Violazione dei diritti umani nei conflitti armati
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Violazione dei diritti umani nei conflitti armati
La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. LA VIOLAZIONE DEI DIRITTI UMANI NEI CONFLITTI ARMATI CONTEMPORANEI IL CASO DEI BAMBINI SOLDATO E DELLA VIOLENZA DI GENERE di EMANUELA MALATESTA EMANUELE GRECO Anno Accademico: 2012/2013 1 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. INDICE: INTRODUZIONE………………………………………………………………………………………3 1 CAP. I DIRITTI UMANI, DEFINIZIONE GIURIDICA E COMMERCIO DI ARMAMENTI 1.1. Storia e definizione dei diritti umani……………………………………………………………..6 1.2. La violazione dei diritti umani nei conflitti armati: dai trattati internazionali al diritto internazionale umanitario……………………………………………………………………….12 1.3. Il commercio di armamenti……………………………………………………………………...16 2 CAP. L’UTILIZZO DI ARMI LEGGERE E CONSEGUENZE INDOTTE: L’ARRUOLAMENTO DEI BAMBINI SOLDATO 2.1. Le armi leggere: caratteristiche e conseguenze del loro utilizzo...............................................23 2.2. Da bambini a soldati: addestramento, uso militare e reintegrazione sociale………………...26 2.3. Tutela giuridica dei minori nei conflitti armati………………………………………………..31 3 CAP. IL RUOLO DELLA DONNA NEI CONFLITTI ARMATI E LA VIOLENZA DI GENERE 3.1. Il ruolo delle donne nei conflitti armati………………………………………………………...38 3.2. Lo stupro come strumento di dominazione della donna nei territori di conflitto armato…..42 3.3. Tutela giuridica delle donne nei conflitti armati……………………………………………….45 CONCLUSIONI………………………………………………………………………………..……...50 BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA………………………………………...…………………………56 2 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. Introduzione Il lavoro da noi svolto ha, come obiettivo, quello di indagare il percorso di formazione storico-culturale e giuridico dei diritti umani e quali siano gli indicatori che descrivono il fenomeno, alla luce degli avvenimenti che caratterizzano i conflitti armati contemporanei. La ricerca è nata non solo per dare luce ai grandi interventi raggiunti a livello internazionale per la valorizzazione dei diritti umani ma anche, inevitabilmente, per mettere a fuoco come i casi di violazione degli stessi siano ancora numerosi ed efferati e come la via della riconciliazione del diritto umano con l’essere umano sia ancora remota, nella applicazione effettiva e quotidiana. Quando, infatti, parliamo di diritti umani, come riportato nel primo capitolo, è fondamentale inquadrare come si siano sviluppati durante la storia, quali siano stati i passaggi fondamentali per il loro riconoscimento da parte delle componenti sociali e come la giurisprudenza li abbia tradotti in principi giuridici a cui rifarsi nell’operato quotidiano e concreto. Le attuali condizioni mondiali garantiscono la piena applicazione dei diritti relativi allo status di persona, ma sono riconoscibili, ancora, alcune limitazioni relative all’accessibilità e al godimento di alcuni diritti politici e alcune libertà fondamentali, come quella di riunione, di circolazione, legate alla condizione di individuo e di cittadino capace di agire. La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 è, tuttora, identificata come la chiave di violino che raccoglie i principi fondamentali per l’espressione piena dei diritti umani e, con essa, le conseguenti Dichiarazioni e Convenzioni, tra cui la Convenzione sui Diritti del Fanciullo del 1989, la Convenzione per l’eliminazione di Ogni Forma di Discriminazione nei confronti della Donna e la Dichiarazione sull’eliminazione della Violenza nei confronti della Donna del 1993. Questi documenti rappresentano i moniti morali a cui rifarsi per conoscere e comprendere l’evoluzione dei diritti umani nel tempo e nello spazio, ma contemporaneamente, la loro emancipazione ha contribuito alla fruizione del significato e alla proliferazione di azioni che tutelano la violazione dei diritti umani medesimi. I conflitti armati contemporanei, come è dettagliatamente spiegato nella ricerca qui svolta, costituiscono il contenitore della maggior parte dei casi di violazione dei diritti umani poiché, in tempo di guerra, tutte le indicazioni giuridiche e comportamentali del loro rispetto 3 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. culturale e istituzionale hanno una validità compromessa e limitata, in quanto incompatibili con lo status del bellum. Bisogna, infatti, riflettere che, se i conflitti armati contemporanei rappresentano oggi la massima espressione della violazione dei diritti umani, è riscontrabile che i reati commessi e i rischi per la popolazione sono efferati e incommensurabili, così come anche la produzione e l’esportazione di armi (il cosiddetto commercio di armamenti), che viaggiano direttamente dai Paesi Occidentali verso i Paesi in via di Sviluppo (Pvs), è incalcolabile. Le battaglie portate avanti da esponenti dell’Occidente in seno all’affermazione e al rispetto dei diritti umani si contraddicono, quindi, con il loro operato a livello economico e il dibattito internazionale si interroga sulle misure da adottare per alleviare le conseguenze che una tale scelta istituzionale può comportare nei territori di conflitto. Il commercio di armamenti, come si potrà approfondire nel secondo capitolo, si verifica principalmente nel trasferimento delle armi leggere che si contraddistinguono per essere piccole e di facile trasporto da parte di qualunque essere umano. E’ rivolta particolare attenzione alla possibilità che persone non autorizzate ed, in particolare, minorenni possano farne uso e assumere diretta autorità in possesso delle stesse ed è fondamentale analizzare come questo fenomeno si trasformi nell’arruolamento dei bambini all’interno delle forze armate, i cosiddetti “bambini soldato”. Per analizzare questa condizione, è di notevole importanza individuare gli strumenti di addestramento ed uso militare dei minorenni nei conflitti armati, le tecniche di monitoraggio e di approccio alla problematica affrontate dagli operatori del settore per la possibile reintegrazione dei bambini nel tessuto socio-culturale della comunità di appartenenza e come la normativa internazionale si ponga in materia di tutela giuridica di minori nei conflitti armati. La questione dei bambini soldato e la possibilità, assieme alla Comunità Internazionale, di affrontarla va di pari passo con la vulnerabilità insindacabile di altri soggetti sociali in contesti di natura belligerante ed in particolare il terzo capitolo affronta il ruolo delle donne e la loro funzione di collante dell’organizzazione sociale durante un conflitto armato. Le Nazioni Unite, in merito, hanno raggiunto grandi conquiste in seno al riconoscimento della donna come portatrice di interessi di difesa della comunità e di soggetto portatrice di proposte di pace nella fase di ricostruzione post-conflitto, nonostante i casi di violenza estremi perpetrati nei suo confronti. Si fa riferimento, infatti, allo stupro, alla mutilazione genitale, all’umiliazione sessuale di una gravidanza forzata e alla prostituzione forzata, come metodi utilizzati, duranti i conflitti, per il totale annientamento del nemico. 4 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. Lo studio è stato svolto durante il periodo di stage presso l’ “Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo” di Roma, durante il quale abbiamo avuto l’opportunità di confrontarci con tematiche di sociologia applicata e di diritto internazionale umanitario, attraverso la consultazione quotidiana di testi della biblioteca presenti nell’Istituto e dei siti delle maggiori organizzazioni internazionali, cultrici della materia. La ricerca si colloca all’interno del dibattito attuale che concerne i limiti della cooperazione internazionale nell’applicazione e nel monitoraggio del rispetto dei diritti umani nelle aree di conflitto contemporaneo, di peace-building e di peace-keeping, e cerca di esprimere una posizione di sconcerto per la condizione vissuta da milioni di esseri umani nei Paesi in via di sviluppo, nel rappresentare ancora le vittime dell’estrema violazione dei loro diritti fondamentali. L’elaborato cerca di fornire prospettive di speranza e di forza, nel raggiungimento e nel conseguimento della formazione di quella Comunità Mondiale, ove libertà, eguaglianza e fratellanza rappresentino una conquista collettiva, comune e senza confini per ogni essere umano. 5 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. Cap. 1 – DIRITTI UMANI: CONNOTAZIONE GIURIDICA E COMMERCIO DI ARMAMENTI 1.1. Storia e definizione dei diritti umani Per comprendere l’espressione giuridica di “diritti umani” è fondamentale compiere un analisi approfondita della loro definizione e del loro sviluppo nel corso della storia dei popoli, delle conquiste sociali ed economiche raggiunte, a seguito del mutamento dei conflitti e delle conseguenze ad essi succedutesi. La vera origine storica dei diritti umani, quali diritti inviolabili, è imputabile al diritto inglese. In Inghilterra non esiste una costituzione scritta, ma si ritiene che i principi costitutivi dell’ordinamento giuridico risalgano a un’antica tradizione consegnata al diritto consuetudinario.1 Anche se con il tempo l’area del common law si è andata progressivamente riducendo, permane ancora oggi un nucleo di principi non scritti, la cui vigenza è considerata intangibile, poiché costituisce il fondamento storico/giuridico del diritto inglese. Elementi centrali di questi principi sono i diritti fondamentali dell’uomo, il cui contenuto è considerato superiore a qualsiasi altro potere costituito. A prescindere dalla considerazione della loro derivazione2, tutte le più importanti Carte dei diritti inglesi (Magna Charta Libertatum – 1215; Petition of Rights – 1628; Bill of Rights – 1689), non dichiarano di istituire nuovi diritti, ma si richiamano sempre agli “antichi diritti e libertà degli inglesi”, vale a dire a diritti radicati in norme preesistenti o anteriori alle stesse Carte, che erano chiamati semplicemente a riconoscerli. L’idea posta a base del riconoscimento di quei diritti consisteva nel radicamento degli stessi in norme intangibili e immodificabili da parte dei poteri costituiti: in quanto diritti di ogni uomo libero, erano considerati come parti vitali della tradizione posta a fondamento della particolare identità storica, politica e giuridica del popolo inglese. La tradizione inglese, a seguito delle varie contingenze storiche, si è fortemente rinvigorita nel Nuovo continente. Quì, infatti, le diverse condizioni socio-politiche (convivenza di più comunità portatrici di diverse fedi religiose) e le differenti esigenze istituzionali (come la necessità di fissare in precise disposizioni scritte, c.d. Charters, le garanzie delle libertà concesse ai coloni americani dal governo inglese, hanno permesso di assumere alla concezione dei diritti inviolabili una coerenza teorica e una compiutezza 1 2 ‘Diritto comune’ o common law. Per Coke il loro fondamento era la Ragione, mentre per Burke era la tradizione o l’esperienza storica del Paese. 6 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. giuridica maggiore: infatti l’impalpabilità delle garanzie previste dal diritto consuetudinario della madre patria, ha indotto i costituenti americani a ritenersi più garantiti dall’adozione di un documento scritto. Così, i diritti concessi, dapprima nelle primitive Charters, furono successivamente incorporati e resi universali dalle Dichiarazioni dei Diritti statali3, prima, e dalle Costituzioni degli Stati4, poi. Ma a rendere universalmente valida la concezione dei diritti inviolabili è stato, tuttavia, il I Emendamento annesso alla Costituzione federale degli Stati Uniti d’America, approvato definitivamente nel 1791: “Il Congresso non potrà fare alcuna legge riguardante l’istituzione di qualsiasi religione o per proibirne il libero culto; o per conculcare la libertà di parola o di stampa o il diritto del popolo a riunirsi pacificamente e di presentare petizioni al Governo per la riparazione di un torto”. Con questa formulazione la concezione dei diritti inviolabili è stata tradotta in termini adottabili da qualsiasi altro ordinamento, che, al di là di particolari visioni del mondo, volesse porre i diritti dell’uomo e i valori della dignità umana a fondamento della propria Costituzione. Si sancisce, per la prima volta nella storia, l’idea circa l’esistenza di alcuni diritti reputati come assolutamente intangibili (al punto da esserne vietata la limitazione persino ad opera di un organo espressivo della volontà popolare, qual è il parlamento) e visti quale legge superiore, a cui ogni altra norma positiva si deve uniformare. Se l’esperienza angloamericana è servita per dare ai diritti umani un profilo di inviolabilità e universalità, l’esperienza continentale europea segna il passo per una implementazione contenutistica degli stessi. Merito della corrente illuminista che, con i suoi massimi esponenti, contribuì all’elaborazione delle idee di Liberté, Egalité, Fraternité. Nonostante ciò, come dimostrano le analisi di alcuni politologi ed esperti di carte giuridiche e della loro applicazione a livello sociale, in questo specifico momento storico la concezione dei diritti umani rimane, ancora, legata a una visione statualista con una maggiore attenzione ai doveri, quali presupposto per il godimento dei diritti. Infatti, si verifica una 3 Dopo alcune Dichiarazioni rese su base locale (ad. es. la Massachusets Provincial Charter – 1961), la prima Dichiarazione dei Diritti di uno Stato sovrano che recepì la concezione dei diritti inviolabili è quella della Virginia del 12/6/1776 che recita: “Tutti gli uomini sono per natura egualmente liberi ed indipendenti e possiedono certi diritti innati dei quali, all’atto di costituirsi in società, non possono per contratto privare se stessi né la propria posterià; e tali diritti sono il godimento della vita e delle libertà, con i mezzi di acquistare e possedere beni in proprietà, e la ricerca e il conseguimento della felicità e della sicurezza”. Con termini più o meno simili gli stessi concetti si ritrovano nelle Dichiarazione dei diritti degli Stati americani, come quelle del New Hampshire (art.4), della Pennsylvania (art. 1), del Massachussets (art. 1) e del Delaware (art. 2, con riguardo alla sola libertà religiosa). 4 V. la Cost. del New Jersey (1776); del Maryland (1776); della Georgia (1777). A questi modelli si sono rifatte nei secoli successivi, pressoché tutte le Costituzioni degli Stati americani, che hanno introdotto clausole di inviolabilità ai diritti umani più o meno estese. 7 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. trasformazione in termini di priorità, ovvero il cosiddetto rovesciamento del rapporto che intercorre tra Stato e cittadini, che ha determinato la definizione dei principi per la delineazione pratica dello Stato moderno: dall’importanza sancita sul “dovere dei sudditi” si passa al “dovere dei cittadini”. I diritti umani rimangono comunque “diritti positivi”: infatti si precisa la loro attribuzione all’essere umano in quanto cittadino, escludendo il loro riconoscimento per lo straniero, apolide o l’individuo eticamente inteso (questa definizione è alla base di molte Carte Costituzionali scritte durante il periodo della formazione dei primi Stati-Nazione). A seguito della delineazione giuridica dei diritti come “diritti positivi”, l’esperienza derivante dalle due guerre mondiali ha determinato un cambiamento valoriale nell’approccio classico ai diritti umani. In tal senso, è rilevante il discorso tenuto, il 6 gennaio 1941, dell’allora presidente in carica negli Stati Uniti d’America, Delano Roosevelt, nel Congresso americano che riguardava le quattro libertà fondamentali: libertà di parola, libertà di credo, libertà dal bisogno e libertà dalla paura. Le quattro libertà fondamentali sono definite da Roosevelt fondamento per la costruzione della futura società mondiale al termine del conflitto bellico, che avrebbe dovuto avere come principio e cardine collante delle quattro libertà sopra elencate, quello di una pace internazionale durevole. Le numerose conferenze intergovernative organizzate nella prima metà degli anni Quaranta ripresero la prospettiva di Roosevelt, fino all’istituzione dell’Organizzazione Internazionale delle Nazioni Unite, a seguito della Conferenza di San Francisco apertasi il 25 aprile del 1945. Inizialmente, durante la conferenza, vi era l’obiettivo principe di introdurre una sezione specifica sui diritti umani nella carta delle Nazioni Unite, ma alla fine si optò per la scrittura di un documento separato: all’interno dell’Onu, precisamente del Consiglio Economico e Sociale, e fu creata una Commissione per i diritti umani, presieduta dalla vedova Roosevelt, attraverso la cui influenza il 10 dicembre 1948 venne scritta la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo5. Era la prima volta che in un documento internazionale venivano affiancate le quattro libertà fondamentali e i diritti umani la cui definizione effettiva fu quella di “diritti fondamentali, universali, inviolabili, indisponibili, indivisibili ed interdipendenti di ogni persona”. 5 L’intero documento, contenente trenta articoli, è stato firmato e ratificato dalla maggior parte dei paesi membri delle Nazioni Unite, ad esclusione della Cina che ancora oggi ha solo firmato, ma non ratificato, i Patti per i diritti civili e politici, mentre gli Stati Uniti non hanno ratificato i Patti per i diritti economici, sociali e culturali. 8 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. Essi sono infatti fondamentali (diritti alla libertà fondamentali civili, politiche, sociali ed economiche), universali (non vi è distinzione tra gli esseri umani per razza, colore della pelle, sesso, lingua, religione, opinione politica, origine nazionale o sociale, ricchezza, nascita o altra condizione), inviolabili (nessun essere umano può esservi privato), indisponibili (nessuno può rinunciarvi, neppure volontariamente), indivisibili ed interdipendenti (non c’è gerarchia tra essi). Ma soprattutto è stato il risultato delle diverse esperienze storiche che hanno trovato il loro massimo comune denominatore nel valore della dignità della persona. Centrale è l’art. 28 della Dichiarazione in cui è proclamato un diritto che è presupposto per l’effettivo godimento degli altri: “Ognuno ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati”. L’ordine sociale e internazionale, di cui sopra, deve essere interpretato in relazione alle aspirazioni più profonde della persona umana, direttamente connesse alla dimensione individuale e comunitaria della sua dignità. Il riferimento è ovviamente rivolto alla libertà6, alla giustizia, alla pace. Quest’ultime quindi, non devono essere intese di per sé come diritti, ma come il risultato che queste ultimi devono garantire. Le condizioni mondiali odierne fanno sì che non sia possibile sostenere, perlomeno formalmente o attraverso fonti giuridiche scritte, alcuna limitazione di diritti che sia legata allo status di persona, mentre vi è ancora una enorme diffusione di limitazioni relative all’ accessibilità e al godimento di alcuni diritti politici e di alcune libertà, come quella di riunione, di circolazione, legate alla condizione di cittadino e di individuo capace di agire. La Dichiarazione ha anche dato il via a una prassi tipica della normativa internazionale, sviluppatasi anche in seguito, che vede nella specificazione categoriale dei diritti, su basi storiche, la loro suddivisione in: - diritti di prima generazione: diritti civili e politici; - diritti di seconda generazione: economici, sociali e culturali; - diritti di terza generazione: diritto all’autodeterminazione dei popoli, diritto allo sviluppo e diritto a vivere in un ambiente non inquinato; - diritti di quarta generazione: diritto al genoma umano e al patrimonio genetico dell’individuo. I diritti umani, così sanciti nella Dichiarazione, si presentano, quindi, come diritti in continua evoluzione, in stretto collegamento con gli eventi storici e con le rivoluzioni 6 Libertà sia in senso negativo (libertà da), sia in senso positivo (libertà per). 