Razzismo

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Razzismo
Razzismo
Pierre-André Taguieff
La limpieza de sangre
Luca e Francesco Cavalli-Sforza
Razzismo e diversità
Valentina Pisanty
Razzismo italiano
Pietro Basso
Razzismo e crisi globale
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La limpieza de sangre
Pierre-André Taguieff, Il razzismo. Pregiudizi, teorie, comportamenti, traduzione di Federica Sossi, Raffello Cortina, Milano
1999 (prima ed. 1997), pp. 17-19; 30-40.
Un fenomeno moderno di origine europea
Si può sostenere l'ipotesi che l'impiego della parola razzismo
sia legittimo soltanto per caratterizzare un fenomeno ideologico
e sociopolitico apparso in Europa e nelle Americhe in epoca
moderna. Ciò significa supporre che il razzismo, nel senso stretto del termine, costituisca un fenomeno occidentale e moderno,
dotato di una certa complessità. È questa la visione modernista
del razzismo che noi distinguiamo dalla visione antropologica, la
quale, invece, non gli riconosce un luogo di nascita storica e, in
un certo senso, attribuisce il razzismo alla natura umana o alla
natura della società. Si tratta della più fondamentale opposizione
per ciò che concerne i diversi approcci al razzismo: se i sostenitori della modernità europeo-occidentale del razzismo possono
divergere sulla datazione e l'identificazione delle sue forme originarie, essi si oppongono comunque in blocco ai partigiani dell'iscrizione del razzismo nelle attitudini e nei comportamenti primordiali dell'uomo. L'antitesi più profonda può essere enunciata
nel seguente modo: coloro che pensano il razzismo come una
derivazione dell'etnocentrismo o di un istinto primordiale (d'autoconservazione o d'autodifesa del gruppo), contro coloro che lo
pensano come un prodotto della modernità, identificata come
capitalista, individualista, egualitaria o scientista. Secondo l'antropologo Louis Dumont, per esempio, l'apparire del razzismo
presuppone la disintegrazione delle società tradizionali, fondate
sul valore della gerarchia, e sul dominio dei valori individualisti/egualitari: il razzismo, che si manifesta attraverso la somatiz2
zazione e, più ampiamente, la biologizzazione delle differenze, è
interpretabile come un riapparire patologico della "tendenza a
gerarchizzare" in uno spazio sociale e culturale in cui gli uomini
sono concepiti come "uguali e identici nella loro essenza".
Sarebbe del tutto ingenuo, e falso, supporre che il razzismo
esista solo dal momento in cui è stato nominato tale - per quanto
concerne la lingua francese, per esempio, è noto che il termine,
nella sua accezione divenuta corrente nel corso degli anni Trenta,
data all'inizio degli anni Venti. La comparsa di un termine, che in
più è un termine in "-ismo", nel vocabolario generale, non costituisce un buon indicatore dell'emergere di un sistema di rappresentazioni e di credenze, come "il razzismo", la cui particolarità
è di rinviare a molteplici contesti storici, all'interno dei quali
designa degli atti, delle pratiche sociali, delle forme istituzionali
(dal moderno schiavismo al colonialismo, dai sistemi di sfruttamento o di segregazione alle imprese di sterminio sistematico).
Nei discorsi, l'esplicito gemellaggio della "dottrina delle
razze" o della "mistica delle razze" con una visione manifestamente ostile nei confronti di certe categorie razziali o razzializzate, preesisteva alla formazione del termine "razzismo" sin dal
secondo terzo del XIX secolo. Il fenomeno razzismo ha preceduto il sorgere del termine che vi si riferisce esplicitamente.
Quello che noi chiamiamo "razzismo" emerge, dunque, in vari
modi, nella modernità, a partire dal XV e dal XVI secolo, e tali
modi vanno distinti fra loro. Tuttavia, il fatto che si consideri la
molteplicità delle fonti o delle origini di questo fenomeno, non
significa avanzare l'ipotesi secondo cui esse si sarebbero fuse tra
di loro per un processo cumulativo. Queste diverse origini del
fenomeno "razzismo" hanno dato luogo a tradizioni che sono
rimaste molto indipendenti le une dalle altre, prima della formazione dei sincretismi "razziologici" della seconda metà del XIX
secolo, amalgami più o meno riusciti di diverse eredità politicointellettuali. Ma il pensiero razzista come fenomeno occidentale
moderno presenta comunque un'invariante: la messa in questione
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dell'unità del genere umano, la tendenza a concepire le varietà
della specie umana, le "razze" in senso tassonomico, come delle
"specie umane" distinte, cioè come delle "specie" differenti.
L'invenzione iberica del “sangue puro” può essere considerata come il primo tipo di protorazzismo occidentale. Essa appare
alla svolta tra il XV e il XVI secolo nella penisola iberica
(Spagna e Portogallo), in breve, nel Secolo d'oro spagnolo, in cui
l'impresa generale di un'ortodossia religiosa orientata, nel suo
universalismo, alla conversione dei non-credenti, non ha affatto
impedito l'istituirsi di "statuti di purezza del sangue" (estatutos de
limpieza de sangre) volti a impedire innanzitutto l'accesso degli
ebrei convertiti al cristianesimo, dei conversos, alle cariche, privilegi e onori pubblici.
Questi "statuti" di esclusione erano rivolti, in teoria, tanto contro i discendenti degli ebrei quanto contro quelli dei mori, ma
sono stati rigidamente applicati unicamente contro i giudeo-cristiani. Questi "statuti" hanno permesso di mantenere un sistema
di discriminazione e di segregazione, che escludeva i discendenti, anche lontani, degli ebrei convertiti, dal "sangue impuro",
dalla maggior parte delle cariche pubbliche, dai collegi universitari, dalle confraternite, dai capitoli, ecc. La rappresentazione del
"nuovo cristiano" o converso è razzializzata, nel senso che essa
giunge al punto di far rientrare in questa categoria qualsiasi individuo che abbia un antenato ebreo (o moro). Il criterio della
"purezza del sangue" diventa più importante di quello della
purezza della fede. Viene così a costituirsi un mito del "sangue
puro", indipendentemente dal campo religioso in cui il concetto
di "purezza" era stato elaborato. L'origine impura viene ritenuta
ereditaria.
Si tratta dunque di un protorazzismo in cui il mito del "sangue
puro" costituisce il nucleo ideologico, e che funziona al servizio
degli interessi della casta dirigente, che mira a preservare i suoi
privilegi in una società cattolico-monarchica. Il fatto importante
è che, in tal modo, a partire dalla seconda metà del XV secolo (il
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primo "statuto" viene adottato nel 1449), si sia fondata una legislazione discriminatoria non più sulla purezza della fede ma sulla
"purezza del sangue". Tali "statuti" hanno eretto una barriera razziale ante litteram (prima della costituzione del concetto classificatorio di “razza”): il “sangue”, lungi dall'essere una metafora
ornamentale, aveva a che fare con dei caratteri ereditari; l'impurezza o la purezza del "sangue" era pensata come una qualità
gerarchicamente trasmissibile, tanto per via maschile che per via
femminile. E la conversione religiosa non poteva cambiare nulla.
Si può dunque formulare l'ipotesi che si tratti qui della prima attestazione storica di un "antisemitismo" razziale, politicamente
funzionale, o di un "prerazzismo" antiebraico distinto dall'antigiudaismo cristiano tradizionale, ereditato dai Padri della Chiesa.
Tale ipotesi permette di mettere in dubbio la tesi fondamentale
della teoria modernista ristretta del razzismo: né la definizione
tassonomica della nozione di "razza umana", né le classificazioni gerarchiche delle "razze" appaiono più come i presupposti epistemologici del razzismo, inteso contemporaneamente come dottrina e come pratica sociopolitica.
I due principali tratti del protorazzismo iberico sono i seguenti: innanzitutto, una visione fondamentalmente negativa, ossia
ripulsiva, degli ebrei (demonizzati, criminalizzati o bestializzati);
in seguito, e soprattutto, la tesi secondo cui i difetti o i vizi attribuiti agli ebrei sono permanenti, consustanziali alla loro natura
pensata come invariabile, trasmessi cioè ereditariamente come
una vergognosa e incancellabile macchia. I discendenti degli
ebrei sono dei maculados (macchiati, impuri), perché il loro sangue contiene un'impurezza (mancha) o una "macchia" (macula)
indelebile; essi sono intrinsecamente "impuri" (impuros). E'
quanto le inchieste genealogiche, cosiddette di “limpieza”, che
assumeranno un'importanza sempre maggiore nel corso del XVI
e del XVII secolo, dovevano stabilire. Alla fine del XVI secolo,
a un candidato che chiede una dignità si richiede abitualmente
una limpieza de sangre de tiempo immemorial (una purezza di
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sangue da tempo immemore), e una minima diceria contraria
basta a colpirlo come indegno. Basta solo il sospetto di impurezza per infangare l'intera stirpe, per farle perdere l'onore, in virtù
di una "fatale correlazione" tra la "purezza del sangue" e l'onore,
il quale è a sua volta fondato sulla fama (reputazione). Si dà così
via libera alla calunnia e alle false accuse.
