Religione

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Integrazioni al libro di religione
FONTI INDIRETTE
AMBITO PAGANO
PLINIO IL GIOVANE
Chi è: Plinio il giovane è nato a Como nel 61 d.C. Rimasto orfano di padre, segue lo zio, Plinio il
Vecchio, a Roma, dove studia retorica presso Quintiliano. Esercita la professione di oratore,
scrivendo soprattutto orazioni di tipo deliberativo, ma a partire dall’89 si dedica alla vita politica: è
pretore, questore, prefetto, console nel 100, grazie anche alla sua amicizia con Traiano, a cui è
molto legato. Infine è proconsole della Bitinia e del Ponto, in Oriente sul Mar Nero. Muore nel 112.
Dallo zio ha ereditato il disprezzo per la filosofia. Le orazioni che pronuncia sono brevi e stringate,
ma quando le trascrive per la pubblicazione, le amplia talmente che, a volte, come del caso del
Panegirico, diventano lunghe quattro volte l'analoga versione orale.
Il Panegirico a Traiano è la sua unica orazione epidittica, composta in onore di Traiano e costituita,
nella versione scritta, da 95 capitoli. In essa, Plinio parla di Traiano seguendo due criteri:
- per categorie, in cui narra tutto ciò che è pubblico (imprese militari, carriera politica etc.);
- in ordine cronologico, in cui narra tutto ciò che riguarda la sua vita privata (vicende familiari,
svaghi, qualità morali).
L'Epistolario è costituito da 371 lettere: 247 ad amici e parenti, che si trovano nel primo libro; 73
mandate a Traiano e 51 ricevute dall’imperatore, che insieme formano altri 10 libri. Diversamente
da altri autori, soprattutto Cicerone, Plinio, che tiene alla sua fama, scrive le lettere conscio della
loro pubblicazione, quindi le cura in tal modo da farle apparire ognuna come un’orazione.
Al contrario di Giovenale, che descrive Roma attraverso i suoi vizi e difetti, delineandola come la
peggiore società e condannandone tutti gli aspetti, Plinio, la vede come perfetta, ne loda ogni
caratteristica, ignorando le brutture e gli errori dei suoi cittadini. Questo accade perché Plinio è un
ottimista di natura e tratta solo argomenti positivi, come l’amore, la patria, la gioia per il successo
degli amici, che lui stesso aiutava, riportando in auge la pratica del mecenatismo. Nelle sue opere
parla della sua vita quotidiana, del suo partecipare ai circoli letterari, del suo essere disponibile e
finanziare gli artisti più giovani e poveri, senza tralasciare però di vantarsi delle sue capacità, delle
sue conoscenze in soprattutto campo politico e delle sue qualità: nelle lettere alla moglie Calcurnia,
ad esempio, parla di lei ma poi finisce col ricordare la stima che ha lei di lui. Nonostante questo,
produce simpatia per la sua generosità.
Al tempo di Plinio il giovane, il Cristianesimo è una realtà che si va diffondendo sempre più
nell’impero, anche a causa di un bisogno di spiritualità più profondo, che la religione ufficiale non
riesce a soddisfare. Nelle sue lettere a Traiano, Plinio chiede all’imperatore come comportarsi nei
confronti dei cristiani, perché, mentre è governatore della Bitinia e del Ponto, il loro numero è
troppo grande per poterli imprigionare o uccidere tutti. Così si può apprendere la condizione
precaria in cui essi vivevano, perseguiti per ragioni politiche (non rispettavano la legge romana, che
imponeva il culto degli dèi latini e l’adorazione dell’immagine dell’imperatore). Inoltre l’autore
chiede come debba comportarsi coni bambini che si proclamano cristiani, con coloro che dicono di
esserlo stati ma di non esserlo più, o, infine con quelli che vengono denunciati (compare in questo
periodo un libello con i nomi di molte persone sospettate di essere cristiane) ma che non sono colti
in flagrante reato. Traiano risponde di non arrestare tutti i denunciati, ma solo coloro che si ostinano
a proclamarsi cristiani e che commettono dei crimini. In altre lettere invece Traiano lascia la libera
scelta a Plinio, riconoscendo che si tratta di un problema gravoso.
Pur essendo ammiratore di Tacito (il cui stile è conciso e sintetico, esempio di varietas, cioè
diversità nell’uso delle strutture), lo stile di Traiano è asiano, abbondante, pieno di artifici retorici
(metafore ed ellissi), ridondante, molto curato, perché egli ha il gusto della narrazione e della
descrizione (nell’ottava epistola dell’ottavo libro parla della fonte del Clitunno, un fiume vicino a
Perugia di cui parlerà anche Carducci; nella sedicesima del sesto libro descrive la distruzione di
Pompei ed Ercolano durante l’eruzione del Vesuvio in cui morì lo zio Plinio il Vecchio). Descrive
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le situazioni in modo sempre distaccato, a parte, nel decimo libro, quando, parlando dei cristiani, si
mostra più partecipe e coinvolto, perché essendo ottimista non ama le torture e quindi rivela il
proprio aspetto umano. Esprime anche ammirazione nei confronti dei cristiani e amarezza perché
deve punirli, dovendo obbedire alle leggi. La lingua che utilizza è quella letteraria, curata nei
minimi particolari e aulica anche nelle lettere.
LA TESTIMONIANZA DI PLINIO E IL SUO CONTESTO
Verso la fine della sua vita, probabilmente dal 111 al 113 d.C., Plinio il Giovane (61-113 d.C.)
ricoprì l'incarico di governatore (legatus pro praetore) della Bitinia e del Ponto. L'opera maggiore
di Plinio il Giovane è costituita da una raccolta di epistole scritte tra il 96 d.C. e l'anno in cui
morì. Nell'ultimo libro della raccolta, che uscì dopo la morte di Plinio, sono contenute le 123
lettere scritte durante il suo mandato in Bitinia. Il libro X contiene sia lettere inviate da Plinio a
Traiano, sia lettere inviate a Plinio dall'imperatore di Roma. In esso sono contenute due lettere,
nella prima, nota come lettera 96 e inviata da Plinio a Traiano, il governatore informa l'imperatore
delle attività riguardanti i processi ai cristiani e contiene alcune domande sulla giusta procedura
da seguire in quei processi; la seconda, inviata da Traiano a Plinio, è la lettera 97 e costituisce la
risposta dell'imperatore alla precedente lettera del governatore.