9 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. politiche, economiche e culturali, frutto dell’emancipazione valoriale della dignità attribuita alla persona in contesti di conflitto e non. A testimonianza di ciò vi è, anche, la prassi dell’Assemblea delle NU di emanare, in forma più o meno solenne, delle Dichiarazioni contenenti una serie di regole che talvolta riguardano rapporti tra Stati ma anche rapporti interni alle varie comunità statali, quali i rapporti dello Stato con i propri sudditi o con gli stranieri.7 Quindi a partire dalla Dichiarazione si è realizzata, sotto il profilo normativo, una progressiva specificazione e una graduale precisazione delle proprie finalità, attraverso una continua produzione normativa riguardo la tutela dei diritti umani, anche e soprattutto a livello regionale. A seguito infatti dei principi tracciati dalla Dichiarazione Universale, altri documenti sono stati, quindi, redatti e adottati dagli stati membri delle Nazioni Unite, con l’obiettivo di soffermarsi sulle nuove problematiche e le nuove prospettive che avrebbero dovuto essere trattate e affrontate con risoluzione dalle forze politiche internazionali. Uno di questi documenti, fondamentali per comprendere il passaggio dai principi formali alla pratica, è la Convenzione contro la Tortura ed altre pene e trattamenti crudeli, inumani o degradanti, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 Dicembre 1984, che richiede agli Stati di incorporare il crimine di tortura all'interno della propria legislazione nazionale e di punire gli atti di tortura con pene adeguate. La tortura, infatti, in quanto violazione del rispetto del diritto alla libertà, alla dignità dell’uomo è definita nell’art.1 della Convenzione come: “ qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale ”. A questa puntuale definizione sono riconducibili diversi casi, collegati rispettivamente a diverse azioni: percosse violente, elettroshock, abuso e violenza sessuale, reclusione forzata e prolungata, lavori forzati, parziale affogamento indotto, parziale soffocamento indotto, mutilazione e prolungata sospensione nel vuoto. 7 Ricordiamo quella sul genocidio (11/12/1945); sui diritti del fanciullo (20/11/1959); sull’indipendenza dei popoli coloniali (14/12/1960); sul divieto di uso di armi nucleari e termonucleari (24/11/1961); sulla sovranità delle risorse naturali (14/12/1962); sulla eliminazione della discriminazione razziale (20/11/1963) ecc. 10 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. Le leggi sui diritti umani, sia sul piano internazionale sia regionale, tutelano una serie di diritti fondamentali relazionati alla tortura ed altri trattamenti inumani o degradanti, come: il diritto di protezione dalla tortura; il dovere e la responsabilità di perseguire i torturatori, processarli secondo il sistema processuale internazionale (nella prospettiva di una piena complementarietà8) che si applica ai casi di tortura; il diritto a non essere espulso, respinto o estradato ad uno stato dove si possono correre pericoli. Altre due importanti convenzioni fanno riferimento nei loro articoli al reato di tortura e ad altre forme di trattamento inumano, come: la Convenzione sui Diritti del Fanciullo del 1989, la Convenzione per l’Eliminazione di Ogni Forma di Discriminazione nei confronti della Donna (CEDAW) e la Dichiarazione sull’Eliminazione della Violenza nei confronti della Donna del 1993. La proclamazione del reato di tortura è quindi l’ottenimento di quel principio che ha permesso il riconoscimento e la necessaria protezione da tutte quelle azioni “crudeli, inumane e degradanti” che sollevano il valore della dignità umana, violandone il riconoscimento attribuito all’essere umano in quanto uomo, donna e bambino. Il commettere atti che violino la libertà personale, la libera espressione di sé, il dissenso individuale, l’eguaglianza sociale ed altri casi affini, è sempre più frequente nello sviluppo più estremo dei conflitti armati, specialmente in quelli contemporanei. L’istituzione dell’ONU ha anche contribuito a creare l’istituzione di strutture di controllo a livello internazionale, chiamate a vigilare sull’esecuzione delle predette norme da parte degli Stati ed ognuna sulla base delle rispettive competenze; nonché la formazione di diverse Agenzie specializzate parte del Sistema delle Nazioni Unite impegnate in attività normative formulate sulla base delle rispettive competenze e funzioni, dall’ILO all’UNESCO, dalla FAO al WHO. In definitiva, l’effetto principale della Dichiarazione è stato quello di diffondere una cultura dei diritti umani (le cui istanze sono addirittura assunte a principi generali di diritto internazionale, c.d. jus cogens), che trova fondamento nella coscienza comune dell’umanità, come unica famiglia, in capo alla quale sussiste un interesse generale, andando, addirittura, oltre l’interesse particolare della singola persona così come era stato prefigurato nella Dichiarazione Francese dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789. 8 Art. 1 Corte penale internazionale, che statuisce la sua competenza nei casi in cui uno Stato non possa o non voglia giudicare. 11 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. 1.2. La violazione dei diritti umani nei conflitti armati: dai Trattati Internazionali al Diritto Internazionale Umanitario La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo sancisce sul piano giuridico internazionale la presa di coscienza culturale, collettivamente intesa, dell’esistenza di quei diritti appartenenti alla persona, di cui va garantito il più ampio rispetto della dignità umana, attraverso una lettura dei suoi fondamenti di base. Il regime normativo ed istituzionale di tutela dei diritti umani ruota attorno a tre distinti momenti, attraverso i quali l’ordinamento internazionale interviene per prevedere e verificare determinati obblighi di condotta per gli Stati che hanno firmato e ratificato il documento. Difatti, relativamente ai diritti fondamentali, gli Stati Nazione sono chiamati a: - rispettarli, con l’obiettivo di astenersi dal commettere atti e pratiche che possano limitarli, negarli o addirittura violarli; - proteggerli, introducendo misure di controllo concreto con il fine di evitare che nel godimento di un determinato diritto o nella tutela dei diritti di ogni persona si inseriscano azioni non adeguate e rispettose, compiute da terzi; - realizzarli, nell’impegnarsi attivamente e in diretta coerenza alle norme previste dalla Dichiarazione o da altri documenti di riferimento, dando ad essi effettività, senza discriminazione alcuna. Questo insieme di doveri assume un significato maggiore, soprattutto in relazione alla tutela della condizione ideale per eccellenza, per il godimento dei diritti, da parte della persona umana: ovvero il mantenimento della pace, attraverso politiche di sicurezza. Tale necessità è avvertita come imminente dalla comunità internazionale, riunitasi sotto l’egida della Carta delle Nazioni Unite, da arrivare a proclamare il principio della illiceità della guerra, fuori dai casi previsti dalla Carta stessa o della legittima difesa quale diritto naturale di autotutela individuale e collettiva9, dando vita a un insieme di norme che proibiscono l’uso o la minaccia della forza (jus contra bellum), e che prevedono un sistema di intervento per il ripristino dello status quo ante e la protezione delle popolazioni.10 9 Art. 2.3 Carta delle Nazioni Unite Capitoli VI e VII della Carta: missioni di peacekeeping e di peacebuilding. 10 12 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. Ma preso coscienza dell’impossibilità di eliminare la guerra come fenomeno empirico11, o di imbrigliarla all’interno di regole, la cultura dei diritti umani, testé illustrata, ha quantomeno contribuito ad ampliare la normativa dello jus ad bellum12 e dello jus in bellum13, le cui discipline stanno ancora evolvendosi ai giorni nostri14. Nella realtà, quindi, i tre pilastri fondamentali dell’ONU si scontrano con situazioni di violazione reale dei diritti dell’uomo, in condizioni come i conflitti armati, ma anche in condizioni di ricostruzione civile post-conflitto. Queste situazioni permettono di soffermarsi su quelle convenzioni e quegli articoli specifici della Dichiarazione Universale in cui si delineano i diritti propri della persona e si comprende il confine tra il loro rispetto e la loro non tutela. L’emancipazione dei diritti umani ha permesso infatti un’ulteriore e diffusa conoscenza degli stessi, fruibili a tutti senza discriminazione alcuna, e ha fatto emergere maggiormente l’incoerenza del sistema internazionale che, da un lato, tenta di proteggerli e dall’altro, li viola con disumana crudeltà, tanto che di fronte a una sempre maggiore tutela dei diritti umani, si sono sviluppate, di pari passo, numerose altre tecniche di violazione degli stessi (anche a causa dei progressi tecnologici, soprattutto in materia di armamenti). Il che richiede un continuo aggiornamento della normativa internazionale che risulta inservibile e obsoleta (uno su tutti la mancata disciplina sul problema dei c.d. contractors nella più ampia tematica del fenomeno della privatizzazione della guerra15). L’impotenza degli sforzi fatti sino ad ora, in tema di protezione dei diritti umani, trova la sua più alta concretizzazione in tempo di guerra. Tutti i documenti scritti, fin qui delineati, portati come esempio del rispetto culturale e istituzionale del diritti umani, hanno una validità limitata durante un conflitto armato. Ciò poiché durante uno stato di conflitto16 si estingue 11 Albert Einstein, nel 1932, chiese a Sigmund Freud perché l’umanità non riuscisse ad affrancarsi dai conflitti armati; lo scienziato, incaricato dalla Società delle Nazioni di studiare il problema, spiegò che fanno parte della struttura umana due pulsioni, l’eros (forza positiva, costruttiva e propulsiva) e thanatos (istinto di distruzione, di aggressività). “Non c’è speranza di poter sopprimere le tendenze aggressive. Possiamo tutt’al più deviare questa aggressività in modo che non necessariamente si esprima attraverso la guerra”. Ma non bisogna farsi illusioni, concluse saggiamente. In ALBERT EINSTEIN, The World As I See It, Carol P. Group, New York, 1956. 12 Insieme di norme che disciplinano il ricorso alla guerra (contenute nella Carta dell’ONU) 13 Insieme di norme che disciplinano la condotta delle ostilità (c.d. Diritto Internazionale Umanitario) 14 Rimane comunque vivo il problema del mancato rispetto delle suddette norme disposte a tutela della persona umana anche durante i conflitti armati. 15 Cfr. FRANCESCO VIGNARCA, Mercenari S.P.A.. I nuovi soldati dell’era globale: chi sono e chi li paga. Dall’America agli stati africani, dall’Iraq all’Italia, gli affari d’oro della guerra privata, BUR Futuro passato, 2004; FRANCESCO VIGNARCA, Li chiamano ancora mercenari. La privatizzazione nell’era della guerra globale, Terre di Mezzo, Milano, 2004. 16 I conflitti armati si distinguono in: Conflitti Armati Internazionali (si verifica tra forze armate di almeno due Stati, o in caso di guerre di liberazione nazionale) e Conflitti Armati non Internazionali (tra forze armate regolari e gruppi armati identificabili, o fra gruppi armati che si combattono tra di loro sul territorio di uno Stato); il modello intermedio che rientra all’interno della suddette categorie è quello delle Guerre Asimmetriche combattute tra uno Stato e gruppi armati organizzati non statali (es. guerra al terrorismo o alla pirateria). 13 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. l’applicazione degli accordi internazionali stipulati prima del conflitto stesso (inter arma silent lege), che per la loro natura, per la materia di cui si occupano e per gli interessi che tutelano, sono incompatibili con lo stato di guerra17. Bisogna, però, negare l’estinzione come effetto costante e generalizzato dello scoppio di una guerra, ma riportare la materia alla disciplina della c.d. clausola rebus sic stantibus, nel senso che si dovrà verificare di volta in volta se la guerra abbia determinato un mutamento radicale delle circostanze esistenti al momento della conclusione del trattato18. Certo, il tema della protezione dei diritti umani, più di ogni altro, sembra completamente antitetico alla condizione di conflitto. Ma comunque sia, la protezione della persona umana non viene meno completamente perché entra in vigore il Diritto Internazionale Umanitario19, in funzione di lex specialis, che persegue lo sforzo di “umanizzare la guerra”. Quest’ultimo è l’insieme delle norme (principi generali, consuetudini, convenzioni e trattati) del diritto internazionale che sono applicate in caso di conflitto e che proteggono le vittime di guerra o vittime dei conflitti armati, ovvero coloro che non hanno mai partecipato ai combattimenti o che hanno cessato di parteciparvi (la popolazione civile, i feriti, i naufraghi, i feriti, gli ammalati, i caduti ed i prigionieri di guerra). A livello internazionale, la sensibilità ai principi di umanità risale al 189920. Quell’anno, su iniziativa dello zar Alessandro I, si stava negoziando, per la prima volta nella comunità internazionale, una serie di accordi che in qualche modo ponessero un freno alle guerre, regolandone e addolcendone la spietatezza, e promuovessero meccanismi, come l’arbitrato internazionale, volti a prevenire lo scoppio delle guerre, cercando di risolvere pacificamente i conflitti tra Stati. Tra i 26 Stati che parteciparono all’Aia, alla Conferenza di pace del 1899, si formarono presto due schieramenti: uno composto dalle grandi potenze21 e uno composto da piccoli paesi22. In caso di guerra i piccoli paesi sarebbero stati subito invasi e occupati; perciò essi avevano interesse a limitare quanto più possibile i poteri e i diritti dell’occupante. I grandi paesi, ovviamente, avevano interessi contrari. 17 Fatti salvi, ovviamente, certi trattati stipulati proprio in vista della guerra e che appartengono pertanto al diritto internazionale bellico. 18 CONFORTI BENEDETTO, Diritto Internazionale, Editoriale Scientifica, Napoli, 2006, pagg. 124 e 124. 19 La base fondamentale del diritto umanitario è attualmente costituita dalla prima Convenzione di Ginevra del 22 agosto 1864 (data di nascita del Diritto Internazionale Umanitario) e dalle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 e dai successivi due Protocolli aggiuntivi dell'Aja del 1977. A questi documenti vanno aggiunti molti altri, quali la Convenzione dell’Aja del 14 maggio 1954, in materia di protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, la Convenzione di Ottawa del 1997 sull'eliminazione delle mine antipersona, le convenzioni in materia di divieto di uso di armi indiscriminate e di modifica ambientale. 20 L’epoca degli Stato sovrani arroccati nella tutela dei propri interessi statali e noncuranti degli interessi degli esseri umani, tranne il caso in cui si trattasse di proteggere, contro atti arbitrari di Stati esteri, gli interessi dei cittadini ricchi delle potenze occidentali che intrattenevano attività commerciali in quegli Stati. 21 Prussia, Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Russia, Impero Austro-Ungarico. 22 Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Grecia, Lussemburgo, Montenegro. 14 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. A questo punto, il vicecapo della delegazione russa, il giurista Fedor Fedorovic Martens, propose che tutto ciò che non avrebbe potuto essere regolato nella Convenzione a favore dei piccoli paesi, sarebbe, tuttavia, rimasto sotto la protezione delle regole internazionali “quali risultano dagli usi degli Stati o dai Principi di umanità o dai dettami della coscienza pubblica”. Questa formula, ribattezzata “clausola Martens”, conteneva in nuce la proclamazione dei diritti umani durante un conflitto armato e per questo sarebbe stata ripresa dall’art. 323 comune alle successive Convenzioni di Ginevra del ‘49. La clausola Martens garantisce uno “Standard minimo” (“almeno”) a fronte di uno standard massimo in continua espansione ed evoluzione.24 In questo passaggio, dall’uso e rimando delle convenzioni internazionali all’avvio dell’applicazione del diritto internazionale umanitario (DIU), la tutela della persona e il rispetto dei diritti umani (come è riportato negli approcci diffusi dalle varie convenzioni) rimane comunque garantito dalla giustiziabilità dei crimini di guerra di fronte alla Corte Penale Internazionale o ad altri Tribunali costituiti ad hoc25, nei cui rispettivi statuti troviamo l’elencazione degli stessi.26 23 Art. 3 o “mini-convenzione”: “Nel caso in cui un conflitto armato privo di carattere internazionale scoppiasse sul territorio di una delle Alte Parti contraenti, ciascuna delle Parti belligeranti è tenuta ad applicare almeno le disposizioni seguenti: 1.Le persone che non partecipano direttamente alle ostilità, compresi i membri delle forze armate che abbiano deposto le armi e le persone messe fuori combattimento da malattia, ferita, detenzione o qualsiasi altra causa, saranno trattate, in ogni circostanza, con umanità, senza alcuna distinzione di carattere sfavorevole che si riferisca alla razza, al colore, alla religione o alla credenza, al sesso, alla nascita o al censo, o fondata su qualsiasi altro criterio analogo. A questo scopo, sono e rimangono vietate, in ogni tempo e luogo, nei confronti delle persone sopra indicate: a. le violenze contro la vita e l’integrità corporale, specialmente l’assas-sinio in tutte le sue forme, le mutilazioni, i trattamenti crudeli, le torture e i supplizi; b. la cattura di ostaggi; c. gli oltraggi alla dignità personale, specialmente i trattamenti umilianti e degradanti; d. le condanne pronunciate e le esecuzioni compiute senza previo giudizio di un tribunale regolarmente costituito, che offra le garanzie giudiziarie riconosciute indispensabili dai popoli civili. 2. I feriti e i malati saranno raccolti o curati. Un ente umanitario imparziale, come il Comitato internazionale della Croce Rossa, potrà offrire i suoi servigi alle Parti belligeranti. Le Parti belligeranti si sforzeranno, d’altro lato, di mettere in vigore, mediante accordi speciali, tutte o parte delle altre disposizioni della presente Convenzione. L’applicazione delle disposizioni che precedono non avrà effetto sullo statuto giuridico delle Parti belligeranti.” 24 V. i tre Protocolli aggiuntivi alle Convenzioni di Ginevra del 1977 e del 2005 sui conflitti internazionali e non e sull’emblema addizionale. Oppure la Convenzione sulle armi chimiche (1993), la Convenzione sulle mine antiuomo (1997) e la Convenzione sull’interdizione dell’uso delle bombe a grappolo (2008) o clusters bomb. 25 Per approfondire vedi il Tribunale Internazionale per il Ruanda e il Tribunale Penale Internazionale della ExJugoslavia. 26 V. art. 8 dello Statuto della Corte Penale Internazionale, che comprende anche i crimini di guerra codificati dal corpus delle Convenzioni di Ginevra e relativi Protocolli. 