Delineando una dottrina della predestinazione biologica, Juan
Escobar Del Corro, nella sua difesa degli statuti di "purezza del
sangue" apparsa nel 1637, afferma che il feto eredita alcune qualità morali dai genitori nel momento del concepimento, e che, di
conseguenza, il fatto che un unico membro della famiglia commetta un peccato significa che nelle vene dell'intera famiglia
scorre sangue impuro. Quanto alla scelta delle nutrici per allattare i figli dei re e dei principi, precisa Francisco De Torrejoncillo
nel 1691, essa deve essere accorta e dirigersi verso persone che
non siano "persone infette" (personas infectas), bisogna dunque
assicurarsi attraverso delle minuziose inchieste genealogiche che
esse siano "cristiane di antica data" e non delle nuove convertite
dal "sangue infetto", che non potranno che dare un "vile latte
ebreo" generando, così, "inclinazioni perverse". La trasmissione
della "macchia" avviene dunque anche attraverso il latte delle
nutrici.
I pregiudizi e gli stereotipi antiebraici, fusi ora nel quadro di
una dottrina prescientifica della trasmissione ereditaria in base
all'opposizione tra il puro e l'impuro, sono stati, dunque, "razzializzati" senza fare riferimento ai fenotipi, all'apparenza fisica tipica degli ebrei rispetto a quella dei "vecchi cristiani". Il tema dell'ebreo invisibile e mascherato (nuovo convertito) sorge, così, proprio nello stesso tempo in cui si attua un bricolage intellettuale
sulla questione della trasmissione dei vizi e delle virtù nella stirpe. La funzione sociale di questa dottrina protorazzista è quella di
legittimare la marginalizzazione di una parte della popolazione
non in base (e con il pretesto) del colore della pelle, affatto visibile, ma a causa di una natura malvagia, invisibile, nascosta, e, quin6
di, da smascherare. Di qui, il particolare stile dell'antisemitismo
attivo, miscuglio di un sospetto permanente e di una costante vigilanza, in netto contrasto con quello delle dottrine protorazziste
dello schiavismo moderno: la pratica del "pregiudizio del colore"
non implica, infatti, una continua indagine. Bisognerà attendere la
comparsa di una popolazione di meticci bianchi/neri nelle Antille
e nelle due Americhe, per ritrovare un equivalente dell'ossessione
dell'"impurezza" negli atteggiamenti mixofobi dei razzisti bianchi, convinti che "un po' di sangue nero" sia sufficiente a "macchiare" irrimediabilmente l'intera stirpe.
Tra la metà del XV secolo e l'inizio del XVIII, in una parte
dell'Europa (Spagna, Portogallo) viene dunque a costituirsi una
visione razzista di tipo manicheo ("noi i puri versus loro gli
impuri") affiancata da pratiche di esclusione. Questa prima o
emergente forma di antisemitismo, razziale (più esattamente: di
giudeofobia razzializzata) si è trasformata in un'invalicabile frontiera posta dinanzi alla conversione religiosa. Siamo dunque in
grado di identificare un criterio pratico del razzismo, anche nei
suoi effetti: esso istituisce le categorie di inconvertibili e di inassimilabili, condanna, senza esclusione, tutti coloro che vengono
considerati come rappresentanti di un gruppo "impuro" a essere
rifiutati dal gruppo "puro", erige una barriera assoluta tra "Noi" e
"gli Altri". Così, il sorgere di un protorazzismo antiebraico segna
i limiti dell'assimilazione sociale e culturale operata, in linea di
principio, dalla conversione, forma storica di assimilazione e di
acculturazione. Il protorazzismo iberico avrebbe creato, dunque,
degli inassimilabili, sulla scia, per così dire, dell'esclusivismo
religioso che aveva contemporaneamente prodotto delle persone
atte ad essere espulse e delle persone atte ad essere convertite.
Il fatto è che la conversione non ha messo fine alle discriminazioni e che, in modo ancor più significativo, il sospetto "razziale" ha comportato lo scacco della conversione come modo di
integrazione sociale e di normalizzazione culturale. Un ebreo
battezzato resta un ebreo, ossia un "figlio di Satana". L'eredità
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satanica che la tradizione cristiana ha imputato agli ebrei che
rifiutavano il nuovo patto viene, così, estesa agli stessi ebrei convertiti. E il trionfo del pensiero essenzialistico: nel protorazzismo
iberico si può riconoscere tanto "l'essenzializzazione somaticobiologica del diverso" quanto "la pratica della marginalizzazione
che assume il segno della permanenza", aspetti, questi, che contraddistinguono ogni forma di razzismo. Inoltre, l'istituzionalizzazione del mito della "purezza del sangue", in quanto metodo di
selezione sociale, ha costituito un terreno favorevole al riciclaggio dei pregiudizi e degli stereotipi antiebraici d'origine medioevale (sobillatori, predatori, traditori, cospiratori). E dal momento
che la natura degli ebrei viene pensata come totalmente e irrimediabilmente corrotta, si suppone che essi siano inconvertibili, e,
quindi, sempre falsamente convertiti. Questa essenziale corruzione li rende imperfettibili, per usare il linguaggio dei Lumi, che
contribuirà a sua volta a ritradurre la dottrina religiosa della predestinazione e della dannazione eterna in una teoria biologizzante della fatalità dei caratteri ereditari.
Non occorre, forse, precisare che la dottrina della "limpieza de
sangre" è in assoluta opposizione con l'universalismo cristiano
espresso nella tesi dell'unità di tutti gli uomini in Cristo, dottrina
enunciata in un famoso passo dell'Epistola ai Galati (III, 27-28) di
san Paolo: "Tutti voi [...] poiché quanti siete stati battezzati in
Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è più Giudeo né Greco; non
c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti
voi siete uno in Cristo Gesù". Il che ci porta a reinterpretare globalmente la comparsa del protorazzismo antiebraico prima dell'epoca
della secolarizzazione, in una società strutturata in base al modello
gerarchico tradizionale e alle norme della cultura cristiana. Proprio
questo contesto, caratterizzato dall'ambivalenza degli atteggiamenti cristiani nei confronti degli ebrei, ha imposto dei limiti alle passioni antiebraiche. Se dunque la secolarizzazione non ha creato l'antisemitismo razziale moderno, contrariamente alla tesi avanzata da
alcuni sostenitori della teoria ristretta, il processo di secolarizzazio8
ne ha tuttavia "liberato" l'immaginario razzista dagli interdetti religiosi che ne limitavano lo sviluppo, e, soprattutto, ha favorito la
comparsa di una stretta alternativa: espulsione o sterminio. La secolarizzazione ha "contribuito a erodere gli interdetti che il cristianesimo, nella sua profonda ambivalenza rispetto all'ebraismo, era riuscito a imporre alla sua ostilità nei confronti degli ebrei".
Comunque sia, la comparsa del protorazzismo antiebraico, che ha
preceduto di quasi due secoli l'apparizione delle prime classificazioni sistematiche delle "razze umane", sembra un elemento in grado
di contestare la principale tesi della teoria modernista ristretta.
La considerazione del razzismo schiavista e antinegrista, così
come quella del razzismo aristocratico alla francese, fornisce
degli argomenti che vanno nella stessa direzione. Li incontriamo
soprattutto negli autori che situano l'inizio del pensiero razzista
nell'epoca della scoperta dell'America, e, più precisamente, in
America Latina, con l'introduzione delle nuove forme di schiavitù nelle Antille, lo sfruttamento degli indiani e dei neri africani, e
la comparsa dei meticci nella società coloniale. Il protorazzismo
occidentale è, in questo caso, il razzismo coloniale e schiavista,
strutturato in base alla relazione tra dominanti e dominati, o in
base al rapporto padroni/schiavi. La tesi della superiorità razziale dei conquistatori si fonda innanzitutto sull'interpretazione delle
particolarità culturali dei dominati, particolarità più o meno
immaginarie: l'idolatria, il cannibalismo e la resistenza al cristianesimo. In secondo luogo, essa si fonda sul fatto che il criterio
della "purezza del sangue" viene esteso ai meticci, poiché tale
criterio permette di giustificare la stigmatizzazione e la discriminazione dei meticci bianchi/neri o dei bianchi/indiani. La formulazione normativa del pregiudizio razziale ci viene fornita da un
passo di un'ordinanza reale contro i negri ribelli, che porta la data
del 24 aprile 1545: "[...] poiché i neri sono persone che necessitano di grandi punizioni e di soggezione". I neri sono pensati
come privi di libero arbitrio, privi della disposizione all'autodeterminazione e all'autonomia.