Nella lettera 96 del suo epistolario Plinio informa che durante il periodo in cui fu governatore
della Bitinia si svolgevano processi contro i cristiani. Egli utilizza con precisione in latino i
termini cristiano/i e Cristo, al contrario del Chrestus di Svetonio. Da quanto scrive Plinio,
venivano condannati i cristiani per il solo fatto di aderire a questa religione, definita come una
"superstizione balorda e smodata" (superstitionem pravam et immodicam), in linea con il
pensiero degli storici romani del periodo. Apprendiamo dalla lettera che i cristiani si rifiutavano
di venerare l'immagine dell'imperatore (reato di laesa maiestas) e non riconoscevano gli dei
romani (sacrilegium): questi erano i motivi per cui venivano condannati, quando in aggiunta non
avevano commesso altri reati, il popolo infatti attribuiva ai cristiani un certo numero di azioni
abominevoli, contrari al costume, quali incesto, infanticidio, stregoneria, probabilmente a causa
della ignoranza dei riti e delle celebrazioni cristiane. La richiesta principale che Plinio inoltra a
Traiano è "se vada punito il nome di per se stesso, pur se esente da colpe, oppure le colpe
connesse al nome", ovvero se sia punibile un cristiano solo per la sua appartenenza ad una setta
considerata una superstizione e invisa sia a gran parte della popolazione comune che della classe
dirigente e intellettuale romana, oppure se occorrano delle prove tangibili e dei fatti che
dimostrino concretamente che i cristiani sotto processo hanno effettivamente violato le leggi
romane, rifiutandosi di adorare l'imperatore, profanando gli dei di Roma o commettendo altri
crimini. Sulla perseguibilità del semplice nomen è facile qui riferirsi al noto passo evangelico:
"voi sarete odiati da tutti a causa del mio nome" (Matteo, 13:13). Per i cristiani che avevano
commesso simili reati e non rinnegavano Cristo era prevista la pena di morte, come scrive Plinio:
"quelli che perseveravano, li ho mandati a morte". Plinio informa anche che esistevano diversi
cittadini romani che avevano aderito alla nuova religione, per questi non era prevista la pena
capitale ma venivano condotti a Roma. La risposta di Traiano a Plinio, nella successiva lettera
97, conferma la massima repressione per i cristiani, che comunque non dovevano essere ricercati
dalle autorità ma processati solo se denunciati da qualcuno dalle autorità. La richiesta inoltrata da
Plinio il Giovane a Traiano e la successiva risposta dell'Imperatore sono la prova che fino a quel
momento non esistevano particolari provvedimenti contro i cristiani, altrimenti Plinio non
avrebbe sentito la necessità di rivolgersi a Traiano, avendo a disposizione un senatusconsultum
sul quale basarsi. Inoltre nella sua risposta Traiano non ritiene necessario ricercare e perseguitare i
cristiani, essi vanno puniti solo se vengono denunciati all'autorità. Secondo Giorgio Jossa, autore
di un libro sui rapporti tra cristiani e impero romano nel periodo da Tiberio a Marco Aurelio, i
cristiani:
"Moralmente riprovevoli, essi non sono politicamente pericolosi. Perciò, pur ritenendoli in
qualche modo colpevoli, Traiano non ritiene opportuno perseguirli. E quindi, anche dopo che si
sia raggiunta la prova della loro colpevolezza, offre ancora ai cristiani la possibilità di ottenere
il perdono mediante l'apostasia. In tal modo vengono fissati due principi importantissimi, che non
potevano non rivelarsi alla lunga sostanzialmente favorevoli ai cristiani: la necessità della
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denuncia da parte di un privato perché si metta in moto il procedimento giudiziario contro i
cristiani, e la possibilità di ottenere il perdono mediante l'apostasia, che offre ai cristiani un
mezzo concreto per evitare la condanna."
Plinio sottolinea alcune peculiarità che contraddistinguevano i cristiani di quel periodo (siamo tra
il 111 e il 113 dopo Cristo):
1) I cristiani erano soliti riunirsi prima dell'alba e intonare un inno a Cristo. Questo sembra essere
un elemento che accomuna i cristiani descritti da Plinio alla setta ebraica degli Esseni in quanto
Giuseppe Flavio riferisce che gli Esseni "prima che si levi il sole non dicono una sola parola su
argomenti profani, ma soltanto gli rivolgono certe tradizionali preghiere, come supplicandolo di
sorgere" (cfr. Guerra Giudaica, libro 2, 119-161).
2) I cristiani si riunivano per prendere parte ad una celebrazione che prevedeva la consumazione
di un cibo comune. Anche questo elemento potrebbe essere un punto di contatto con la setta
essena descritta da Giuseppe Flavio:
"Dopo che si sono seduti in silenzio, il panettiere distribuisce in ordine i pani e il cuciniere serve
a ognuno un solo piatto con una sola vivanda. Prima di mangiare, il sacerdote pronuncia una
preghiera e nessuno può toccare cibo prima della preghiera. Dopo che hanno mangiato, quello
pronuncia un'altra preghiera; così al principio e alla fine essi rendono onore a Dio come
dispensatore della vita." (Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, libro 2, 119-161).