15 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. La punibilità dei crimini di guerra si basa soprattutto sul principio dell’imputabilità personale, quale principio cardine del diritto penale, e sul principio della imprescrittibilità degli stessi27. Nell’analisi dei conflitti contemporanei e su come la legge venga applicata rientra una caratteristica fondamentale e determinante per comprenderne la differenza con il passato, ovvero come uno Stato, un gruppo etnico o un gruppo armato non forniscano direttamente un’esplicita dichiarazione di guerra per dare avvio ad un conflitto in un determinato territorio. Ne è incerto l’inizio, ne è incerta la fine: vengono infatti ribattezzate “guerre infinite”. Infatti, i nuovi conflitti, seguendo un approccio storico e giuridico, hanno assunto caratteristiche nuove dopo il crollo del muro di Berlino e risultano essere il conseguente ritorno a quei contrasti e a quelle rivendicazioni mondiali, soppressi fino al 1989 attraverso la minaccia dell’uso delle armi. I rischi sono, infatti, andati modificandosi rispetto a quelli conseguenti dai momenti bellici trascorsi, poiché comportano l’uso e la produzione di armi provenienti dall’esportazione di quei paesi coinvolti direttamente o indirettamente nel commercio delle stesse e spesso anche nel loro traffico illegale; i conflitti della storia contemporanea sono, quindi, mutati e comportano una perdita incalcolabile di vite umane tra la popolazione civile, violando il quadro normativo di diritto internazionale umanitario e le varie convenzioni ad hoc (sopra riportate) per la tutela di donne e bambini. 1.3. Il commercio di armamenti Le problematiche sin qui affrontate danno l’opportunità di riflettere sui principi universali affermati dai governi dei paesi industrializzati. Questi stessi stati si presentano, tuttavia, come non diretti esecutori dei valori internazionali che promuovono: ne è un esempio diretto il fatto che rappresentino, sul panorama della compravendita internazionale, i maggiori produttori ed esportatori di armi, la cui commercializzazione è perlopiù destinata ai paesi in via di sviluppo. L’organo istituzionale, al cui interno siedono i paesi industrializzati di cui sopra, è proprio il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, lo stesso organo che approva gli interventi di protezione umanitaria in campo internazionale. 27 Art. 29 Statuto della Corte Penale Internazionale: “I crimini di competenza della Corte non sono soggetti ad alcun termine di prescrizione”. 16 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. Alcuni dei paesi maggiormente industrializzati (Stati Uniti, Cina, Francia, Gran Bretagna e Russia) rappresentano i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite, l’organo istituzionale con competenza non esclusiva28 nel deliberare su atti di aggressione o di minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale. Quindi, le grandi potenze, da un lato, plasmano il diritto internazionale, proibendo l’uso della forza (tranne il caso di legittima difesa o di ricorso alla forza da parte dell’ONU o su autorizzazione dell’ONU – v. il caso dell’Iraq nel 1990 e quello della Libia nel 2011), mentre dall’altro non hanno alcun interesse ad autolimitarsi nella tutela dei propri interessi, soprattutto quando si tratta di approvvigionarsi di risorse energetiche o materie prime o di difendere la propria economia, come nel caso del commercio di armamenti. I trasferimenti dei maggiori sistemi d’arma nell’ultimo lasso di tempo analizzato29 (2007-2011), hanno registrato un rilevante incremento percentuale e vedono Stati Uniti e India mantenere le loro posizioni, rispettivamente il primo quale principale esportatore e il secondo come primo tra i Paesi importatori di armi. Nella tabella di seguito riportata, si può notare come Stati Uniti, Russia, Germania, Francia e Regno Unito detengano il primato delle esportazioni d’armi nel periodo 2007-2011; in particolare Stati Uniti e Russia sono responsabili rispettivamente del 30% e del 24% delle esportazioni totali: Tabella n. 1 Paesi fornitori Quota delle esportazioni Principali destinatari delle esportazioni Stati Uniti 30% Corea del Sud (13%) Australia (10%) Emirati Arabi (7%) Russia 24% India (33%) Cina (16%) Corea del Sud (10%) Algeria (14%) Germania 9% Grecia (13%) Sudafrica (8%) Francia 8% Singapore (20%) Grecia (10%) Marocco (8%) Regno Unito 4% Arabia Saudita (28%) Stati Uniti (21%) India (15%) Fonte: SIPRI Yearbook 2011/2012 28 "Uniting for peace" Risoluzione 377 (V) 1950 dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, peraltro di contestata legittimità, stabilisce che, se il Consiglio di sicurezza, in mancanza di unanimità dei membri permanenti, non dovesse adempiere al suo compito primario di mantenere la pace e la sicurezza internazionali, qualora si profilasse una qualsiasi minaccia per la pace, violazione della pace o atto di aggressione, l'Assemblea generale dovrà occuparsi immediatamente della questione e indirizzare le opportune raccomandazioni ai Membri per deliberare misure collettive da adottare, incluso, se necessario, nel caso di una violazione della pace o di atti di aggressione, l'uso di forze armate, per mantenere o ripristinare la pace e la sicurezza internazionali. 29 Vedi SIPRI Yearbook 2011 17 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. Come abbiamo anticipato, il mantenimento della pace e la sicurezza internazionale, e quindi la competenza a limitare il commercio internazionale delle armi nei casi in cui i predetti scopi siano minacciati, sono compiti che, ex. Art. 33,1 della Carta delle Nazioni Unite, spettano al Consiglio di Sicurezza. Secondo l’art. 41 il Consiglio può decidere quali misure, non implicanti l’uso della forza armata, debbano essere adottate per dare effetto alle sue decisioni, e può invitare i membri delle Nazioni Unite ad applicare tali misure. Queste possono comprendere un’interruzione totale o parziale delle relazioni economiche e delle comunicazioni ferroviarie, marittime, aeree, postali, telegrafiche, radio ed altre, e la rottura delle relazioni diplomatiche. Queste misure hanno carattere sanzionatorio e vengono comminate contro uno Stato il quale, a giudizio del Consiglio di Sicurezza, turbi o minacci la pace o sia da considerare come aggressore, a prescindere che la minaccia costituisca o meno illecito internazionale. In concreto ad adottare le misure di cui all’art. 41 sono tutti gli stati membri dell’Onu, su richiesta del Consiglio. La lista delle misure dell’art. 41 è solo esemplificativa e non tassativa, potendo il consiglio prendere qualsiasi altra misura che abbia scopo sanzionatorio e che non comporti l’impiego delle forze armate.30 Le misure dell’art. 41 rientrano nelle “misure coercitive”, di cui all’art. 2, par. 7, ult. 31 parte , e per cui sono sottratte al limite della domestic jurisdiction, trovando quindi applicazione diretta nei confronti dello Stato contro cui sono rivolte. Nonostante l’incongruenza contenuta nella lettera dell’art. 41 (che da un lato prevede che il Consiglio di Sicurezza possa decidere quali misure debbano essere adottate e dall’altro invita gli Stati ad applicarle) le misure in questione non implicanti l’uso della forza formano oggetto di vere e proprie decisioni32 del Consiglio, quali atti che vincolano gli Stati membri ad adottarle (salvo la clausola prevista dall’art. 50 della Carta33) secondo l’impegno sancito 30 Anche se il Consiglio può prendere misure di carattere militare, riconducibili all’art. 42 della Carta, per assicurare il rispetto delle misure pacifiche di cui all’art. 41. 31 “Nessuna disposizione del presente Statuto autorizza le Nazioni Unite ad intervenire in questioni che appartengono essenzialmente alla competenza interna si uno Stato, né obbliga i Membri a sottoporre tali questioni ad una procedura di regolamento in applicazione del presente Statuto; questo principio non pregiudica però l’applicazione di misure coercitive a norma del capitolo VII”. 32 Nel sistema delle Nazioni Unite le decisioni (contrapposte alle raccomandazioni, alle autorizzazioni e alle deleghe) non sono per nulla numerose. Tra quelle di maggior rilievo vi sono quelle dell’Assemblea Generale che approvano il bilancio e ripartiscono le spese dell’Organizzazione tra gli Stati membri (art. 17) e le decisioni del Consiglio di Sicurezza in caso di mancata esecuzione di una sentenza della Corte Internazionale di Giustizia, nonché gli atti relativi allo status di membro dell’Onu, con cui l’Assemblea Generale ne determina la sospensione o l’espulsione (art.5 e 6). Di fronte all’inesecuzione delle sue decisioni il Consiglio può essere indotto a ricorrere a ulteriori sanzioni ex. Art. 41 se non addirittura all’uso della forza ex. Art. 42 per farle rispettare. 33 “Se il Consiglio di Sicurezza intraprende misure preventive contro uno Stato, ogni altro Stato, sia o non sia Membro delle Nazioni Unite, che si trovi di fronte a particolari difficoltà economiche derivanti dall’esecuzione di tali misure, ha diritto di consultare il Consiglio di Sicurezza riagurado alla soluzione di tali difficoltà”. 18 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. all’art. 2534. Tale vincolatività trova conferma sia nella prassi del CdS, quando con delle risoluzioni richiama gli obblighi stabiliti da precedenti risoluzioni, sia dalla giurisprudenza internazionale.35 L’obbligo sussisterebbe di certo in caso di situazioni concrete e imminenti di minaccia alla pace, mentre la dottrina di alcuni Stati ha espresso delle riserve sulla vincolatività delle risoluzioni adottate in via preventiva per preservare la pace o la sicurezza, come nel caso delle risoluzioni adottate per sconfiggere il terrorismo internazionale e per contrastare la proliferazione nucleare tra entità non statali36 che hanno provveduto a porre una disciplina generale ed astratta a prescindere da crisi concrete, presupponendo così un potere di carattere legislativo mondiale del CdS. Di certo, invece, non sono vincolanti le risoluzioni del CdS che obbligano gli Stati a comportarsi in contrasto con lo jus cogens, specialmente con le norme del diritto internazionale umanitario, che impongono al CdS, in caso di embargo, di sottrarre allo stesso le misure necessarie alla sopravvivenza (es. cibo, medicinali). Quindi, se è vero che attraverso le misure previste dall’art. 41 il CdS impone l’obbligo per gli Stati di adottarle, è altrettanto vero che spesso e volentieri gli Stati, per motivi politici od economici, sono portati a disattendere l’obbligo giuridico attraverso scappatoie giuridiche. Sono le contingenze storiche che stabiliscono se debbano esservi o meno delle conseguenze di fronte a tali comportamenti degli Stati, con buona pace del principio della certezza del diritto in ambito internazionale. Infatti secondo le norme sulla responsabilità internazionale per violazione di un qualsiasi37 obbligo di diritto internazionale38 (“si ha violazione di un obbligo internazionale da parte di uno Stato quando un fatto di tale Stato non è conforme a ciò che gli è imposto dal predetto obbligo”39) il mancato rispetto delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza costituirebbero un vero e proprio illecito internazionale. Ciò darebbe al Consiglio di Sicurezza, secondo il principio dell’autotutela collettiva40, il diritto di adottare nei confronti dello Stato responsabile della violazione misure ritorsive implicanti o meno 34 “ I membri delle Nazioni Unite convengono di accettare e di eseguire le decisioni del Consiglio di Sicurezza in conformità alle disposizioni del presente Statuto”. 35 La Corte Internazionale di Giustizia, nel caso Lockerbie (CIJ, Recuil, 1192, parr. 35-40), ha indicato il criterio della prevalenza degli obblighi derivanti dalla Carta, compresi quelli derivanti dalle risoluzioni del CdS, sugli obblighi di diritto internazionale assunti dagli Stati membri in base a qualsiasi altro accordo internazionale (Art. 103 della Carta) 36 Rispettivamente riss. 28/09/2001 n. 1373 e 28/04/2004 n. 1540. 37 E cioè potendo derivare un obbligo da una norma di diritto consuetudinario, da una norma pattizia o da una norma posta da un atto di un’organizzazione internazionale. 38 Contenute nel “Progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati per atti illeciti internazionali” e presentato nell’agosto 2001 all’Assemblea Generale dalla Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite. Tale progetto, tuttavia, non è stato ancora codificato in una convenzione. 39 Art. 12 e ss. del “Progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati per atti illeciti internazionali”, sull’elemento obiettivo dell’illecito. 40 Sull’autotutela collettiva si veda CONFORTI B., Diritto Internazionale, Editoriale Scientifica, Napoli, 2006, da pag. 350 a pag. 359. 19 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. l’uso della forza armata dirette a reintegrare l’ordine giuridico violato ossia a far cessare l’illecito. Addirittura il CdS potrebbe arrivare a sospendere (Art. 5) o espellere (Art. 6) dallo status di membro nelle Nazioni Unite lo Stato che abbia persistentemente violato gli obblighi contenuti nella Carta. Nel caso di violazioni degli embargo di armi, forse, le contromisure del CdS troverebbero una giustificazione maggiore, non solo perché l’illecito deriverebbe dal mancato rispetto di norme pattizie, ma anche perché “si è consolidata nel tempo una norma di diritto consuetudinario che vieta agli Stati, anche in deroga ad accordi precedentemente conclusi, la fornitura di armi e di assistenza militare agli Stati autori di un crimine internazionale”41. Tra le misure che il Consiglio spesso adotta, vi è l’istituzione di un Comitato di controllo, composto dai membri del CdS, destinato alla gestione delle sanzioni e a controllare che siano eseguite. Una delle competenze più interessanti dei Comitati di controllo è di amministrare delle “liste” di persone nei cui confronti il CdS ha adottato delle sanzioni42 (come ad es. nei confronti di gruppi di ribelli o commercianti di armi). In questo caso bisogna distinguere tra destinatario formale e destinatario materiale delle misure. Quando il CdS impone agli Stati di bloccare le risorse finanziarie o la libertà di spostarsi di certi individui, i destinatari formali sono gli Stati, ai quali incombe l’obbligo di eseguire le sanzioni, mentre i destinatari materiali delle sanzioni sono gli individui. In altre parole simili risoluzioni impongono obblighi agli Stati sul trattamento da riservare agli individui. Tramite questo meccanismo, non impedire il commercio illegale di armi da parte di entità non statali costituisce altresì un illecito internazionale solo per lo Stato, ma non per l’individuo che rimane comunque assoggettato alla legislazione penale di ogni singolo Paese, ove prevista. Infatti il contrabbando di armi rientrerebbe tra i cosiddetti Treaty crimes43 che, a differenza dei Core crimes44, sono esclusi dalla competenza della Corte Penale Internazionale; la repressione di queste fattispecie criminose è prevista da trattati internazionali che dispongono generalmente delle forme di collaborazione tra gli Stati e una armonizzazione degli elementi delle fattispecie di reato e delle pene tra le rispettive legislazioni45. 41 IOVANE, La tutela dei valori fondamentali nel diritto internazionale, Editoriale Scientifica, Napoli, 2000. Bisogna precisare che queste sanzioni non posseggono carattere penale, ma piuttosto una rilevanza pratica. 43 Terrorismo, traffico illecito di stupefacenti, ecc. 44 Sono così definiti i crimini contenuti nello Statuto della CPI. 45 Ad.es. Nel Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale relativo la fabbricazione e il traffico illecito delle armi da fuoco, di loro parti, elementi o munizioni, entrato in vigore il 3 luglio 2005, si tende a promuovere, facilitare e rafforzare la cooperazione tra gli Stati al fine di prevenire, combattere e sradicare la fabbricazione e il traffico illecito delle armi leggere e delle loro componenti. Il Protocollo, suddiviso in tre sezioni, è il primo strumento legalmente vincolante sulle armi di piccolo taglio adottato a livello globale. Nella prima sezione, all’art.3, si individua la nozione di “arma da fuoco” intesa come: “arma a canna portatile destinata allo sparo di piombini, di una pallottola o di un proiettile 42 20 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. Un sistema di responsabilità dello Stato per fatto illecito è perciò previsto sulla carta nel diritto internazionale, ma spesso e volentieri non trova applicazione perché è un cane che si morde la coda. I maggiori produttori ed esportatori di armi, come già detto più volte, sono gli stessi che siedono in seno al CdS col diritto di veto. E nonostante siano loro a disporre gli embargo, ovviamente poi non prendono misure nel caso in cui non li rispettino, giustificandosi spesso e volentieri con scappatoie giuridiche che, se non fanno eludere la lettera della norma, sono certamente contrarie al suo spirito46. Ammesso che funzionasse, poi, questo sistema interviene solo in caso di turbamento o di minaccia alla pace, il più delle volte, quindi, durante un conflitto già in atto: troppo tardi per evitare le efferate violazioni dei diritti umani che la guerra comporta. Fatto salvo il diritto di uno Stato a produrre armi per la propria difesa e quello di importare armi qualora non fosse capace di produrne, è necessario un trattato internazionale che a priori vincoli gli Stati a commercializzare esclusivamente con Paesi responsabili, in cui sia accertata l’assenza di violazioni dei diritti umani o del diritto internazionale umanitario. La Conferenza Diplomatica per il Trattato sul commercio di armi, Arms Trade Treaty (ATT) del luglio 2012 era la parte conclusiva del processo sancito dall’ONU, formalmente iniziato nel 2006. Dopo un mese di negoziati serrati, è stata presentata una bozza durante il penultimo giorno della Conferenza. Nonostante la maggior parte degli Stati desiderassero che il Trattato fosse approvato, nel corso dell’ultimo giorno gli Stati Uniti hanno chiesto “più tempo” per poter meglio considerare il testo, ostacolando quindi il raggiungimento di un esito unanime47. per mezzo di un esplosivo, o che è progettata a tal fine o che può agevolmente essere trasformata a tal fine, escluse le armi da fuoco antiche o le loro riproduzioni. Le armi da fuoco antiche o le loro riproduzioni sono definite in conformità alla legislazione interna. Ciò nonostante, le armi da fuoco antiche non includono in alcun caso le armi fabbricate dopo il 1889”. Nel Protocollo, è prevista l’attuazione da parte degli Stati di una serie di misure di controllo al fine di prevenire il traffico di armi da fuoco, loro parti, elementi e munizioni. In particolare, si obbligano gli Stati ad adottare misure per la conservazione della documentazione relativa alle armi da fuoco che, nel caso di transazioni internazionali, dovrà contenere informazioni circa il Paese d’esportazione, d’importazione e di transito, il destinatario finale e la descrizione e quantità degli articoli. Nell’ambito della prevenzione si richiede di introdurre una legislazione che stabilisca un regime di identificazione delle armi (art. 8) così da consentire una costante identificazione dell’arma prodotta e contrastare i traffici illeciti nel settore, potendo risalire dall’arma al suo produttore, all’importatore ed al distributore. È importante sottolineare che il protocollo richiede obbligatoria la marcatura non solo al momento della fabbricazione, ma anche al momento dell’importazione per facilitare l’identificazione e la tracciabilità di ogni arma da fuoco. Nel protocollo si prevede, altresì, la cooperazione a livello bilaterale, regionale e internazionale per mitigare il traffico illecito e la fabbricazione di armi da fuoco non solo attraverso lo scambio di informazioni, ma anche attraverso la cooperazione in materia di formazione e assistenza tecnica, materiale e attraverso aiuti finanziari tra gli Stati. Infine, nell’articolo 15 del Protocollo, si prevede che gli Stati adottino una disciplina di regolamentazione delle attività di vendita e intermediazione di armi da fuoco, loro parti, elementi o munizioni. 