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Anche il razzismo coloniale del XVI e del XVII secolo ha,
quindi, preceduto il periodo durante il quale si è installato il pensiero tipologico, e i suoi ideatori non hanno avuto bisogno di
ricorrere alla scienza per sacralizzare le differenze gerarchiche
tra le "razze", che facevano riferimento a delle eredità di gruppo
assunte come destini.
La tesi di Eric Williams, divenuta ormai classica, sostiene che
la schiavitù è stata all'origine del razzismo, dal momento che
quest'ultimo è nato dalle esigenze economiche delle piantagioni.
In tale prospettiva, il "pregiudizio del colore" viene spiegato
secondo un modello funzionalista: la sua funzione è di legittimare una modalità di sfruttamento che presuppone un sistema di
dominio reso naturale dal pregiudizio razziale. La condizione
servile si assomma, per così dire, alla segregazione legata al colore. Ma tale modello interpretativo non porta affatto a negare l'esistenza di pregiudizi europei contro gli africani neri prima della
comparsa dello schiavismo nel Nuovo Mondo, pregiudizi antinegristi in seguito rafforzati, legittimati e resi coerenti in un'ideologia dal loro stesso funzionamento nel quadro dell'ipersfruttamento capitalistico della manodopera "di colore". Eric Williams,
prima di Oliver C. Cox (1948), ha formulato la semplice ipotesi
secondo cui lo sfruttamento razziale, nei sistemi schiavistici, è
innanzitutto uno sfruttamento economico, e l'inferiorizzazione
dei neri è una variante della proletarizzazione dei lavoratori. La
sua tesi pone l'accento sulla ricerca di una manodopera poco
costosa e docile, totalmente sottomessa, nel quadro della logica
del capitalismo. Il risultato dell'interazione tra il pregiudizio e la
razionalità economica fu la comparsa di un "ordine sociorazziale", in cui la segmentazione razziale (bianchi/neri) si intrecciava
con la stratificazione socioeconomica (padroni liberi/lavoratori
schiavi). Le relazioni tra padroni e schiavi, all'interno di quest'ordine schiavista razzializzato, verranno regolamentate dal Codice
nero, promulgato dall'amministrazione regia nel 1685 (riguardante soprattutto le Antille e la Guiana) e ripreso e rafforzato, in
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seguito, nel codice del 1724 (riguardante la Luisiana).
Nell'articolo 6 della versione del 1724 il Codice nero introduce
l'esplicita condanna dei matrimoni interrazziali. Nelle colonie, la
paura che la società bianca sia sommersa dal moltiplicarsi dei
meticci, continuerà a intensificarsi nel corso del XVIII secolo,
mentre la rappresentazione del meticcio come "un prodotto
mostruoso della natura" diventerà abituale. L'immaginario razzista, fondato sulla "macchia" ereditaria come incancellabile impurezza e strutturato sull'evidenza della invalicabile barriera del
colore, viene espresso con grande chiarezza in un editto del
Ministro della Marina del re Luigi XV, datato 13 ottobre 1766, in
risposta a una domanda del governatore della Caienna:
"Tutti i negri sono stati portati nelle colonie come schiavi; la
schiavitù ha impresso un'indelebile macchia sulla loro posterità;
e, di conseguenza, i loro discendenti non possono mai appartenere alla classe dei bianchi. Se in futuro essi venissero considerati
bianchi, potrebbero pretendere gli stessi posti e la stessa dignità,
il che sarebbe del tutto contrario alle costituzioni delle colonie".
L'equazione reversibile "schiavo=nero" era diventata una verità
data, certa e legittima.
Nella società schiavista è venuta dunque a costituirsi una barriera di razza o una linea di colore (color line) che stabilisce una
divisione binaria tra due categorie: i bianchi ("puri" da ogni "contaminazione" di "sangue nero"), e tutti gli altri (i neri e tutte le
varietà di meticci bianchi/neri, di "mulatti", a loro volta gerarchizzati in base alle loro più piccole differenze). Moreau de
Saint-Méry dà una testimonianza di come la linea di colore faccia ormai parte del senso comune: "L'opinione [...] vuole, di conseguenza, che una linea prolungata all'infinito separi l'intera
discendenza bianca dall'altra". La fobia della macchia e dell'impurezza si esprime nelle ossessioni genealogiche, motivate dall'indiscernibilità tra i fenotipi dei bianchi "puri" e di certi meticci dalla pelle particolarmente "chiara". Il sospetto di un'ascendenza mista è la fonte delle inchieste genealogiche che, nella secon11
da metà del XVIII secolo, devono provare la "purezza" delle origini europee.
La teoria modernista ampia sembra dunque più conforme alla
realtà storica. All'origine del razzismo moderno non c'è, quindi, il
sapere scientifico moderno, nella sua componente tassonomica e
metrica, sebbene esso abbia fornito al razzismo una copertura
scientifica, e abbia contribuito, nel XIX secolo, a legittimarlo e a
diffonderne gli ideologismi.
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Razzismo e diversità
Luca e Francesco Cavalli-Sforza, Chi siamo. La storia della
diversità umana, Mondadori, Milano 1995 (prima ed. 1983),
p.185.
Diversi, ma in superficie
Siamo pochissimo diversi. Abituati a notare le differenze
tra pelle bianca e pelle nera o tra le varie strutture facciali
siamo portati a credere che debbano esistere grandi differenze
fra europei, africani, asiatici e così via. La realtà è che i geni
responsabili di queste differenze visibili sono quelli cambiati
in risposta al clima. Tutti coloro che oggi vivono ai tropici o
nell'artico devono - nel corso dell'evoluzione - essersi adattati alle condizioni locali; non è tollerabile troppa variazione
individuale per caratteri che controllano la nostra capacità di
sopravvivere nell'ambiente che abitiamo. Dobbiamo anche
tenere a mente un'altra necessità: i geni che rispondono al
clima influenzano caratteri esterni del corpo, perché l'adattamento al clima richiede soprattutto modifiche della superficie
del corpo (che è la nostra interfaccia con il mondo esterno).
Appunto perché esterne, queste differenze razziali catturano
in modo prepotente il nostro occhio, e automaticamente pensiamo che differenze della stessa entità esistano anche per
tutto il resto della costituzione genetica. Ma questo non è
vero: siamo poco diversi per il resto della nostra costituzione
genetica.
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Luca e Francesco Cavalli-Sforza, Ada Piazza Razza o pregiudizio?. L'evoluzione dell'uomo fra natura e storia, Einaudi Scuola,
Milano 1996, pp. 97-99; 100.
Le teorie della razza
L'intolleranza, il disprezzo, l'odio verso gli immigrati, e in
genere verso le minoranze e gli altri gruppi etnici, prendono il
nome di razzismo.
Razzismo è un termine che indica la convinzione non solo che
le razze esistano, ma che una determinata razza (in genere la propria) sia dotata di qualità speciali, per cui è necessario mantenerla pura per quanto possibile, proteggendola dalla commistione
con altre. Al razzismo è legata anche l'idea che esistano razze
superiori e razze inferiori, le prime destinate al comando, le
seconde alla sottomissione.
L'ideologia della razza, codificata alla fine del Settecento ed
esplosa nell'Ottocento, trova le sue radici nel «razzismo popolare», cioè nell'antichissima tendenza dell'uomo a giudicare inferiore a sé chi è diverso da lui. Si tratta di un insieme di pregiudizi e di atteggiamenti irrazionali che inducono a rifiutare coloro
che per aspetto esteriore (ricordiamo l'emarginazione subita per
anni dai portatori di handicap!), per posizione sociale, per cultura, per fede religiosa, per sesso, appaiono diversi.
Uno dei fondatori della teoria della razza viene considerato
J.F. Blumenbach, che nel 1775 pubblicò un libro, intitolato La
naturale diversità del genere umano, in cui, basandosi sulla misura del cranio, distingueva cinque «famiglie»: caucasica, mongolica, malese, etiopica, americana.
