nelle scienze, ove è controllabile attraverso le leggi di natura (ivi, p.
63); il discorso tuttavia si avvita su se stesso quando prova a stabilire la peculiarità della riuscita
dell’opera d’arte: “Nell’arte non c’è altra legge generale se non quella stessa regola individuale
dell’opera che deve essere inventata nel corso dell’operazione: la riuscita è criterio a se stessa, sì che
non solo la regola, ma l’opera stessa dev’essere inventata nel corso dell’esecuzione, la quale perciò
non può avere altra legge che il suo stesso risultato” (ivi, p. 66). Senza il concetto di pertinenza, non
riesco a capire come si possa decidere sulla validità di un’opera se non attraverso un rinnovato
generico gusto di derivazione crociata. Mi sembra utile il contributo di Pareyson sul concetto di
recezione per l’insistenza sul ruolo ineliminabile di entrambi i poli: “nel senso che sia il soggetto che
l’oggetto dell’interpretazione devono essere esistenze singolarissime, in sé concluse, dotate di vita
propria, indipendenti, irripetibili e inconfondibili (ivi, p. 186). Anche Paci ritiene che ogni forma sia una
decisione, un principio di selezione (E. Paci, Tempo e relazione, il Saggiatore, Milano 1965, p. 248). Su
posizioni simili, almeno in una prima fase, si trova G. Vattimo in Poesia e ontologia, Mursia, Milano
1967, che interpreta la formatività husserliana nel senso ontologico heideggeriano, di costituzione di un
mondo. Bachtin insiste sul concetto di forma estetica assiologica, prodotta da un io-autore-creatore,
attivo semanticamente nella scelta del significato (p. 61). Radicalizzando le posizioni, D. Formaggio in
Arte, Mondadori, Milano 1981, dopo aver ridotto l’essere a divenire e il divenire a possibilità sempre
aperta, con reminiscenze leibniziane e bergsoniane, interpreta l’arte come strumento essenziale nella
produzione dell’incessante flusso di forme, sulla scia dell’estetica di Husserl, di Heidegger e di Bachtin
(M. M. Bachtin Voprosy literatury i estetiki: issledovanija raznych let, Chudozestvennaja literatura,
Moskva 1975; Trad. it., Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 2001).
114 - Il marxismo ha sbagliato ad identificare la grande arte con il progresso sociale, con la categoria
storica emergente, con la rivoluzione, conducendo al flagello dell’arte socialista. Balzac è diventato il
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quindi morto il bello artistico, e con esso l’estetica, perché non è mai esistito,
se non come uno dei suoi possibili contenuti. Questo significa che tutto ciò
che è stato detto dell’arte si riferiva ad un qualche tipo di stile, avendo i filosofi
dell’arte sempre teorizzato una delle tante precettistiche, uno dei tanti modi di
fare arte, ovvero una delle tante poetiche. Non è accettabile che si prenda un
aspetto di una realtà molteplice e complessa e lo si trasformi in elemento
universale, né che si faccia della propria epoca e, spesso, della propria
persona il perno su cui ruota la storia, il momento in cui cambia il paradigma.
Tutto invece è intreccio, nel passato come nel presente, anche se con
dominanze e subordinazioni sempre diverse.
prototipo dell’arte possibile, rendendo impossibile capire la positività del Vaso con iris (1890) o dei Rami
di mandorlo in fiore (1890) di Van Gogh.
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8 - L’artigianato
Tutto ciò che esiste si distingue in prodotti dell’uomo e in cose nate
spontaneamente in natura nei lunghi processi evolutivi. La colonna delle cose
prodotte dall’uomo – sia manuali che intellettuali – possono essere ben fatte o
mal fatte; la colonna delle cose naturali non ricadono in questo giudizio
dicotomico, giacché in natura tutto è quello che deve essere. Tuttavia
dobbiamo operare alcune sottili distinzioni, per evitare un banale
manicheismo definitorio, che ci impedirebbe di classificare in modo
appropriato alcuni prodotti più complessi.
a) L’artigianato arcaico, i cui primi reperti oltrepassano il milione di
anni, si limita ad imitare oggetti e funzioni presenti in natura e osservati per
caso. L’arte, invece, nasce di recente, con Homo sapiens, quando compare
una specifica forma di astrazione, di cui tratterò nel prossimo capitolo.
Raggiunto questo nuovo livello di astrazione, anche l’artigianato si rinnova,
diventando inventivo. L’arte nasce e rimane racconto libero; l’artigianato
assume la libertà inventiva dell’arte, ma non può oltrepassare il vincolo
dell’utilità, del servire a….Per questa intrinseca differenza, la tipologia dei
giudizi sui prodotti artistici e sui prodotti artigianali deve rimanere in parte
diversa (115 ).
Possiamo constatare quotidianamente l’uso generalizzato della
valutazione estetica non solo per i prodotti d’arte, ma anche per i manufatti
artigianali. Un tramonto, un corpo umano o animale, un’automobile, un
vestito, una scultura vengono infatti catalogati alla rinfusa sotto lo stesso
predicato della bellezza-bruttezza. Ciò è comprensibile – pur essendo
sbagliato – per le opere artistiche che rappresentano natura e persone,
poiché assumono per contaminazione il giudizio estetico dei loro contenuti. Il
manufatto artigianale invece, avendo a che fare con prodotti artificiali utili, non
dovrebbe essere interessato, nemmeno per contaminazione, al criterio della
bellezza. Il rapporto positivo uomo-natura ha fissato ciò che è propizio alla
vita umana, presupposto della percezione del bello, ma non ha potuto fare la
stessa cosa con i manufatti (automobili, vestiti), per i quali rimane il solo
giudizio di pertinenza. Perché mai allora anche i prodotti dell’artigianato
vengono spesso percepiti come belli o brutti al pari degli enti naturali (116 )?
Per superare questa difficoltà, dobbiamo partire dalla constatazione
che il lavoro artigiano può essere esercitato in tutti i campi della realtà e che i
suoi prodotti, sempre utili a qualcosa e a qualcuno, possono essere molto
vari: necessari (cibi), divertenti (giocattoli), erotici, religiosi, offensivi (armi),
115 - Danto si chiede che cosa succeda quando una scatola di spugnette detergenti – il famoso Brillo
Box di Andy Warhol del 1964 - esposta sugli scaffali di un supermercato, diventa opera d’arte venendo
esposta in un museo. La stessa domanda dobbiamo porcela per l’orinatoio di Marcel Duchamp –
Fontana del 1917 – e per tutti i generi di ready made. Io non credo che avvenga la trasformazione di un
manufatto artigianale o industriale in un’opera d’arte quando il prodotto in questione viene a perdere la
sua dimensione di merce. Il Brillo Box non viene arricchito di nuovi significati, gli viene solo tolta la
funzione pratica, quella di servire a qualcosa. Scollegato dal contesto merceologico, diventa oggetto
diverso, ma non per questo artistico. Le opere d’arte nascono da un’idea e acquistano il loro valore dal
rapporto di pertinenza tra il progetto e ciò che viene realizzato. Nel ready made manca il progetto e il
processo di esecuzione da parte dell’artista – vero luogo di nascita del valore artistico di un’opera sostituito dalla scelta più o meno casuale di un oggetto prodotto per altre finalità, con altre intenzioni.
Non si capisce infatti come si dovrebbe valutare la pertinenza, mancando il rapporto tra un progetto e la
sua realizzazione. Diversa mi sembra la situazione per l’arte postmoderna di Michelangelo Pistoletto,
che, ritagliando una fotografia da lui progettata, decontestualizza la figura dallo sfondo sociale e
ambientale in cui era collocata. In questo caso, il processo creativo dell’artista è completo, andando
dalla ideazione alla realizzazione, diversamente dal Brillo Box, che può essere sostituito da qualsiasi
altro oggetto. L’artista, si fa per dire, si è limitato a raccoglierlo e a depositarlo in un museo. Lo stesso
Arthur Danto non riesce a rispondere al problema che aveva posto all’inizio di The Transfiguration of the
Commonplace. A Philosophy of art, Harward University Press, Cambridge-London 1981; trad. it., La
trasformazione del banale. Una filosofia dell’arte, Laterza, Roma-Bari 2008.
116 - Nell’artigianato comprendo anche l’industria e la tecnologia moderne.
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ma anche belli-brutti, nel caso in cui l’artigiano lavori nel settore delle cose
considerate belle-brutte (natura e uomo-donna). Se l’artigiano produce
carrozze, la pertinenza si rivelerà nella capacità di trasportare comodamente
le persone; se produce giocattoli, la pertinenza risiederà nella capacità di
divertire o meno i bambini. Solo nel caso in cui l’artigiano lavori su cose bellebrutte, come quando un chirurgo modifica il naso ipertrofico ed aquilino di una
persona, la pertinenza inevitabilmente consisterà nella bellezza-bruttezza del
risultato ottenuto.
Bisogna tuttavia distinguere – come già dicevo in una nota - tra due
tipi di utilità, quella dei fenomeni naturali, come il sole, l’acqua, le piante, che
da sempre e per sempre rendono possibile la vita sulla terra per l’intera
specie, e i prodotti artigianali che facilitano la vita, ma non hanno un ruolo
primario per l’esistenza umana. Primario è ciò che serve all’umanità per
esistere e riprodursi, senza i quali non esisterebbe: la donna, l’uomo, la terra,
l’acqua, l’aria e il fuoco - gli antichi elementi naturali. I manufatti rendono la
vita migliore, ma non sono decisivi per la vita della specie, anche perché
mutano nel tempo, con il mutare della tecnica e delle necessità umane.
L’artigiano può produrre cose esteticamente positive sia attraverso
l’imitazione della natura migliore (modificando il naso di una persona sul
modello di un naso regolare), sia inducendo la natura a produrre un bosco, un
fiore, ovvero ciò che normalmente è ritenuto esteticamente valido. Come il
“cavallaro” di Platone rende migliori i cavalli, così il curatore dei corpi –
animali e vegetali – rende i corpi più simili ai prototipi della rispettiva specie
ritenuti migliori.
Abbiamo quindi un’apparente contraddizione, generata dal fatto che il
manufatto artigianale, essendo per lo più un semplice prodotto utile all’uomo,
sarà, in generale, pertinente o meno, ma non bello-brutto. Coincidendo in
alcuni casi con il prodotto naturale – come nel caso della chirurgia estetica –
dovrà presentare una doppia pertinenza, sia sul piano della funzionalità
dell’organo operato che sul piano estetico.