46 Alcuni modi per aggirare un provvedimento di embargo sono le triangolazioni, l'installazione di presidi operativi direttamente nel Paese oggetto dell'embargo, i c.d. “accordi di cooperazione alla difesa”, ecc. 47 Sulle criticità e lacune del testo cfr. MAURIZIO SIMONCELLI (a cura di), La pace possibile. Successi e fallimenti degli accordi internazionali sul disarmo e sul controllo degli armamenti, Ediesse, Roma, 2012, da pag. 151 a 21 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. In attesa di un trattato a livello globale, la Convenzione dell’ECOWAS48 è lo strumento più evoluto a carattere regionale. Esso è l’unico esempio al mondo di accordo realmente vincolante per gli Stati firmatari in materia di armi leggere, prevedendo un meccanismo sanzionatorio in caso di violazione per le norme ivi contenute49. In Italia la disciplina sul controllo delle esportazioni, importazioni e traffico dei materiali di armamenti è dettata dalla legge del 9/07/1990 n. 185, in seguito modificata dalla legge del 17/06/2003 n. 148, dal d.lgs. n. 66/2010 e da d.lgs. 22 giugno 2012 n. 105.50 Insomma si capisce come un cambiamento nella disciplina internazionale è difficile che avvenga per iniziativa dei governi, legati indissolubilmente agli interessi delle lobby commerciali dell’industria d’armi. E’, quindi, compito della società civile, attraverso una capillare informazione e facendo leva sulla responsabilità politica dei governanti di fronte ai propri elettori, catalizzare l’attenzione di queste tematiche sui vari parlamenti nazionali affinché vengano adottate leggi sempre più vincolanti a livello nazionale e i cui effetti si ripercuotano sul piano sovranazionale, dove, così, potrà trovare adattamento una disciplina giuridica vincolante per le generazioni future. E da questo punto di vista l’Italia dal ’90 ha imboccato la giusta strada. pag. 165; e CONTROL ARMS, Completare il lavoro: approvare un Trattato sul commercio di armi a prova di proiettile, 2012, disponibile su www.archiviodisarmo.it. 48 Economic Community of West African States on Small Arms, Light Weapons, their Ammunition and Other Associated Materials, 2006. Sull’Ecowas cfr. MAURIZIO SIMONCELLI (a cura di), cit., da pag.125 a pag. 139. 49 L’art. 27 stabilisce che qualsiasi controversia avente ad oggetto presunte violazioni della Convenzione debba essere portata all’attenzione dell’Executive Secretary dell’ECOWAS, che a sua volta la deferirà al Mediation and Security Council. Nel caso in cui il comportamento di uno Stato membro violi le norme convenzionali, quest’ultimo organo valuterà l’adozione delle misure più appropriate, quali inchieste, sanzioni o il ricorso alla Coourt of Justice dell’ECOWAS. La possibilità di attivare tale procedura non pregiudica la facoltà per il singolo Stato o di un individuo di adire direttamente l’organo giudiziario. 50 Sulla disciplina italiana cfr. MAURIZIO SIMONCELLI (a cura di), cit., da pag. 119 a pag. 123; EMMOLO EMILIO, Le modifiche del 2012 alla disciplina sui controlli delle esportazioni di armi della legge 185 del 1990 , in Sistema informativo a schede, www.archiviodisarmo.it. 22 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. Cap. 2 – L’UTILIZZO DI ARMI LEGGERE E CONSEGUENZE INDOTTE: L’ARRUOLAMENTO DEI BAMBINI SOLDATO 2.1. Le armi leggere: caratteristiche e conseguenze del loro utilizzo Con il termine "armi leggere" si fa riferimento a tutte quelle armi incluse nella definizione adottata da un gruppo di esperti convocati dalle Nazioni Unite nel 1997, ovvero: “sono armi leggere e piccole quelle armi che possono essere trasportate facilmente da una persona, da un gruppo di persone, a trazione animale o con veicoli leggeri”. Data la definizione, è evidente come la possibilità di fare uso di armi leggere da parte di soggetti non autorizzati, minorenni e non addestrati sia reale. Gli esperti hanno individuato tre categorie di armi piccole e leggere, collettive e individuali "fabbricate con caratteristiche militari per essere usate come strumenti letali di guerra": 1. Armi di piccolo calibro in cui sono compresi revolver, pistole, fucili, carabine, pistole mitragliatrici e mitra. 2. Armi leggere che comprendono mitragliatori pesanti, lancia missili e lancia granate portatili, armi e mortai portatili antiaereo e antimissile con un calibro di meno di 100 mm. 3. Munizioni ed esplosivi usati per le armi e gli armamenti sopra indicati, comprese le mine antiuomo (già messe al bando in Italia). Un recente studio pubblicato da Small Arms Survey nel 2010 ha riportato la stima delle armi da fuoco in circolazione nel mondo, che si aggira attorno agli 875 milioni di pezzi:il possesso si estende ben al di là degli eserciti e delle forze di polizia per raggiungere gruppi di opposizione, forze di sicurezza privata, vigilantes e singoli cittadini. Questa larga diffusione innesca una spirale di violenza in molte società, che a sua volta determina l’aumento di armi da fuoco. Differenti cause originano differenti forme di violenza: la violenza politica che oppone i governi a milizie rivoluzionarie che combattono per rovesciarli o per ottenere l’indipendenza, la violenza all’interno delle comunità, che coinvolge diversi gruppi etnici o religiosi o basati su identità specifiche, la violenza criminale, che coinvolge trafficanti di droga, gruppi del crimine organizzato e microcriminalità. 23 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. E in molti paesi anche i cittadini acquistano sempre più armi da fuoco a scopo di autodifesa. Se in un territorio sono presenti armi di tale calibro e pericolosità, è immediata l’acquisizione di una determinata autorità assunta da chi le detiene e la conseguente messa in atto di pratiche di persuasione e di ricatto che decidono della vita, della condotta, dello status quo e della morte di un altro individuo che non le possiede. Questa problematica è stata inserita per la prima volta in un tavolo di discussione nel 1999, grazie all’osservazione di 200 ONG che diedero vita all’International Action Network on Small Arms con lo scopo di combattere e opporsi alla diffusione e all’uso indiscriminato di armi leggere. La loro crescente disponibilità favorisce, infatti, il ricorso alla violenza sul piano sociale, minacciando l’unità e il benessere di molte società, in particolare nei paesi in via di sviluppo, dove il monitoraggio della distribuzione di armi tra la popolazione civile è nulla. Le armi leggere sono definite armi di piccolo calibro, ma il loro impatto è, comunque, devastante e incontrollabile. L’ottenimento di questo successo derivante dal commercio delle armi, porta molti Stati a destinare una parte della loro spesa finanziaria alla loro produzione e al trasferimento commerciale futuro, riservando meno risorse a settori come l’educazione, la salute e lo sviluppo economico sostenibile51. Le caratteristiche che favoriscono l’acquisto, la produzione e la distribuzione di armi leggere sono le seguenti52: • Basso costo. Il costo relativamente basso consente rilevanti acquisti da parte di gruppi paramilitari. • Ampia disponibilità e facile trasporto. Dal 1947 ad oggi sono stati prodotti oltre 70 milioni di kalashnikov, il simbolo della violenza di massa a bassa tecnologia. Il caso del Mozambico è emblematico poiché è uno dei Paesi che possiede il più alto numero di questi fucili e l’Ak-47 è raffigurato nella bandiera nazionale. Dopo la fine della Guerra fredda, immensi arsenali sono stati dismessi e le armi sono fluite nelle zone più calde del pianeta. Le piccole dimensioni ed il peso ridotto di queste armi ne consentono un facile trasporto attraverso le vie del mercato nero, quasi impossibile oggi da controllare. Sono facili da nascondere e trasportare clandestinamente. • Facile manutenzione. Queste armi a bassa tecnologia richiedono semplicissimi metodi di manutenzione e pochissimi pezzi di ricambio. • Facile impiego. Possono essere montate e smontate con tale facilità da consentirne l’uso anche a chiunque, compresi i cosiddetti bambini-soldato, fin dai 10 anni di età. 51 52 Per approfondire v. BATTISTELLI FABRIZIO , Armi e armamenti, Editori Riuniti, Roma, 1985; http://www.volint.it/scuolevis/commercio%20armi/commercio%20armi.htm 24 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. E’ questa una delle principali motivazioni che determina che i combattenti delle guerre contemporanee siano sempre più spesso civili militarmente impreparati. Si calcola che 250.000 ragazzi di età inferiore ai 18 anni abbiano combattuto in 33 recenti conflitti e che in 26 di questi ci siano stati combattenti di età inferiore a 15 anni. • Lunga vita. Dal momento che le armi da fuoco individuali hanno lunga vita, possono rimanere in circolazione per decenni, alimentando ininterrottamente un fiorente traffico di armi di seconda mano. Armi abbandonate al termine di un conflitto civile finiscono sul mercato nero per poi ricomparire in un’altra area di tensione del pianeta, incrementando un clima di violenza senza fine. La descrizione capillare del contesto in cui vengono utilizzate le armi leggere e le componenti a beneficio della loro produzione e sostegno nei programmi governativi di molti stati porta a riflettere sulla questione che il loro possesso vada ad intaccare e contrastare alcuni articoli della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo53, minando la sicurezza personale dell’individuo, singolarmente inteso, e la sua libera circolazione ed espressione di sé. Molti studi in materia e profili di sviluppo e rispetto dei diritti umani, manifestatisi all’interno della comunità internazionale, considerano difatti le armi leggere una delle maggiori cause di violazione dei diritti umani e proliferazione del numero di morti conseguenti. Le Nazioni Unite precisano, per l’appunto, come la responsabilità di proteggere i diritti fondamentali, non permettendo la violazione in prima persona ed esercitando la propria autorità nel dare creazione e indirizzo al rispetto delle norme atte alla protezione dei cittadini, sia necessariamente degli Stati in cui il conflitto ha svolgimento. Monitoraggio, controllo, vigilanza, imposizione delle leggi in materia di commercio di armamenti costituiscono, quindi, i doveri dello Stato e quest’ultimo, se imbocca la strada del fallimento, dovrà essere sanzionato e punito per effettivo favoreggiamento della violazione dei diritti umani54. 53 Per approfondire vedi art. 3 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo: “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona”. 54 Per una contestualizzazione ulteriore del fenomeno si veda il testo di MAURIZIO SIMONCELLI , Dove i diritti umani non esistono più. La violazione dei diritti umani nelle guerre contemporanee, cap. 2, Ediesse, Roma,2010; 25 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. 2.2. Da bambini a soldati: addestramento, uso militare e reintegrazione sociale Per comprendere ed analizzare il concetto di bambino-soldato e le conseguenze che un tale ruolo comporta, è necessario definire cosa si intenda per bambino. Secondo la Convenzione ONU sui Diritti dell'infanzia, è considerato bambino (precisando che il documento utilizza il termine fanciullo): “ogni essere umano avente un'età inferiore a diciotto anni, salvo se abbia raggiunto prima la maturità in virtù della legislazione applicabile55”. La Convenzione è quello strumento normativo internazionale di promozione e di tutela dei diritti dell'infanzia, approvata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989. Ratificato da ogni paese del mondo, ad eccezione di Somalia e Stati Uniti, essa esprime un largo consenso su quali siano gli obblighi degli Stati e della comunità internazionale nei confronti dell'infanzia, codificando e sviluppando in maniera significativa le norme internazionali applicabili ai bambini. Nella Convenzione, agli art. 32-34-35-3756, vi è un diretto ed esplicito riferimento al dovere e al riconoscimento da parte degli Stati della tutela e della protezione dei bambini da ogni sfruttamento economico e lavorativo (art.32), contro ogni forma di sfruttamento sessuale e violenza sessuale (art.34), contro la tratta adottando provvedimenti legislativi in materia (art.35), contro ogni forma di tortura o detenzione illegale e ingiustificata con conseguente privazione di libertà (art.37). Nell’art. 38 della medesima Convenzione si vanno a delineare i principi da seguire e rispettare nella tutela del bambino in caso di conflitto armato: 1. Stati Parti si impegnano a rispettare ed a far rispettare le regole del diritto umanitario internazionale loro applicabili in caso di conflitto armato, e la cui protezione si estende ai fanciulli. 2. Gli Stati Parti adottano ogni misura possibile a livello pratico per vigilare che le persone che non hanno raggiunto l’età di quindici anni non partecipino direttamente alle ostilità. 3. Gli Stati Parti si astengono dall’arruolare nelle loro forze armate ogni persona che non ha raggiunto l’età di quindici anni. Nell’incorporare persone aventi più di quindici anni ma meno di diciotto anni, gli Stati Parti si sforzano di arruolare con precedenza i più anziani. 4. In conformità con l’obbligo che spetta loro in virtù del diritto umanitario internazionale di proteggere la popolazione civile in caso di conflitto armato, gli Stati Parti adottano ogni misura possibile a livello pratico affinché i fanciulli coinvolti in un conflitto armato possano beneficiare di cure e di protezione57. 55 Per la definizione si veda il documento alla pagina http://unipd-centrodirittiumani.it/public/docs/Conv_bambino_1989.pdf 56 ibidem 57 Ibidem 26 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. Il documento costituisce la punta del preambolo giuridico che, come vedremo nel prossimo paragrafo, ha determinato una cultura internazionale attorno alla tutela del bambino ed, in particolare, a riguardo del coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati. Prima di analizzare quei principi posti a fondamento del lavoro sul campo degli operatori con i bambini, è, inoltre, basilare indagare le cause che portano ad utilizzare i minori come combattenti. Infatti, come ha sottolineato Olara Otunnu, ex Rappresentante Speciale del Segretario Generale ONU per i bambini nei conflitti armati: “…i bambini non sono ancora pienamente coscienti delle loro azioni: possono essere facilmente indottrinati e trasformati in spietate armi belliche”. Tra le motivazioni alla base dello scoppio di numerosi conflitti armati e del proliferarsi di vittime innocenti tra i civili, in particolare tra i bambini e le donne (come viene anche riportato nel primo paragrafo del seguente capitolo), troviamo la diffusa proliferazione di armi leggere, soprattutto il commercio illegale che ruota attorno a questo tipo di armi che, senza esitazioni o un attento monitoraggio normativo ed etico, terminano nelle mani di bambini innocenti, ancora inconsapevoli delle conseguenze che esse potrebbero comportare, pur nel loro semplice maneggiarle con curiosità. Le motivazioni che ruotano attorno alla decisione da parte di uno Stato o di un gruppo ribelle di arruolare un determinato numero di bambini ed adolescenti nelle proprie truppe, sono dettate dalla peculiarità della loro giovane età, con la vulnerabilità che essa comporta e al vantaggio di impiegare per un lungo periodo di tempo una determinata forza (indifesa e condizionabile) ad un costo molto basso, se non addirittura con la semplice minaccia di morte o altre ritorsioni58, direttamente connesse alla famiglia di origine del bambino di riferimento59. Nella grande maggioranza dei conflitti in cui vengono utilizzati dei minori, siano quest’ultimi arruolati con la forza o in modo volontario, le disponibilità economiche delle parti in lotta sono decisamente ridotte e le dotazioni militari son principalmente costituite da armi leggere e portatili60, le quali (come già specificato dalle caratteristiche elencate 58 MAURIZIO SIMONCELLI, Dove i diritti umani non esistono più. La violazione dei diritti umani nelle guerre contemporanee, Edizioni Ediesse, Roma, 2010. 59 Sovente spesso le stesse famiglie, nei Pvs, contattano esponenti militari e chiedono l’arruolamento dei loro figli, per poter sostenere economicamente la famiglia stessa, date le scarse disponibilità monetarie per mantenerla in modo legale. Inoltre, l’abbattimento del costo della manodopera, l’alto livello di disoccupazione accompagnata ad una percentuale molto bassa di alfabetizzazione o di investimento nel sistema scolastico, porta ad avere molta difficoltà, da parte delle famiglie, a sostenere a livello morale l’eliminazione dell’arruolamento dei loro figli nelle forze militari e all’uso medesimo nei conflitti armati. 60 In merito alle SALW (Small Arms and Light Weapons) si veda anche: http://www.esteri.it/MAE/IT/Politica_Estera/Temi_Globali/Disarmo/SALW.htm 27 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. precedentemente) si prestano perfettamente all’uso incondizionato e non controllato dei bambini. Aldilà delle motivazioni tecniche di arruolamento forzato, è sconcertante come possano presentarsi e verificarsi numerosi casi di volontarietà da parte del bambino nell’arruolarsi, dovute a delle condizioni precarie di vita e all’assenza di alternative di riscatto sociale ed educativo che, troppo spesso, viene negato, nonché al desiderio di vendetta e riscatto contro coloro che hanno commesso gravi atrocità nei confronti della loro famiglia. Crescere, difatti, in un contesto bellico o in un conflitto armato, o con la compresenza di contrasti interetnici (il caso del Rwanda61 ne è l’esempio più calzante), porta ad essere più esposti al rischio di restare vittima degli scontri o di subire abusi. L’impossibilità, vissuta da parte dei civili (in primis dei minori), di non potersi difendere porta all’estrema tentazione di entrare a far parte dei conflitti armati, sottovalutando i pericoli correlati alla partecipazione a operazioni militari. L’esercito funge, infatti, per i bambini quale agenzia di socializzazione62 (a seguito della mancanza, della scomparsa non giustificata63 o della perdita della famiglia di origine, a cui non possono più affidarsi). La forza militare è un apparato, infatti, altamente organizzato sotto qualunque aspetto, capace di iniziare neofili all’esercito, come i bambini, attraverso una semplice selezione che avviene, nella stragrande maggioranza dei casi, con la forza o con minacce soprattutto nei confronti di minori non tutelati, già sottratti alla comunità familiare di origine e, spesso, ospitati in campi profughi64. All’arruolamento segue l’addestramento dei bambini, considerato estremamente duro e assimilabile ai lavori forzati (poiché spesso impiegati per rivestire ruoli alternative al semplice soldato, come facchini, spie, sentinelle disarmate, cuochi). Naturalmente l’addestramento ha forme che non contraddicono la differenza di genere: infatti, le bambine e le ragazze arruolate sono costrette a soddisfare i desideri sessuali dei membri del gruppo sotto 61 Per approfondire la guerra civile in Ruanda e la condizione attuale del paese si veda il paper di EMANUELA MALATESTA al seguente link: http://www.archiviodisarmo.it/siti/sito_archiviodisarmo/upload/documenti/12528_Rwanda_2013.pdf 62 Per approfondire si veda la seguente definizione: “Le agenzie di socializzazione sono quei gruppi o quelle istituzioni che hanno sempre avuto (come la famiglia e la scuola) o hanno recentemente acquisito (come i massmedia e il gruppo dei pari) un ruolo di primo piano nel processo di socializzazione” (http://www.skuola.net/sociologia/agenzie-socializzazione.html). 63 E’ il caso di moltissimi bambini per i quali il ricongiungimento con le famiglie è impossibile, dati i rischi di ritorsioni da parte dei superiori dell’esercito, in caso di fuga o di diserzione ma, anche, per i timori di essere rifiutati dalla comunità di appartenenza a causa della atrocità commesse in anni di conflitto [vedi MAURIZIO SIMONCELLI, La violazione dei diritti umani nelle guerre contemporanee, Edizioni Ediesse, 2010]. 64 Il caso del Ruandan Patriotic Army ne è un esempio: selezionava e decideva di arruolare, infatti, esclusivamente, in centri per i rifugiati, asili, orfanotrofi, scuole [ibidem, p.62]. 