Pressapoco negli stessi anni il noto filosofo francese Voltaire
oppose un rifiuto tutto illuministico alla Bibbia, che nella Genesi
proclama la discendenza dell'umanità da Adamo ed Eva (la sua
differenziazione sarebbe quindi frutto della dispersione geografi14
ca). Contro questa teoria, detta monogenismo, Voltaire proclamò
il poligenismo, secondo cui l'origine delle razze è il frutto di più
atti creativi: le differenze razziali sono dunque essenziali e le
distinzioni sulle quali esse si fondano sono realtà oggettive. Altri
studiosi (come gli scienziati Retzius, Broca ecc.) contribuirono,
non sempre volontariamente, a fornire un alibi ai razzisti descrivendo le razze e le diversità fra le stesse.
L'equivoco della razza pura
Un diplomatico francese del secolo scorso, il conte Joseph
Arthur de Gobineau, elaborò una teoria della razza che, sebbene
erronea, riscosse grande successo. Nel suo Saggio sull'ineguaglianza delle razze umane (1853-1855), basandosi sui dati dell'antropologia e della linguistica quali erano venute sviluppandosi verso la metà del secolo, Gobineau classificò le razze in nere,
gialle e bianche a seconda della società che avevano prodotta. Le
razze gialle, benché abili nelle attività economiche, si erano
dimostrate incapaci di superare le altre in una prospettiva più spirituale. Le razze nere, incapaci di costituire società stabili, rivelavano la loro necessità di un controllo esterno. La razza bianca
invece incarnava tutto ciò che Gobineau riteneva nobile: una spiritualità superiore, l'amore per la libertà e un codice personale
fondato sull'onore. Dunque la razza bianca incarnava la « razza
pura », rappresentata in particolare dai tedeschi, a suo parere
discendenti di un popolo mitico, gli ariani1.
Alla ricerca di una causa per la decadenza delle civiltà,
Gobineau credette di individuarla nelle mescolanze tra popoli,
che avrebbero ridotto la vitalità della razza aumentandone la corruzione.
Oggi sappiamo che nessuna razza è pura. Il mantenimento
della purezza è quindi una preoccupazione insensata. Il fatto che
quasi tutti coloro che sono nati in terre scandinave siano biondi o
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che quasi tutti gli arabi siano bruni, non significa affatto che per
altri caratteri sussista una simile «purezza». L'omogeneità significa soltanto che questi caratteri, e forse pochi altri, sono il prodotto di una selezione naturale che abbiamo buone ragioni di ritenere dovuta al clima. Rispetto a tutti gli altri geni, gli individui
biondi sono tanto variabili, tanto «impuri» quanto chi appartiene
a popolazioni non scandinave.
Allo stesso modo la selezione di cani o cavalli o altri animali
per l'omogeneità di caratteri visibili come il colore del pelo e la
forma del corpo, o di caratteristiche come l'eccellenza del fiuto in
cani e maiali, la velocità della corsa in cani e cavalli, o la capacità dei cani da pastore di radunare le pecore, lascia immutata la
grande variabilità individuale per quanto attiene a tutti gli altri
caratteri. L'allevatore che porta all'estremo l'omogeneizzazione
di queste razze attraverso incroci fra parenti stretti, nella speranza di «purificarle», corre al contrario il rischio di perdere la razza
per l'abbassarsi della fecondità e in genere della vitalità.
Il razzismo attraverso i secoli
Il razzismo è antico come l'uomo. Ognuno ritiene che la razza
migliore sia la propria. Alla stessa maniera crediamo (o speriamo) che la nostra squadra di calcio, la nostra compagnia di amici,
la nostra scuola o in genere il nostro gruppo sociale sia il migliore, indipendentemente dal fatto che ciò che più lodiamo nel
nostro gruppo siano fattori biologici (ci sentiamo più belli e più
bravi degli altri) o socioculturali (nel nostro gruppo la vita è più
gradevole e stimolante che altrove).
Abitualmente si compie il clamoroso errore di confondere biologia e cultura.
In un'epoca molto più lontana, i greci giudicavano con
disprezzo qualunque straniero: li chiamavano «barbari», cioè balbettanti, perché non sapevano parlare bene il greco; ma in qua16
lunque gruppo etnico si è sempre manifestato un orgoglio collettivo che ha reso difficili i confronti obiettivi (come razzista
Gobineau era veramente originale, dal momento che attribuiva la
superiorità non al popolo francese cui apparteneva, ma a quello
tedesco).
I romani attribuivano altissimo valore alla concessione del
diritto di cittadinanza: civis romanus sum, poteva affermare con
orgoglio chi lo possedeva.
Nel Medioevo, se la conoscenza dei popoli asiatici dovuta ai
viaggi dei mercanti occidentali in Estremo Oriente (valga un
nome per tutti: Marco Polo) contribuì all'approfondimento del
concetto di diversità, pure non determinò il sorgere negli europei
di una particolare sensazione di superiorità.
Furono i grandi viaggi di esplorazione tra la fine del XV secolo e l'inizio del XVI a determinare una visione razzista. Gli africani portati come schiavi nel nostro continente dai portoghesi,
come gli indios sfruttati nelle Americhe, erano considerati esseri
inferiori: quei «selvaggi» vennero descritti dai viaggiatori e dai
missionari in maniera fantasiosa e di solito negatila, tanto da convincere gli europei del fatto che essi non appartenessero al genere umano e non possedessero l'anima. Bianco e nero si affermarono come concetti contrapposti, associati il primo a bellezza e
bontà, il secondo a bruttezza e cattiveria, con l'ovvia conclusione
della superiorità del bianco sul nero.
Per ben tre secoli (dal Seicento all'Ottocento), i bianchi praticarono senza rimorsi la tratta degli schiavi neri verso l'America.
Nel 1865 l'abolizione della schiavitù negli Stati Uniti trovò molti
oppositori che celavano i propri interessi economici (erano infatti gli schiavi a lavorare le piantagioni) dietro il principio della
naturale inferiorità dei neri, che veniva provata dai razzisti con
argomenti quali la differenza di odore e di capigliatura (ignorando che i capelli crespi aiutano a trattenere il sudore e a evitare i
colpi di sole), nonché attribuendo ai neri una mascolinità particolarmente aggressiva.
17
Le condizioni di ignoranza e di sottosviluppo in cui all'epoca
vivevano i neri americani, cui era vietato l'accesso alle scuole dei
bianchi, venivano addotte a conferma della loro inferiorità, trasformando una questione strettamente socioculturale in un fatto
biologico.
Note
1.Il
termine ariani origina dalla parola sanscrita aryas, "nobile"; abitualmente
è usato per designare gli indo-ariani. I razzisti tedeschi lo usarono per indicare gli europei di «razza pura», vale a dire tedesca, contrapponendoli, ad esempio, agli ebrei.
18
Razzismo italiano
Valentina Pisanty, La Difesa della Razza. Antologia 1938-1943,
Prefazione di Umberto Eco, Bompiani, Milano 2006, pp. 40-43;
56-57; 88-90; 176.
Il Manifesto dei razzisti italiani, Difesa della razza I, 1: 1
(5 agosto 1938)
Manifesto della razza
Un gruppo di studiosi fascisti docenti nelle Università italiane
sotto l'egida del Ministero della Cultura Popolare ha fissato nei
seguenti termini quella che è la posizione del Fascismo nei confronti dei problemi della razza:
1. Le razze umane esistono. La esistenza delle razze umane non
è già una astrazione del nostro spirito, ma corrisponde a una
realtà fenomenica, materiale, percepibile con i nostri sensi.
Questa realtà è rappresentata da masse, quasi sempre imponenti di milioni di uomini simili per caratteri fisici e psicologici che furono ereditati e che continuano ad ereditarsi. Dire
che esistono le razze umane non vuol dire a priori che esistono razze umane superiori o inferiori, ma soltanto che esistono
razze umane differenti.
2. Esistono grandi razze e piccole razze. Non bisogna soltanto
ammettere che esistano i gruppi sistematici maggiori, che
comunemente sono chiamati razze e che sono individualizzati
solo da alcuni caratteri, ma bisogna anche ammettere che esistano gruppi sistematici minori (come per es. i nordici, i mediterranei, ecc.) individualizzati da un maggior numero di caratteri
comuni. Questi gruppi costituiscono dal punto di vista biologico le vere razze, la esistenza delle quali è una verità evidente.