Notiamo comunque che nel caso degli Esseni, secondo la descrizione di Giuseppe Flavio, più che
di un rito speciale ed unico nel suo genere siamo davanti piuttosto alla santificazione dei pasti
corrispondenti al pranzo e alla cena. Infatti Giuseppe Flavio nello stesso passo della Guerra
Giudaica aggiunge che dopo il pranzo gli Esseni si recano al lavoro, fino a sera e "al rientro
mangiano allo stesso modo, in compagnia degli ospiti, se ve ne sono". La celebrazione eucaristica
come rito dei primi cristiani è ben conosciuta nelle lettere di Paolo: non si trattava di un pasto
come quello degli Esseni, che nella descrizione di Giuseppe Flavio rimane un semplice pasto
quotidiano che si ripete due volte al giorno, è ben nota l'esortazione di Paolo nella prima lettera ai
Corinzi (cfr. 1 Cor 17:20-33), una epistola considerata autentica, alla quale si rimanda. Tutte le
purificazioni e le abluzioni caratteristiche degli Esseni raccontate da Giuseppe Flavio nel
medesimo passo della Guerra Giudaica sono inoltre assenti nella lettera di Plinio il Giovane.
3) Due donne (ancelle, lat. ancillis) furono trovate da Plinio come "ministre" (lat. ministrae),
probabilmente avevano un ruolo di rilievo nelle celebrazioni. Questa caratteristica sembra proprio
non essere compatibile con le descrizioni degli Esseni fornite da Giuseppe Flavio, Filone di
Alessandria e Plinio il Vecchio. Tutti questi autori, infatti, descrivono gli Esseni come una setta
che ammetteva un rigoroso celibato e rifiutava senza alcuna riserva la presenza femminile tra i
propri adepti. Soltanto Giuseppe Flavio accenna all'esistenza di un gruppo di Esseni che
ammettevano il matrimonio ma non sappiamo quale fosse il ruolo della donna in rapporto alle
celebrazioni religiose.
In latino il termine ministra può avere essenzialmente tre significati: 1) schiava (o serva), 2)
aiutante (in senso figurato), infine: 3) sacerdotessa. Vista l'estrema intransigenza degli Esseni
nell'ammettere anche la sola presenza femminile all'interno del loro gruppo è altamente
improbabile che le due donne "sacerdotesse" appartenessero a quella setta. Ma che dire
dell'ambito cristiano? E' ipotizzabile che nei primi secoli siano esistite sacerdotesse cristiane?
Quello che emerge dalla ricerca storica e filologica è che la questione femminile all'interno delle
comunità cristiane certamente non era vista in maniera così radicale come all'interno della
comunità degli Esseni o nell'attuale cristianesimo moderno (soprattutto cattolico). Molte donne,
secondo i vangeli canonici, seguivano Gesù e ad esse i vangeli riservano il determinante ruolo di
scoprire la tomba vuota di Gesù risorto e annunciare la risurrezione agli apostoli. Dall'epistolario
paolino e dagli Atti degli Apostoli sappiamo che le donne prendevano parte alle assemblee e alle
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celebrazioni cristiane ed erano ammesse nelle comunità, ma non è chiaro fino a che punto
potessero salire di grado nella gerarchia della Chiesa primitiva.
Nelle epistole di Paolo vi sono due passaggi che, ad una prima lettura, sembrano chiarire in modo
indiscutibile la posizione della donna all'interno delle comunità cristiano-paoline. Quanto scritto
da Paolo nella prima lettera a Timoteo: "la donna impari in silenzio, con tutta sottomissione; non
concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all'uomo; piuttosto se ne stia in
atteggiamento tranquillo" (1 Tim. 2:12) e nella prima lettera ai Corinzi: "come in tutte le
comunità di fedeli le donne nelle assemblee tacciano perchè non è loro permesso parlare; stiano
invece sottomesse come dice anche la legge, se vogliono imparare qualcosa interroghino a casa i
loro mariti, perchè è sconveniente per una donna parlare in assemblea" (1 Cor. 14:34-35) rivela
un atteggiamento profondamente negativo nei confronti della donna da parte di Paolo per cui è
ragionevole supporre che i gradi più elevati del sacerdozio cristiano sicuramente erano preclusi
alle donne, almeno nell'ambito delle comunità fondate da Paolo: difatti all'inizio del Cap. 3 della
prima lettera a Timoteo Paolo riserva ai soli uomini l'episcopato.
TESTI.
Lettera di Plinio il Giovane all'Imperatore Traiano:
E’ per me un dovere, o signore, deferire a te tutte le questioni in merito alle quali sono incerto.
Chi infatti può meglio dirigere la mia titubanza o istruire la mia incompetenza? Non ho mai
preso parte ad istruttorie a carico dei Cristiani; pertanto, non so che cosa e fino a qual punto si
sia soliti punire o inquisire. Ho anche assai dubitato se si debba tener conto di qualche differenza
di anni; se anche i fanciulli della più tenera età vadano trattati diversamente dagli uomini nel
pieno del vigore; se si conceda grazia in seguito al pentimento, o se a colui che sia stato
comunque cristiano non giovi affatto l’aver cessato di esserlo; se vada punito il nome di per se
stesso, pur se esente da colpe, oppure le colpe connesse al nome.
Nel frattempo, con coloro che mi venivano deferiti quali Cristiani, ho seguito questa procedura:
chiedevo loro se fossero Cristiani. Se confessavano, li interrogavo una seconda e una terza volta,
minacciandoli di pena capitale; quelli che perseveravano, li ho mandati a morte. Infatti non
dubitavo che, qualunque cosa confessassero, dovesse essere punita la loro pertinacia e la loro
cocciuta ostinazione. Ve ne furono altri affetti dalla medesima follia, i quali, poiché erano
cittadini romani, ordinai che fossero rimandati a Roma. Ben presto, poiché si accrebbero le
imputazioni, come avviene di solito per il fatto stesso di trattare tali questioni, mi capitarono
innanzi diversi casi.
Venne messo in circolazione un libello anonimo che conteneva molti nomi. Coloro che negavano
di essere cristiani, o di esserlo stati, ritenni di doverli rimettere in libertà, quando, dopo aver
ripetuto quanto io formulavo, invocavano gli dei e veneravano la tua immagine, che a questo
scopo avevo fatto portare assieme ai simulacri dei numi, e quando imprecavano contro Cristo,
cosa che si dice sia impossibile ad ottenersi da coloro che siano veramente Cristiani.