Anche l’arte può rappresentare nei suoi manufatti tutti i tipi di realtà,
compresa la bellezza e la bruttezza. La differenza con l’artigianato risiede nel
fatto che il prodotto artigianale è una realtà, mentre il prodotto artistico è solo
una rappresentazione, ovvero una finzione. Per dirla in altro modo, se
Botticelli truccasse una donna bella, la bellezza diventerebbe più evidente,
essendo il trucco una sottolineatura di ciò che già esiste; quando invece
Botticelli dipinge una donna bella, il quadro non per questo è bello, perché
l’essere naturale, la donna reale, non c’è più, essendo diventata una
rappresentazione, una massa di colori sulla tela, bene o male eseguita.
Un ulteriore elemento di complicazione deriva dal fatto che un
artigiano, anche quando non lavora direttamente su cose belle-brutte – il naso
in questione - può utilizzare alcune caratteristiche delle cose naturali belle,
come la potenza, l’aerodinamicità, la simmetria, la cromaticità, così che aerei,
automobili, case, abiti, mobili, possano essere giudicati, in modo proprio,
pertinenti o meno, e, in modo improprio, per prossimità, belli o brutti. Infatti, in
alcuni casi, i manufatti industriali e arigianali particolarmente riusciti possono
esprimere la forza o l’impronta di alcuni animali veloci e potenti, in modo da
rievocare nella nostra mente ciò che universalmente è considerato bello – si
pensi al Concorde che imitava le fattezze di un rapace. In realtà, un tale
giudizio è illecito, perché il rapace imitato nell’aereo, se ben riprodotto, è solo
pertinente, come avverrebbe in una scultura o in una pittura.
b) Il rapporto tra natura e manifattura è reso ancora più complesso dal
fatto che la natura è ormai fortemente antropizzata, e lo sarà sempre di più.
Basti pensare alla selezione operata dagli uomini sugli animali o sul
paesaggio stesso, attraverso l’agricoltura e l’allevamento. Il paesaggio poi è
spesso modificato dalle case, dalle recinzioni, dai giardini, dalle cave per i
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materiali da costruzione, dalle strade. Abbiamo modificato persino il clima,
rendendo sempre più difficile distinguere tra natura in sé e prodotto umano.
Il problema nasce per il fatto che l’uomo non solo modifica la natura,
ma può “crearla” o sconvolgerla. Vi è differenza tra potare un albero,
disboscare una collina e creare un bosco. Nel primo caso si ha il semplice
aggiustamento di un fenomeno naturale, nel secondo la distruzione, nel terzo
la creazione. La stessa cosa possiamo fare con le persone: si possono
aggiustare (con il trucco, con l’abbigliamento), distruggere o trasformare (con
interventi chirurgici, con la ginnastica, con l’alimentazione).
L’artigianato, l’industria e la scienza permettono quindi all’uomo di
entrare nei meccanismi naturali, piegando la natura ai suoi progetti. In alcuni
casi l’uomo sembra diventare natura naturans, produttore di natura: in questa
funzione produce oggetti che rientrano nel novero delle cose giudicabili belle
o brutte.
Andiamo incontro ad un’ulteriore complicazione del problema, quando
le due attività umane di intervento sulla natura – quella produttiva di natura e
quella imitativa - si intrecciano in una singola operazione. Una collina con una
chiesetta sulla cima, un piccolo cimitero e un sentiero costeggiato da cipressi,
può creare imbarazzo ad un giudizio meditato, perché in questo scenario
coesistono tutti i tipi di intervento umano su di un fenomeno naturale
preesistente (la collina e la vegetazione spontanea): quello di veicolo
naturale, in grado di indurre la produzione di altra natura (i cipressi), quello
artigianale (la chiesa, la strada, la potatura degli alberi), quello artistico, di chi
ha progettato il tutto come un ambiente unitario o ha prodotto le opere d’arte
dentro la chiesa o ha disegnato la stessa chiesa.
Il giudizio in questi casi deve rispettare la complessità, giudicando
separatamente i vari aspetti. Si dovrebbe dire: la collina è bella-brutta in
quanto natura; i cipressi e il bosco cresciuti per opera dell’uomo sono bellibrutti in quanto ancora natura; la chiesa, la strada, le potature sono invece più
o meno pertinenti in sé e rispetto all’ambiente. Giudicare il tutto bello o brutto
è sbagliato, perché non tiene conto della complessità di una realtà con molte
stratificazioni. È possibile invece valutare l’insieme come gradevolesgradevole, secondo un punto di vista personale.
Diverso è ancora il lavoro di coloro che organizzano la natura secondo
un disegno inventato – artisti di Land Art o semplici giardinieri e agricoltori –
per creare un ambiente studiatamente selvaggio, o un giardino all’italiana,
all’inglese, alla giapponese. La pertinenza sarà giudicata in base alla
corrispondenza tra il prodotto e il progetto prefissato. Se poi sarà percepito
come bello o brutto, essendo anche un fenomeno naturale, ce lo suggerirà il
nostro gusto estetico. In questo caso, le varie procedure artigianali risultano
inglobate in una sorta di progetto artistico, ove arte e artigianato si fondono
per consegnarci un prodotto misto: pertinenza e bellezza vi si incontrano in
una diversa e più complessa modulazione rispetto al naso modificato dal
chirurgo ad imitazione dei nasi migliori.
Anche un singolo fenomeno può richiedere una valutazione multipla,
giacché i vari predicati non possono mai essere unificati. Si può dire infatti: il
Concorde imita in modo pertinente un rapace; ma non è pertinente in quanto
aereo, ovvero da un punto di vista meccanico. Si potrebbero aggiungere molti
altri giudizi di pertinenza o meno in relazione ad altri aspetti, gli uni
indipendenti dagli altri, anche se alla fine è possibile dare un giudizio di
insieme, del tipo: tutto considerato, l’aereo è o non è valido.
Provo ad insistere su questo tema spinoso. L’artigianato e la natura si
incontrano in molti modi: una donna truccata non perde la bellezza perché si
è aggiunto un fattore artigianale, anzi è più bella, se il trucco è ben fatto. Il
trucco infatti può rimarcare ed evidenziare la sue caratteristiche naturali. In
questo caso il giudizio di bellezza è ancora corretto e si somma ad un giudizio
di pertinenza per il lavoro del truccatore. Nel caso invece del lavoro di un
chirurgo, bellezza e pertinenza si sommano diversamente. La chirurgia
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estetica non inventa, copia semplicemente i modelli più apprezzati, quindi
riproduce la bellezza. In questo caso, la pertinenza consiste nel creare in un
viso una linea e una proporzione che prima non esistevano. Il naso, che prima
era brutto, ora è bello. Lo stesso vale per l’albero potato, per la collina curata.
Il chirurgo e il giardiniere lavorano quindi in modo appropriato quando
riescono ad imitare i modelli naturali belli, mentre il truccatore si limita a
mettere in evidenza ciò che già esiste. La non-pertinenza, nel caso della
chirurgia estetica, riguarda invece – oltre alla non riuscita dell’intervento l’inopportunità di rendere giovane il viso di una persona molto vecchia,
creando un contrasto evidente, un fuori tempo, o di dedicarsi ai problemi
estetici quando la situazione lo sconsiglia, un fuori luogo.
c) Vorrei insistere sulla circolarità che si istituisce tra uomo e natura,
utilizzando la dialettica hegelo-marxista, per calibrare con maggiore esattezza
il ruolo dell’uomo nei confronti dei complessi processi naturali.
Tutti osserviamo che la coscienza umana, attraverso vari tipi di prassi,
si oggettiva in nuove forme naturali. La natura può essere, e non soltanto
apparire, come prodotto della coscienza e della prassi umana. È questo il
tema dell'oggettivazione che Marx mutua, modificato, da Hegel.
La coscienza umana rappresenta una forma complessa di evoluzione
della natura stessa - ovvero della natura che "si è fatta" uomo. Va sottolineato
questo doppio ruolo della coscienza naturale, di essere prodotto della natura
prima e di produttore di natura poi. Ciò che l'uomo produce con la sua prassi
si ripresenta allo stesso uomo come natura.
Riferendosi al prodotto del lavoro nell’industria umana, Marx utilizza la
dialettica nel modo seguente:
"Questo fatto non esprime niente altro che questo: che l'oggetto, prodotto dal lavoro,
prodotto suo, sorge di fronte al lavoro come un ente estraneo, come una potenza
indipendente dal producente. Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto (in
einem Gegenstand fixiert), che si è fatto oggettivo: è l'oggettivazione del lavoro. La
realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione (Die Verwirklichung der Arbeit ist ihre
117
Vergegenständlichung" ( ).
La soggettività si è oggettivata, riproponendosi come natura: ciò che
prima era sovrastruttura ora è struttura.
Un principio tuttavia deve essere riconosciuto come fondamentale:
l'originarietà ontologica della natura, anche dopo che è sorta la coscienza
manipolatoria dell'uomo attraverso il lavoro.
La natura passa, con l'uomo, dalla meccanicità alla possibilità della
scelta, ovvero all'alternativa. È in questo processo che si passa dalla
determinanza della natura alla dominanza dell'uomo-natura sulla natura,
attraverso cui le leggi naturali possono essere dominate e modificate, ma non
eliminate.
"Nella sua produzione, l'uomo può soltanto operare come la natura stessa (wie die
118
Natur selbst): cioè unicamente modificando le forme dei materiali" ( ).
La perdita della percezione della continuità natura-pensiero da parte di
molti teorici, presenta come esito la caduta in forme di soggettivismo
esasperato, ovvero in una delle tante forme della metafisica del soggetto.
Porre la "libertà" all'inizio della storia della coscienza, come ha fatto un settore
importante della cultura, fino all'esistenzialismo compreso, o porla al culmine
117 - Opere filosofiche, III, p. 298.. (MEW, Ergänzungsband, cit., p. 511).
118 - Il capitale, I, p. 75. (23, S. 57).
60
di un processo di evoluzione naturale (119 ), porta a risultati simili se per libertà
dalla natura non si intende il semplice dominio delle leggi della stessa natura.