19
3. Il concetto di razza è un concetto puramente biologico. Esso
quindi è basato su altre considerazioni che non i concetti di
popolo e di nazione, fondati essenzialmente su considerazioni
storiche, linguistiche, religiose. Però alla base delle differenze
di popolo e di nazione stanno delle differenze di razza. Se gli
Italiani sono differenti dai Francesi, dai Tedeschi, dai Turchi,
dai Greci, ecc., non è solo perché essi hanno una lingua diversa e una storia diversa, ma perché la costituzione razziale di
questi popoli è diversa. Sono state proporzioni diverse di razze
differenti, che da tempo molto antico costituiscono i diversi
popoli, sia che una razza abbia il dominio assoluto sulle altre,
sia che tutte risultino fuse armonicamente, sia, infine, che persistano ancora inassimilate una alle altre le diverse razze.
4. La popolazione dell’Italia attualeè nella maggioranzadi origine arianae la sua civiltà è ariana. Questa popolazione a civiltà ariana abita da diversi millenni la nostra penisola; ben poco
è rimasto della civiltà delle genti preariane. L'origine degli
Italiani attuali parte essenzialmente da elementi di quelle stesse razze che costituiscono e costituirono il tessuto perennemente vivo dell'Europa.
5. È una leggenda l’apporto di masse ingenti di uomini in tempi
storici. Dopo l'invasione dei Longobardi non ci sono stati in
Italia altri notevoli movimenti di popoli capaci di influenzare
la fisionomia razziale della nazione. Da ciò deriva che, mentre per altre nazioni europee la composizione razziale è variata notevolmente in tempi anche moderni, per l'Italia, nelle sue
grandi linee, la composizione razziale di oggi è la stessa di
quella che era mille anni fa: i quarantaquattro milioni d'Italiani
di oggi rimontano quindi nella assoluta maggioranza a famiglie che abitano l'Italia da almeno un millennio.
6. Esiste ormai una pura “razza italiana”. Questo enunciato non
è basato sulla confusione del concetto biologico di razza con
il concetto storico-linguistico di popolo e di nazione ma sulla
purissima parentela di sangue che unisce gli Italiani di oggi
20
alle generazioni che da millenni popolano l'Italia. Questa antica purezza di sangue è il più grande titolo di nobiltà della
Nazione italiana.
7. È tempo che gli italiani si proclamino rancamente razzisti.
Tutta l'opera che finora ha tatto il Regime in Italia è in fondo del
razzismo. Frequentissimo è stato sempre nei discorsi del Capo
il richiamo ai concetti di razza. La questione dei razzismo in
Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose. La concezione del
razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l'indirizzo ariano-nordico. Questo non vuole dire però introdurre in
Italia le teorie del razzismo tedesco come sono o affermare che
gli Italiani e gli Scandinavi sono la stessa cosa. Ma vuole soltanto additare agli Italiani un modello fisico e soprattutto psicologico di razza umana che per i suoi caratteri puramente europei si stacca completamente da tutte le razze extra-europee, questo vuol dire elevare l'italiano ad un ideale di superiore coscienza di se stesso e di maggiore responsabilità.
8. È necessario fare una netta distinzione fra i mediterranei
d’Europa (occidentali) da una parte e gli orientali e gli africani dall’altra. Sono perciò da considerarsi pericolose le teorie che sostengono l'origine africana di alcuni popoli europei e
comprendono in una comune razza mediterranea anche le
popolazioni semitiche e camitiche stabilendo relazioni e simpatie ideologiche assolutamente inammissibili
9. Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che
nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra
Patria nulla in generale è rimasto. Anche l'occupazione araba
della Sicilia nulla ha lasciato all'infuori del ricordo di qualche
nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l'unica popolazione
che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da
elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli
elementi che hanno dato origine agli Italiani.
21
10.I caratteri fisicie psicologicipuramente europei degli italiani
non devono essere alterati in nessun modo L'unione è ammissibile solo nell'ambito delle razze europee, nel quale caso non
si deve parlare di vero e proprio ibridismo, dato che queste
razze appartengono ad un ceppo comune e differiscono solo
per alcuni caratteri, mentre sono uguali per moltissimi altri. Il
carattere puramente europeo degli Italiani viene alterato dall'incrocio con qualsiasi razza extra-europea e portatrice di una
civiltà diversa dalla millenaria civiltà degli ariani.
I dieci firmatari includevano alcuni personaggi più o meno
noti della cultura italiana dell'epoca. Tra questi, il più autorevole
era probabilmente Nicola Pende (1880-1970), senatore del
Regno e direttore dell'istituto di Patologia Medica dell'Università
di Roma, che fin dagli anni Venti si era pronunciato in materia di
«biotipologia umana», proponendo misure di politica sanitaria e
di «bonifica della razza», ed esaltando le qualità supreme delle
«stirpi mediterranee italiche».
Gli altri firmatari eminenti erano: Sabato Visco (1888-1971),
ordinario di Fisiologia, preside di Scienze all'Università di Roma
e direttore del laboratorio biologico del CNR; Franco Savorgnan
(1879-1963), ordinario di Demografia a Roma e presidente
dell'ISTAT; Arturo Donaggio (1868-1942), direttore della clinica
neuropsichiatrica di Bologna e presidente della Società italiana di
Psichiatria; Edoardo Zavattari (1883-1972), direttore dell'Istituto
di Zoologia a Roma, studioso di malattie tropicali che aveva collaborato attivamente alla gestione sanitaria delle colonie; Lidio
Cipriani (1894-1962), professore di Antropologia a Firenze, nonché autore di svariati libri di successo in cui, sulla scorta delle
conoscenze accumulate nel corso dei suoi numerosi viaggi di studio in Africa, andava da tempo asserendo la tesi dell'inferiorità
mentale dei negri. I restanti firmatari erano quattro giovani assistenti universitari: Guido Landra, Lino Businco (assistente di
Patologia all'Università di Roma), Leone Pranzi (assistente nella
22
clinica pediatrica dell'Università di Milano), e Marcello Ricci
(assistente di Zoologia a Roma).
***
Julius Evola, “Razza, eredità, personalità”, Difesa della razza
V, 11: 14-16 (5 aprile 1942)
L'esigenza, di dare agli elementi spirituali dell'essere umano
un giusto rilievo, non dovrebbe mai condurre a far tralasciare
questo punto: che non è possibile parlare sensatamente di razza e
di razzismo dovunque, per l'una o per l'altra via, non si faccia
entrare in linea di conto 'A fattore biologico. Specie negli ultimi
tempi si è constatato, da noi, un vero abuso del termine "razza",
il quale è stato adoperato peregrinamente a designare cose, per le
quali sarebbe del tutto bastato parlar, invece, semplicemente, di
popolo, di nazione, di stirpe, di tradizione storica, di religione
nazionale, e via dicendo: e noi temiamo che questo abuso nasconda, talvolta, perfino un abile tentativo di sabotare il razzismo, o
almeno di "girarlo", col prenderne in prestito la terminologia per
smerciare sotto nuova etichetta, vecchie idee di certo nazionalismo astratto e democratico e di certo storicismo.
***
Giorgio Almirante: “... Che la diritta via era smarrita... Contro
le ‘pecorelle’ dello pseudo-razzismo antibiologico”, Difesa della
razza, V, 13: 9-11 (5 maggio 1942)
[...] Ancora una tappa. Eccoci tra quelli che chiameremo gli
spiritualisti assoluti. Costoro fanno le viste di non disdegnare del
tutto le dottrine biologiche; ma, dopo averle fuggevolmente
adocchiate, le gettano in disparte e sì danno agli studi sull'anima
e sullo spirito. Sono i buongustai del razzismo: i piatti comuni li
23
disgustano. Vogliono manicaretti di secondo e di terzo grado. Ma
questo non è tempo di manicaretti. Il razzismo ha da essere cibo
di tutti e per tutti, se veramente vogliamo che in Italia ci sia, e sia
viva in tutti, la coscienza della razza. Il razzismo nostro deve
essere quello del sangue, che scorre nelle mie vene, che io sento
rifluire in me, e posso vedere, analizzare e confrontare col sangue
degli altri. Il razzismo nostro deve essere quello della carne e dei
muscoli; e dello spirito, sì, ma in quanto lo spirito alberga in questi determinati corpi, i quali vivono in questo determinato paese;
non di uno spirito vagolante tra le ombre incerte d'una tradizione
molteplice o di un universalismo fittizio e ingannatore.