Altri, denunciati da un delatore, dissero di essere cristiani, ma subito dopo lo negarono; lo erano
stati, ma avevano cessato di esserlo, chi da tre anni, chi da molti anni prima, alcuni persino da
vent’anni. Anche tutti costoro venerarono la tua immagine e i simulacri degli dei, e imprecarono
contro Cristo.
Affermavano inoltre che tutta la loro colpa o errore consisteva nell’esser soliti riunirsi prima
dell’alba e intonare a cori alterni un inno a Cristo come se fosse un dio, e obbligarsi con
giuramento non a perpetrare qualche delitto, ma a non commettere né furti, né frodi, né adulteri,
a non mancare alla parola data e a non rifiutare la restituzione di un deposito, qualora ne
fossero richiesti. Fatto ciò, avevano la consuetudine di ritirarsi e riunirsi poi nuovamente per
prendere un cibo, ad ogni modo comune e innocente, cosa che cessarono di fare dopo il mio
editto nel quale, secondo le tue disposizioni, avevo proibito l’esistenza di sodalizi. Per questo,
ancor più ritenni necessario l’interrogare due ancelle, che erano dette ministre, per sapere quale
sfondo di verità ci fosse, ricorrendo pure alla tortura. Non ho trovato null’altro al di fuori di una
superstizione balorda e smodata.
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Perciò, differita l’istruttoria, mi sono affrettato a richiedere il tuo parere. Mi parve infatti cosa
degna di consultazione, soprattutto per il numero di coloro che sono coinvolti in questo pericolo;
molte persone di ogni età, ceto sociale e di entrambi i sessi, vengono trascinati, e ancora lo
saranno, in questo pericolo. Né soltanto la città, ma anche i borghi e le campagne sono pervase
dal contagio di questa superstizione; credo però che possa esser ancora fermata e riportata nella
norma.
(Lettera di Plinio a Traiano, Epistularum, X, 96)
Risposta dell'Imperatore Traiano a Plinio il Giovane (lettera 97 del Libro X dell'Epistularum);
si noti che una lettera riguardante simili problematiche fu inviata dall'imperatore Adriano,
successore di Traiano, verso il 112 dopo Cristo al proconsole d'Asia Caio Minucio Fundano
(Eusebio, Storia Ecclesiastica, IV, 9, 2-3).
“Mio caro Plinio, nell’istruttoria dei processi di coloro che ti sono stati denunciati come
Cristiani, hai seguito la procedura alla quale dovevi attenerti. Non può essere stabilita infatti una
regola generale che abbia, per così dire, un carattere rigido. Non li si deve ricercare; qualora
vengano denunciati e riconosciuti colpevoli, li si deve punire, ma in modo tale che colui che avrà
negato di essere cristiano e lo avrà dimostrato con i fatti, cioè rivolgendo suppliche ai nostri dei,
quantunque abbia suscitato sospetti in passato, ottenga il perdono per il suo ravvedimento.
Quanto ai libelli anonimi messi in circolazione, non devono godere di considerazione in alcun
processo; infatti è prassi di pessimo esempio, indegna dei nostri tempi”
(Lettera di Traiano a Plinio, Epistularum, X, 97)
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TACITO
Lo storico romano Tacito (54-119), pretore, oratore, consul suffectus e proconsole in Asia, scrisse
attorno al 112 i suoi 16 libri di Annali, che narrano la storia romana dalla fine del principato di
Augusto (14 d.C.) alla morte dell’imperatore Nerone (68 d C).
Nel 64 scoppiò il noto incendio della città di Roma, del quale il medesimo imperatore fu accusato
dall’opinione pubblica; il nostro storico ci narra che Nerone cercò in tutti i modi di favorire le
vittime del disastro e di stornare da sé l’accusa che pendeva sul suo capo, con vari provvedimenti.
“Tuttavia né con sforzo umano, né per le munificenze del principe o cerimonie propiziatorie agli
dei perdeva credito l’infamante accusa secondo la quale si credeva che l’incendio fosse stato
comandato”
A questo punto si inserisce il riferimento a Cristo ed ai suoi seguaci: “Perciò, per far cessare tale
diceria, Nerone si inventò dei colpevoli e sottomise a pene raffinatissime coloro che la plebaglia,
detestandoli a causa delle loro nefandezze, denominava cristiani. Origine di questo nome era
Cristo, il quale sotto l'impero di Tiberio era stato condannato al supplizio dal procuratore Ponzio
Pilato; e, momentaneamente sopita, questa esiziale superstizione di nuovo si diffondeva, non solo
per la Giudea, focolare di quel morbo, ma anche a Roma, dove da ogni parte confluisce e viene
tenuto in onore tutto ciò che vi è di turpe e di vergognoso. Perciò, da principio vennero arrestati
coloro che confessavano, quindi, dietro denuncia di questi, fu condannata una ingente moltitudine,
non tanto per l’accusa dell'incendio, quanto per odio del genere umano. Inoltre, a quelli che
andavano a morire si aggiungevano beffe: coperti di pelli ferine, perivano dilaniati dai cani, o
venivano crocifissi oppure arsi vivi in guisa di torce, per servire da illuminazione notturna al
calare della notte. Nerone aveva offerto i suoi giardini e celebrava giochi circensi, mescolato alla
plebe in veste d’auriga o ritto sul cocchio. Perciò, benché si trattasse di rei, meritevoli di pene
severissime, nasceva un senso di pietà, in quanto venivano uccisi non per il bene comune, ma per la
ferocia di un solo uomo” (Ann. XV, 44)
La descrizione di Tacito ci informa innanzitutto che a quell’epoca la comunità cristiana di Roma
disponeva di un considerevole numero di membri, poiché una ingens multitudo rappresenta certo un
numero considerevole. Poi, ci fornisce qualche spunto anche per comprendere quale fosse l’idea
della Roma pagana riguardo a questa nuova fede.
Tacito ci fa notare che i cristiani erano invisi al popolo “a causa delle loro nefandezze”, e che la loro
fede era una “esiziale superstizione”; essi sono definiti “rei” e “meritevoli di pene severissime”,
accusati di “odio del genere umano”.