Va alquanto mitigato il giudizio espresso sopra intorno all’uomo, inteso
come creatore di cose naturali belle o brutte. In realtà, l’uomo non produce
natura, giacché si limita o ad imitarla, come nel caso della chirurgia estetica, o
ad inserirsi nei processi naturali per indurre la natura a creare, seguendo le
sue stesse leggi, nuove forme reali. Il produttore di orchidee fa un lavoro
pertinente, un buon lavoro, quando crea un fiore che, sulla base del nostro
apprezzamento dei fenomeni naturali, piace esteticamente. Se producesse un
fiore nero, con forme non morbide e con un cattivo odore, lo percepiremmo
come brutto, come certe razze canine selezionate dall’uomo, che non
corrispondono ai nostri criteri estetici. I produttori di nuove specie animali e
vegetali si comportano in modo pertinente se riescono ad indurre la natura a
produrre ciò che desiderano, ovvero cose belle, se volevano cose belle, o
stravaganti, o addirittura brutte e sgradevoli, se questo era nelle loro
intenzioni.
Volendo raccogliere in un quadro sintetico quanto è stato detto in
questo capitolo, posso dire che l’uomo – in quanto produttore di manufatti non è mai creatore di bellezza, essendo questo compito unico della natura
quando è percepita dall’uomo. Tuttavia il lavoro umano può intervenire sulla
natura, contribuendo alla produzione estetica in vario modo:
1) copiando la natura percepita come migliore (chirurgia estetica);
2) imitando la natura (il Concorde);
3) curando la natura (potatura, trucco);
4) inducendo la natura a produrre cose percepite come belle (un
bosco, una persona sana).
Tuttavia, copiare, imitare, curare, indurre, non
significa creare,
produrre il bello. Il lavoro artigiano non potrà mai diventare natura naturans,
rimarrà sempre un lavoro estetico di servizio, di appoggio, di induzione.
d) Nei prossimi paragrafi cercherò di mettere in luce alcuni caratteri del
lavoro artigianale e delle relative pertinenze.
Consapevolmente o meno, tutti distinguiamo tra bellezza e
piacevolezza, nel senso che mentre siamo convinti che una bella donna, per
riprendere l’esempio kantiano, debba essere bella per tutti, non tutti, e non
sempre, pretendiamo che valga per altri la piacevolezza che proviamo per il
ritratto di una persona cara, o per il vino delle Canarie, per continuare con
esempi kantiani. Esistono, insomma, una molteplicità di piaceri che
appartengono solo a ciascuno di noi, perché sono legati alla nostra storia
personale e alla nostra specifica biologia. Non è comunque impossibile – ed è
frequente nelle persone meno sorvegliate – scambiare il piano della
piacevolezza con quello della bellezza. Va considerato pertanto un vizio
radicato nella mente umana il considerare bello per tutti ciò che piace a
ciascuno di noi, in base alle forme, agli odori, ai colori entro cui si è formato il
nostro gusto soggettivo a partire dalla prima infanzia e dall’ambiente socioculturale.
Ogni giudizio relativo ad un manufatto non estetico intreccia quindi in
vario modo tre punti di vista, oltre a tutti gli infiniti altri che in questo contesto
non ci interessano: la pertinenza, la raffinatezza e la piacevolezza, con tutta la
vaghezza che questo ultimo termine comporta. Il giudizio di piacevolezza è
vago per il fatto che in alcuni casi è condiviso dalla maggioranza delle
persone, nel senso che i più, ma non tutti, provano piacere-dispiacere di
fronte allo stesso evento. In altri casi, la reazione riguarda molti; ma, in altri
ancora, è del tutto soggettiva: solo a me, o a pochi, piace il mio fermacarte.
Pertanto, quando si parla di piacevolezza, bisognerebbe sempre aggiungere
119 - V. Andreoli, La terza via della psichiatria, Mondadori, Milano 1980, capp V e VI.
61
“per me”, “per molti”, “per quasi tutti”. Nello schema che segue, al termine
piacevole andrebbe aggiunto “per quasi tutti”.
Vanno preliminarmente definiti i termini in questione: 1) bella è quella
entità naturale che appaga la vista di tutta la specie umana; 2) pertinente è
quel manufatto che realizza alla perfezione ciò che l’autore voleva esprimere
o fare: in questi casi si usa dire “questa cosa è riuscita”. I prodotti della natura,
non essendo dei manufatti, non possono essere pertinenti, non dovendo
corrispondere a nulla; 3) piacevole è tutto ciò che è percepito positivamente
dai nostri sensi (un cibo, un profumo, la vista di una persona cara, un
massaggio). Utilizziamo il termine piacevole come sinonimo di gradevole e
per esso non pretendiamo l’universalità o la condivisione; 4) raffinato è quel
manufatto – o azione - che è stato eseguito da un esperto con maestria (una
sedia, un comportamento, un quadro, un cibo).
Per rappresentare in sintesi quanto intendo dire, immaginiamo di dover
giudicare una sedia prodotta da un artigiano. Essa non è mai bella o brutta, è
semplicemente pertinente quando raggiunge il risultato per cui è stata
prodotta, ovvero la comodità. Questa funzione tuttavia può trovarsi sia in un
manufatto raffinato che in uno rozzo e in entrambi i casi, può essere sia
piacevole che spiacevole, come tutte le cose che ci circondano. Intrecciando
liberamente i termini, la sedia può risultare comoda-raffinata-piacevole,
comoda-raffinata–spiacevole, comoda-non raffinata-piacevole, comoda-non
raffinata-spiacevole, ma anche scomoda-raffinata-piacevole, scomodaraffinata-spiacevole, scomoda-non raffinata-piacevole, scomoda-non raffinataspiacevole.
Eccone lo schema:
raffinata
piacevole
spiacevole
pertinente (comoda)
non-raffinata
raffinata
piacevole
spiacevole
piacevole
spiacevole
non-pertinente (scomoda)
non-raffinata
piacevole
spiacevole
e) Abbiamo detto che la pittura e la scultura rappresentano spesso
cose sgradevoli, ma che la pertinenza è il fattore che ne determina il valore.
Diversamente vanno le cose per l’architettura, che da sempre lavora su un
oggetto necessario per vincere la lotta per l’esistenza: la casa, il riparo. Essa
non produce solo racconti, come l’arte, ma anche cose utilizzabili, come
l’artigianato, che richiedono tuttavia un disegno, un progetto prima intuito e
poi oggettivato. Per questo motivo le prime case “moderne” furono prodotte
da Homo sapiens, l’unico che sapesse progettare un disegno e realizzarlo. Il
momento artistico di un edificio è il disegno libero dell’architetto, che è simile
al prodotto del pittore. La differenza è che quest’ultimo è solo un disegno,
62
mentre l’altro è un disegno che deve trasformarsi in realtà abitabile, è un
progetto (120 ).
Quando in una casa manca l’aria o la luce, o gli spazi sono troppo
angusti o troppo ampi o mal disposti per la loro destinazione, o quando i
colori sono eccessivi, o mancano gli spazi esterni, i giardini, gli alberi, allora
ne diamo un giudizio negativo. La pertinenza in architettura è quindi un
incrocio di tante pertinenze interne ed esterne al corpo architettonico.
I primi spazi abitativi sono stati ottenuti svuotando il corpo della
montagna, creando uno spazio interno, una pancia vuota dentro la natura
piena; successivamente, il luogo si è ottenuto ritagliando con muri lo spazio
infinito intorno a noi, disegnandolo con la pietra, con il legno, con il fango, con
le pelli. Ogni popolo, ogni classe ha chiuso lo spazio in base alle sue
possibilità e ai suoi gusti.
Lo spazio, insieme ai muri, è l’elemento primario della casa. I muri
delimitano un luogo, lo creano. La pertinenza architettonica, permettendo di
vivere meglio, è anche piacevole. La pertinenza/utilità dell’architettura,
quando si unisce alla raffinatezza, piace doppiamente. Si può avere
raffinatezza senza pertinenza/utilità, ma non utilità senza pertinenza: una
casa pertinente è sempre pienamente fruibile. Lo stesso vale per un vestito.
La pittura, la scultura e la letteratura possono rappresentare, in modo
adeguato o meno, tutto l’esistente e il pensabile senza danneggiare nessuno.
Quando l’architettura produce un manufatto non pertinente ne penalizza l’uso
pratico. Una casa in cui tutte le stanze fossero comunicanti, fornirebbe una
cattiva abitabilità, non sarebbe adeguata, anche se potrebbe essere elegante
e rifinita, ovvero raffinata.
f) Va infine detto che la pertinenza di un manufatto presenta un doppio
statuto: in rapporto a sé e in rapporto a chi lo utilizza. Un abito sontuoso,
come portavano nei secoli passati le regine nelle grandi occasioni, e che
possiamo ancora vedere nei quadri di alcuni pittori (121 ), può essere
considerato pertinente in quel contesto, in quanto doveva esibire la ricchezza
e la potenza della sovrana e marcare la distanza e la superiorità rispetto ai
sudditi. Quello stesso vestito, indossato da una borghese o da una contadina,
risulterebbe non solo non-pertinente, in quanto non consentirebbe di operare
liberamente con il corpo, ma addirittura ridicolo, per lo stacco evidente tra la
funzione del vestito e il ruolo della persona in questione. Per fare un esempio
moderno, un abito da sera di Capucci renderebbe ridicola una donna che lo
indossasse in un ufficio durante il lavoro; sarebbe invece pertinente in una
sfilata di moda, contribuendo a creare un effetto statuario nella modella che lo
indossasse. Ci sono quindi alcuni manufatti artigianali che sono sempre
pertinenti in rapporto a se stessi e in rapporto a chi ne ha bisogno (il martello,
la forchetta). Altri possono essere pertinenti in sé, adeguati al progetto, un
abito regale, ma inservibili per la quasi totalità degli esseri umani, inutili. Altri
ancora possono essere adeguati solo in alcune situazioni. Una poltrona, ad
esempio, sarebbe non-pertinente dietro ad uno sportello delle poste, ove
l’impiegato deve lavorare continuamente. Diverso sarebbe in altre situazioni.