Altrimenti, finiremo per fare il gioco dei meticci e degli ebrei;
degli ebrei che, come hanno potuto in troppi casi cambiar nome
e confondersi con noi, così potranno, ancor più facilmente e
senza neppure il bisogno di pratiche dispendiose e laboriose - fingere un mutamento di spirito, e dirsi più Italiani di noi, e simulare di esserlo, e riuscire a passare per tali. Non c'è che un attestato col quale si possa imporre l'alto là al meticciato e all'ebraismo:
l'attestato del sangue. Si convincano dunque gli "spiritualisti
assoluti" che non è questo il momento adatto per approfondire come essi dicono - il nostro razzismo. È inutile approfondire il
solco se vi cresce ancora l'erbaccia. Atteniamoci saldamente e
strettamente alla biologia. Non impauriamoci se qualcuno ci
chiamerà modesti o limitati; specialmente se questo qualcuno si
sarà dimostrato incapace di porre un limite ai propri errori.
***
Lidio Cipriani, “Razzismo coloniale”, Difesa della razza I, 2:
20 (20 agosto 1938)
[...] Negli animali domestici, tutti sanno, la riproduzione con
una razza inferiore dà sempre un prodotto scadente. Nell'uomo
non può accadere diversamente. Solo mescolandosi due razze
24
appartenenti allo stesso ceppo è da attendersi un prodotto talora
migliore di ambedue i progenitori. Ne fornisce un buon indizio
l'Italia dell'antichità. Gli stranieri arrivativi erano di minore cultura rispetto agli Italici, ma di buona razza, i loro discendenti, generati con donne italiane, contribuirono perciò a quella fioritura di
geni di cui va orgoglioso il nostro rinascimento. In altre regioni
del mondo, alcune ascese sembrano pure conseguenze di favorevoli incontri razziali. Notevole fra tutte quella del Giappone, dopo
l'abbandono dei matrimoni di casta. In Africa non si può sperare
nulla di simile. Niente può vantarsi, nemmeno per il secolare
incrocio protrattosi in America coi Negri importativi dall'Africa e
per i bastardi, in quotidiano aumento, delle colonie africane.
Purtroppo, pochi paesi pensano oggi ad una illuminata sorveglianza dei miscugli razziali; un alto compito dell'Antropologia
moderna è, così, proprio quello di dimostrare il significato dell'incrocio per l'ascesa e la decadenza delle nazioni, e di ispirare,
con adatti argomenti, l'orrore per il mescolarsi a casaccio dei tipi
umani.
Se l'incrocio dell'uomo bianco con la donna nera è, per molti
motivi, deprecabile, ancor più lo è il viceversa. In ogni razza la
donna è la depositaria più preziosa dei caratteri del tipo. Se consideriamo l'umanità ordinata secondo l'elevatezza presumibile
delle doti mentali, abbiamo al sommo la razza bianca: e allora
una donna del nostro tipo darà eccellenza di prole solo in un
modo, vale a dire senza incrocio. Per nessun motivo la donna
bianca dovrebbe perciò distruggere il tesoro di possibilità in essa
latente. Il viceversa è un obbrobrio - direi anzi una mostruosità destinata a risolversi in un grave danno per i popoli più civili.
All'antropologo, preoccupato di evitare cotesto danno, è chiara,
quindi, la colpevolezza delle nazioni nelle quali i matrimoni di
donne bianche con Africani non sono riprovati. La responsabilità
di tale sconvenienza risale in primo luogo ai sociologi moderni, i
quali inculcarono nelle masse l'opinione dell'uguaglianza psichica
di tutte le razze umane. Sprovvisti di una adeguata preparazione
25
naturalistica, essi non seppero distinguere quanto nelle razze è eredità culturale da un lato ed eredità biologica dall'altro, onde supposero perfino un'influenzabilità di questa da parte di quella, nonostante la mancanza assoluta di prove. I politicanti si impossessarono di tali concetti e se valsero per promuovere leggi e approvare
usi errati in parecchi paesi. Occorre convincersi, invece, che senza
una oculata difesa dall'incrocio colle razze africane, si rischia di
cambiare in peggio le nostre qualità ereditarie e distruggere la
ragione prima dei privilegi da noi goduti finora. All'opposto, per
tutte le popolazioni cosiddette primitive - intendendo, in base a
vieti concetti darwiniani, genti all'inizio della loro evoluzione psichica - ben poco è ormai da sperare in quanto a vero progresso: un
solco profondo e insuperabile le divide dalla razza bianca e impedisce loro di acquistare le attitudini creative di questa.
Tutto ciò merita una valutazione da parte nostra, adeguata al
problema in se stesso, all'ampiezza dei territori coloniali di cui
godiamo e alle genti che li abitano. Non farlo significa compromettere l'avvenire della Patria e soprattutto esporsi a perdere ben
presto lo slancio nazionale di cui andiamo fieri perché non ha
uguali nel mondo e nella storia.
***
Lidio Cipriani, “Razzismo e possessi coloniali”, Difesa della
razza I, 3: 16 (5 settembre 1938)
Niente, meglio del razzismo, giustifica i possessi coloniali in
Africa. Anche senza dar valore a qualsiasi altro dato, basta a provarlo l'atteggiamento attuale degli Africani verso la loro terra.
Giova ripeterlo: essi non danno affidamento di riuscire mai a incivilirsi nel senso inteso da noi; quindi non capiranno mai quanto c'è
da fare per sfruttare a vantaggio della umanità le immense risorse
che avrebbero a portata di mano. Non è giusto che mentre il mondo
ne abbisogna, quelle risorse giacciano inutilizzate per rispettare
26
una simile situazione; e piuttosto esse conferiscono il diritto alle
nazioni civili di agire in Africa onde metterle in valore per il benessere universale. Certo, questo non autorizza a soprusi o ad atti inumani verso gli originari occupatoli del suolo; all'opposto, è doveroso farli partecipare ai benefici creati sul posto dall'impulso di cui
son portatori Ì coloni. Ma è inutile nutrire illusioni e sprecare
tempo, denaro ed energie, come tanti vorrebbero, in grandi cure
redentrici, perché resulterebbero sproporzionate agli effetti. Gran
parte della legislazione coloniale dovrebbe, anzi, senza indugio
variarsi in rapporto a ciò che l'Africano realmente possiede in fatto
di doti psichiche e di progresso verso la nostra civiltà. [...]
***
Voce “Negro”, Encyclopaedia Britannica, prima edizione
americana, 1798
Negro: Homo pelli nigra, nome dato a una varietà della specie
umana, interamente nera, che si trova nella zona torrida, specialmente in quella parte dell'Africa che si stende tra i tropici. Nella
carnagione dei negri incontriamo diverse sfumature; ma tutti allo
stesso modo si differenziano dagli altri uomini in tutte le fattezze
dei loro volti. Guance tonde, zigomi alti, una fronte leggermente
elevata, naso corto, largo e schiacciato, labbra spesse, orecchie
piccole, bruttezza e irregolarità di forma caratterizzano il loro
aspetto esteriore. Le donne negre hanno lombi molto cadenti, e
glutei molto grossi, che conferiscono loro la forma di una sella. I
vizi più noti sembrano essere il destino di questa razza infelice:
si dice che ozio, tradimento, vendetta, crudeltà, impudenza, furto,
menzogna, turpiloquio, dissolutezza, meschinità e intemperanza
abbiano estinto i principi della legge naturale e abbiano messo a
tacere i rimproveri della coscienza. Sono estranei a qualunque
sentimento di compassione e costituiscono un terribile esempio
della corruzione dell'uomo quando lasciato a se stesso.
27
Pietro Basso, Razzismo e crisi globale
Pietro Basso, a cura di, Razzismo di stato. Stati Uniti, Europa,
Italia, Franco Angeli, Milano 2010, pp. 9-14.
In Italia, in Europa, in Occidente l'ascesa del razzismo è da
anni evidente.
La rappresentazione dominante vede salire questo processo
dal basso verso l'alto, e catalizza gli sguardi sulla diffusione a
livello popolare di sentimenti e comportamenti di ostilità e
disprezzo verso le popolazioni immigrate. Alle istituzioni si
imputa, al più, di non fare abbastanza per contrastare simili sentimenti, o di alimentarli incautamente con singole decisioni o atti
ispirati a logiche di "intolleranza". La tesi centrale di questo libro
è, invece, che il primo propellente1 del revival del razzismo in
corso è il razzismo istituzionale, e i suoi primi protagonisti sono
proprio gli stati, i governi, i parlamenti: con le loro legislazioni
speciali e i loro discorsi pubblici contro gli immigrati, le loro
prassi amministrative arbitrarie, la selezione razziale tra nazionalità "buone" e nazionalità pericolose, le ossessive operazioni di
polizia e i campi di internamento.