Il cristianesimo era agli occhi dei pagani una superstitio nova, e i cristiani erano dei molitores
rerum novarum, perché introducevano un culto e uno stile di vita assai diverso da quello
tradizionale. Superstitio non è più, nel linguaggio romano, un sinonimo di religio, ma ne è
l’opposto; superstitiones sono quei culti stranieri o innovatori che non corrispondono alla tradizione
degli antenati (mos maiorum) e non hanno ricevuto pubblico riconoscimento. Così, fin dall’epoca
antica, stabiliva la prescrizione attribuita al re Numa e riportata da Cicerone: “Nessuno abbia
proprie divinità nuove o straniere, non riconosciute pubblicamente”. Superstitiones sono definiti
quindi tutti i culti orientali, il cui carattere a lor modo di vedere smodato (immodicus) non può non
suscitare una istintiva diffidenza agli occhi del romano colto; non sono esenti da questa accusa il
giudaismo e la religione egiziana.
Il cristianesimo è dunque una superstizione straniera, e per di più dotata dell’eccesso comune ai
culti orientali; è una “superstizione nuova”, per cui non gode neppure della caratteristica
dell’antichità, che dai Romani veniva sempre guardata con grande rispetto.
La colpa dei cristiani è quella riassunta dall’espressione “odio del genere umano”: essi costituivano
nella società imperiale un gruppo a sé, estraniato dalla vita pubblica e dalla religiosità comune, che
era un elemento di coesione sociale. Il rifiuto di adesione alla religione dello stato era visto come un
atto di sovversione politica, esattamente come la tendenza a rifiutare costumi ed istituzioni
tradizionali e ad estraniarsi dalla vita pubblica. La stessa accusa era stata rivolta dagli scrittori greci
ai Giudei, e il medesimo Tacito la aveva già affibbiata a loro, come ora fa con i Cristiani,
tacciandoli di “ostile odio verso tutti gli altri”. Ma mentre gli Ebrei potevano vantare l’antichità del
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loro culto, i Cristiani non erano visti altrimenti che come una pianta avulsa dal ceppo giudaico.
Negli stessi anni, Plinio il Giovane pare essersi parzialmente ricreduto circa i pregiudizi che
derivavano da tal giudizio, come ci indica la lettera che esamineremo più avanti.
Le poche parole di Tacito riferite a Gesù Cristo, mostrano che egli è ben informato a riguardo, e che
la fonte a cui attinse dovette su questo punto essere ottima. Invero si sa che Tacito raccoglie le
notizie con molta circospezione, al punto che talora si è potuto con buon esito riconoscere i
documenti preesistenti di cui egli si è valso, e in qualche modo stabilire le derivazioni delle notizie
riferite. Il fatto che Tacito non usi le classiche espressioni del “sentito dire”, quali ferunt, tradunt (si
dice, si racconta) ci fa pensare che egli attingesse a notizie di prima mano.
Questioni critiche
Il problema delle fonti delle quali Tacito si è avvalso è un tema ancora aperto, ma la critica ha
oramai raggiunto dei risultati assodati. Innanzitutto Tacito, per la sua posizione politica, aveva
accesso agli acta senatus, ovvero i verbali delle sedute del senato romano, e gli acta diurna populi
Romani, ovvero gli atti governativi e le notizie su ciò che accadeva giorno per giorno. Egli è
comunemente riconosciuto come storico tra i più scrupolosi, come ci attesta anche l’antica
testimonianza di Plinio il Giovane che ne loda la diligentia; Tacito si dedicò infatti con gran
diligenza e scrupolo alla raccolta di informazioni e notizie, utilizzando non solo fonti letterarie, ma
anche documentarie. Certo anch’egli, come era costume, seguì pure i lavori degli storici precedenti:
egli stesso cita le opere di quattro autori, ovvero Plinio il Vecchio, Vipsiano Messalla, Cluvio Rufo
e Fabio Rustico. Difficile è però la ricostruzione precisa delle fonti (tutte perdute) usate per ogni
singola sezione della sua opera, che erano probabilmente le stesse cui attinsero anche i
contemporanei Svetonio e Plutarco, come dimostrano certe concordanze assai precise su alcuni
argomenti comuni.
Si è detto che Plinio il Vecchio (23-79, deceduto mentre osservava l’eruzione del Vesuvio) è una
delle fonti esplicitamente citate da Tacito; egli, inoltre, era amico del nipote di lui, Plinio il
Giovane, il cui grande legame ci è testimoniato dall’epistolario incorso tra i due.
Prima di parlare delle guerre giudaiche Tacito ha una digressione sulla Giudea che, nell’insieme,
riproduce una descrizione fatta da Plinio il Vecchio nel libro V della sua Naturalis historia. Ora,
sappiamo che Plinio conosceva la Palestina direttamente, in quanto si era colà recato e forse aveva
preso parte alla guerra del 70; sappiamo anche che la sua opera più importante ed ambiziosa, alla
quale certamente Tacito attinse, fu la perduta A fine Aufidi Bassi, che trattava il periodo tra la fine
dell’impero di Claudio e l’ascesa di Vespasiano, e che fu pubblicata postuma dal nipote. Per questo,
si è avanzata da alcuni l’ipotesi che Tacito, nel riferire notizie su Gesù, abbia seguito una qualche
citazione di Plinio, oggi perduta; questa congettura, pur essendo assai seducente, deve ancora essere
sottoposta a verifica.
SVETONIO
Gaio Svetonio Tranquillo (70-126 circa), amico di Plinio e forse suo compagno in Bitinia, ricoprì
l’importante incarico di archivista (procurator a studiis), segretario (ab epistulis) e bibliotecario (a
bibliothecis) dell’imperatore Adriano, fino all’anno 122, quando assieme al prefetto del pretorio
Setticio Claro venne destituito ed allontanato dalla corte imperiale.