Un vestito non può mai essere definito “bello” in sé, ma sicuramente
può contribuire, in alcuni casi, a rendere più attraente la persona che lo
indossa, ma anche più ridicola, in altri. Può star bene ad una persona
anziana, ma non ad una giovane, in quanto esalta o deprime certe
120 - Probabilmente l’uomo-artigiano fu già in grado di costruirsi un riparo, ad imitazione dei ripari
naturali: tettoie e capanne si possono rinvenire in natura sotto o fra gli alberi. Imitarli non fu difficile per
Homo erectus. Piero Angela, in una delle sue trasmissioni di divulgazione culturale, ha fatto riferimento
al rinvenimento delle basi di quella che dovette essere una capanna databile a 380 mila anni fa.
121 - Famosi sono i ritratti in abiti grandiosi di Elisabetta I come il Ritratto dell’ermellino o il Ditchley
Portrait, o l’Armada Portrait o il Parliament Robes e tanti altri ancora, quasi tutti di autore incerto o
ignoto, come anche impressionanti sono gli abiti di Marianna d’Austria o dell’Infanta Margherita del
Velasquez.
63
caratteristiche del corpo, del portamento, del rango, dell’età. In sintesi, si può
dire che un abito è adeguato, per quella particolare funzione, ma non per
altre. Lo stesso vestito è perfetto per certe occasioni ed è migliore di altri
vestiti per raggiungere l’effimero effetto desiderato, anche se è assolutamente
inadatto per la quasi totalità delle altre occasioni. Le cose belle, invece, un
albero in fiore o un bel corpo giovane, in quanto appartengono alla natura,
non sono mai ridicole o inadatte.
64
9 - Arte ed astrazione
a) I primi reperti artistici, essendo coevi – o di poco posteriori all’avvento dell’uomo moderno, vanno considerati documenti di incomparabile
valore al fine di decifrare l’intervallo evolutivo che distingue Homo sapiens
dall’uomo di Neandertal e dagli altri più antichi predecessori. Per illuminare
questo oscuro passaggio, è indispensabile la collaborazione tra l’antropologia
fisica, che studia le diverse geometrie del cranio (122 ), l’antropologia culturale
e la filosofia, in quanto cercano di rintracciare ciò che l’uomo è stato
attraverso ciò che ha fatto.
Il senso della bellezza è un gusto umano antichissimo, formatosi grazie
ad una particolare struttura visivo-intellettiva. L’arte invece nasce con l’uomo
moderno, quando acquisisce la facoltà di rappresentare fuori di sé ciò che
percepisce dentro di sé, di riprodurre a due o tre dimensioni gli oggetti della
realtà, del pensiero, della fantasia (123 ). Con una battuta, si potrebbe dire che
la percezione del bello e il giudizio estetico sono arcaici, mentre l’arte è
moderna. Duplicare un oggetto significa astrarne l’immagine e fissarla in linee
e colori o nelle forme plastiche della scultura (124 ). Più in generale, astrarre
significa estrarre, tirar fuori da uno o più concreti, da loro parti o aspetti, un
elemento comune nella forma di una immagine, di un simbolo, di una parola.
L’astrazione è la caratteristica che connota la mente dell’uomo
moderno. Una mente che non astragga compiutamente, che non duplichi la
realtà, non ha una sua indipendenza, non possiede un io separabile e
riflessivo. La mente che invece è capace di porsi di fronte al mondo in piena
autonomia, distinguendosi anche dalle proprie immagini, diventa il
presupposto di un’ulteriore capacità, quella di giocare con esse, di muoverle
in libertà, di accostarle e separarle a piacere, di moltiplicarle, in un vortice
rappresentativo che è, a sua volta, la base del linguaggio evoluto, in quanto
combinatoria infinita di un numero finito di immagini-segni. Queste
considerazioni ci inducono a pensare che l’umanità precedente al Sapiens
non avesse un linguaggio bene articolato.
L’aumento della massa cerebrale e la maggiore complessità delle reti
sinaptiche hanno reso possibile l’invio dell’immagine da una parte all’altra del
cervello, di rappresentarla in modo diverso, di dislocarla. L’astrazione nasce
da una sorta di elasticizzazione del pensiero, quando aumentano le
connessioni e si intrecciano le reti neurali. La mente riesce a sezionare le
immagini e i concetti, a tirarne fuori parti o aspetti, a rovesciarne gli ordini,
come cominciano a fare i bambini già prima dei tre anni, quando, per gioco, si
scambiano i ruoli, assumendo a turno quello della madre o di un’altra
persona: “facciamo che io ero…”, o quando animano bambole e oggetti vari.
122 - E. Bruner ha condotto studi rigorosi su questi temi con gli strumenti della geometria morfometrica,
come in Geometric morphometrics and paleoneurology: brain shape evolution in the genus Homo,
“Journal of Human Evolution”, 47, 2004, 279-303.
123 - Mi riferisco in particolare alla pittura e alla scultura del paleolitico superiore europeo, circa 35.000
anni fa, ma anche a quelle coeve di altri continenti. Accettano questa datazione anche S. McBrearty e
A. S. Brooks in The revolution that wasn’t: a new interpretation of the origin of modern human behavior,
in “Journal of Human Evolution”, 2000, vol. 39, n° 5, 453-563, pur essendo contrarie alla tesi di
un’improvvisa rivoluzione che avrebbe portato alla comparsa dell’uomo moderno 40-50 mila anni fa. Le
autrici sostengono infatti che le molteplici caratteristiche di Homo sapiens comincino a manifestarsi,
sebbene separatamente, a partire da 280.000 anni fa. La produzione di immagini, ovvero la produzione
artistica, tuttavia viene fatta risalire approssimativamente a 40.000 anni fa. Credo comunque che non si
possa parlare di uomo moderno compiuto fino a che non si presentano insieme tutte le caratteristiche
elencate nel loro prospetto, in particolare quelle di una specifica astrazione.
124 - E. Anati in Origini dell’arte e della concettualità, Iaca Book, Milano 1988, p. 98, aveva scritto:
“D’altro canto, l’arte grafica e figurativa, anche la più naturalistica, è sempre un’astrazione, perché
costituisce la figurazione, e quindi la trasfigurazione, di una realtà della quale si sceglie una parte, sia
essa visuale, simbolica o concettuale”. Non serve in questa sede discutere sulla precedenza tra arte
naturalistica e arte astratta, essendo entrambe due forme di astrazione. Si veda a tal proposito
Dall’astrazione all’organicità, De Luca, Roma 1958, in cui A. C. Blanc attacca la tesi di R. Bianchi
Bandinelli, che aveva difeso la tesi dell’origine naturalistica.
65
b) Attraverso i reperti della produzione umana, possiamo tentare di
ricostruire la storia dell’evoluzione cerebrale dell’uomo. Il primo episodio
documentabile di astrazione umana pienamente evoluta si ha nel paleolitico
superiore europeo con le prime forme d’arte nella scultura e nella pittura,
trenta-quarantamila anni fa, quando nacque il disegno (125 ). La pittura e la
scultura sono una sorta di finzione, in cui un’immagine sta per un’altra cosa,
la rappresenta, come in un modello, dove si concentra una variegata realtà
(126 ).
Non conosciamo quali siano state le tappe che hanno contraddistinto il
passaggio dall’immersione della mente nella natura alla sua emancipazione
attraverso l’astrazione; conosciamo invece alcuni prodotti delle diverse
condizioni mentali. Una prima arcaica tappa si è avuta quando è nato
l’artigianato, ovvero quando l’uomo è stato in grado di modificare e
aggiungere qualcosa alla natura (una lancia da un ramo, un raschiatoio da un
sasso), ciò comportando un grado di astrazione, anche se non molto elevato,
dal momento che è la stessa esperienza a mostrarci come un legno appuntito
sia più penetrante di uno che non lo è. Ben più elevata è l’attività che si
esercita con la produzione artistica vera e propria, che presuppone la
capacità di riprodurre in immagini la natura e le idee. L’umanità che ha
preceduto l’uomo moderno non ha dipinto, non ha scolpito, probabilmente non
ha posseduto un linguaggio, se non quello elementare “una parola–una cosa”,
molto diverso rispetto a quello basato su astrazioni di astrazioni e su regole
sintattiche (127 ). Ancora più primitivo è il suono che emette un animale quando
indica un pericolo particolare, essendo una reazione istintiva (128 ).
125 - I Delluc ipotizzano che il disegno nasca all’inizio dell’aurignaziano, 30.000 anni fa, in alcune
località del Perigord in Francia e del Baden-Würtenberg in Germania, per poi espandersi in altre regioni
(B. e G. Delluc, in Le grand Atlas de l’Art, Encyclopaedia Universalis, Paris 1993; trad. it., Atlante
dell’arte, Garzanti, Torino 2001, vol. I, La prima arte dei grandi cacciatori in Europa, pp. 18-20. F.
Facchini aveva sostenuto questa tesi in Evoluzione, uomo e ambiente, UTET, Torino 1958, p. 158. E.
Anati, Origini dell’arte e della concettualità, cit., parla spesso di “linguaggio visuale”, nato per evoluzione
e rivoluzione con la produzione artistica di Homo sapiens moderno. Non condivido le affermazioni di
Honour e Fleming che fanno risalire la nascita dell’arte ai prodotti più raffinati dell’artigianato, 750.000
anni fa, giacché non tengono conto della profonda differenza che intercorre tra artigianato e arte, tra
gusto per il bello e produzione artistica (H. Honour e J. Fleming, A World history of art, Macmillan
Reference Books, London 1982; trad. it., Storia universale dell’arte, Laterza, Roma-Bari 1982, p. 13).
Un numero assai ristretto di archeologi ha collocato nel paleolitico inferiore (da 500.000 a 300.000 anni
a. C.) alcuni reperti, che o non sono sculture ma semplici ciottoli con qualche vaga rassomiglianza ad
una testa umana operata dal caso, come spesso accade con i profili delle montagne o, quando sono
delle vere e proprie sculture, devono essere datati in modo diverso.
126 - L’antropologia studia l’evoluzione di specifiche zone cerebrali e la loro riorganizzazione in nuove
strutture, base anatomica dell’emersione del pensiero dell’uomo moderno, la cui caratteristica più
evidente è data dalla notevole fluidificazione delle attività mentali. Gli studi sulle nuove capacità di
Homo sapiens si vanno moltiplicando in questi ultimi anni. Alcuni analizzano la nascita del linguaggio
sintattico e della matematica, quindi la capacità di simbolizzare, altri si occupano del comportamento
innovativo, non ripetitivo o imitativo, altri del mantenimento nella memoria delle immagini e dei rapporti
spaziali, altri del controllo centralizzato delle funzioni cerebrali, altri ancora dell’anticipazione di eventi
futuri. Per Coolidge e Wynn decisiva è stata la nascita di una particolare memoria, che ha permesso di
immagazzinare per brevissimo tempo le informazioni, di “tenere a mente le cose”. Questa rinnovata
capacità avrebbe reso possibili le nuove funzioni esecutive di cui si parlava sopra (F. L. Coolidge e T.