È una tesi controcorrente. Ma una scienza sociale che non
voglia accucciarsi a fare la "guardia del corpo dell'imperatore" o
accontentarsi di produrre aria fritta a mezzo di aria fritta, deve
attenersi rigorosamente alla realtà. Anche e soprattutto quando
un'imponente messe di mistificazioni riesce a darne, con successo, un'immagine capovolta.
Oggetto della nostra indagine sono gli Stati Uniti, l'Europa
occidentale, l'Italia per la semplice ragione che gli autori di questo libro avvertono come prioritario il compito di fare luce su ciò
che sta avvenendo nelle "proprie" società e lanciare un allarme
prima che su di noi scenda la notte. Tuttavia sono, siamo consapevoli che l'Occidente non ha la privativa delle discriminazioni e
della violenza di stato nei confronti dei lavoratori immigrati. Il
28
trattamento riservato in Arabia saudita e negli emirati del Golfo
agli edili asiatici, nuovi coolies imprigionati nel kafala2, in Cina
ai connazionali mingong scacciati a decine di milioni dalle campagne verso le metropoli e le industrie delle free zones, in Russia
ai manovali caucasici, o in Israele ai braccianti agricoli thailandesi e nepalesi, per non parlare dei palestinesi, non è in sostanza
differente. E il muro di 4.000 km che l'India sta edificando al confine con il Bangladesh non ha nulla da invidiare alle fortificazioni erette sul confine tra gli Stati Uniti e il Mexico e alle muraglie
elettroniche di cui si sta circondando a sud e ad est la fortezza
Europa.
La diffusione di misure sistematicamente inferiorizzanti e vessatorie nei confronti degli immigrati è in effetti (quasi) universale. Il che ci rimanda al contenuto materiale, sociale, di classe, del
razzismo istituzionale, al suo essere un'arma che le imprese, il
mercato, il capitale globale stanno adoperando a livello globale
contro il lavoro salariato mondializzato per spaccarlo in profondità e appropriarsi liberamente della sua linfa vitale. Anche questa affermazione suonerà a molti ostica, ma dobbiamo presupporre esistano lettori intenzionati ad andare oltre il senso comune.
Altrimenti, non avremmo scritto neppure un rigo.
Questa ascesa del razzismo istituzionale non è certo una novità assoluta. In Europa e negli Stati Uniti il razzismo è di casa da
lungo tempo, e come una malattia cronica si riacutizza periodicamente nei frangenti storici più drammatici. È quanto sta tornando ad avvenire in questo tormentato inizio di secolo segnato da
una crisi globale, economica e politica, di portata colossale, che
si intreccia con il tramonto dell'ordine mondiale partorito dalla
seconda guerra mondiale.
La mondializzazione neo-liberista e il suo esito catastrofico in
quella che lo stesso Greenspan ha definito la più grande crisi della
storia del capitalismo sono il primo contesto a cui riferirsi per cercare di dare conto del perché si va facendo così acuta l'infezione
razzista e così frenetica la diffusione istituzionale dei suoi virus.
29
Ebbene, per quanto possa sembrare incredibile, per i dettami del
turbo e tardo-capitalismo globale 'afflitto' da un eccesso di macchine rispetto alla quantità di lavoro vivo impiegata, il lavoro vivo, in
particolare in Occidente, costa troppo, ha troppi diritti, troppe rigidità, troppe garanzie, troppo potere di interdizione, un eccessivo
riconoscimento sociale. E va ricondotto alla "ragione": alla ragione
del profitto. Con cure chimiche speciali sul tipo di quelle inferte a
Baghdad e Gaza per le genti "di colore", o del tipo Chrysler e
General Motors (30-40% di taglio dei salari) per i lavoratori dei
paesi occidentali. Per la riuscita di una terapia d'urto del genere
nulla è altrettanto utile quanto il ritorno in scena delle dottrine, degli
stereotipi e delle prassi razziste già ampiamente sperimentate dal
colonialismo storico, quanto la concorrenza scatenata e, più ancora,
lo scontro aperto tra i lavoratori delle diverse "razze" e nazionalità.
Il sogno dei poteri costituiti euro-statunitensi non è quello di
tornare indietro, supposto per assurdo che fosse possibile, a
nazioni "etnicamente" omogenee con l'espulsione di massa
delle genti immigrate. Per le imprese e gli stati occidentali tale
prospettiva sarebbe un incubo, visto il crescente contributo
delle immigrate e degli immigrati in quanto lavoratori alla produzione agricola e manifatturiera e ai servizi alle persone sostituitivi del welfare, e visto l'apporto che le genti immigrate
danno alla crescita demografica delle nazioni occidentali in
quanto riproduttrici della vita. Il sogno è quello di poter disporre in modo illimitato, mutevole al mutare delle congiunture, di
una enorme massa di gastarbeiter, guest workers, lavoratori
temporaneamente ospiti, una forza di lavoro just in time vincolata, senza nessuna libertà di circolazione, senza famiglia, senza
nessun diritto permanente, senza sindacato. E di poter sospingere il più possibile anche gli immigrati di lungo corso in una
simile condizione di mera, nuda forza-lavoro. Una incarnazione di quella "cineseria operaia" di cui parlò una volta Nietzsche
senza, è probabile, avere in mente alcun elemento "etnico" preciso, bensì sospirando di una classe operaia finalmente educata,
30
in quanto tale e indipendentemente dalla nazionalità dei suoi
singoli membri, a "sentire" al modo dei soldati.
Anche gli architetti dell'attuale rilancio del razzismo istituzionale non sono degli esclusivisti. Se negli Stati Uniti picchiano di preferenza sui chicanos e sui latinos e in Europa sugli immigrati dai
paesi arabi e islamici, i nuclei più numerosi e organizzati dell'immigrazione, attraverso l'inferiorizzazione e la demonizzazione delle
nazionalità più indesiderate (il mezzo) ciò che essi hanno di mira è
l'intero mondo dell'immigrazione, nazionalità "buone" incluse, anzi
l'intero mondo del lavoro, la svalorizzazione di tutta la forza-lavoro
senza badare alle differenze nazionali (il fine). E hanno di mira (un
secondo fine) la criminalizzazione della povertà, la colpevolizzazione di quella parte del mondo del lavoro che non riesce e non riuscirà in futuro, a causa della crisi, a sfuggire alla povertà: un ruolo simbolico essenziale è assegnato, a questo riguardo, ai pauperizzati
rom. Così la crisi del meccanismo dell'accumulazione viene scaricata sul lavoro o su chi, per ragioni storiche o contingenti, ne è rimasto privo: se le cose vanno male, la colpa è degli immigrati e degli
emarginati, ed è con loro che bisogna prendersela.
Non si tratta, però, solo di questo. La prima, gravissima recessione di inizio secolo si intreccia, si sovrappone con la fine dell'ordine mondiale imperniato sul primato statunitense e, in senso
lato, occidentale, messo in discussione ormai in ogni campo,
dalla tecnologia alla moneta, dalla produzione culturale allo stesso ambito militare. La Cina, l'India, l'Oriente ascendono e, con
essi, anche alcuni altri paesi del Sud del mondo. La lunga marcia
dei popoli e dei lavoratori delle ex-colonie e - per altro verso - dei
"rispettivi" capitalismi impaurisce (comprensibilmente) le élites
occidentali e le spinge sempre più a considerare le genti immigrate negli Stati Uniti e in Europa occidentale come le quinte colonne di questa marcia, da tenere perciò sotto stretta osservazione e
severo controllo. Un compito nel quale stati e governi stanno tentando di coinvolgere e mobilitare sempre più, oltre che gli apparati istituzionali, anche le rispettive società.
31
È proprio alla testa, al cuore e alla pancia delle popolazioni e
dei lavoratori statunitensi ed europei d.o.c. che questo revival del
razzismo di stato punta, agitando dinanzi ai loro occhi la presunta incompatibilità tra culture e civiltà diverse, la presunta tendenza naturale a delinquere degli immigrati, e le bandiere stracciate,
e però insidiose, della concorrenza sleale degli immigrati e della
"preferenza nazionale" da ristabilire. Da svariati anni, ormai,
questa diffusione istituzionale del razzismo a livello popolare
non conosce soste, né limiti. E le conseguenze sono sempre più
gravi. Prendiamo l'Italia, il paese che nei mesi scorsi ha sdoganato anche, "solo" a livello verbale, d'accordo, ma è da lì che si
comincia, i rastrellamenti casa per casa degli immigrati. Una
recentissima indagine sull'atteggiamento dei giovani verso gli
immigrati mostra che la metà di essi avverte un senso di ripulsa,
più o meno ideologizzata, più o meno accentuata, verso le popolazioni immigrate, mentre solo un 10% di loro si dichiara serenamente "aperto" nei loro confronti. Risultati analoghi hanno dato
analoghe rilevazioni in altri paesi europei, ad esempio in
Spagna3.