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Nella sua opera Vita dei dodici Cesari, una raccolta di dodici biografie
degli imperatori da Cesare a Domiziano scritta intorno al 120, ci lascia
due accenni ai cristiani. Il primo si trova nella vita di Claudio:
“Espulse da Roma i Giudei che per istigazione di Cresto erano
continua causa di disordine” (Vita Claudii XXIII, 4).
Non ci si deve stupire del fatto che Svetonio scriva Chrestus in luogo
di Christus; basti notare che le parole greche Chrestòs (buono,
eccellente) e Christòs (unto, Messia) erano pronunciate allo stesso
modo, e potevano essere facilmente confuse, specie da chi non fosse
ben informato sui fatti; a riprova di ciò, vediamo che Svetonio parla di
Giudei, ancora incapace come tanti suoi connazionali di avvertire le
differenze tra quest’ultimi ed il cristianesimo nascente, che da essi
ormai si differenziava e sempre più si allontanava. Per Svetonio, che
probabilmente ricavò questa notizia dagli archivi imperiali cui aveva
libero accesso, si tratta semplicemente di un provvedimento imperiale
atto ad eliminare focolai di turbolenza, e non ancora di una reazione
Claudio Imperatore
mirata al cristianesimo; è facile pensare che la predicazione del Cristo
tra i Giudei romani da parte di altri Giudei, abbia generato qualche reazione del genere di quelle
narrate negli Atti degli Apostoli, che agli occhi dell’autorità romana poteva turbare l’ordine
pubblico.
La notizia di Svetonio concorda perfettamente con quanto è riportato negli Atti degli Apostoli
riguardo all’arrivo di Paolo a Corinto:
“Dopo di ciò, partito da Atene [Paolo] andò a Corinto. E trovato un giudeo di nome Aquila,
pontico di nascita, da poco giunto dall’Italia, e la moglie sua Priscilla, per il fatto che Claudio
aveva ordinato che tutti i Giudei partissero da Roma, andò da loro” (Act. XVIII, 1-2).
Secondo lo storico Paolo Orosio, che riprende la notizia di Svetonio e cita anche Giuseppe Flavio,
tale espulsione avvenne nel nono anno dell’impero di Claudio, ovvero tra il gennaio del 49 e il
gennaio del 50 d.C.; poiché Paolo probabilmente arrivò a Corinto nel dicembre del 49, il tutto
coincide.
Il secondo accenno ai Cristiani, Svetonio lo colloca nella vita di Nerone; esso in poche parole ci
riassume quanto già narrato più diffusamente da Tacito, con il quale condivide anche le consuete
accuse di superstitio nova ac malefica: “Sottopose a supplizi i Cristiani, una razza di uomini di una
superstizione nuova e malefica” (Vita Neronis XVI, 2).
ADRIANO
Publio Adriano, successore di Traiano, imperatore dal 117 al 138, ricevette una lettera da Quinto
licinio Silvano Graniano, proconsole d’Asia nel 120 circa, nella quale si richiedevano istruzioni
riguardo al comportamento da tenersi con i Cristiani, spesso oggetto di delazioni anonime e accuse
ingiustificate. Egli rispose con un rescritto, che ci è pervenuto nella Storia ecclesiastica di Eusebio
di Cesarea, indirizzato al successore di Graniano, Caio Minucio Fundano, in carica nel 122-123.
In esso si legge:
“Se pertanto i provinciali sono in grado di sostenere chiaramente questa petizione contro i
Cristiani, in modo che possano anche replicare in tribunale, ricorrano solo a questa procedura, e
non ad opinioni o clamori. E’ infatti assai più opportuno che tu istituisca un processo, se qualcuno
vuole formalizzare un’accusa. Allora, se qualcuno li accusa e dimostra che essi stanno agendo
contro le leggi, decidi secondo la gravità del reato; ma, per Ercole, se qualcuno sporge denuncia
per calunnia, stabiliscine la gravità e abbi cura di punirlo” (Hist. Eccl. IV, 9, 2-3).
Gli apologisti, a partire da Giustino, che riporta il testo di questo rescritto in appendice alla sua
prima Apologia, hanno interpretato favorevolmente questa disposizione, vedendo nella richiesta di
Adriano il primo tentativo di distinguere tra l’accusa di nomen christianus e i suoi presunti flagitia;
il semplice nome cristiano non doveva essere perseguito, e gli eventuali reati dovevano essere prima
dimostrati tramite regolare processo, come per qualsiasi cittadino. In tal guisa interpretano anche
molti studiosi moderni; tuttavia, ancora sotto Antonino Pio i Cristiani erano oggetto di persecuzione
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solamente in quanto tali. Nonostante la contraddittorietà dei provvedimenti, ci si avvia lentamente
ad un progressivo riconoscimento della nuova fede.
MARCO AURELIO
Il successore di Antonino Pio, Marco Aurelio Antonino,
imperatore dal 161 al 180, scrisse intorno al 170, in lingua
greca, un’opera in 12 libri, intitolata A se stesso, nella quale
raccolse massime, pensieri, ricordi e meditazioni di contenuto
filosofico.
In essa trova spazio un accenno al martirio dei Cristiani:
“Oh, come è bella l’anima che si tiene pronta, quando ormai
deve sciogliersi dal corpo, o estinguersi, o dissolversi o
sopravvivere! Ma tale disposizione derivi dal personale
giudizio, e non da una mera opposizione, come per i Cristiani;
sia invece ponderata e dignitosa, in modo che anche altri
possano esserne persuasi, senza teatralità” (Ad sem. XI, 3).
Come già Plinio il Giovane, così anche Marco Aurelio pare
essere infastidito dalla ostinazione dei cristiani, che vanno
incontro al martirio pur di non rinnegare la propria fede. Per
l’imperatore, questo tipo di morte non è frutto di un giudizio
interno, sano e ponderato, ma è un segno di fanatismo, frutto di
Marco Aurelio Imperatore,
una “ una mera opposizione”. Ed è proprio sotto l’impero di
statua equestre in bronzo.
questo sovrano saggio e filosofo, che prende forma la grande
(piazza Campidoglio, Roma)
persecuzione che porterà alla morte, tra gli altri, di Giustino,
Policarpo di Smirne, Carpo, Papilo, Agatonice, e dei cosiddetti Martiri di Lione.