Wynn, A cognitive and neuropsychological perspective on the Châtelperronian, in “Journal of
Anthropological Research”, vol. 60, 2004, pp. 55-69). Io credo che queste analisi colgano aspetti
essenziali dello sviluppo del pensiero di Homo sapiens, ma che non tocchino il tema dell’astrazione,
sostituito dal tema della fluidificazione, che non riesce a mostrare il grande salto qualitativo che la
mente compie con la nascita dei processi di sdoppiamento.
127 - Craig ci ricorda che i bambini si esprimono prima con parole singole, per lo più sostantivi, anche
se spesso servono a comunicare pensieri complessi (G. J. Craig in Human development, Englewood
Cliffs, Prentice-Hall, London 1980; trad. it., Lo sviluppo umano, il Mulino, Bologna 1982).
128 - G. Clark è del parere che gli scimpanzé posseggano “un registro di espressioni emozionali”, ma
non un linguaggio, non potendo esprimere o designare oggetti (World prehistory in new perspective,
Cambridge Univ. Press, Cambridge 1961; trad. it., La preistoria del mondo, Garzanti, Milano 1967, p.
37). Tattersall è convinto della radicale diversità tra il linguaggio delle scimmie antropomorfe e quello
degli uomini: “Le antropomorfe imparano a formulare richieste, ma al contrario dei bambini, anche dei
66
Quando l’uomo comprese la possibilità di utilizzare un sasso tagliente,
imparando anche a riprodurlo, produsse insieme il suo concetto e la sua
parola, sebbene fosse ancora assente il discorso vero e proprio. Quando
invece riuscì non solo a produrre e riprodurre utensili, ma a fondare un
evoluto mondo di segni (parole e immagini) come equivalente del mondo
reale, nacquero insieme linguaggio ed astrazione moderni (129 ). Il primo
disegno infatti va interpretato come il più antico tentativo di scrittura, che si è
realizzato quando le immagini sono state oggettivate di fronte a noi nella
forma simbolica più elementare, la copia bidimensionale. Il disegno e la
scrittura sono quindi invenzioni, derivate da una capacità da poco operante
nel cervello umano. L’umanità prima ha capito che poteva raccontare e
comunicare qualcosa, disegnado uno o più eventi; poi si è resa conto che le
figure stilizzate, rese essenziali, potevano indicare tutte le cose con la stessa
caratteristica – la figura di una barca sta per tutte le barche – diventando degli
universali fantastici, come direbbe Vico. L’immagine di un cane è
un’astrazione dalla realtà; la figura stilizzata che sta per tutti i cani astrae un
elemento comune a tutte le figure astratte dello stesso tipo, è un’astrazione di
astrazioni. Quando alle figure si sostituiranno le parole composte di lettere di
un alfabeto, il processo sarà compiuto (130 ).
c) Anche se non è agevole, è possibile avanzare ipotesi sulle varie
tappe attraverso cui è passata l’astrazione umana. L’attività artistica è diversa
e superiore rispetto a quella empirico-artigianale, poiché già lavora con
immagini fluidificate, ma è inferiore rispetto all’astrazione concettuale vera e
propria, al pensiero scientifico, che rappresenta realtà non semplici, come
“giustizia”, “economia”, in cui un suono o una immagine non stanno per una
cosa singola, ma per un insieme di attività, di rapporti, di utilità. L’intelligenza
artigianale, prima forma di astrazione umana, che abilita a produrre strumenti
di lavoro, precedette di due milioni di anni l’intelligenza con astrazione e con
simboli linguistici più complessi, e quindi l’arte. Non è esatto pertanto
identificare nel termine greco “téchne” arte e artigianato, ovvero qualsiasi
manufatto umano, perché sono in parte diverse, almeno nelle forme
originarie, le attività mentali che presiedono alle rispettive produzioni.
L’artigiano arcaico trasforma le cose naturali in prodotti utili all’uomo,
trasferendo in un materiale grezzo uno schema appreso casualmente dalla
natura; non disegna, non inventa, non mescola forme e funzioni, imita ciò che
la natura fa spontaneamente – una punta, un raschiatoio, un contenitore. La
produzione per imitazione è la forma più semplice di creatività, giacché non
ha bisogno di un modello mentale, di una matrice da riprodurre all’esterno, nel
più piccoli, nessuna ha mai tentato di dare inizio ad una conversazione…erano riuscite ad afferrare la
nozione che simboli verbali, gestuali e altri possono stare al posto di concetti e oggetti” (I. Tattersall
Becoming human: evolution and human uniqueness, Oxford University Press, Oxford 1998; trad. it., Il
cammino dell’uomo: perché siamo diversi dagli altri animali, Garzanti, Milano 1998, p. 61). In un'altra
opera sostiene che, il protolinguaggio dei primati è caratterizzato da un suono/un significato, da una
vocalizzazione/un contenuto, mentre quello umano è un sistema di categorizzazioni del mondo (Id. The
monkey in the mirror: essays on the science of what makes us human, Oxford University Press, Oxford
2002; trad.it., La scimmia allo specchio: saggi sulla scienza di cio che ci rende umani, Meltemi, Roma
2003, (p. 126).
129 - E. Anati, Origini dell’arte e della concettualità, cit., scrive a questo proposito: “La logica dell’arte
preistorica è la stessa che ha dato origine al linguaggio e poi alla scrittura.” (p. 104). Successivamente,
ribadisce che l’arte è un mezzo di comunicazione (p. 118) e che costituisce un grandioso archivio della
concettualità (p. 177). Il disegno e la scrittura sono quindi invenzioni, come la ruota, derivate da una
capacità già tutta operante nel cervello umano. Non è il caso di discuterne in questa sede, ma ho
l’impressione che alla grande epopea dell’arte e del linguaggio si possa applicare la teoria vichiana del
verum et factum convertuntur.
130 - Vi è una lunga storia di questa invenzione, che forse è nata come pittografia per scopi religiosi, poi
si è consapevolmente trasformata in ideografia, infine, negli ultimi millenni, in scrittura sillabica e
alfabetica (D. Diringer, The alphabet: a key to the history of mankind, Hutchinson, London 1968, terza
edizione; trad. it., L’alfabeto nella storia della civiltà, Giunti e Barbera, Firenze 1969).
67
senso che il modello è anch’esso esterno, è in quella cosa trovata per caso.
Un bambino impara imitando gesti, parole, comportamenti senza prima
interiorizzarli, senza trasformarli in modelli mentali liberi, modificabili (131 ).
L’artigiano arcaico infatti riproduce solo cose percepite con i sensi: vedendo
che una pietra, spaccatasi spontaneamente, é adatta per raschiare la pelle
degli animali uccisi, comincia a spaccare le pietre per procurarsi altri
raschiatoi. La punta bifacciale è forse il derivato più raffinato di questo
artigianato da imitazione della natura, perché presenta il perfezionamento di
un aspetto che nella realtà è sempre approssimativo.
La vista e l’intelligenza degli animali non sono adatti alla progettazione
e alla lavorazione delle materie prime per la produzione di manufatti regolari.
Il lavoro umano comporta la ricerca e la preparazione di materiali, ma anche
la previsione del risultato del processo lavorativo. La prima lama utilizzata può
essere rinvenuta per caso, ma la consapevolezza di aver trovato qualcosa di
utile e la capacità di riprodurla a piacere, dopo averla progettata, comporta un
cervello più evoluto di quello dei primati non umani. Una scimmia può
imparare casualmente ad usare un ramo appuntito trovato sul terreno per
catturare le formiche, l’artigiano arcaico è capace di produrre la punta nel
ramo, l’artista è in grado di disegnare con linee e colori quel bastoncino, di
riprodurlo in forma diversa.
La conoscenza quindi nasce dall’esperienza e, in prima istanza,
dall’imitazione più semplice. Successivamente l’esperienza diventa più
complessa, grazie all’emergere della mente astraente, che elabora i dati
percepiti, li mescola, li deduce, li induce, ne intuisce altri compatibili, anche se
diversi, formando modelli di ciò che non è immediatamente in natura (arco e
freccia, ruota). La mente ormai sa immaginare ed esternare in una
rappresentazione anche i sentimenti, i saperi, i fenomeni sociali. L’artigianato
quindi precede l’arte e da essa è indipendente; l’arte invece, pur essendo
distinta dall’artigianato, lo presuppone, giacché non può esserci arte senza
attività manipolatoria, essendo l’arte un artigianato con astrazione superiore.
Lo scultore lavora, per un certo aspetto, come l’artigiano arcaico che smussa
le pietre per ottenere le punte, ma, per un altro, è diverso, perché oggettiva
un modello mentale con un materiale diverso da quello reale. Dialetticamente,
l’arte, pur derivando dall’artigianato, lo subordina a sé, lo sussume (132 ).
Utilizzando il concetto di modo di produzione in maniera approssimativa, si
potrebbe dire che, così come l’artigianato è un modo di produzione, lo è
anche la sua forma più raffinata, l’arte, che produce beni finalizzati ad un
consumo superfluo: detto in modo logicamente contraddittorio, è un modo di
produzione improduttivo. Anche i prodotti artigianal-industriali spesso non
sono necessari per la sopravvivenza, ma sempre sono utili. Il modo di
produzione artistico ha seguito tutte le modalità del modo di produzione
artigianale e dei suoi rapporti di produzione, come si configurano nella
bottega dell’artista, e come l’artigianato ha attraversato tutti i modi di
produzione, fino al modo di produzione industriale, sempre subordinato ad
essi.
131 - Probabilmente questo è uno dei motivi per cui i bambini imparano le lingue alla perfezione, non
interponendo un filtro tra i suoni e le strutture sintattiche da imparare e la loro riproduzione imitativa.
132 - Condivido la distinzione heideggeriana di J. Lacoste in La philosophie de l’art, PUF, Paris 1981, p.