28 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. la minaccia delle armi, esponendosi al conseguente rischio di contrarre malattie letali e incorrere in gravidanze precoci. Inoltre, ai fini della ricerca e dei parametri di analisi del fenomeno, è significativo ricordare come, spesso, l’uso di sostanze stupefacenti sia stato assunto forzatamente, da parte dei bambini (sottoposti al comando militare in cui erano coinvolti) per commettere atti indiscriminati, che vanno dall’omicidio alle mutilazioni, garantendo inoltre l’obbedienza incondizionata, da parte degli stessi, a qualsiasi ordine impartito. Date le seguenti condizioni e i forti rischi intercorsi e dimostrati a livello scientifico, nonché sul piano giuridico e etico, l’analisi di questo fenomeno è diventata, quindi, parte integrante delle agende delle organizzazioni internazionali come le N.U. e non solo, poiché numerose Ong, operanti in tutto il mondo e soprattutto nei territori in cui la problematica è maggiormente emersa durante o successivamente il termine di conflitti armati (Sierra Leone, Liberia, Repubblica Democratica del Congo, Angola, Uganda, Sudan, Ruanda, Sri Lanka, Afghanistan, Colombia), hanno indagato il fenomeno, adottando politiche e progetti di monitoraggio e mappatura dello stesso, di primo contatto con i bambini e di avvio di una possibile reintegrazione sociale ed educativa nella comunità di appartenenza o altrove. Il lavoro sul campo, per mettere a fuoco il fenomeno del reclutamento, addestramento ed uso dei bambini soldato e il conseguente reinserimento sul piano educativo e sociale, parte da alcuni presupposti di base, quali65: • possibile e frequente mancata registrazione dei bambini alla nascita: conseguente negazione del diritto all’identità anagrafica, ad avere un nome riconosciuto ed una cittadinanza; e, come specifica anche l’Unicef, i bambini privi di registrazione non possono godere della basilare protezione contro gli abusi e lo sfruttamento, diventando (spesso inconsapevolmente) preda dei trafficanti dei minori per utilizzarli a loro beneficio; • necessità di abbattimento delle barriere civili, politiche e sociali che rendono un bambino vulnerabile in un determinato contesto: garantire l’accesso all’acqua potabile, al cibo e alle cure mediche e, secondo quanto aggiunge l’Agenzia ONU in materia di tutela dei bambini, è fondamentale “prendersi cura dei bambini non accompagnati, congedare i bambini-soldato, guarire le ferite psicologiche inferte dalla guerra, far ricominciare le attività scolastiche ed investire nell’educazione alla pace”; 65 Per approfondire si veda il testo di LUCIANO BERTOZZI , I bambini soldato, Editrice Missionaria Italiana, Bologna, 2003. 29 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. • garantire il ritrovamento del nucleo familiare, che costituisce un freno alla proliferazione e al reclutamento dei bambini soldato, poiché spesso i “signori della guerra” reclutano i bambini tra quelli più poveri e in una condizione di non accompagnamento, o che si trovano nei campo profughi; • necessario congedo dei bambini-soldato: è fondamentale ricordare, infatti, che l’essere investito di un potere legato alla possesso di armi, determina nel bambino un’incapacità di distaccarsi dalle stesse e spesso la loro scelta, se non seguiti sul piano del recupero psico-sociale, di darsi al banditismo; • recupero psicologico, che permetta ai bambini di scegliere ed intraprendere una nuova vita; questo processo può essere portato avanti da operatori ben formati sulle dinamiche riguardanti lo status di bambino-soldato, sugli indicatori che concernono il fenomeno e attraverso l’avvio e lo sviluppo di attività che possono avere luogo in strutture affini allo standard abitativo del bambino medesimo66; • considerare la scuola lo strumento base per riammettere, riabilitare e reinserire socialmente i bambini; all’interno di queste strutture gli operatori utilizzano, come tecnica di distacco dalle atrocità commesse, l’educazione alla pace che permette ai piccoli di sviluppare la comprensione dell’altro, senza la creazione di confini secondo un approccio volto alla non-violenza, ma al dialogo interculturale67. L’approfondimento delle tappe che descrivono il passaggio giuridico, sociale e militare dalla posizione di bambino a quella di soldato, indaga come gli errori commessi in materia di considerazione, selezione, arruolamento, addestramento e uso degli stessi nei conflitti armati, siano molteplici con rischi, pericoli e ferite psicologiche ed emotive indefinibili. Tuttavia, essa porta a riflettere su quali passi la Comunità Internazionale, associata alle attività degli operatori del settore direttamente rivolte agli utenti qui indicati, i bambini soldati appunto, abbia compiuto e per le quali il maggior successo è quello di poter affermare come i bambini rappresentino il futuro di ogni società in cui vivono e in cui andranno a rivestire parte integrante per la formazione di un’etica della lotta al fenomeno della tratta e dell’utilizzo degli 66 Molto spesso si cerca di abbandonare l’idea del recupero dei bambini, da parte dei governi del territorio di loro appartenenza, poiché considerata una politica estremamente dispendiosa, sommate alle ristrutturazioni delle strutture scolastiche in cui tali progetti potrebbero avere atto; gli operatori dell’Unicef (in azione in molti stati dove la problematica dei bambini soldati è più che presente), precisa, tuttavia, come sia possibile portare avanti le iniziative di recupero, non per forza attendendo investimenti per la ricostruzione delle scuole, ma semplicemente anche all’interno dei campi profughi o di strutture provvisorie (i cosiddetti “luoghi di fortuna”). 67 Per approfondire la questione dell’educazione alla pace si veda anche all’interno delle scuole, si veda il testo di MARGHERITA D’AMICO, Gulu. Una discesa agli inferi, Edizione Mondadori, Milano, 2004. 30 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. stessi in ambito militare, nel rispetto della loro integrità di essere umano “minore d’età” e soggetto portatore di diritti umani indiscutibili e inviolabili. 2.3. Tutela giuridica dei minori nei conflitti armati La Dichiarazione sulla Protezione delle donne e dei bambini nelle emergenze e nei conflitti armati, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1974, è il primo documento giuridico internazionale che concentra la propria attenzione sull’impatto della guerra sull’infanzia. Questo documento, pur non avendo la stessa vincolatività di un trattato internazionale, segna, tuttavia, un momento importante nella tutela dei minori nel corso dei conflitti poiché viene in esso riconosciuto il mutamento nella conduzione di quest’ultimi, che si stanno sempre più configurando come attacchi indiscriminati, in cui la linea di demarcazione tra combattenti e civili si fa sempre più labile. Preliminarmente è bene ricordare (v. p. 27) che, quando nel diritto internazionale si parla di “bambino”, si intende “ogni persona di età inferiore a 18 anni”, così come statuito all’art. 1 della Convenzione sui diritti dei fanciulli del 1989; pertanto, si considera “bambino soldato”, ogni minore di diciotto anni appartenente ad un gruppo armato, qualsiasi sia il ruolo ch’egli esercita. Il minore arruolato può essere un combattente, ma anche avere un ruolo lavorativo come cuoco, facchino, messaggero, spia od oggetto sessuale. In particolare, all’art. 3868 si stabilisce l’età minima per il reclutamento ai 15 anni. Quindi, pur definendo "bambino" ogni essere umano sino ai 18 anni, si limita l'impegno degli stati a non arruolare minori di 15 anni nelle azioni di guerra; pertanto, poiché la Convenzione tutela i minori dall’arruolamento solo fino ai 15 anni, in questo caso fornisce ai fanciulli una tutela minore rispetto a quanto previsto da numerose normative interne degli Stati aderenti. Ad esempio, per l’Italia la legge 8 gennaio 2001 n. 2 prevede l’arruolamento di soldati al compimento della maggiore età. 68 Articolo 38: 1. “Stati parti s'impegnano a rispettare ed a garantire il rispetto delle norme di diritto internazionale umanitario, applicabili nei casi di conflitto armato e la cui tutela Si estenda ai fanciulli. 2. Gli Stati parti devono adottare ogni possibile misura per garantire che nessuna persona in età inferiore ai 15 anni prenda direttamente parte alle ostilità. 3. Gli Stati parti devono astenersi dal reclutare nelle forze armate qualsiasi persona che non abbia compiuto il 15mo anno di età ma non ancora il 18mo, gli Stati parti si sforzeranno di dare la precedenza ai più anziani. 4. In conformità all'obbligo che loro incombe in virtù del diritto internazionale, di proteggere la popolazione civile durante i conflitti armati, gli Stati parti devono prendere ogni possibile misura per garantire cura e protezione ai fanciulli colpiti da un conflitto armato.” 31 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. Nel Protocollo Opzionale alla Convenzione sui diritti dell’infanzia sul coinvolgimento dei minori nei conflitti armati del 2000, però, si stabilisce che il reclutamento obbligatorio deve avvenire a 18 anni; per quello volontario è sufficiente, invece, aver superato i 15 anni69. E’ entrato in vigore il 12 febbraio 2002, data in cui si celebra la "Giornata internazionale dei bambini soldato”; l’Italia, che già si era dotata di una normativa di forte protezione nei confronti dell’arruolamento dei minori, ha ratificato anche il Protocollo con legge n. 46 dell’11/03/2002. Le Nazioni Unite, al fine di rafforzare la tutela dei bambini, hanno introdotto il principio di un’età minima per l’impiego dei militari nelle operazioni di peace-keeping dell’ONU, fissandola a 18 anni, in coerenza con la Convenzione dei diritti dell’Infanzia e del suo Protocollo aggiuntivo. Sul piano dei trattati regionali la Carta Africana sui Diritti e sul Benessere dei bambini del 1990 è l’unica a menzionare la questione dei minori soldato e il primo a elevare l'età minima per il reclutamento a 18 anni. La Convenzione 182 dell'ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro) sulla Proibizione delle peggiori forme di lavoro infantile, stipulata il 17 giugno 1999, all’art. 3, lett. a, tra le peggiori forme di lavoro minorile include: “tutte le forme di schiavitù o pratiche analoghe alla schiavitù, quali la vendita o la tratta di minori, la schiavitù per debiti e l’asservimento, il lavoro forzato o obbligatorio, compreso il reclutamento forzato o obbligatorio di minori ai fini di un loro impegno nei conflitti armati”. Si fissa a 18 anni l'età minima per arruolare i più giovani70. Oltre ad essere considerato per la prima volta una forma di lavoro minorile, nella raccomandazione finale si invitano gli Stati parte a considerare il reclutamento forzato o obbligatorio per i minori un vero e proprio crimine. 69 L’art. 1 del Protocollo impegna gli Stati contraenti a prendere ogni misura possibile affinché i minori di 18 anni non partecipino direttamente alle ostilità. L’art. 2 completa il dispositivo del precedente articolo, impegnando gli Stati contraenti a non sottoporre ad arruolamento obbligatorio i ragazzi con meno di 18 anni. L’art. 3 richiama alcune disposizioni fondamentali delle Convenzione dell’infanzia dell’89 e ribadisce il diritto dei minori di 18 anni ad una protezione speciale. In base a tale dispositivo gli Stati contraenti si impegnano ad indicare, all'atto di ratifica o di adesione, l’età minima a partire dalla quale è ammesso l’arruolamento volontario, nonché le garanzie esistenti per evitare forme di arruolamento forzato. L’obbligo di età minima non trova applicazione all’iscrizione agli istituti di istruzione e formazione delle forze armate, in conformità con gli articoli 28 e 29 della Convenzione sui Diritti dell’Infanzia. L’art. 4 estende i predetti impegni anche ai gruppi armati diversi dalle forze armate regolari e obbliga gli Stati contraenti a prendere le misure necessarie per impedire che i minori di 18 anni siano arruolati o utilizzati da tali gruppi armati. L’art. 6 dispone che gli Stati contraenti si attivino per ottenere la smobilitazione dei giovani eventualmente arruolati in contrasto con quanto sancito dal Protocollo e per il reinserimento nella società civile dei ragazzi. L’art. 7 prevede che gli Stati attuino forme di cooperazione internazionale e di aiuti finanziari a favore dei Paesi più bisognosi impegnati nella smobilitazione e nel reinserimento dei minori sotto le armi. Tali aiuti possono essere concessi in base ad accordi bilaterali o ad un apposito fondo dell’ONU. 70 Art. 2: “Ai fini della presente Convenzione, il termine « minore » si riferisce a tutte le persone di età inferiore ai 18 anni.” 32 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. Nel Diritto Internazionale Umanitario, invece, i primi strumenti di tutela sono state le quattro Convenzioni di Ginevra del 194971, in particolare la quarta, relativa al trattamento da applicare ai civili in tempo di guerra. Tali Convenzioni sono state aggiornate dai Protocolli aggiuntivi sulla protezione delle vittime nei conflitti armati, in cui per la prima volta è stato affrontato il problema dei bambini soldato.72 Specialmente l’art. 77 del I Protocollo sui conflitti internazionali, rubricato: “Protezione dei fanciulli”, al secondo comma recita: “Le Parti in conflitto adotteranno tutte le misure praticamente possibili affinché i fanciulli di meno di 15 anni non partecipino direttamente alle ostilità, in particolare astenendosi dal reclutarli nelle rispettive forze armate. Nel caso in cui reclutassero persone aventi più di 15 anni ma meno di 18 anni, le Parti in conflitto procureranno di dare la precedenza a quelle di maggiore età”. Mentre, il II Protocollo aggiuntivo sui conflitti non internazionali all’art. 4, comma 3, lett. c, dispone: “I fanciulli di meno 15 anni non dovranno essere reclutati nelle forze armate o gruppi armati, né autorizzati a prendere parte alle ostilità”. Questi due articoli hanno concretizzato un bisogno che è maturato lentamente nella comunità internazionale e la cui garanzia prima era assicurata solo dal Principio di umanità, caposaldo del diritto internazionale umanitario, che obbliga le parti in conflitto al rispetto della persona umana hors de combats in ogni situazione e condizione, anche di fronte ad esigenze militari chiamate a dimensionarsi rispetto a tale obbligo73. Nonostante prima tale principio affidava alla sensibilità dei combattenti la facoltà di utilizzare o meno minori tra le proprie file, con i due protocolli aggiuntivi tale condotta è divenuta un crimine di guerra. Infatti, nonostante gli Stati si considerassero sottoposti ai principi di diritto internazionale già dalla Prima Guerra mondiale, l’esigenza di protezione dei minori durante i conflitti si è sviluppata solo successivamente, a seguito degli eventi storici e 71 Le quattro Convenzioni di Ginevra, 22 agosto 1949 sono: I protezione dei feriti e malati in guerra; II protezione dei feriti, malati e naufraghi nella guerra marittima; III protezione dei prigionieri di guerra; IV protezione della popolazione civile. 72 I Protocollo sui conflitti internazionali, 1977; II Protocollo sui conflitti non internazionali, 1977; III Protocollo sull’emblema addizionale, 2005.. 73 Il Principio di umanità trova il suo fondamento: nella clausola Martens: “i civili e i combattenti rimangono sotto la protezione e l’imperio dei principi del diritto delle genti quali risultano dalle consuetudini stabilite, dai principi di umanità e dai precetti della pubblica coscienza” (1899). 33 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. delle iniziative prese in ambito internazionale confluite nella Dichiarazione dei diritti del fanciullo del 195974, prima e nella Convenzione dell’89, poi. Aspetto essenziale nella lotta al fenomeno dell’arruolamento dei minori nelle file dell’esercito e dei gruppi ribelli, è, senza dubbio, la perseguibilità dei responsabili di questo crimine, che reca oltraggio a tutta la comunità internazionale e che nuoce gravemente, nel migliore dei casi, allo sviluppo psico-fisico dei bambini. A partire dal processo di Norimberga sono gli individui ad essere oggetto di giudizio, non più gli stati nazionali, dissipando così il mito della responsabilità collettiva. Dopo cinquant’anni dalla Risoluzione delle Nazioni Unite del 9 dicembre 1948 che prevedeva una Corte Penale Internazionale, il 1° luglio 1998, dopo la ratifica di 60 paesi75, è divenuto operativo il Tribunale Penale Internazionale, il cui trattato istitutivo fu firmato a Roma il 17 luglio 1998. Rientra nelle competenze della Corte il potere di giudicare le violazioni più gravi del diritto internazionale: crimini contro l’umanità, genocidio, crimini di guerra e di aggressione. Nello Statuto della Corte penale internazionale, fra i crimini di guerra elencati all’art 8, al comma 2°, lett. b, n. XXVI sono considerati tali, anche: “reclutare o arruolare fanciulli di età inferiore ai 15 anni nelle forze armate nazionali o farli partecipare attivamente alle ostilità”. Il Tribunale persegue questo crimine, anche, nel caso di un conflitto interno. (art. 8, co. 2°, lett. e, n. VII). Condizione essenziale è quella stabilita dal primo comma dell’art. 8, secondo il quale: “La Corte ha competenza a giudicare sui crimini di guerra, in particolare quando commessi come parte di un piano o di un disegno politico, o come parte di una serie di crimini analoghi commessi su larga scala.” 74 La Dichiarazione consiste in una sorta di "statuto" dei diritti del bambino e contempla un Preambolo, in cui si richiamano la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 e la Dichiarazione sui diritti del fanciullo del 1924, e dieci princìpi. La nuova Dichiarazione include una serie di diritti non previsti nella precedente Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, quali: il divieto di ammissione al lavoro per i minori che non abbiano raggiunto un'età minima il divieto di impiego dei bambini in attività produttive che possano nuocere alla sua salute o che ne ostacolino lo sviluppo fisico o mentale il diritto del minore disabile a ricevere cure speciali. Pur non essendo uno strumento vincolante, bensì una mera dichiarazione di principi, la Dichiarazione gode di una notevole autorevolezza morale, che le deriva dal fatto di essere stata approvata all'unanimità e di essere un documento estremamente innovativo. La Dichiarazione del 1959 introduce il concetto che anche il minore, al pari di qualsiasi altro essere umano, sia un soggetto di diritti e riconosce il principio di non discriminazione e quello di un'adeguata tutela giuridica del bambino sia prima sia dopo la nascita; ribadisce , altresì, il divieto di ogni forma di sfruttamento nei confronti dei minori e auspica l'educazione dei bambini alla comprensione, alla pace e alla tolleranza. 