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30-03-2012
16:20
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Siria
Guerra civile
padre Basilios Nassar, sacerdote greco ortodosso del villaggio di Kafarbohom colpito il 25
gennaio mentre prestava soccorso a un ferito,
gli omicidi a sangue freddo di altri cristiani legati alle forze di sicurezza, i sequestri di persona con richieste di riscatto da 20.000 a
40.000 dollari a testa.
Mancano risposte politiche
Si riscrive
la presenza religiosa
S
chiacciati tra due fuochi. Vittime come
tutti gli altri del fuoco dell’artiglieria di
Bashar al Assad, nelle città controllate
dall’opposizione. Ma anche pericolosamente
nel mirino di quelle frange islamiste radicali
che – giorno dopo giorno – sembrano contare
sempre di più tra le file della «resistenza». A oltre un anno – ormai – dall’inizio della crisi siriana, con il suo carico di quasi 9.000 morti (cf.
Regno-att. 6,2011,152; 12,2011,381; 16,2011,508), è
sempre più alta la preoccupazione per la sorte
dei cristiani locali, schiacciati in quello che è ormai un conflitto aperto tra i sunniti (sostenuti
dall’Arabia Saudita e dalle emittenti del Golfo)
e gli alawiti (fedeli al presidente Bashar al Assad
e ai suoi alleati sciiti di Teheran).
Le testimonianze più drammatiche giungono oggi da Homs, la città martire di questa
guerra. Qui la Chiesa siro-ortodossa ha denunciato espressamente episodi di pulizia etnica ai danni dei cristiani, messi in atto dalle milizie sunnite della Brigata Faruq (vicine ad
Al-Qaeda) proprio mentre era in corso l’offensiva dell’esercito di Assad. Il vicario apostolico
di Aleppo, mons. Giuseppe Nazzaro, ha dichiarato all’agenzia Fides di non essere in grado
di confermare (ma nemmeno di smentire) questa specifica notizia. Ma ha ugualmente spiegato che la situazione nella regione di Homs si
è fatta ormai incandescente per i cristiani.
Qui i cristiani
non son più di casa
Lo testimonia in maniera eloquente anche una lettera dei gesuiti che vivono nel quartiere di Bustan al-Diwan: è datata 15 marzo ed
è stata diffusa una decina di giorni dopo in
Francia dal quotidiano La Croix. Alla fine di
febbraio quasi tutti i cristiani avevano già abbandonato le loro case per cercare rifugio sulle
montagne circostanti. «Ma all’inizio del mese di
marzo – spiegano i gesuiti – la situazione è perfino peggiorata, quando molti nostri concittadini sunniti hanno abbandonato i loro quartieri
nella zona Sud e si sono diretti verso i “quartieri
cristiani”. Essendo la maggior parte delle case
vuote, i nuovi arrivati non hanno dovuto fare
altro che entrare e insediarsi. Donne e bambini,
giovani e vecchi, di tutte le classi sociali, sono
arrivati sui camion che li scaricavano per andare
a prenderne altri. Questo fatto – continua la
testimonianza – ha portato alcuni cristiani a
tornare, nonostante la situazione difficile e il
pericolo reale; ma hanno trovato che la casa
non era più loro o che i vicini erano cambiati.
Una situazione umana disastrosa, che prefigura un cambiamento demografico nel nostro
quartiere e un conflitto che fino ad ora ci era
stato risparmiato».
Se questa è la situazione a Homs, la paura
dei cristiani ha un volto ormai ben preciso anche ad Aleppo, la grande comunità che con i
suoi 300.000 fedeli di un mosaico di confessioni
diverse è la terza città del Medio Oriente per
numero di cristiani. Qui a materializzare gli incubi è stata l’autobomba che domenica 18
marzo ha sventrato il quartiere di Sulaimanya, facendo tre morti e una trentina di feriti. Un attentato che aveva sì per obiettivo una stazione
delle forze di sicurezza, ma che è stato compiuto nel cuore di una zona cristiana di domenica mattina. L’esplosione ha devastato anche la
chiesa francescana di San Bonaventura e il suo
centro parrocchiale, fino a un quarto d’ora prima
pieno di bambini. Lo stesso vescovo siro-ortodosso di Aleppo, mar Gregorios Yohanna Ibrahim, si trovava ad appena 100 metri dal luogo
dell’attentato. «Ho pensato che la mia ora fosse
arrivata – ha scritto in un’altra lettera, pubblicata
dal sito web arabo cristiano www.abouna.org –.
Noi non vogliamo ancora credere che l’obiettivo
specifico delle violenze siano i cristiani, ma
certo c’è qualcuno che sembra proprio voler
fare di tutto per confermare quest’idea».
Ancora più in là con gli accenti nelle sue
denunce si spinge madre Agnès-Mariam de la
Croix, igumena del monastero ecumenico di
San Giacomo il Mutilato a Qâra. Sono sempre
sue le parole più forti che arrivano dalla Siria
sulle violenze subite dai cristiani: l’uccisione di
Possono cambiare i toni, dunque, ma l’impressione che in Siria si stia ripetendo lo scenario iracheno accomuna tutti nelle comunità
arabo-cristiane. «Dopo il cambiamento avvenuto in Egitto, la situazione in cui si trova la Siria indica in maniera inequivocabile come stia
trasformandosi il panorama in Medio Oriente
– ha scritto in un appello il Custode di Terra
santa, p. Pierbattista Pizzaballa –. Fino a un
anno fa sarebbe stato impensabile prevedere
simili scenari di guerra civile». Anche il patriarca
latino di Gerusalemme mons. Fouad Twal è
più volte intervenuto in questi mesi, sottolineando in particolare il dramma dei rifugiati
(secondo i dati della Caritas di Beirut sono già
oltre 20.000 nel solo Libano).
Al di là dell’aiuto umanitario, però, è sulle
risposte politiche alla crisi che i cristiani vivono tutta la difficoltà di questo loro trovarsi
tra due fuochi. In settembre fecero scalpore le
dichiarazioni rilasciate in Francia dal patriarca
maronita Bechara Raï che, in visita all’Eliseo,
aveva parlato del rischio di una «deriva confessionale» sunnita in Siria. Ancora in questi
giorni il patriarca melkita Gregorio III Laham a
Damasco ha dichiarato che «la nuova Costituzione è un passo avanti», auspicando che i siriani possano «lavorare essi stessi per la democrazia, la libertà e la dignità dell’uomo, con la
partecipazione di tutti i gruppi della società».
Una posizione che sembra continuare a considerare Bashar al Assad un interlocutore plausibile in questa transizione. Da parte sua il nunzio apostolico mons. Mario Zenari ha accolto
con favore la risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU con un piano in sei punti per un
cessate il fuoco e l’avvio di un dialogo politico.
Ma è un percorso sulla cui efficacia in pochi
oggi sono disposti a scommettere.
Si capisce, allora, anche la presenza di voci
come quella del gesuita Paolo Dall’Oglio, della
comunità di Mar Musa, che auspica interventi
più forti, anche da parte del Vaticano. Padre
Dall’Oglio ha ad esempio sollecitato l’invio di
una forza di interposizione non violenta, formata da 50.000 civili, come segno visibile di
un’alternativa alla logica delle armi dilagante
oggi nel paese. Un’idea forse utopistica, ma almeno chiara nel mostrare come solo gesti coraggiosi di rottura oggi possono fermare l’ulteriore acuirsi di una tragedia ampiamente
annunciata.
Giorgio Bernardelli
IL REGNO -
AT T UA L I T À
6/2012
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