102, tra artigianato ed arte, tra fabbricazione e creazione, fra strumento e presentazione di un mondo,
tra colui che fabbrica le scarpe del contadino e Van Gogh che, dipingendole, rivela in profondità
l’essenza del mondo contadino. In una considerazione più generale, va tenuto presente che lo sviluppo
cerebrale, da cui nacque la possibilità di un artigianato più raffinato e, successivamente, dell’arte, si
verificò con il cambiamento e miglioramento della dieta umana, come hanno studiato W. R. Leonard e
M. L. Roberston in Comparative Primate Energetics and Hominid Evolution, in “American Journal of
Phisical Anthropology”, 102: 265-281, 1997. Sul rapporto tra risorse caloriche, spesa energetica
encefalica e longevità si veda di E. Bruner e G. Manzi Adattamento biologico, comportamento sociale e
longevità in Homo Sapiens, in L’età matura e la longevità nella donna dalla preistoria ai nostri giorni, Atti
del Convegno, La Sapienza, Roma, 5 marzo 2002.
68
L’artigianato è una attività per la sopravvivenza, un lavoro utile; l’arte è
un lavoro-gioco, un lavoro libero, che nasce quando la mente è in grado di
astrarre pienamente e quando il gruppo di appartenenza dell’artista produce
un surplus necessario per il mantenimento dei lavoratori improduttivi.
d) Sappiamo ormai che esiste una profonda differenza percettivointellettiva che separa, pur all’interno del genere Homo, la mente dell’artigiano
primitivo da quella dell’uomo che dipinse nelle grotte. Se per entrambe le
attività è richiesta l’astrazione, è necessario che se ne diano due forme molto
diverse tra loro. A questo proposito mi sembra opportuna la distinzione
operata da Piaget tra intelligenza pratica e intelligenza conoscitiva, tra
linguaggio primitivo, in cui parole e cose non sono ancora due realtà diverse,
e linguaggio simbolico che separa le due sfere. Il bambino risolve a livello
pratico-operativo molti problemi che non sa risolvere con operazioni logiche,
essendo il linguaggio una condizione non necessaria per tali funzioni. A tal
proposito Piaget scrive che:
“Invece verso i sette-otto anni vediamo che si costituiscono sistemi di operazioni
logiche non basati ancora sulle proposizioni come tali, ma sugli oggetti stessi, le loro classi e
relazioni, e organizzati solo in occasione di manipolazioni reali o immaginarie di questi
133
oggetti” ( ).
Abbiamo quindi due forme di astrazione e di abilità. Maynard Smith
pensa che ancora 100.000 anni fa i moduli mentali (intelligenza sociale,
tecnologica, naturale) fossero separati, e che soltanto 50.000 mila anni fa,
con un grande balzo, entrassero in comunicazione tra di loro, rendendo
possibile la nascita del linguaggio sviluppato grammaticalmente e l’arte (134 ).
Ho l’impressione che la comunicazione fra i tre livelli di intelligenza
fosse già attiva precedentemente, se produrre strumenti di lavoro comporta la
comunicazione con un gruppo e la conoscenza della natura, come del resto
riconosce lo stesso autore, quando parla di grammatica primitiva. Bisogna
invece pensare ad un’astrazione minore, all’artigiano che possiede l’immagine
che deve riprodurre nella pietra o nel legno, ma non sa ancora disegnarla,
133 - J. Piaget, Six études de psychologie, Denoel, Paris 1964; trad. it., Lo sviluppo mentale del
bambino e altri studi di psicologia, Einaudi, Torino 1996, p. 96. Nella pagina successiva scrive ancora:
“Le operazioni + e -, ecc. sono coordinamenti fra azioni prima ancora di poter essere trasposte in una
forma verbale; non è quindi il linguaggio la causa della loro formazione…”. Bruner avanza una ipotesi
simile sull’origine non linguistica delle regole del linguaggio: la predicazione soggetto-predicato, ad
esempio, si manifesterebbe nell’attività motoria del bambino verso i dodici mesi, quando acquisisce la
capacità di tener fermo un oggetto in una mano e di operare con l’altra su di esso (J. S. Bruner,
Processes of cognitive growth: infancy, Clark University Press, Worcester, Mass 1968; trad. it., Prime
fasi dello sviluppo cognitivo, Armando Armando, Roma 1971, pp. 97-101). Anche Maynard Smith e
Szathmáry parlano di grammatica delle azioni (J. Maynard Smith e E. Szathmáry, The origins of life:
from the birth of life to the origin of language, Oxford Univ. Press, Oxford 1999; trad. it., Le origini della
vita: dalle molecole organiche alla nascita del linguaggio, Einaudi, Torino 2001, p. 263). Tattersall
riferisce di un esperimento fatto da studiosi giapponesi su due gruppi di studenti: al primo gruppo fu
insegnato a parole come produrre degli strumenti litici; al secondo fu insegnata la stessa cosa con le
sole azioni, senza parole. I risultati furono identici. L’autore ne trae la conseguenza condivisibile che si
può essere abili artigiani senza possedere capacità simboliche evolute (I. Tattersall, The monkey in the
mirror: essays on science and what makes us human, Harcourt, New York , S. Diego, London 2002;
trad. it., La scimmia allo specchio: saggi sulla scienza di ciò che ci rende umani, Meltemi, Roma 2003).
Anche M. Donald è convinto che l’uomo moderno possieda due tipi di capacità di pensiero, quelle che
non dipendono dal linguaggio e quelle che vi dipendono. Deve infatti esistere un livello intermedio fra le
strutture cognitive dell’uomo attuale e quelle delle scimmie antropomorfe, se Homo erectus possedeva
tecniche produttive che comportavano meccanismi mentali di invenzione, coordinazione, trasmissione e
memorizzazione complessi, superiori a quelli delle scimmie, ma inferiori a quelli di Homo sapiens.
Capacità che ritroviamo in bambini, cerebrolesi, sordomuti e ignoranti (Origins of the modern mind:
three stages in the evolution of culture and cognition, Harvard Univ. Press, Cambridge, Mass. 1991;
trad. it., L’evoluzione della mente, Garzanti, Milano 1996, p. 57 e segg., e pp. 195-199).
134 - J. Maynard Smith, op. cit., p. 261.
69
separarla, farne un progetto scritto, un modello comunicabile, vale a dire una
terza cosa intermedia tra la sua immagine e la punta scolpita.
Deve esserci stata una fase della storia umana in cui l’uomo ha iniziato
a manifestare una capacità di astrazione prima ancora che esistesse un
linguaggio evoluto, non riducibile a semplici suoni e gesti. Siamo nell’epoca
del primo artigianato umano, la cui origine si perde nella notte dei tempi
dell’umanità. Tra questa forma di astrazione e quella dei sapiens esiste
probabilmente una via intermedia, una terza via dell’astrazione.
In assenza di una risposta scientifica verificabile, avanzo una ipotesi
“filosofica”, rielaborando in libertà una teoria alquanto confusa, anche se
fondamentale, di Vico, che, in alcuni casi, ha anticipato filosofi e linguisti
moderni (135 ).
La lingua sembra presentare una doppia configurazione, quella
poetico-eroica e quella razionale. La prima caratterizza un parlare più arcaico
e si presenta con due peculiarità linguistiche: strutture elementari e “universali
fantastici”. Le prime lingue dovettero essere molto semplici, basate su parole
monosillabiche, su pronomi, su nomi, su verbi all’imperativo per dare i
comandi e non dovettero avere termini astratti come giustizia, moralità,
economia, sostituiti da termini di cose o persone o divinità che potessero
rappresentare direttamente con i loro corpi i concetti in questione. La lingua
non può non parlare per universali, ma gli universali fantastici si esprimono in
modo percettivo, con immagini. La mitologia non è altro che l’espressione di
concetti sotto forma di personaggi concreti. Le stesse grandi istituzioni sociali,
la costituzione, le leggi, il diritto vengono indicate con il nome dei re e dei
legislatori che le hanno emanate. Il primo linguaggio dovette pertanto essere
una sorta di elenco mitologico in cui tutto veniva designato attraverso figure
corporee, come nelle favole. Ercole è un universale fantastico che sta per la
forza umana e, forse, per le fatiche sopportate dagli uomini per liberare la
terra dalle foreste e dare inizio all’agricoltura. Dietro ogni figura mitologica si
cela sempre un grande evento che ha interessato l’umanità. La mitologia e le
religioni rappresentano la storia delle grandi categorie esistenziali dell’uomo
attraverso il comportamento di eroi e di divinità, o attraverso comandamenti,
precetti, raccomandazioni comportamentali, comunque sempre attraverso
casi specifici. La Bibbia ne è l’esempio perfetto. Rambo è solo
apparentemente un universale fantastico moderno, dietro cui si cela la forza
bruta scatenata contro qualche ingiustizia occasionalmente subita. In realtà è
un particolare fantastico, come molti personaggi delle favole, che non
rappresentano una categoria esistenziale della vita umana.
I bambini, che poco e male universalizzano, pensano per lo più
attraverso narrazioni concrete, esempi significativi. Anche gli adulti meno
acculturati evitano, appena possono, il colloquio mantenuto sul filo
dell’astrazione simbolica, preferendo le storie personali. La politica non è
esente dall’uso di universali fantastici per parlare alla gente comune: alcuni
personaggi politici fanno di tutto per diventare tali, cercando di incarnare
qualche aspetto della modernità.
In sintesi, abbiamo almeno tre gradi di astrazione umana: 1) operativa,
senza linguaggio, quando l’uomo primitivo, con la nuova prensilità e con la
vista estetico-spaziale, divenne presto artigiano, riuscendo a riprodurre e a
perfezionare alcuni oggetti che si trovano casualmente in natura; 2)
fantastica, con linguaggio figurativo, quando Homo sapiens cominciò ad
utilizzare termini universali ma non razionali, realizzando la grande rivoluzione
della duplicazione, con cui ebbe origine il linguaggio orale vero e proprio, la
narrazione, e il linguaggio scritto, ovvero l’arte, la narrazione per immagini
135 - GB. Vico, Principj di scienza nuova (1744, terza edizione), Ricciardi, Napoli 1953, libro secondo,
Della sapienza poetica.
70
(136 ); 3) simbolica, allorquando Homo sapiens trasformò gli universali
fantastici in linguaggio composto di termini universali di tipo razionale.