75 Per l’elenco dei Paesi che hanno ratificato il Trattato vedi il sito www.un.treaty.org 34 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. La Corte esercita una giurisdizione di tipo complementare rispetto a quella esercitata dagli Stati parte. Il Tribunale, cioè, non può sostituirsi alla giurisdizione nazionale: potrà infatti procedere solo allorquando i tribunali nazionali siano nell’impossibilità accertata o non vogliano giudicare i crimini predetti76. La Corte fa fatica ad affermare la sua legittimità. Le critiche che le sono state mosse più di frequente riguardano le sue ambizioni universalistiche e la mancanza di strumenti adeguati. Si rimprovera che un processo portato avanti a l’Aja, e che giudica crimini commessi in tutt’altro luogo, non sarà sufficiente a placare le sofferenze delle popolazioni in loco. Inoltre sussistono una serie di strumenti tecnici che ne limitano l’operato e la piena indipendenza: il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite può sospendere i lavori della Corte per un anno e tale sospensione è rinnovabile senza alcun limite. Ciò ipoteticamente consentirebbe al Consiglio di sospendere i suoi lavori ad infinitum, anche se questa eventualità non si è mai verificata. Vi è, poi la clausola opting-out, che consente ai Paesi firmatari di sottrarsi alla giurisdizione della Corte per i crimini di guerra per un periodo di sette anni. Comunque sia, la Corte Penale Internazionale ha riscontrato un successo che pochi avevano previsto, in particolare in quei piccoli Paesi che hanno insistito per ratificare lo Statuto come Sierra Leone, Colombia, Macedonia, Congo e Burundi. Ad oggi la Corte conta 139 Stati membri, ovvero quasi i 2/3 degli Stati mondiali. Ma quelli che mancano – Stati Uniti, Russia, Cina, Israele, India– sono essenziali. Queste assenze limitano molto dal punto di vista geografico il potere della Corte, la cui competenza si limita solo ai crimini commessi dai suoi Stati membri o sui loro territori. Ma la giustizia penale internazionale, nel suo insieme, ha raggiunto un grande risultato ad opera del Tribunale Speciale della Sierra Leone77, che ha recepito su per giù lo Statuto della CPI78, sia nel processo svolto, per la prima volta, nei confronti di un ex capo di Stato, 76 Sulla complementarietà della Corte si riscontra il problema in merito alla mancata corrispondenza dei delitti e delle pene con quelli previsti nelle legislazioni nazionali. E questo è un problema ancora aperto nell’ambito del diritto internazionale 77 Il Tribunale Speciale della Sierra Leone (SCSL), costituito congiuntamente dal governo della Sierra Leone e le NU il 16 gennaio 2002 in applicazione della Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1315 del 14 agosto 2000, è un ‘tribunale penale interno a composizione internazionale’, composto da giudici locali, nominati dal governo, e giudici nominati dal Segretario generale dell’Onu (c.d. Corte mista). Si differenzia dai Tribunale per la ex Jugoslavia e per il Ruanda che sono Corti Penali Internazionali vere e proprie. 78 I crimini di guerra su cui la corte speciale ha giudicato sono in primo luogo quelli che il diritto internazionale consuetudinario riconosce nel corso di conflitti non internazionali. Il riferimento è qui all’art. 3 comune alle quattro convenzioni di Ginevra e all’art. 4 del II Protocollo addizionale del 1977 riguardanti il trattamento inumano e discriminatorio di persone che non prendono parte alle ostilità, compresi i combattenti che si sono arresi o che comunque sono fuori combattimento. La lista dell’art. 3 dello statuto della corte speciale riproduce 35 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. Charles Taylor, sia per le condanne di Alex Tamba Brima, Brima Bazza Kamara e Santigie Borbor Kanu del Consiglio della Forza Armata Rivoluzionaria79: il primo e i secondi sono stati imputati per le stesse fattispecie, crimini contro l’umanità e crimini di guerra, incluso il reclutamento forzato e l’utilizzo di minori nell’esercito e nei gruppi armati. In cambio di diamanti, Taylor avrebbe, infatti, finanziato e sostenuto, per un decennio, i gruppi ribelli che hanno seminato morte e terrore nel Paese dell'Africa occidentale. Il 30 maggio 2012 si è concluso il processo. L’ex presidente della Liberia, che oggi ha 64 anni, è stato condannato dal Tribunale Speciale della Sierra Leone (SCSL) a 50 anni di carcere per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, al contrario dell’accusa che ne aveva chiesto 80. Taylor è stato il primo capo di stato condannato da una corte internazionale dopo Norimberga, in cui venne condannato Karl Dönitz, brevemente a capo della Germania dopo il suicidio di Adolf Hitler. Il tribunale speciale ha riconosciuto Taylor colpevole di aver aiutato e favorito i ribelli del RUF e di aver influito sostanzialmente sui crimini da loro commessi. Tuttavia, la Corte ha esattamente quella dell’art. 4 dello statuto del tribunale per il Ruanda, salvo per la clausola di non esaustività delle fattispecie elencate contenuta alla fine del primo comma dello stesso art. 4; essa si rifà pertanto quasi integralmente all’elencazione dell’art. 4.2 del II Protocollo (non vi sono compresi i fatti relativi alla riduzione in schiavitù; in aggiunta tuttavia si trova l’ipotesi delle esecuzioni sommarie (lett. g), ripresa dall’art. 3 comune delle Convenzioni di Ginevra del 1949). Lo statuto della corte speciale criminalizza anche le fattispecie di terrorismo e punizione collettiva, che non sono state recepite nella disposizione corrispondente dello statuto della corte penale internazionale, l’art. 8.2(c). Seguendo lo schema adottato dallo Statuto di Roma, accanto alle ipotesi di crimini di guerra appena considerate che si ricollegano al «diritto di Ginevra», il progetto di statuto afferma la giurisdizione della corte speciale su altre serie violazioni di leggi e consuetudini applicabili ai conflitti armati non internazionali. La lista di tali fattispecie, che nello statuto della corte penale internazionale conta dodici diverse ipotesi, nello statuto della corte speciale si limita a prevederne tre: Art. 4 (a) attacco diretto alle popolazioni civili o a singoli civili che non hanno parte alle ostilità; (b) attacchi a quella particolare categoria di «civili» rispetto alle parti in lotta in un conflitto interno o internazionale rappresentata dai peacekeepers (in missioni istituite sulla base della Carta dell’Onu) e dall’altro personale umanitario; (c) prelevamento (abduction) e reclutamento forzato di minori di 15 anni in truppe o gruppi armati allo scopo di utilizzarli per farli partecipare attivamente alle ostilità. 79 Esemplari sono, inoltre, le condanne emesse dal Tribunale Speciale per la Sierra Leone di Alex Tamba Brima, Brima Bazza Kamara e Santigie Borbor Kanu del Consiglio della Forza Armata Rivoluzionaria, per aver reclutato ed impiegato bambini nelle ostilità. Per la prima volta la Corte, alla fine di giugno 2007, a Freetown, ha condannato i responsabili del crimine di guerra di reclutamento e sfruttamento di bambini nelle ostilità, impiegati nel conflitto civile divampato in Sierra Leone dal 1991 al 2001; questi scontri hanno causato oltre 300mila morti, uno dei grandi disastri umanitari dell’Africa. Secondo l’Osservatorio sui Diritti Umani, le menzionate condanne rappresentano un grande passo avanti verso la fine dell’impunità per i comandanti che sfruttano centinaia di migliaia di bambini nei conflitti, in ogni parte del mondo. Le sentenze sono state pronunciate contro tre uomini del Consiglio Rivoluzionario delle Forze Armate (AFRC), una delle tre fazioni in guerra tra loro durante il brutale conflitto armato conclusosi nel 2002, che ha insanguinato la Sierra Leone per 11 anni. I giudici hanno trovato i tre imputati– Alex Tamba Brima, Brima Bazzy Kamara e Santigie Borbor Kanu – colpevoli di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e altre gravi violazioni del diritto umanitario internazionale, compreso il reclutamento e l’impiego di bambini soldato. Sono migliaia i bambini reclutati e impiegati da tutte le fazioni in lotta nel conflitto della Sierra Leone, compreso il Fronte Rivoluzionario Unito (RUF), l’AFRC, e la governativa Forza di Difesa Civile (CDF). Spesso i bambini venivano reclutati a forza, drogati e impiegati per commettere atrocità. Sono state reclutate anche migliaia di bambine soldato, spesso soggette a sfruttamento sessuale. 36 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. riconosciuto che Taylor non comandava direttamente le milizie del RUF e non è riuscita a provare se Taylor facesse parte di “un’organizzazione criminale”; eufemisticamente la camera ha solamente “dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio che l'imputato è penalmente responsabile per aver favorito e sostenuto l'attuazione di tutti i crimini di cui era accusato''. Riguardo le accuse Taylor si è sempre dichiarato innocente tanto è vero che la difesa il 1 ottobre 2012 ha proposto appello (Appeal Briefs). In ogni caso, sconterà la sua pena nel Regno Unito, come precedentemente previsto. Tale risultato dimostra come, nonostante i numerosi ostacoli intercorsi a livello storico e la difficoltà di un’apertura dei confini e degli interessi individuali, la domestic jurisdiction80 degli Stati sia riuscita ad uniformarsi a esigenze normative nate nel più ampio quadro della comunità internazionale, in materia di tutela penale minorile, nello specifico quì riguardante il caso dei bambini soldato. 80 Per domestic jurisdiction si intende una serie di materie che ricade nella esclusiva giurisdizione dello Stato, una nozione che ebbe una definizione più chiara ad opera della Corte Permanente di Giustizia Internazionale nel 1923: il dominio riservato comprende le materie nelle quali lo Stato è libero da obblighi internazionali di qualsiasi genere 1: esso ha quindi, secondo la definizione della Corte, un carattere relativo e storico. È relativo perché dipende dal numero di obblighi internazionali che derivano dal diritto consuetudinario e pattizio; ma dato che le consuetudini sono uguali per tutti gli Stati, la competenza domestica varia in funzione dei trattati stipulati dal singolo Stato. A confermare la relatività della competenza domestica, basta considerare che vi sono materie che tradizionalmente rientravano in essa e che oggi invece sono oggetto dell’attività delle Nazioni Unite: si tratta soprattutto del settore relativo ai diritti umani e all’autodeterminazione dei popoli; Si veda per approfondire il testo di B. CONFORTI, Diritto Internazionale, CEDAM, Padova 2006. 37 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. Cap. 3 – IL RUOLO DELLA DONNA NEI CONFLITTI ARMATI E LA VIOLENZA DI GENERE 3.1. Il ruolo delle donne nei conflitti armati I protagonisti più vulnerabili dei conflitti armati sono donne e bambini, gruppi vittime da un punto di vista fisico e sociale, poiché maggiormente esposti ai rischi e alle conseguenze che la guerra comporta. Le condizioni di vita, in tempo di guerra, sono caratterizzate da forti e profondi vincoli alla libertà personale, dalla paura e dalla vulnerabilità fisica, economica e psicologica della popolazione civile e si manifestano prima che il conflitto sia direttamente e ufficialmente dichiarato, ovvero quando il Paese si “militarizza”. Il processo della militarizzazione coinvolge e si ripercuote, infatti, nei modelli sociali, economici e politici, e l’utilizzo della forza come paradigma di riferimento, in tale contesto, implica un crescente uso ed utilizzo incondizionato e incontrollato delle armi, riflettendosi nei rapporti di genere e nella violenza nei confronti di donne e bambine81. In tempo di guerra, quest’ultime rappresentano quella parte della società (insieme a bambini, anziani e disabili) più esposta ai pericoli e alle difficoltà che dai conflitti armati scaturiscono. La loro condizione nella società di origine, la considerazione che quest’ultima ha della donna, in quanto esponente del genere femminile, la discriminazione a livello sociale, economico, militare e politico, ne motivano l’alta possibilità di non sopravvivere al conflitto o di essere soggette ad atti di violenza sconfinati. Durante situazioni di conflitto armato, le donne subiscono gli effetti diretti o indiretti della guerra, di bombardamenti indiscriminati, di torture e maltrattamenti degradanti, volti all’umiliazione e all’abbattimento delle stesse, con l’obiettivo ultimo del loro annientamento e del dominio, su di esse, da parte del nemico. Le donne sono le prime a soffrire della mancanza di cibo e di altri generi fondamentali per una sana sopravvivenza, dovendo inoltre affrontare la grande responsabilità dei figli e dei parenti più anziani. Infine, il più delle volte, l’insicurezza provocata dal conflitto all’interno della comunità spinge le donne a fuggire dai luoghi di origine e/o di provenienza andando a costituire, assieme ai bambini, la maggior parte dei rifugiati nel mondo. 81 Si veda la pubblicazione di Save the Children al link: http://www.savethechildren.it/2003/download/Pubblicazioni/Riscriviamoilfuturo/bambine_senza_parola_stc.pdf 38 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. Lo stato di conflitto e di post-conflitto, determina però un’inaspettata conseguenza nel ruolo delle donne, poiché esse rafforzano la loro funzione di portavoce82 (nonostante gli effetti dilanianti che la guerra genera) della struttura della società, fungendo da collante biologico e di stimolazione delle potenzialità che la fabbrica sociale della comunità deve mettere in campo. E’ chiaro, infatti, come gli uomini quotidianamente coinvolti nell’organizzazione economica, sociale e politica della loro comunità, durante il conflitto armato, in quanto condizione di emergenza e attivismo immediato, siano chiamati ad arruolarsi e combattere, investiti di potere decisionale difensivo del nucleo familiare in cui sono “capo-famiglia” e della comunità di cui fanno parte. Le donne, al contrario, si trovano ad essere improvvisamente incaricate nell’assumere una posizione di coordinamento e di fornire quei servizi di sussistenza, di mantenimento dei servizi sociali e sanitari (spesso abbattuti o privi di una gestione effettiva, durante il conflitto), offrendo riparo, aiuto e ricovero ai malati e ai feriti. Nonostante la messa in luce di questi fatti, è evidente come, ancora, la violenza sulle donne viva in un generale clima di impunità, di implicita accettazione di comportamenti ritenuti quasi inevitabili, in un contesto basato sulla violenza e su valori tipicamente maschili, legati all’idea della forza, dell’aggressività e del dominio. Sul piano giuridico, la Risoluzione 1325, adottata il 31 ottobre 2000 dal Consiglio di Sicurezza delle Nazione Unite (come riporta il Discorso di introduzione di Kofi Annan83), determina una necessaria ed effettiva diffusione di una maggiore sensibilizzazione a favore della prospettiva di genere, riconoscendo questo fenomeno sia come cambiamento comportamentale della donna nei conflitti armati, sia come risultato dell’analisi svolta su come la violenza venga perpetuata in maniera radicata nei paesi in via di sviluppo. 82 Non bisogna infatti dimenticare che la donna è portatrice di vita, di nascita, di proliferazione della specie comunitaria. 83 In proposito, Kofi Annan, quando era Segretario Generale delle Nazioni Unite, nel suo discorso pronunciato davanti al Consiglio di Sicurezza, il 24 Ottobre del 2000, si espresse così in merito alla condizione delle donne nei conflitti armati e alla loro importante partecipazione nella costruzione e nel mantenimento dei processi di peace keeping, nella formulazione e avvio di politiche di disarmo e di pace post-conflitto: “Le Nazioni Unite hanno appreso ‘a proprie spese’ che la pace e la sicurezza dipendono dalla capacità di fornire una rapida risposta, sin dai primi segnali di un conflitto. Sappiamo che la prevenzione dei conflitti richiede delle strategie singolari. Sappiamo che la risoluzione dei conflitti, il mantenimento e la costruzione della pace, necessitano di approcci che siano al tempo stesso creativi e flessibili. In tutte queste aree, abbiamo visto degli esempi di donne che rivestono un ruolo importante – e non soltanto nel mio continente d’origine, l’Africa. E ciononostante, il potenziale contributo delle donne alla pace e alla sicurezza rimane largamente sottovalutato. Le donne sono tuttora gravemente sottorappresentate al livello di presa di decisioni, dalla prevenzione dei conflitti, alla loro risoluzione, fino alla riconciliazione post-bellica …” [http://www.onuitalia.it/news/giornate/donna/WOMENPEACEANDSECURITYDPINO.html] 39 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. In un particolare passaggio della Risoluzione, si specifica: “ i civili, in particolare donne e bambine, costituiscono la vasta maggioranza di coloro che subiscono le conseguenze di un conflitto armato …”; è chiaro, quindi, come l’importanza delle donne nei negoziati di pace e sicurezza, nella pianificazione e organizzazione/monitoraggio dei campi profughi, nelle operazioni di peace keeping, sia fondamentale e inserisca l’eguaglianza di genere come presupposto per mettere in pratica i moniti della Risoluzione. Quest’ultima mette, difatti, in evidenza questo cambio di prospettiva nella considerazione della donna come portatrice principale degli interessi della propria comunità, in contrasto con gli stereotipi della differenza di genere legati al suo status quotidianamente messo a rischio da pratiche inumane. Con questo documento viene infatti sollecitata la richiesta necessaria dell’introduzione di buone pratiche che rendano il ruolo della donna più importante nella prevenzione dei conflitti, nella promozione della pace e nell’assistenza alla ricostruzione post-bellica, oltre che a incentivare una prospettiva di genere nelle operazioni delle Nazioni Unite. Gli indicatori d’implicazione della guerra sullo status delle donne, come possiamo notare nella tabella di seguito riportata, mettono in rilievo la loro vulnerabilità e la versatilità del loro ruolo all’interno dei Paesi in guerra, meritando una tutela efficace e speciale da parte del diritto internazionale umanitario, protezione che deve tenere in considerazione i loro bisogni specifici, in quanto donne, in quanto madri, in quanto essere umani portatori di diritti fondamentali. 40 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. ELEMENTI DELLE SITUAIZONI DURANTE IL CONFLITTO E POSSIBILI IMPLICAZIONI DI GENERE Situazione Pre-conflittuale Elementi delle situazioni di Conflitti Possibili Implicazioni di genere Mobilitazione dei soldati Sfruttamento sessuale nelle aree militari Propaganda Nazionalista Promozione degli stereotipi maschilisti Nascita di organizzazioni a favore della pace Le donne sono spesso parti attive nei movimenti pacifisti, assumendo spesso dei ruoli pubblici di rilievo Violazione dei Diritti Umani I diritti delle donne spesso non sono considerati come diritti umani SITUAZIONE DURANTE IL CONFLITTO Traumi psicologici, violenza fisica, morte Le donne spesso partecipano al conflitto come combattenti e subiscono violenze sessuali e di altro tipo I networks sociali sono distrutti Strategie di sopravvivenza spesso determinano cambiamenti nella divisione del lavoro cambiamenti nelle strutture e nella loro composizione Provviste Le donne provvedono ai bisogni di ogni giorno. Attività dura poiché il cibo è difficile da procurare Rifugiati Le donne e gli uomini rifugiati hanno necessità differenti Negoziati di pace Le donne sono spesso escluse RICOSTRUZIONE Negoziati politici e attuazione degli accordi di pace Le donne hanno un ruolo minore nella negoziazione e nel policy making Mass Media L’accesso iniquo ai mass media significa che interessi, bisogni e prospettive delle donne non sono pianamente rappresentate e discusse Interventi di collaboratori esterni I funzionari generalmente formati in materia di eguaglianza di genere Elezioni Spesso le donne incontrano ostacoli a partecipare ai processi elettorali Investimenti nella creazione di impiego e di strutture sociali I programmi di ricostruzione spesso non danno priorità ai bisogni delle donne in materia di sanità, istruzione, formazione, credito Tabella n.2: http://www.onuitalia.it/diritti/UNICVcontr/Women2.htm 41 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. Alla luce del documento sopra citato, è evidente come sia riconosciuto che la donna abbia subito una metamorfosi repentina riuscendo a continuare a rappresentare le radici della comunità nei momenti di conflitto e nei casi di dispersione delle priorità civili da rispettare e dei diritti di base84 collegati, difendendola con tutte le sue forze, fungendo da promotrice e portatrice indiretta di risoluzioni di pace85. 3.2. Lo stupro come strumento di dominazione della donna nei territori di conflitto armato Per comprendere la presa di coscienza che a livello internazionale è stata portata avanti a riguardo della violenza contro le donne durante i conflitti armati, è fondamentale riportare una considerazione esposta da Kofi Annan, negli anni in cui è stato Segretario delle Nazioni Unite: “ La violenza contro le donne è forse la violazione dei diritti umani più vergognosa. Essa non conosce confini né geografia, cultura o ricchezza. Fin tanto che continuerà, non potremo pretendere di aver compiuto dei reali progressi verso l’uguaglianza, lo sviluppo e la pace. ” Come emerge dal contenuto di questa frase, durante i conflitti armati, le violazioni dei diritti umani e le violenze di genere aumentano drammaticamente, producendo esperienze traumatiche con profonde conseguenze a livello individuale, comunitario e sociale. 