EPITTETO
Nato verso la metà del I secolo, a Gerapoli, il filosofo stoico
Epitteto fu maestro a Roma e fu tra i filosofi che subirono la
cacciata dalla capitale voluta dall’imperatore Domiziano.
Raccolta una cerchia di discepoli a Nicopoli in Epiro, vi fondò
una scuola, attiva nel periodo del principato di Adriano (117138); alcune testimonianze del suo insegnamento ci sono
pervenute tramite la raccolta di Dissertazioni del discepolo
Arriano (95-175 circa).
In un passo di quest’opera, trattando di un tema assai caro allo
stoicismo, ovvero la mancanza di paura di fronte alla morte,
Epitteto enumera vari categorie di persone che hanno questo
atteggiamento, come i bambini e i pazzi (incoscienti), coloro
che per qualche motivo desiderano la morte, oppure coloro che
accettano la morte con serenità, come i filosofi.
Tra coloro che invece non hanno paura della morte solo per
abitudine (ethos), egli enumera i “Galilei”.
Epitteto
“Anche per follia uno può resistere a quelle cose, o per
ostinazione, come i Galilei” (Diss. Ab Arriano digestae IV, 6, 6).
Con l’espressione “quelle cose” il filosofo intende gli atti compiuti dai tiranni, e chiamando i
Cristiani “Galilei” usa un titolo comune.
Egli ha forse davanti agli occhi alcuni casi di persecuzione (la lettera di Paolo a Tito presume una
comunità cristiana a Nicopoli, ove Epitteto insegnò a lungo), e non riesce a spiegarsi
l’atteggiamento di ostinazione dei Cristiani, al quale egli reagisce invocando nelle righe successive
“il ragionamento e la dimostrazione”. Come già per Plinio, i cristiani sono degli irrimediabili
cocciuti; il motivo della fede per lui è completamente ignoto o incompreso.
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GALENO
Claudio Galeno (129-200 circa), il noto medico-filosofo di
Pergamo, fu medico personale degli imperatori Marco Aurelio e
Commodo. A differenza di Epitteto e Luciano, egli ha
un’opinione realmente positiva sulla tenuta morale dei Cristiani.
Attraverso la Historia anteislamica di Abulfida ci è pervenuto
questo passo:
“I più tra gli uomini non sono in grado di comprendere con la
mente un discorso dimostrativo consequenziale, per cui hanno
bisogno, per essere educati, di miti. Così vediamo nel nostro
tempo quegli uomini chiamati Cristiani trarre la propria fede dai
miti. Essi, tuttavia, compiono le medesime azioni dei veri
filosofi. Infatti, che disprezzino la morte e che, spinti da una
sorta di ritegno, aborriscano i piaceri carnali, lo abbiamo tutti
davanti agli occhi. Vi sono infatti tra loro sia uomini che donne
i quali per tutta la vita si sono astenuti dai rapporti; e vi sono
anche coloro che sono a tal punto progrediti nel dominare e
Ritratto di Claudio Galeno
dirigere gli animi, e nella più tenace ricerca della virtù, da non
secondo una xilografia del
cedere in nulla ai veri filosofi” (De sentent. Pol. Plat).
sec. XVI
Non è più soltanto il disprezzo della morte che colpisce Galeno,
ma anche tutta la vita morale dei Cristiani. Giustino testimonia che alcuni Cristiani si astenevano
interamente dal matrimonio, e tale costume era proposto ai pagani come esempio di virtù; si
riteneva infatti che un tal genere di vita trovasse assentimento e ammirazione anche presso gli
avversari. Invero, la filosofia del tempo inclinava all’ascetismo, e le attestazioni in favore della loro
moralità non mancano. La Chiesa, tuttavia, metterà ben presto freno all’eccesso di questo rigetto
della normale vita matrimoniale; esemplare è la condanna dell’apologista siro Taziano nel 172, il
fondatore della setta degli Encratiti.
Certamente, al di là di questo, Galeno condanna la fede dei cristiani come affermazione ostinata di
cose affatto indimostrate; essa non è fondata sulla ragione (logos), per cui essa non è saggezza,
bensì credulità.
“Nessuno subito da principio, come se fosse pervenuto alla dottrina di Mosè o Cristo, ascolti leggi
indimostrate, nelle quali non si deve per nulla credere”. (De differentia pulsuum libri quattuor II, 4).
“Infatti si potrebbero dissuadere prima quelli che provengono da Mosé e Cristo, che non i medici o i
filosofi, i quali si sono consumati sui loro principi”. (Ivi, III, 3).
Per Galeno, sarebbe molto più difficile far cambiare idea ad un filosofo o ad un medico, con alle
spalle la sua scienza, che a un cristiano, aggrappato solo alla sua fede.
FRONTONE
Marco Cornelio Frontone, di origine di Cirta, in Africa, visse a Roma, ove fu avvocato e retore a tal
punto apprezzato da ottenere l’incarico di curare l’educazione retorica dei futuri imperatori Marco
Aurelio e Lucio Vero. Nel 143 fu consul suffectus, e godette di tale fama da essere considerato dai
suoi contemporanei un novello Cicerone; egli fu il rappresentante del cosiddetto movimento
arcaicizzante che dominò la prosa del secolo II.
Di una sua Orazione contro i Cristiani, pronunciata tra il 162 e il 166, ci fa menzione l’apologista
Minucio Felice nel suo Octavius (ultimo quarto II secolo); egli definisce Frontone: “non un teste
diretto che arrechi la sua testimonianza, ma solo un declamatore che volle scagliare un’ingiuria”1, a
causa delle sue accuse infamanti verso i Cristiani.