La tendenza di fondo di cui stiamo dicendo ha conosciuto un
salto di qualità negli Stati Uniti dopo l'11 settembre 2001, in
Europa negli anni immediatamente successivi. Nella sua eclettica e ondivaga riflessione sulla violenza invisibile, S. Zizek ha tuttavia centrato il punto quando ha affermato che in Europa
«il grande evento del 2006 è stata l'adozione generalizzata delle
politiche contro l'immigrazione, con il taglio del cordone ombelicale che le legava ai piccoli partiti dell'estrema destra. Dalla
Francia alla Germania, dall'Austria all'Olanda, nel nuovo spirito
di un'orgogliosa rivendicazione di identità culturale e storica, ora
i partiti più importanti trovavano accettabile sottolineare che gli
immigrati sono ospiti, e come tali devono adattarsi ai valori culturali che definiscono la società che li ospita: 'È il nostro paese,
o lo ami, o te ne vai'»4.
32
Più che di un salto di qualità compiuto in un singolo anno o
momento, si è trattato, si tratta di un'escalation6. Più che di politiche contro l'immigrazione, è preferibile parlare di politiche contro gli immigrati, poiché la loro finalità fondamentale non è mai
il blocco dell'immigrazione, anche quando intimano ai malcapitati di tornarsene "a casa loro". Ma senza dubbio il (provvisorio)
punto di approdo di questo processo è il rilancio della retorica
identitaria nazionalista, occidentalista, bianca, che pretende dagli
immigrati, specie se extra-europei, qualcosa in più dell'integrazione o della stessa assimilazione: pretende il totale espianto
dalle proprie "radici" nazionali e culturali, la totale rimozione
dell'esperienza di discriminazione e di umiliazione vissuta nell'emigrazione, e la completa identificazione, la congiunzione
amorosa, con il paese che ha avuto la magnanimità di accoglierli come ospiti e che, a date e rigorosissime condizioni, può addirittura ammetterli al supremo (e vuoto, Sayad insegna) onore
della cittadinanza. Dunque, nonostante il fenomeno Obama, di
cui parleremo, con i richiami istituzionali ai core values statunitensi, alla Britishness, all'identité francaise, alle inflazionate
"carte dei valori" italiana, svizzera, etc, e alle posticce "identità"
territoriali locali, siamo ad un solo passo dal formale ripudio del
tiepidissimo multiculturalismo fin qui esperito, sotto la pressione
delle lotte dei coloured, al di là e al di qua dell'Atlantico. Ad un
solo passo dall'accettazione della prospettiva dello "scontro di
civiltà" come pensiero e prassi di stato dell'intero Occidente.
Le politiche migratorie repressive dell'ultimo decennio hanno
prodotto anche un altro importante effetto: la messa in opera di
un sistema di controlli militari, polizieschi, amministrativi, sociali che da un lato hanno adeguato la macchina repressiva a una
sorta di emergenza permanente per difendersi dal rischio-invasione e piegato la produzione del diritto ai tempi frenetici dell'accumulazione a breve, e dall'altro hanno socializzato il potere di
discriminare le genti immigrate ponendolo (anche) nelle mani di
cittadini autoctoni comuni. Non ne sono stati colpiti solo gli
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immigrati o i più "pericolosi", invisi o deboli tra essi, inghiottiti
da nuove grandi fosse comuni nel Sahara, nel Mediterraneo, nelle
aree desertiche al confine tra Messico e Stati Uniti. Per questa via
sono stati introdotti nella vita civile in modo abituale mezzi e
metodi militari che potranno essere usati domani, e già cominciano ad esserlo oggi, contro gli stessi autoctoni. Tanto per dirne
una: con la diffusione su tutto il territorio europeo di campi destinati ai "clandestini" o ai richiedenti asilo sempre più spesso
respinti ai margini della vita sociale, si realizza una banalizzazione della violenza istituzionale e privata, che oltre a legittimare
forme di vero e proprio apartheid per gli immigrati, promuove e
normalizza un "modello di società" in cui le misure penali speciali, i metodi polizieschi (anche brutali), la delazione verso i
"sospetti", la creazione di luoghi sottratti ad ogni forma di diritto, divengono accettabili e perfino indispensabili. L'ascesa del
razzismo istituzionale porta con sé, quindi, insieme a una nuova
esasperazione dei nazionalismi sciovinisti, un'ulteriore stretta
autoritaria dello stato sulla società. Svuotamento della democrazia? democrazia "delle radici, dei valori, dell'identità cristiana,
occidentale, capitalistica"? post-democrazia? fascismo democratico? Più importante delle formule è, a mio avviso, afferrare la
sostanza e la dinamica delle trasformazioni in atto, guardandosi
bene dal ridurle a una meccanica ripetizione del passato. E comprendere che, da qualsiasi lato li si osservi, la guerra agli emigranti messicani, africani, arabo-islamici, il montare del razzismo
di stato contro i lavoratori e le genti immigrate in Occidente sono
parte di quella "guerra permanente contro i non possidenti e gli
spossessati" (A. Traoré) che sta coinvolgendo aree sempre più
ampie del lavoro manuale e intellettuale degli stessi paesi dominanti.
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Note
1.Primo
non vuol dire unico. Oltre lo stato, infatti, c'è un'altra fabbrica di veleni razzisti a ciclo continuo: il mercato. L'industria dei mass media, in larga
misura se non nella sua totalità nelle mani dei grandi gruppi industriali e finanziari (cfr. Ultim'ora, supplemento a «il manifesto» del 28 aprile 2010), funge
invece da anello di congiunzione tra le cogenti necessità del mercato globale,
gli stati nazionali e la cosiddetta opinione pubblica. Qui l'attenzione è concentrata sull'azione degli stati.
2.È un rapporto di lavoro che vincola in modo esclusivo il lavoratore salariato
ad un singolo padrone, il quale requisisce il passaporto del suo dipendente
all'atto in cui gli fa firmare un contratto, redatto in lingua araba, quasi sempre
sconosciuta all'immigrato, quasi sempre asiatico, che lo obbliga ad accettare
anche salari più bassi di quelli promessi. L'immigrato è costretto poi ad alloggiare in dormitori (super-affollati mini-appartamenti) di proprietà del suo
"datore di lavoro" (e prenditore di vita).
3 Mi riferisco all'indagine Io e gli altri: i giovani italiani nel vortice dei cambiamenti compiuta dalla SWG, presentata il 20 febbraio scorso alla Camera
alla presenza di Fini, e al documento dell'Observatorio Espanol del Racismo y
la Xenofobia, basato su indagini del Centro de Investigaciones Sociológicas,
presentato pochi giorni dopo dal ministro del lavoro spagnolo, Corbacho. Non
è il caso di farlo qui, ma ci sarebbe da esaminare a fondo la logica e la struttura di queste indagini per verificare se non siano anch'esse veicoli di xenofobia e di razzismo, quando fonmilano, come hanno fatto i sondaggisti della
SWG, domande del tipo "con chi andresti a cena?", offrendo agli intervistati
le seguenti alternative: un povero, un omosessuale, un ebreo, un tossicodipendente, un rom, un musulmano, un extra-comunitario... Anche per questa ragione è opportuno valutare i risultati di queste indagini con molta prudenza e perfino con circospezione. Al di là delle percentuali, però, sempre discutìbili, la
diffusione di sentimenti e comportamenti ostili nei confronti delle popolazioni immigrate è da anni evidente. Poche settimane prima di tale indagine è stato
reso noto a Roma il rapporto di sintesi della Ricerca nazionale su immigrazione e asilo nei media italiani, diretta da M. Morcellini, che conferma in pieno
quanto già si sapeva circa il ruolo nefasto dei media (di stato e di mercato) nel
produrre e diffondere paure e immagini negative sugli immigrati.
4 Cfr. Zizek S., La violenza invisibile, Rizzoli, Milano, 2007, p. 46.
5 Si pensi al cammino compiuto in Italia dalla Turco-Napolitano alla BossiFini al "pacchetto sicurezza" o, per la Francia, al fatto che la legislazione sull'immigrazione è stata modificata in senso restrittivo e repressivo per ben cinque volte negli ultimi otto anni, lo stesso periodo in cui il ministro dell'immigrazione è diventato anche ministro "dell'identità nazionale".
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