84 E’ per questo motivo che la Risoluzione 1325 conferma come “il diritto internazionale debba proteggere le donne dai trattamenti “abusivi” perpetrati dalle parti coinvolte nel conflitto, nonché dagli effetti della guerra stessa e come esse abbiano il diritto di ricevere un “trattamento umano”, di vivere libere dalla tortura e dal maltrattamento, di ottenere il rispetto della loro vita e dell’integrità fisica. L’esperienza femminile in guerra prende diverse forme, dal partecipare attivamente come combattenti all’essere vittime in quanto civili. La guerra per molte donne significa stupro, perdita della famiglia e pochi mezzi di sussistenza e privazione. Il conflitto inoltre provoca dei cambiamenti sociali: le donne si dedicano a nuovi ruoli all’interno della società. Oggi più che mai, gli Stati e le parti coinvolte nel conflitto armato devono fare il loro meglio a favore della sicurezza e la dignità delle donne, le quali dovrebbero essere maggiormente coinvolte in tutte le misure prese a loro favore. Ogni Stato legato dai trattati internazionali sui diritti umani ha il dovere di promuovere le regole che proteggono le donne da ogni forma di violenza. Se le donne devono sopportare i tragici effetti dei conflitti armati, non è a causa della mancanza di regole che le proteggono, ma perché queste regole non sono spesso osservate” [http://www.onuitalia.it/diritti/UNICVcontr/Women2.htm] 85 Nelle società dilaniate dalla guerra, le donne mantengono salde le società stesse. Mantengono la fabbrica sociale. Provvedono a fornire i servizi sociali distrutti, dando ricovero ai malati e ai feriti. Di conseguenza le donne sono le prime portatrici di pace. Per approfondire si veda il discorso di Kofi Annan, Segretario Generale delle Nazioni Unite, del 2004 all’indirizzo http://www.onuitalia.it/news/giornate/donna/WOMENPEACEANDSECURITYDPINO.html 42 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. La violenza sessuale assume nei conflitti armati una connotazione differente rispetto alla violenza sessuale commessa in tempo di pace poiché, generalmente, denota un atteggiamento intenzionale volto a causare sofferenze fisiche e mentali alla vittima. Bisogna precisare come, con il termine “violenza sessuale”, ci si riferisca allo stupro, alla mutilazione genitale, all’umiliazione sessuale, alla prostituzione forzata e alla gravidanza forzata. Tale fenomeno non è nuovo a livello storico e la sua espressione ha presentato cambiamenti poiché il ricorrere a metodi e ad azioni violente, come lo stupro, è analizzato come comportamento diffuso e sistematico per la soddisfazione sessuale dell’uomo-militare presente sul luogo del conflitto, ma è stato anche analizzato come strumento di terrore in tempo di guerra per “punire, umiliare, dominare, instillare paura, distruggere la comunità, cacciare i membri di un gruppo etnico dal loro territorio di appartenenza legittima”86. Questa definizione è riscontrabile nell’analisi dei conflitti succedutisi ed intercorsi in paesi come El Salvador, Guatemala, Liberia, Kuwait, Afghanistan, Somalia, Palestina, Libano, Haiti, Sudan, Siria, Zambia, Ruanda, Timor e Balcani e, dagli studi ed indagini svolti post-conflitto fino ad oggi87, è chiaro come l’istinto primo degli aggressori sia quello di appagare i propri istinti sessuali attraverso la violenza forzata; questi stessi istinti vanno, però, associati alla necessaria brutalità adottata nell’atto medesimo (come dimostrano i fenomeni dello stupro e della tortura incondizionata), per distruggere la donna, in quanto esponente primo del gruppo etnico da abbattere. Essa è, d’altronde, non solo oggetto del desiderio maschile, ma “bottino di guerra” e ricompensa per aver combattuto con valore da parte dell’esercito, con la volontà di dimostrare la vittoria e il successo dei soldati e la spettante umiliazione del nemico. Il corpo della donna, durante i conflitti armati, diventa, quindi, un campo di battaglia rituale, un terreno per la parata trionfale del vincitore. L’atto compiuto e gloriosamente espresso diventa un messaggio trasmesso da uomini ad altri uomini, rappresentando una vivida dimostrazione di vittoria per gli uni e di sconfitta per gli altri88. Lo stupro è l’atto primo, sia a livello pratico sia psicologico, poiché da esso scaturiscono conseguenze quali l’annientamento della vittima, se non la morte (data l’estrema disumanità con cui l’atto viene commesso), e l’eventuale fuga della stessa dalla comunità di 86 Per un quadro più completo si veda il testo P.Degani, Donne, diritti umani e conflitti armati. La questione della violenza nell’agenda della comunità internazionale, Research Paper 2/2000 in www.dirittiumani.donne.aidos.it. 87 Con la corretta deontologia dello studioso di fornire dati statistici, buone pratiche da adottare in futuro, strumenti di reintegrazione delle vittime nei territori colpiti. 88 Per approfondimenti si veda S. BROWMILLER, Contro la nostra volontà. Uomini, donne e violenza sessuale. Bompiani, Milano, 1976, pp.24-30. 43 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. origine, data l’umiliazione che la violenza comporta nella considerazione da parte della società di appartenenza89. La violenza subita è infatti di dominio pubblico all’interno della comunità e la donna che, involontariamente, ha trasgredito quei valori morali di adesione alla stessa, è ora depositaria di un messaggio contrario e non più dei valori culturali e spirituali di cui era inizialmente portavoce. La fuga dalla violenza, compiuta da parte delle donne per allontanarsi dal luogo del conflitto, non fornisce la sicurezza di trovare una dimora sicura e, anzi e molto spesso, esse rischiano di subire abusi da parte di funzionari governativi, guardie di frontiera, contrabbandieri, membri delle forze armate e a volte anche di altri rifugiati, durante il lungo cammino verso i campi profughi o all’interno degli stessi, dopo il loro arrivo. In queste condizioni, il rischio di incorrere in eventuali rischi è più che probabile e molte indagini, avviate da organizzazioni non governative e/o cooperanti presenti sul posto, svolgenti il ruolo di operatori del settore, mostrano come i casi di esseri umani (in particolare donne e bambini) vittime della tratta e dello sfruttamento sessuale siano molto frequenti. Gli atti di violenza, perpetuati con totale veemenza e sopruso, siano essi espressi sul territorio dove il conflitto armato ha svolgimento o all’interno delle strutture di primaria accoglienza e reintegrazione post-conflitto, rappresentano quegli atti e tentativi di invasione dello spazio storico dell’altro innestando nel suo albero genealogico il figlio del nemico etnico, con l’obiettivo di intervenire nel suo legame di filiazione naturale, spezzando con violenza la sua comunità attraverso il ventre delle donne: la distruzione della possibilità di generare il futuro e portare avanti la specie comunitaria del luogo colpito dal conflitto, è vissuta come insanabile dalla sessualità degli uomini della comunità90. Lo stupro, analizzando i casi riportati frutto delle denunce delle vittime accumulate nel campo della ricerca scientifica in materia, è considerato come lo strumento principe di purificazione etnica, rappresentando quell’”omicidio di genere che risparmia la vita delle donne utilizzandole quale veicolo dell’altro, che in quel modo sancisce la propria vittoria, sino alla nascita e alla formazione della generazione successiva”91. 89 La violenza sessuale è, infatti, segno di disonore per la famiglia e la comunità: le donne vengono allontanate dalle famiglie e dai villaggi, costrette quindi a fuggire e rifugiarsi in campo profughi di fortuna, dove spesso subiscono ulteriori torture e discriminazioni di genere. 90 Cit. ripresa dal testo di V. NAHOUM-GRAPPE, Gli stupri: un arma di guerra, Quaderni di Kaleîdos n. 2, 2008, p.73. 91 Ibidem, p.74. Inoltre, aggiunge l’autrice, che in territori e in conflitti, come quelli scoppiati in Ruanda, gli stupratori affetti da HIV e consapevoli di esserlo, molto spesso lasciavano la donna che avevano violentato dicendole “Ti lascio peggio ancora che morta”. 44 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. Possiamo quindi affermare come lo stupro sia stato e continui ad essere commesso da parte di truppe amiche in territori alleati (in tempo di pace) e da truppe in territori occupati o invasi (in tempi di conflitti armati), quasi autodelineandosi come naturale e quasi inattaccabile, e come se fossimo incapaci di sottoporlo ad un esame storico e giuridico. Tuttavia, sono stati compiuti grandi passi dal punto di vista dell’analisi di questo fenomeno e la Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’eliminazione della violenza contro le donne92sancisce, infatti, come la violenza sulle donne sia “la manifestazione di un rapporto storicamente diseguale tra uomini e donne, che ha condotto gli uomini a prevaricare e discriminare le donne” e che “la violenza sulle donne sia uno dei meccanismi sociale adesivi che costringono le donne ad una posizione subordinata di rispetto agli uomini”. La storicità delle violenze sessuali contro le donne e la loro necessaria indagine come fenomeno psicologico (stupro di guerra) e fenomeno giuridico sono oggi inserite nelle agende politiche, affinché tali azioni vengano sanzionate, sradicate dal comportamento naturale degli uomini sia durante sia pre e post conflitto armato, e con l’obiettivo auspicato, ma complesso, della reintegrazione della vittima all’interno della società. 3.3. Tutela giuridica delle donne nei conflitti armati Quella cultura della pace e dei diritti umani che si è venuta sviluppando, specialmente dalla fine del secondo conflitto mondiale, ha riguardato in primis la tutela della donna (la cui dignità è certamente pari a quella dell’uomo) che rappresenta lo strumento di continuità della vita e il simbolo della vita stessa. La tappa fondamentale di questo percorso di implementazione culturale è stata la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna (CEDAW) del 18 dicembre 197993. La Convenzione obbliga i Paesi contraenti a condannare qualsiasi forma di discriminazione della donna e a promuoverne l’eliminazione con tutti i mezzi adeguati. Pur non contemplando alcuna norma specifica sulla problematica della 92 CEDAW, per approfondire si veda il link http://www.un.org/womenwatch/daw/cedaw/ Questa venne integrata nel corso del 1993, a seguito di una raccomandazione della Conferenza di Vienna, quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò la Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne, che diede un nuovo impulso alla lotta contro la violenza nei confronti di donne e bambine, descritta come “una manifestazione delle relazioni storicamente ineguali fra uomini e donne, che hanno portato alla discriminazione delle donne da parte degli uomini e quindi a una loro posizione di subordinazione”. Un contributo rilevante di questa Dichiarazione è rappresentato dalla definizione di “violenza contro le donne” che è particolarmente ampia e articolata, in quanto comprende “ogni atto di violenza fondata sul genere che abbia come risultato o possa probabilmente avere come risultato, un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, che avvenga nella vita pubblica o privata”. 93 45 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. violenza, la Convenzione impone agli Stati firmatari una serie di obblighi finalizzati a contrastare questo fenomeno. In particolare, gli Stati parte sono tenuti a prendere ogni misura adeguata al fine di “modificare gli schemi e i modelli di comportamento socioculturale degli uomini e delle donne e giungere ad una eliminazione dei pregiudizi e delle pratiche consuetudinarie o di altro genere, che siano basate sulla convinzione dell’inferiorità o della superiorità dell’uno o dell’altro sesso o sull’idea di ruoli stereotipati degli uomini e delle donne” (art. 5 lett. a, come pure art. 2 lett. f); vietare la tratta delle donne (art. 6); garantire il diritto al lavoro (art. 11); garantire il diritto alle cure sanitarie (art. 12); garantire l’applicazione delle disposizioni della Convenzione alle donne delle zone rurali (art. 14), nonché garantire la parità nel matrimonio e nella famiglia (art. 16). L’attenzione che si è sviluppata nei confronti della donna a seguito della predetta Convenzione ha imposto un’attenzione maggiore della sua tutela specialmente nei conflitti armati, durante i quali accadono gli atti più aberranti. Il 1980, anno in cui a Copenaghen la seconda conferenza delle Nazioni Unite sulle donne rappresentò un momento importante di verifica circa lo stato di attuazione delle attività collegate al Decennio delle donne, ha anticipato il passo del 1985 quando vennero definite le Strategie di lungo periodo per il progresso delle donne fino al 2000, adottate in occasione della Conferenza di Nairobi. Queste ultime rappresentano una prima elaborazione del nesso esistente fra pace, sviluppo ed eguaglianza, temi già in precedenza presi in considerazione, ai quali si aggiungono lavoro, salute e istruzione. Nell’ambito delle Strategie risulta particolarmente rilevante il tema della violenza nei confronti delle donne nelle sue manifestazioni estreme durante i conflitti armati. In quegli stessi anni, fra il 1989 e il 1992, il Comitato per l’eliminazione della discriminazione nei confronti della donna adottò due General Recommendations in materia di violenza contro le donne, la G.R. n. 12 e la G.R. n. 19. In particolare nella seconda si raccomanda che nei rapporti sottoposti al Comitato per l’eliminazione della discriminazione nei confronti della donna sia data estrema importanza al tema della violenza e si riafferma l’importanza del diritto internazionale umanitario che deve tutelare in egual modo le donne, sia nei conflitti internazionali sia in quelli interni; infine, si esprime la necessità di provvedere a un incremento normativo dello stesso, con un approccio più attento alle differenze di genere94. 94 Intento ribadito anche dalla Piattaforma d’Azione adottata dalla IV Conferenza mondiale sulle donne di Pechino del 1995. Viene riconosciuto un consenso generalizzato intorno al fatto che i conflitti armati abbiano implicazioni diverse per uomini e donne, e che sia quindi necessaria un’applicazione del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario che abbia un approccio attento alle differenze di genere. Vennero inoltre individuati sei obiettivi strategici da raggiungere per tutelare la donna nei conflitti armati: 46 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. Il diritto internazionale umanitario vieta alle parti belligeranti di usare violenza contro i civili. Si veda al riguardo la IV Convenzione di Ginevra del 22 agosto 1949 per la protezione delle persone civili in tempo di guerra, nonché i Protocolli aggiuntivi dell’8 giugno 1977 relativi alla protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali (Protocollo I) e non internazionali (Protocollo II). In particolare, sono vietati e considerati crimini di guerra (indipendentemente dal fatto che vengano commessi da personale civile o militare) le violenze contro la vita, la salute e il benessere fisico o psichico dei civili, in particolare l’omicidio, qualsiasi forma di tortura (fisica o psichica), le pene corporali e le mutilazioni, gli oltraggi alla dignità della persona e in particolare i trattamenti umilianti e degradanti, la prostituzione forzata e qualsiasi offesa al pudore, la cattura di ostaggi, le pene collettive e la minaccia di commettere uno qualsiasi degli atti citati (art. 75 Protocollo I). Le donne devono essere oggetto di un particolare rispetto ed essere protette soprattutto contro la violenza carnale, la prostituzione forzata e ogni altra forma di offesa al pudore (art. 76 del Protocollo I; art. 27 della Convenzione di Ginevra; art. 4 del Protocollo II). I propositi, sopra citati, di codificazione delle pratiche contrarie al principio di umanità, quale caposaldo del Diritto Internazionale Umanitario95, hanno trovato una concretizzazione, seppur parziale, nel diritto penale internazionale che ha sviluppato un’attenzione particolare alla discriminazione e alla violenza di genere che si manifesta durante i conflitti: ad esempio gli Statuti dei Tribunali per la ex Iugoslavia e per il Ruanda prevedono che vengano puniti i colpevoli delle atrocità che hanno avuto luogo nei paesi dove 1. la maggiore partecipazione delle donne alle decisioni che riguardano la risoluzione dei conflitti e la protezione delle donne stesse in contesti di conflitto o di occupazione armata del territorio. Questo aspetto implica l’integrazione della prospettiva di genere nelle risoluzioni dei conflitti armati nonché un bilanciamento fra uomini e donne nelle nomine che vengono fatte nei diversi organismi internazionali, avendo cura che queste strutture abbiano quindi una particolare attenzione alle tematiche di genere; 2. la riduzione delle spese militari e il controllo della disponibilità di armi tramite l’aumento e l’accelerazione della conversione delle industrie e delle risorse militari, destinate alla pace e allo sviluppo; particolare attenzione viene posta alla tutela di donne, bambine e bambini dalle mine, ai cui pericoli questi gruppi sociali sono particolarmente esposti; 3. la promozione di forme non violente di risoluzione dei conflitti e la riduzione dell’incidenza degli abusi dei diritti umani nelle situazioni di conflitto, prendendo tutte le misure necessarie per la tutela di donne, bambine e bambini, in particolare dalla violenza sessuale, dalla prostituzione forzata e da ogni altro tipo di aggressione; 4. la promozione del contributo delle donne alla diffusione di una cultura di pace, anche attraverso corsi rivolti a bambine e bambini; 5. la protezione, l’assistenza e la formazione per le donne rifugiate, profughe, o sfollate all’interno del proprio paese che abbiano bisogno di protezione internazionale, e il loro pieno coinvolgimento nelle diverse fasi di definizione e sviluppo dei programmi di assistenza alle rifugiate, garantendo loro l’accesso diretto ai servizi messi a disposizione; 6. l’assistenza rivolta alle donne che vivono in territori non autonomi. 95 Cit. Clausola Martens. 47 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. esercitano la loro giurisdizione e di cui sono state vittime in particolare le donne, sia che si tratti di attori statali sia di attori non statali. Questi statuti hanno come limite di contemplare come capo d’imputazione solo lo stupro (il tribunale per il Ruanda invero contempla anche la prostituzione forzata), mentre lo Statuto di Roma, che istituisce la Corte Penale Internazionale, include tra i crimini contro l’umanità96 la persecuzione per motivi collegati al “genere”97, inteso per entrambi i sessi, e prevede crimini quali “lo stupro, la prostituzione forzata, la schiavitù sessuale, la gravidanza forzata98 e qualsiasi forma di violenza sessuale di gravità analoga” (art. 7, par. 1, lett. g) . È importante inoltre considerare, viste le caratteristiche di questi crimini, che lo Stato è responsabile sia per i crimini commessi da pubblici ufficiali, sia per quelli commessi da privati cittadini, quando non interviene adeguatamente per prevenire, punire o risarcire il danno subito dalle donne e dalle bambine. Vista la conformazione dei conflitti attuali, indirizzati non più contro un esercito ma, spesso e volentieri, contro un gruppo etnico, che vedono nei bambini e nelle donne gli obiettivi più vulnerabili per sterminare un popolo e inficiarne la continuità, appare più che mai attinente l’accostamento al crimine di genocidio, quando si parla violenza di genere. Infatti secondo l’art. 6 dello Statuto della CPI: “…per crimine di genocidio s'intende uno dei seguenti atti commessi nell'intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, e precisamente: a) uccidere membri del gruppo; b) cagionare gravi lesioni all'integrità fisica o psichica di persone appartenenti al gruppo; c) sottoporre deliberatamente persone appartenenti al gruppo a condizioni di vita tali da comportare la distruzione fisica, totale o parziale, del gruppo stesso; d) imporre misure volte ad impedire le nascite in seno al gruppo; e) trasferire con la forza bambini appartenenti al gruppo ad un gruppo diverso;” 96 Caratteristica principale di questi crimini è che possono essere commessi sia in tempo di pace sia in tempo di guerra. 