L’interlocutore pagano Cecilio, rifacendosi all’orazione suddetta che è ricostruibile per lo meno a
grandi linee dalle citazioni, affermava tra l’altro:
“Essi, raccogliendo dalla feccia più ignobile i più ignoranti e le donnicciuole, facili ad abboccare
per la debolezza del loro sesso, formano una banda di empia congiura, che si raduna in congreghe
notturne per celebrare le sacre vigilie o per banchetti inumani, non con lo scopo di compiere un
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rito, ma per scelleraggine; una razza di gente che ama nascondersi e rifugge la luce, tace in
pubblico ed è garrula in segreto. Disprezzano ugualmente gli altari e le tombe, irridono gli dei,
scherniscono i sacri riti; miseri, commiserano i sacerdoti (se è lecito dirlo), disprezzano le dignità e
le porpore, essi che sono quasi nudi! […] Regna tra loro la licenza sfrenata, quasi come un culto, e
si chiamano indistintamente fratelli e sorelle, cosicché, col manto di un nome sacro, anche la
consueta impudicizia diventi incesto. […] Ho sentito dire che venerano, dopo averla consacrata,
una testa d’asino, non saprei per quale futile credenza […] Altri raccontano che venerano e
adorano le parti genitali del medesimo celebrante e sacerdote […] E chi ci parla di un uomo punito
per un delitto con il sommo supplizio e il legno della croce, che costituiscono le lugubri sostanze
della loro liturgia, attribuisce in fondo a quei malfattori rotti ad ogni vizio l’altare che più ad essi
conviene […] Un bambino cosparso di farina, per ingannare gli inesperti, viene posto innanzi al
neofita, […] viene ucciso. Orribile a dirsi, ne succhiano poi con avidità il sangue, se ne spartiscono
a gara le membra, e con questa vittima stringono un sacro patto […] Il loro banchetto, è ben
conosciuto: tutti ne parlano variamente, e lo attesta chiaramente una orazione del nostro retore di
Cirta […] Si avvinghiano assieme nella complicità del buio, a sorte” (Octavius VIII,4-IX,7).
A risposta di questo armamentario di accuse infamanti e di
seconda mano (Ho sentito dire…), possono valere le parole che il
cristiano Giustino rivolgeva in quegli stessi anni ad un altro
accusatore del cristianesimo, il filosofo cinico Crescente:
“Veramente è ingiusto ritenere per filosofo colui che, a nostro
danno, rende pubblicamente testimonianza di cose che non
conosce, dicendo che i Cristiani sono atei e scellerati; e dice ciò
per ricavarne grazia e favore presso la folla, che resta ingannata”.
Si noti che questo intervento raccoglie tutte assieme accuse che
già circolavano dal secolo precedente, sottintese fin dalle parole
di Tacito; ma se alcuni storici si prendevano la briga di
verificarne la veridicità, come fece Plinio il Giovane, altri
contribuivano a diffonderle.
Interessante il riferimento al culto della testa d’asino, una vecchia
accusa già usata da Tacito contro gli Ebrei, dalla quale si era già Graffito del colle Palatino:
difeso Giuseppe Flavio; di essa abbiamo anche una caricatura di un uomo
rappresentazione figurativa, un graffito di età severiana ritrovato crocefisso con testa d'asino.
sul Palatino, e ora conservato nell’antiquarium, raffigurante la
caricatura di un uomo crocifisso con testa d’asino, con ai suoi piedi un altro uomo in atto di
adorazione, il tutto accompagnato dalla scritta: “Alessameno adora il suo Dio”.
LUCIANO DI SAMOSATA
Il retore scettico Luciano, nato a Samosata intorno al 120 e morto dopo il 180, attivo nell’età degli
Antonini, ci ha lasciato un’opera intitolata La morte di Peregrino, nella quale l’autore, un decennio
dopo lo svolgimento dei fatti, narra del teatrale suicidio del fanatico Peregrino Proteo, sul rogo che
si era eretto a Olimpia nel 165 o 167.
Questa singolare figura di filosofo, che per Luciano è certo un ciarlatano, era stato per un certo
periodo cristiano, per poi passare alla filosofia cinica. Per mostrare il suo disprezzo per la morte,
che Luciano invece definisce “amor di gloria”, egli si gettò tra le fiamme del rogo.
Durante il periodo di adesione al cristianesimo, nel quale era stato anche in carcere, veniva visitato
continuamente dai suoi fratelli cristiani, che da ogni dove si affrettavano a venire per consolarlo,
assisterlo, aiutarlo; secondo Luciano essi erano degli sciocchi, ingannati da quell’impostore:
“Allora Proteo venne a conoscenza della portentosa dottrina dei cristiani, frequentando in Palestina i
loro sacerdoti e scribi. E che dunque? In un batter d’occhio li fece apparire tutti bambini, poiché
egli tutto da solo era profeta, maestro del culto e guida delle loro adunanze, interpretava e spiegava i
loro libri, e ne compose egli stesso molti, ed essi lo veneravano come un dio, se ne servivano come
legislatore e lo avevano elevato a loro protettore a somiglianza di colui che essi venerano tuttora,
l’uomo che fu crocifisso in Palestina per aver dato vita a questa nuova religione.
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[…] Si sono persuasi infatti quei poveretti di essere affatto immortali e di vivere per l’eternità, per
cui disprezzano la morte e i più si consegnano di buon grado. Inoltre il primo legislatore li ha
convinti di essere tutti fratelli gli uni degli altri, dopoché abbandonarono gli dei greci, avendo
trasgredito tutto in una volta, ed adorano quel medesimo sofista che era stato crocifisso e vivono
secondo le sue leggi. Disprezzano dunque ogni bene indiscriminatamente e lo considerano comune,
seguendo tali usanze senza alcuna precisa prova. Se dunque viene presso di loro qualche uomo
ciarlatano e imbroglione, capace di sfruttare le circostanze, può subito diventare assai ricco,
facendosi beffe di quegli uomini sciocchi” (De morte Per. XI-XIII).
Interessante il riferimento al Cristo, che viene considerato un sofista, ed il “primo legislatore” dei
Cristiani, le cui leggi sono da essi seguite; l’unica notizia storica su Gesù è il ricordo della sua
crocifissione.
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