L’uomo moderno passa inconsapevolmente da un piano all’altro,
utilizzando tutte le forme dell’astrazione, tutti i linguaggi creati dall’umanità
nella sua lunga storia.
e) Gli esseri umani non possiedono strutture logiche innate, ma solo
strutture cerebrali, neuroni e sinapsi in un reticolo vastissimo. Via via che il
cervello scopre i meccanismi naturali, adegua i suoi comportamenti alle
regole oggettive. Il calcolo proposizionale inverso (la negazione), il braccio
che viene ritratto se percosso o minacciato, nell’esempio di Piaget, non vale
solo per il bambino, ma anche per la scimmia, e non presuppone una logica
innata, quanto piuttosto la comprensione di come vadano le cose nel mondo.
La logica (la norma), prima di essere nel pensiero, è nella natura, e l’uomo
deve solo imparare a leggerla nelle cose, anche quando i percorsi mentali per
arrivarvi sono molto complessi. Homo erectus pertanto non possiede strutture
logiche innate superiori a quelle delle scimmie, ma soltanto un cervello più
ampio e articolato, una capacità maggiore di capire le norme che regolano la
realtà (137 ). Supera la scimmia perché è in grado di formare nella mente
136 - Alcuni estetologi, dopo il tramonto di tutte le varianti delle teorie del bello, hanno continuato a
pensare alla possibilità di una estetica, non più in virtù del suo metafisico contenuto, il bello per
l’appunto, ma di una specificità linguistica, di un modo particolare di narrare le cose. Richards e Ogden
individuavano in uno specifico linguaggio emotivo la caratteristica dell’arte (J. A. Richards e C. K.
Ogden in The meaning of meaning: a study of the influence of language upon thought and of the
science of symbolism, Routledge and Kegan Paul Ltd, London 1923; trad. it.. Il significato del significato:
studio dell'influsso del linguaggio sul pensiero e della scienza del simbolismo, il Saggiatore, Milano
1966). Morris sosteneva che l’arte si distingue dalla scienza o dalla religione non per i contenuti, ma per
la funzione dominante che il segno iconico (o segno estetico o immagine) assolve nel significare (C.
Morris Signs, language and behaviour, Prentice-Hall, New York 1946; trad. it., Segni linguaggio e
comportamento, Longanesi, Milano 1949). R. Jakobson (Saggi di linguistica generale, cit.) assegnava
alla funzione emotiva di una parte del linguaggio la specificità dell’arte. Pur da una angolazione diversa,
Cassirer, partendo dal presupposto che l’uomo è animal symbolicum, sosteneva che l’arte consiste in
un linguaggio simbolico diverso da quello scientifico, ma non in contraddizione con esso, intuendo le
forme pure delle cose, le strutture visibili (E. Cassirer in An essay on man: an introduction to a
philosophy of human culture, Doubleday, Garden City, NY 1944; trad. it., Saggio sull’uomo, Longanesi,
Milano 1948).
137 - Maynard Smith, era convinto, pur con qualche titubanza, che innata è una predisposizione neurale
e non un analizzatore già del tutto sviluppato (J. Maynard Smith, The origins of life: from the birth of life
to the origin of language, cit., p. 242). L’equivoco idealistico compare più decisamente in un autore non
sospetto come Lorenz che dà l’impressione di scambiare l’evoluzione filogenetica con l’innatismo
culturale, in cui cadono anche N. Chomsky con la sua grammatica generativa - la mente possiederebbe
la facoltà del linguaggio come dotazione biologica, come se fosse innata - e J. Eibl Eibesfeldt con i suoi
comportamenti universali (K. Lorenz, Die Ruckseite des Spiegels: Versuch einer Naturgeschichte
menschlichen Erkennens, Aufl, Munchen, Zurich 1973; trad. it., L’altra faccia dello specchio: per una
storia naturale della conoscenza, Adelphi, Milano 1974). Lorenz crede che i concetti di causa, sostanza,
spazio, tempo, siano degli a priori evolutivi, non tenendo conto, tra l’altro, del loro sviluppo storico. Le
uniche cose a priori sono le più o meno sviluppate funzioni cerebrali. Ciò che l’evoluzione ci lascia
universalmente in eredità non è un sapere, ma un cervello in grado di cogliere le stesse leggi, gli stessi
moduli comportamentali, in quanto ovvi e necessari in determinate condizioni. Sarebbe logicamente
assurdo, contrario alla natura delle cose, che un cane, per ingraziarsi qualcuno, mostrasse i denti con
aggressività, o che un uomo, per salutare un amico, gli sferrasse un pugno. Le strutture sintattiche non
sono innate, innata è la capacità di capire che la realtà è costituita in modo tale che può essere descritta
solo in quel modo. La mente non trova le regole entro di sé, ma le scopre fuori di sé. Il concetto di
“sotto” viene capito dal bambino nel momento in cui fa passare il trenino sotto il tavolo. Cade in questo
scambio anche la Sullivan quando sostiene che Helen Keller (cieca e sorda dalla prima infanzia)
apprende quello che già sa (riportato da K. Lorenz, L’altra faccia dello specchio: per una storia naturale
della conoscenza, cit., p. 313). Di parere contrario sembra Piaget, scrivendo che “se le coordinazioni
nervose determinano la cornice di possibilità e impossibilità nell’interno della quale si costruiranno le
strutture logiche, tali coordinazioni non contengono a priori, preformate, queste strutture in quanto
logiche, cioè in quanto strumenti di pensiero. È quindi necessaria una vera e propria costruzione per
passare dal sistema nervoso alla logica, e questa non può di conseguenza venir considerata come
innata…Inoltre è ovvio che le leggi fisiche degli oggetti sono conformi alle regole di conservazione (o di
identità), di transitività, di commutatività, ecc., come alle operazioni di addizione (e il loro inverso, la
dissociazione o sottrazione) e di moltiplicazione (e il loro inverso, l’astrazione logica: se A x B = AB
71
l’immagine di una punta insieme al suo modulo di produzione. Possiede un
vero e proprio schema empirico kantiano, che consiste appunto nella
sequenza delle operazioni necessarie per ottenere quel manufatto, dividendo
in operazioni semplici e successive il lavoro indispensabile per quel fine. La
scimmia può utilizzare una punta, ma non sa analizzarla cartesianamente
nelle operazioni elementari, non è artigiana, non sa come costruirla.
In chiusura, vorrei riferire una mia semplice perplessità. Se le funzioni
mentali di tutti gli animali si sono formate nella correlazione evolutiva tra
cervello e ambiente, in grado di risolvere i problemi esistenziali primari,
evitando di sviluppare ulteriori inutili capacità, non è chiaro come e perché la
mente umana sia diventata uno strumento di conoscenza che ha oltrepassato
di molto questi limiti. Per la prima volta nella storia della biologia, la mente è
cresciuta ben al di là del suo necessario uso pratico, adatto alla soluzione dei
problemi che riguardano la sopravvivenza, entrando nella sfera del pensiero
teorico, per spaziare oltre la soglia del bisogno vitale. Al di sopra di un certo
livello evolutivo, con l’astrazione, la mente si è liberata dalle catene che
l’avevano imprigionata nella rete del calcolo utilitario e ha guardato finalmente
il mondo con la freddezza dell’osservatore neutrale, per un gusto conoscitivo
fine a se stesso. La mente è diventata come il computer di quel famoso film,
in cui alla fine il computer si ribella al suo stesso produttore, all’uomo, che, per
averlo programmato in modo molto raffinato, allo scopo di risolvere i problemi
più complessi, finisce per trovarselo di fronte in una imprevedibile autonomia,
avendone perduto il controllo.
allora AB : A = B), cioè, in altre parole, alle strutture logiche più generali” ( J. Piaget, Lo sviluppo
mentale del bambino e altri studi di psicologia, cit., pp. 131 e 132). Contro l’innatismo si è espresso G.
Liotti (La dimensione interpersonale della coscienza, Carocci, Roma 1994). Posizione simile avevano
assunto G. M. Edelman (Brigth Air, Brilliant Fire: on the Matter of Mind, Basic Book, New York, 1992;
trad. it., Sulla materia della mente, Adelphi, Milano 1993) e D. Dennet, che è sferzante sul concetto di Io
unitario (Consciousness Explained, Little, Browns & Co., London 1991; Trad. it., Coscienza, Rizzoli,
Milano 1993).
72
10 - Postilla sulla morale
Non è questa la sede per affrontare il tema della morale umana e del
suo eventuale nesso con alcune forme di solidarietà che si riscontrano nel
regno animale. Tuttavia, brevemente, si può dire che tutto ciò che è servito a
spiegare la nascita della percezione estetica, attraverso cui gli esseri umani
hanno iniziato a distinguere le cose in belle e brutte, spiega anche l’origine del
senso morale, sulla cui base distinguiamo le azioni in buone e cattive.
Ciò che è stato necessario alla specie umana per vincere la battaglia
evolutiva ha assunto l’aspetto della positività morale. Vico diceva:
“Ma gli uomini, per la loro corrotta natura, sono tiranneggiati dall'amor propio, per lo
quale non sieguono principalmente che la propia utilità; onde eglino, volendo tutto l'utile per
se e niuna parte per lo compagno, non posson essi porre in conato le passioni per indirizzarle
a giustizia. Quindi stabiliamo: che l'uomo nello stato bestiale ama solamente la sua salvezza;
presa moglie e fatti figliuoli, ama la sua salvezza con la salvezza delle famiglie; venuto a vita
civile, ama la sua salvezza con la salvezza delle città; distesi gl'imperi sopra più popoli, ama
la sua salvezza con la salvezza delle nazioni; unite le nazioni in guerre, paci, allianze,
commerzi, ama la sua salvezza con la salvezza di tutto il gener umano: l'uomo in tutte queste
circostanze ama principalmente l'utilità propia…per gli quali ordini, non potendo l'uomo
conseguire ciò che vuole, almeno voglia conseguire ciò che dee dell'utilità; ch'è quel che
138
dicesi «giusto» ( ).
Il volere per sé e il volere per gli altri sono entrambi indispensabili per la
sopravvivenza della specie. Il volere per la totalità si presenta con un
carattere storico, essendo storica ogni totalità. Questa può essere volta per
volta la famiglia, il clan, il villaggio, lo Stato nazionale, l’intera umanità – la
specie - o anche l’intero pianeta. Il problema ecologico è diventato infatti
planetario solo di recente, coinvolgendo tutti i popoli della terra e rendendo
credibile l’etica della natura di Jonas (139 ).