97 Art. 7, par. 3: “Agli effetti del presente Statuto con il termine «genere sessuale » si fa riferimento ai due sessi, maschile e femminile, nel contesto sociale. Tale termine non implica alcun altro significato di quello sopra menzionato”. 98 Art. 7, par. 2, lett. f: “per «gravidanza forzata» s'intende la detenzione illegale di una donna resa gravida con la forza, nell'intento di modificare la composizione etnica di una popolazione o di commettere altre gravi violazioni del diritto internazionale. La presente definizione non può essere in alcun modo interpretata in maniera tale da pregiudicare l'applicazione delle normative nazionali in materia di interruzione della gravidanza”. 48 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. Specialmente nel suddetto rientrano tutte quelle pratiche che, lungi dall’essere considerate meramente conseguenze della guerra, sono nei fatti vere e proprie armi99 finalizzate allo sradicamento di un gruppo o alla purificazione etnica. Il Consiglio di Sicurezza, consapevole che l’impiego diffuso e sistematico della violenza sessuale contro i civili costituisce una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale, il 19 giugno 2008, ha approvato all’unanimità la Risoluzione 1820 che condanna lo stupro come crimine di guerra, crimine contro l’umanità alla stregua del genocidio. Questa rappresenta una vera e propria decisione storica poiché valuta lo stupro non più come effetto della guerra, ma come arma usata da chi fa la guerra, uno strumento di minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale che distrugge il nemico attaccandolo alle radici ed eliminando, per sempre, il suo gene dal futuro dell’umanità.100 Punire i crimini contro l’umanità, che hanno come sfondo la violenza fondata sulla discriminazione di genere e risarcirne le vittime, è particolarmente importante: rappresenta un modo di riconoscere che quella violenza commessa è avvenuta e che è considerata un crimine, oltre che un modo per riconoscere, a chi lo ha subito, lo status di “vittima” , affinché lo stigma sociale e l’onta della violenza subita non ricada su quest’ultima, ma su chi si è reso colpevole. 99 Ad es. gli stupri, perpetrati su larga scala, sono uno strumento di diffusione del virus HIV/AIDS. Per approfondire Cfr. MAURIZIO SIMONCELLI (a cura di), Dove i diritti umani non esistono più. La violazione dei diritti umani nelle guerre contemporanee, Ediesse, Roma, 2010, da pag. 89 a pag. 118. 100 49 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. Conclusioni Sulle basi del lavoro proposto, lungi dal voler trovare delle soluzioni stabili e durature alla violazione dei diritti umani dal punto di vista socio-normativo, è opportuno riflettere per indicare quale potrebbe essere la strada giusta da percorrere per uno sviluppo dell’umanità verso un’esistenza culturalmente più elevata, e perciò, libera dalle guerre: Lo sviluppo fa parte della natura umana e il concetto di sviluppo si differenzia da quello di crescita (tanto caro agli economisti) che, invece, rappresenta non una evoluzione delle proprie capacità, ma una mera evoluzione materiale. Lo sviluppo è un percorso positivo, naturale e conseguenziale, orientato a ottenere capacità superiori intimamente legate all’animo umano e alle sue esigenze fisiche e spirituali, come la salute e la soddisfazione personale. E’ naturale se è conseguenziale ed è conseguenziale se è naturale; cioè una cosa per natura deve essere predisposta a svilupparsi. Mentre la crescita, invece, è fine a se stessa. Un uomo di 15 anni è certamente meno cresciuto di uno di 30, ma può essere più sviluppato. Lo sviluppo, inoltre, è anche autonomo in quanto evoluzione delle proprie interpellanze interne. La trasposizione terministica del concetto di sviluppo all’azione che compiono le nazioni occidentali nel territorio dei paesi c.d. “sottosviluppati” non coincide con il significato naturale suddetto intrinseco allo sviluppo. Esso è legato alla natura e all’uomo e in una visione allargata abbraccia una comunità di persone legate dalla stessa cultura. Una comunità è tale, perciò, se si basa su un’unica cultura. Lo stato, invece, come insieme di istituzioni, non è un elemento naturale, ma è una invenzione umana e in quanto tale non è predisposta naturalmente allo sviluppo, ma solo alla crescita economica, all’ordine pubblico e al benessere sociale. E’ un mezzo di promozione dello sviluppo umano. Lo stato nasce tale e rimane tale, può mutare la sua forma, può evolversi nelle sue istanze, ma non si sviluppa, perché lo sviluppo presuppone una condizione iniziale di inferiorità rispetto al divenire che lo stato di per sé non ha. E tale condizione è data dalla comunità che autonomamente dà vita allo stato. Parlare di sviluppo, scindendo i concetti di stato e comunità, equivarrebbe a depersonalizzare la sua essenza naturale: sviluppo sì, ma rispetto a che cosa, verrebbe da chiedersi. E sembrerebbe banale rispondere al popolo individuato nell’unità culturale di quello stato, o meglio sembrerebbe sconveniente, perché un tale sviluppo sarebbe difficile da controllare e da manipolare dall’esterno secondo il proprio interesse. La risposta data, perciò, coincide con la condizione degli stessi paesi promotori del potenziamento dei luoghi in cui questo viene tradotto concretamente. Non è sviluppo, è assimilazione, è una imitazione indotta. Una nuova forma di colonialismo. Si potrebbe 50 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. contestare ciò dicendo che lo stato quale essere non naturale non abbisogna di un percorso di crescita naturale: cioè avvalorare la tesi per cui l’essere vivente segue uno sviluppo naturale mentre lo stato, in quanto invenzione umana e perciò finzione naturalistica, può seguire uno sviluppo innaturale. Ergo una popolazione statale può interferire nella vita di un’altra condizionandone l’evoluzione: esportare la democrazia, attraverso la guerra, come forma di governo più idonea a quella popolazione sarebbe, così, giusto. Ma questa conclusione andrebbe bene nel rapporto tra due popoli della stessa cultura, come due piante dello stesso tipo abbisognano della stessa quantità d’acqua e di luce per crescere. Uno dei due propone all’altro un modello di sviluppo che ben si adatta a entrambi. Quando, però, lo stato in cui si cerca di introdurre un determinato sistema è costituito da una popolazione di cultura diversa, uno sviluppo non richiesto e perciò imposto finisce per interrompere e interferire nel naturale corso evolutivo di quella popolazione nello scegliersi da sola le modalità con le quali governarsi, finendo per generare scontri sanguinosissimi. La democrazia in stile occidentale legalizza le dittature preesistenti, con il risultato che produce più vittime di una dittatura responsabile. Forma un sistema pernicioso per cui lo Stato si pone in contrapposizione funzionale alla comunità umana opprimendola e schiacciandola in funzione di interessi individuali, spesso economici. Il patto sociale fondante la democrazia è sostituito da un patto tra terzi. Non esiste una forma di stato che vada bene per tutte, ma ogni comunità deve trovare la sua strada: l’Africa deve trovare la sua strada. Lo sviluppo così come è stato concepito è quindi un anti sviluppo, un velo di Maya che nasconde la realtà dell’essenza autentica delle cose. Lo sviluppo operato nei confronti dei paesi in via di sviluppo manca delle sue caratteristiche essenziali: autonomia, naturalezza, conseguenzialità, positività. In realtà non è altro che il tentativo futile e inadeguato di rimediare alle azioni perverse e inumane compiute nella storia (v. colonialismo) e tutt’oggi nei suoi confronti. Questo modo di agire mette in discussione la natura stessa dello sviluppo, non le intenzioni positive di chi lo compie. Oltre ad essere un anti-sviluppo di per sé, è un avallo, uno strumento legittimante delle attività degli organi statali teleologicamente orientati unicamente al raggiungimento dei propri interessi. Come se l’attività dello sviluppo indotto esentasse lo Stato dalla sua responsabilità per altre azioni, in uno schema perverso per cui chi fornisce lo sviluppo lo fa in quanto priva chi lo riceve di qualcos’altro di essenziale. Come se si privasse un essere vivente del cibo di cui ha bisogno e lo si sostituisse con razioni che 51 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. raggiungono a fatica il minimo indispensabile, giusto per lavarsi la coscienza. Finora, tale sviluppo si è dimostrato fallimentare101. Un altro fine reale dello sviluppo “malato” è quello di rabbonire la società civile in quanto fornisce la parvenza che qualcosa si stia facendo per aiutare il “povero” stato sottosviluppato e in quanto fornisce occupazione e posti di lavoro in una società sovrapopolata e disoccupata. La presenza di entità organizzate, statali e non, in un dato territorio altro non è che un’altra faccia della stessa medaglia, della presenza di noi stessi come comunità. Lo Stato siamo noi, si, ma fino a un certo punto, fino a quando ci conviene e solo all’interno dei confini nazionali, perché una volta valicati l’azione dello stato è diversa rispetto a quella della società civile responsabile che agisce nelle ONG. La loro stessa denominazione quali organizzazioni non governative presuppone che la loro attività sia diversa da quella dello stato e quindi la loro stessa esistenza, quale negazione, legittima l’esistenza di ciò che nega di essere. Un non essere qualcosa presuppone necessariamente l’essere dal quale ci si vuole distinguere altrimenti vorrebbe significare essere per sé e basta. E ciò rafforza l’esistenza dell’essere antitetico al nostro, e quindi dello stato che ha interessi e finalità diverse da quelle delle ONG. Nello scontro inevitabile, lo stato Leviatano immaginato da Hobbes ha la vittoria assicurata poiché dispone di una forza maggiore del suo avversario e per di più ne influenza perfino la forza attraverso i suoi finanziamenti (v. da un lato i tagli alla cooperazione in Italia dell’88%, dall’altro le spese militari che non accennano a diminuire neanche in un momento di crisi economica come quello attuale). L’azione di sviluppo dei paesi occidentali per essere efficace, soprattutto sul tema della prevenzione dei conflitti, deve agire non nei confronti delle altre popolazioni, ma nei confronti di se stessi. Ritornando alla metafora naturale, un uomo è in grado di svilupparsi per diventare un buon uomo nei confronti degli altri e influenzare lo sviluppo degli altri attraverso l’esempio e l’educazione, ma non può entrare direttamente nella loro testa con la presunzione di programmarli o indottrinarli a uno stile di vita. Sarebbe praticare una ideologia. La realtà è che le stesse potenze occidentali culturalmente sono sotto sviluppate. Per cambiare il mondo bisogna cambiare prima di tutto se stessi. Pretendere di cambiare il mondo cambiando gli altri non fa altro che destabilizzare l’equilibrio culturale di una popolazione, causando guerre e contrasti o, nel migliore dei casi, una passiva approvazione caratterizzata dal più estremo sfruttamento e dalle più estreme condizioni di vita. 101 Per una critica allo sviluppo occidentale cfr. DAMBISA MOYO, La carità che uccide, BUR saggi-Rizzoli, Milano, 2010. 52 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. Bisogna che essi godano dei benefici causati indirettamente dall’auto-cambiamento, che esso provochi il ripristino della loro capacità naturale di auto-svilupparsi di cui sono stati bruscamente privati nel corso della storia. Per cambiare il modo di agire dello stato occorre la volontà di farlo: questa deve provenire dalla società civile internazionale imperniata su valori universalmente riconosciuti, la quale deve sempre più fondersi con l’attività degli Stati, divenire essa stessa stato. Ma questa volontà di cambiare corrisponde alla volontà di privarsi degli interessi che lo stato attuale persegue. Volontà di privarsi di quel materialismo da cui tutti siamo ossessionati, che diventa consumismo sfrenato. Questa volontà di cambiare ovviamente non appartiene a tutti, anzi appartiene a pochi. Il lavoro delle ONG deve consistere nell’allargare questa volontà, attraverso l’informazione e la promozione della cultura, al punto tale da raggiungere e permeare le istituzioni, tutt’oggi incapaci di mutare autonomamente perché influenzate da interessi economici troppo forti (in primis quelli dell’industria bellica, generatrice degli effetti analizzati). Questa necessità di cambiamento col passare del tempo diventa sempre più impossibile da realizzare a causa dei problemi comuni quali sovra-popolazione, crisi ambientale, corsa all’oro blu; per cui ogni stato cerca di accaparrarsi quello che può, mentre le spese militari aumentano costantemente. Come se ci preparasse a qualcosa di catastrofico. Una corsa alla sopravvivenza. Il diritto internazionale e il sistema delle Nazioni Unite sono un riflesso di questa volontà che sta limitando l’inevitabile. Se ne registra già il fallimento (v. 1.3), sulla pelle dei morti causati da i rapporti di forza tra gli Stati o dalle guerre pretestuose contro nemici che non sono neanche contemplati dal diritto internazionale (G. W. Bush docet - guerre preventive). Lo stesso Consiglio di Sicurezza, come abbiamo visto, autorizza l’uso della forza armata contro uno Stato, quando, oltre a gravi violazioni dei diritti umani, sono in gioco risorse energetiche di preminente interesse per le potenze occidentali (v. Iraq e Libia). E’ necessario questo binomio. E fa poco o nulla di quanto in realtà potrebbe per interrompere il commercio di armamenti. Allora lo stato non deve essere un fine, ma un mezzo. Lo forza statale non deve essere il fine dell’agglomerato sociale, ma l’agglomerato sociale deve essere il mezzo per il raggiungimento di un fine superiore e cioè il rispetto della vita degli altri, prima, e di tutti, poi. Vivere per gli altri vuol dire vivere con gli altri, perché il “con” è reciprocità. Questo può avvenire soltanto con l’educazione e la veicolazione del messaggio per il quale siamo tutti 53 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. “cittadini del mondo”, attraverso il quale si deve trovare la forza per rinunciare al benessere materiale eccessivo, fino a boicottare quegli interessi che governano i governanti. Tutta questa contrapposizione è frutto sostanzialmente dell’animus umano, il quale nasce animato da due pulsioni: l’eros (forza positiva) e il thanatos (forza negativa)102: il bene è tale solo in rapporto al male e non ci si può illudere di sconfiggerlo, ma promuovendo la cultura nel mondo possono mutare le proporzioni di tale rapporto: è questo il compito affidato a coloro i quali posseggono questa consapevolezza, che, respinti dalle istituzioni, trovano quale unico habitat ove operare le entità non statali, quelle realmente indipendenti, quelle che non si lasciano strumentalizzare. Gradualmente, però, bisogna fondersi con lo stato, diventare tutt’uno attraverso la promozione culturale delle successive generazione, per formare lo stato “culturale” dove la cultura sta non nella ricerca della solidarietà, ma nella ricerca dell’equità. Solo cambiando se stessi si può avere rispetto per la cultura e per la vita degli altri. Tutto ciò vuol dire che uno stato deve saper vivere principalmente con le proprie risorse naturali senza dover a tutti i costi sfruttare quelle degli altri, eliminando gli sprechi e rinunciando al superfluo. Persistere con lo stile di vita della globalizzazione a tutti i costi vuol dire avanzare verso la rovina. L’umanità possiede oggi la tecnologia per farlo: energie rinnovabili, agricoltura e mobilità sostenibile, abitazioni ecocompatibili. Ciò non vuol dire non condividere il progresso, quello vero, costituito dalle invenzioni straordinarie che il genio umano ha prodotto e può ancora produrre, o non creare una comunità sovranazionale con regole comuni per la promozione di un economia che soddisfi le esigenze comuni e per una distribuzione delle risorse equa per i singoli stati. Creare un sistema sovranazionale capace solo di limitare la libertà degli Stati è il male minore rispetto a un male che cresce sempre di più. Le regole della comunità internazionale migliorano gradualmente e la promozione dei diritti umani ha raggiunto traguardi importanti103, come nel caso delle donne e dei bambini, ma allo stesso tempo i problemi del mondo peggiorano proporzionalmente e quindi ogni nuovo rimedio sembra solo tenere il 102 SIGMUND FREUD, Al di là del principio di piacere, 1920. Uno dei traguardi più importanti finora raggiunti per quanto riguarda la tutela dei diritti umani nei conflitti armati è il Parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia sulla legalità della minaccia o dell’impiego di armi nucleari dell’8 luglio 1996. Qui la Corte, oltre a prevedere una generica contrarietà della minaccia e dell’uso delle armi nucleari nei conflitti armati, ha specificato che l’obbligo degli Stati di tutelare i diritti fondamentali della persona previsti dal Patto Internazionale dei diritti civili e politici non cessa durante il conflitto armato e anche l’eventuale sospensione di certi diritti in situazione di emergenza nazionale (prevista dall’art. 4 del Patto) non può includere il diritto a non “essere privato arbitrariamente della vita” (art. 6) che continua pertanto ad essere applicato anche durante una guerra. Con questo parere la Corte, per la prima volta, supera la tradizionale distinzione tra tutela della persona in tempo di pace e in tempo di guerra, affidata rispettivamente al diritto internazionale dei diritti umani e al diritto internazionale umanitario, presupponendo una responsabilità maggiore degli Stati, chiamati a tutelare i diritti umani in forme sempre più ampie durante i conflitti. Cfr. VINCENZO BUONONMO , Il diritto della Comunità internazionale, Lateran University Press, Città del Vaticano, 2010, da pag. 143 a pag. 159. 103 54 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. passo della degenerazione (in materia di armi soprattutto: si stipula una Convenzione che vieta l’utilizzo di un’arma, ma subito dopo ne appare un’altra tecnologicamente più avanzata). Non bisogna perdere la speranza. L’invenzione umana più straordinaria è la sua capacità creativa e mutevole. Le menti incredibili che sono apparse nel mondo lo dimostrano, anche se finora si sono confrontate con problemi geograficamente limitati e, senza sminuirne l’importanza, minori rispetto ai problemi dell’umanità di oggi. L’insegnamento di individualità forti, come Giovanni Paolo II o Nelson Mandela, deve guidarci verso un cambiamento radicale e sistematico della società che attraverso la cultura e la dignità coinvolga tutte le singole persone nel divenire “stato per gli altri”, una “antropocrazia” universale costituita da tante forme di governo “orientate” al bene degli altri per ottenere il bene di se stessi, il bene dell’umanità. E pensiamo a chi verrà…prima di tutto è necessario tutelare le donne e i bambini per garantire la continuità. Essi, nella loro semplice esistenza, custodiscono il segreto per una vita migliore. 55 La violazione dei diritti umani nei conflitti armati contemporanei. BIBLIOGRAFIA • AMNESTY INTERNATIONAL, Amare i conflitti. 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