Come per l’estetica, ad alcuni giudizi morali condivisi da tutti – il ripudio
del maltrattamento dei bambini, del tradimento, della menzogna, delle stragi –
si accompagnano giudizi regionali, formatisi in condizioni particolari, in gruppi
con necessità locali, ma anche giudizi individuali, nati nel contesto in cui
ciascuno è vissuto.
L’unica differenza profonda tra la nascita della percezione estetica e
quella morale risiede nella necessità, per la prima, di approntare
prioritariamente, oltre ad un cervello molto più complesso, un occhio, un
modo di vedere diverso rispetto a quello dominante nel regno animale. Per
l’affermazione del senso morale non è stato necessario un organo sensoriale
rinnovato e potenziato, essendo sufficiente un cervello in grado di selezionare
i comportamenti utili alla salvaguardia di una organizzazione sociale
riccamente strutturata, relativamente alla quale i comportamenti egoisticoindividuali non premiano selettivamente il gruppo. In sostanza, l’uomo ha
capito, ad un livello qualitativamente superiore rispetto agli animali sociali, ma
non sempre consapevolmente, che volere per la totalità di quel momento
storico - che può essere il clan o l’intera umanità - è vincente per la specie
rispetto al volere per sé. Ovviamente la realtà è meno lineare del concetto e
l’egoismo individuale in molti casi continua a sovrapporsi a quello della
specie, suscitando delusioni e frustrazioni in coloro che credono nella
necessità del volere per l’insieme, sapendo che il gruppo sociale in cui è
dominante il volere individuale rispetto a quello universale è destinato
comunque al fallimento nei tempi medi o lunghi.
138 - GB. Vico, Principi di scienza nuova (1744), Ricciardi, Milano-Napoli 1953, sez. IV, Del Metodo, p.
485. Tutta l’opera è utilissima per capire l’origine della morale umana.
139 - H. Jonas, Das Prinzip Verantwortung, Insel, Frankfurt am Main 1979, trad. it., Il principio
responsabilità, Einaudi, Torino 1993.
73
L’altruismo animale per i piccoli, per il partner sessuale, per il branco, si
è formato selettivamente, non potendo tra i mammiferi sopravvivere quella
specie che, ad esempio, non curi i piccoli.
La superiorità dell’altruismo umano rispetto a quello delle specie
animali, anche delle più socializzate, non risiede in un diverso tipo di
selezione naturale, che è una per tutti gli esseri viventi, ma nella capacità
degli uomini di creare società molto più complesse di quelle animali. Ad un
altruismo da branco è seguito, nel nuovo contesto, un altruismo da società
(140 ). Le regole degli accoppiamenti umani, ad esempio, contemplano, oltre al
rispetto di norme eugenetiche contro l’incesto, considerazioni politiche,
economiche, militari sulle relazioni tra clan diversi. Ciò che vale per la
riproduzione vale anche per la divisione del cibo o del lavoro, essendo
decaduta la legge del più forte fisicamente.
L’uomo quindi non possiede una morale innata superiore a quella degli
animali, possiede invece un cervello e una società più evoluti, che richiedono
solidarietà diverse e più ampie, in grado di tenere insieme una molteplicità di
fattori e di variabili. Con la società umana nascono esigenze comunitarie
prima inesistenti, che rappresentano la condizione in cui si forma il volere
collettivo. Se infatti esiste una comunità, deve essere esistito e deve esistere
il volere comunitario. Il problema quindi non è come e quando nasca la
morale, ma come e quando nasca la comunità. Questa ovviamente sopporta
un grado di egoismo individuale, di più in quei settori dove è possibile volere
per sé senza danneggiare irreparabilmente la collettività. I gruppi umani che
non hanno accettato le regole dell’insieme sono scomparsi o sono decaduti,
come ha ben dimostrato Diamond (141 ).
L’intelletto umano ha separato in due dottrine indipendenti ciò che vive
in correlazione - il volere per tutti e il volere per sé - come se ogni individuo
non vivesse sempre e comunque entro una struttura comune. La morale – o
volere per tutti – e l’economia – o volere per sé - si presentano infatti come
due corpi di regole opposte. Senza la superiore riunificazione delle due
normative, finisce per prevalere da una parte il mercato, come sede
dell’egoismo, dell’homo homini lupus, e dall’altra quello spazio incerto
occupato dalle buone intenzioni di coloro che vogliono per tutti, come se ci
fossero due umanità contrapposte, o, nel migliore dei casi, come se ognuno di
noi dovesse volere in alcuni casi solo per sé e in altri solo per gli altri, la
mattina in modo economico, la sera in modo morale, sulla base di un io
morale diviso dall’io economico.
140 - Si parla molto in questo periodo di neuroni specchio, che fanno dipendere l’altruismo umano da
strutture cerebrali specifiche e non da un semplice calcolo egoistico, che si adegui via via che si
allargano le nostre relazioni, i nostri vincoli. Va tuttavia riconosciuto che l’altruismo umano è diverso
rispetto a quello animale, se permette solidarietà diverse in quantità e in qualità rispetto alla solidarietà
immediata degli animali. Non credo tuttavia che questo tipo di empatia, come vuole Rifkin (The Age of
Empathy, Penguin, New York 2009; trad. it., La civiltà dell’empatia, Mondadori, Milano 2010), possa
eliminare la solidarietà derivata dal calcolo egoistico delle utilità, se queste ultime hanno bisogno degli
altri per potersi affermare. La mondializzazione dell’economia, del clima, della politica, dell’emigrazione,
dell’energia non può non creare una sorta di egoismo altruistico, una volontà di risolvere i nostri
problemi insieme a quelli degli altri, convergendo ormai gli interessi di tutti. L’altruismo originario –
quello dei neuroni specchio – e l’altruismo derivato dal calcolo non sono facilmente distinguibili,
oscurandosi la loro origine nella intima e sconosciuta intenzione di ciascuno. Un concetto tuttavia deve
essere chiaro, che “in principio” non esisteva né egoismo né altruismo, ma solo processi chimici. Con la
nascita della sensibilità e del pensiero, i processi selettivi hanno fissato nel nostro sistema cerebrale
strutture che presiedono alla volontà egoistica e strutture che presiedono alla volontà altruistica, con
una data di nascita per l’una e per l’altra. Perché si formi il volere è indispensabile una sorta di vita
psicologica, un desiderare, un preferire, un soffrire all’interno di una complessa vita di relazione, ove è
inevitabile lottare o condividere, ovvero amare ed odiare, e quindi scegliere.
141 - J. Diamond, Collapse: how societies choose to fail or succeed, Viking, N.Y. 2005; trad. it.,
Collasso: come le società scelgono di morire o di vivere, Einaudi, Torino 2005.
74
Indice dei nomi
Ackerman D.
Adorno TH. A.
Aldovrandi A.
Anati E.
Anceschi L.
Andreoli V.
Angela P.
Ardrey R.
Aristotele
Arsuaga J. L.
Bachtin M.
Balzac H.
Banfi A.
Bataille G.
Baudrillard J.
Berti E.
Bianchi Bandinelli R.
Blanc A. C.
Boccioni U.
Bodei R.
Bracci N.
Bracco P.
Bradshaw J. L.
Brooks A. S.
Bruner E.
Bruner J. S.
Bruno G.
Buss D. M.
Buzzegoli E.
Cappellano A.
Caroli F.
Cassirer E.
Castelli C.
Cavalcanti G.
Cézanne P.
Changeux J. P.
Chavaillon J.
Chierighin F.
Chomsky N.
Ciappi O.
Ciatti N.
Clark G.
Colletti L.
Coolidge F. L.
Corazza L.
Costa M.
Craig G. J.
Croox J. H.
Da Lentini J.
D’Angelo P.
Danto A.
Darwin C.
D’Averio P.
Degas E.
Della Volpe G.
Delluc B.
75
Delluc G.
Dennet D.
Derrida J.
De Sanctis F.
Dessoir M.
De Waal F.
Diamond J.
Di Lorenzo A.
Diringer D.
Di Stefano E.
Dobzhansky T.
Donald M.
Duchamp M.
Eco U.
Edelman G.M.
Eibl Eibesfeldt J.
Engels F.
Euron P.
Facchini F.
Falk D.
Feyerabend P.
Fiedler K.
Fleming J.
Fo D.
Fontana L.
Formaggio D.
Forman M.
Francalanci E. L.
Freud S.
Gadamer H. G.
Gehlen A.
Genette G.
Gibson K. R.
Givone S.
Gleick J.
Goodall J.
Goodman N.
Grassé P. P.
Grégoire F.
Haftmann W.
Hansen T.
Hegel G. W. F.
Heidegger M.
Hibben J. G.
Honour H.
Hugo V.
Hume D.
Husserl E.
Jakobson R.
Jauss H. R.
Jonas H.
Kandinsky W.
Kant E.
Klimt G.
Lacoste J.
Lalo Ch.
Leakey R.
Léonard A.
76
Leonard W. R.
Leonardo
Lessing G. E.
Lewin R.
Liotti G.
Lorenz K.
Lucrezio
Lukàcs G.
Magro A. M.
Manzi G.
Marx K.
Maynard Smith J.
McBrearty S.
Meyer J.
Modica M.
Montagu A.
Morgan E.
Morris C.
Morris D.
Mukarowsky J.
Neri V.
Noèl G.
Ogden C. K.
Paci E.
Panzera A. M.
Pareyson L.
Parsi M.
Piaget J.
Pollock J.
Poplin F.
Popper K.
Potok Ch.
Praz M.
Propp V. Ja.
Richards J. A.
Rifkin J.
Roberston M. L.
Rosenberg H.
Rosenkranz K.
Roudnitska E.
Salinari C.
Salza A.
Salza F.
Sanguinetti E.
Scaramuzza G.
Schlegel F.
Singh D.
Souriau E.
Stella V.
Szathmàry E.
Taine H. R.
Tassi R.
Tatarkiewcz W.
Tattersall I.
Van Gogh V.
Vattimo G.
Vico GB.
Vigarello G.
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Volpi F.
Warhol A.
Weiner J. S.
Wittgenstein L.
Wolf M.
Wolpert L.
Wynn T.
Zola E.
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