La sofferenza - Luigi Tonoli
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La sofferenza - Luigi Tonoli
Venerdì 12 ottobre 2007 Lograto, Villa Morando, ore 20,30 Tavola rotonda pubblica presieduta dal prof. Ermentini, a conclusione del convegno sul tema Sindromi dolorose croniche: un approccio multidisciplinare e multiculturale, organizzato da Associazione Laura Saiani Consolati e Unità operativa di psichiatria n. 23 ____________________________________________________________________________________ Le parole del dolore nella letteratura e nella terapia: Laura Bocci e Graziano Martignoni, una scrittrice ed uno psicoanalista in dialogo Comunicazione introduttiva prof. Luigi Tonoli Luigi Tonoli PAROLE DELLA SOFFERENZA introduzione GIUSEPPE UNGARETTI da Ultimi cori per la terra promessa 1. Agglutinati all’oggi I giorni del passato E gli altri che verranno. Per anni e lungo secoli Ogni mattino sorpresa Nel sapere che ancora siamo in vita, Che scorre sempre come sempre il vivere, Dono e pena inattesi Nel turbinio continuo Dei vani mutamenti. Tale per nostra sorte Il viaggio che proseguo, In un battibaleno Esumando, inventando Da capo a fondo il tempo, Profugo come gli altri Che furono, che sono, che saranno. 2. Se nell’incastro d’un giorno nei giorni Ancora intento mi rinvengo a cogliermi E scelgo quel momento, Mi tornerà nell’animo per sempre. La persona, l’oggetto o la vicenda O gl’inconsueti luoghi o i non insoliti Che mossero il delirio, o quell’angoscia, O il fatuo rapimento Od un affetto saldo, Sono, immutabili, me divenuti. Ma alla mia vita, ad altro non più dedita Che ad impaurirsi cresca, Aumentandone il vuoto, ressa di ombre Rimaste a darle estremi Desideri di palpito, Accadrà di vedere Espandersi il deserto Sino a farle mancare Anche la carità feroce del ricordo? [...] 26. Soffocata da rantoli scompare, Torna, ritorna, fuori di sé torna, E sempre l’odo più addentro di me Farsi sempre più viva, Chiara, affettuosa, più amata, terribile, La tua parola spenta. 27. L’amore più non è quella tempesta Che nel notturno abbaglio Ancora mi avvinceva poco fa Tra l’insonnia e le smanie, Balugina da un faro Verso cui va tranquillo Il vecchio capitano. I versi di Ungaretti offrono due immagini fertili di pensiero. La prima è l’immagine del che sottrae alla vita anche la carità feroce del ricordo. L’altra è l’immagine della PAROLA che scompare soffocata dai rantoli e poi torna e ritorna, amata e terribile. DESERTO Il deserto e la parola. L’esperienza del soffrire ha molto in comune con l’esperienza del deserto. Come il deserto la sofferenza si manifesta come pura estensione, come assenza di confini visibili. La sofferenza non ha una forma, non ha una linea di contorno che puoi afferrare con atto del pensiero o della volontà. Non possiede che un minimo di unità: è una serie interminabile di punti che si susseguono in una giustapposizione arida di vita. Nella pura estensione nulla ferma lo sguardo, tutto lo prolunga. E, senza un confine a cui aggrapparsi, non c’è rimedio al terrore dell’annullamento e dell’affogamento. Il deserto dunque è «parente e icona della morte» (LLV). Si offre cioè come immagine della morte e, insieme, come immagine di sfida alla morte. In entrambi i casi intensifica il sentimento puro di esistenza e mette in crisi l’inessenzialità. Così, obbediente alle regole del deserto, la parola può soffocare nel rantolo; ma a volte si dà un momento in cui insorge l’irriducibile sentimento del vivere. È il momento in cui «l’epifania della morte» cede alla «sfida alla morte». Quando la parola «Torna, ritorna, fuori di sé torna». Ma della sua nascita dal deserto del dolore la parola conserva e manifesta sempre le tracce. Sa fingere l’assenza del lettore e farsi intima e audace come nel silenzio solitario. Sa spingersi persino a rappresentare il suono del silenzio, come eco «dei gridi / che svanirono per sempre» (FGL). Dura e prosciugata sa tendere all’informe. Ma sa anche rispondere alla sfida del disordine e coltivare, nonostante tutto, l’idea della redenzione e della felicità universale. E forse nel modo di usare le parole per raccontare il deserto o per esprimere il soffrire si rivela il nostro destino. Se per destino si intende quel meccanismo che trasforma in noi la realtà esterna, allora nel modo di stare di fronte alla sofferenza, nel modo di reagire e di esprimerla possiamo intravedere una traccia della nostra più radicale natura (o, se vogliamo, del nostro destino). Nella litografia di Escher, Mani che disegnano, da una mano si passa all’altra in un processo senza fine. Il modo in cui tracciamo il disegno del nostro mondo interiore disegna a sua volta il contorno della nostra natura. E viceversa. Sono in questo Strano Anello le tracce del destino? Le possibili rappresentazioni del soffrire sono dunque infinite, come le manifestazioni della natura umana. Tra tutte le parole però, quella poetica è la più scavata nell’anima, quella che comprende il maggior numero di altre parole, e quindi potenzialmente quella a nessuno estranea. Le forme della letteratura non sono inventariabili perché appartengono alla logica del continuo. Ma per pura ipotesi di lavoro si possono immaginare due estremi contrapposti: la rappresentazione che muove dall’interno verso l’esterno e viceversa la rappresentazione che muove dall’esterno verso l’interno. Nel primo caso la parola è proiezione all’esterno di un paesaggio interiore. Nel secondo la parola è rappresentazione di un paesaggio esterno che si imprime dentro l’anima del poeta. Come nei dipinti di Magritte. Magritte, Tentando l’impossibile Magritte, La condizione umana Un pittore dipinge direttamente la modella e l’arte rende visibili le immagini del subcosciente, del sogno, crea o ricrea una realtà nuova che è la rivelazione di un paesaggio psichico. Il poeta non si occupa di oggetti esterni a sé, esplora il proprio sentire e lo rende visibile. Oppure. Una tela dipinta, posta su cavalletto, riproduce esattamente la porzione di mare che il quadro nasconde alla vista. E la mente dell’osservatore percepisce quella porzione di mare come se fosse sia dentro la stanza, nel quadro, sia fuori, nel paesaggio reale. Il poeta si occupa di un oggetto esterno a sé e ne dà la propria rappresentazione mentale. Semplicemente, senza pretesa di completezza, si leggeranno tre testi che mostrano modi diversi di dire la sofferenza: nei primi due la parola proietta all’esterno l’affanno del cuore; nel terzo la parola rievoca l’impronta lasciata nell’anima da un oggetto esterno. In graduata e forse impercettibile successione. 1) La parola che crea un mondo altro CHARLES BAUDELAIRE Mœsta et errabunda (trad di Giovanni Raboni) Dimmi, Agathe, qualche volta non ti vola via il cuore, via dall’oceano nero dell’immonda città, verso un diverso oceano acceso di splendore, più chiaro, azzurro e fondo della verginità? Dimmi, Agathe, qualche volta non ti vola via il cuore? Il mare, il vasto mare consola i nostri affanni! Da qual demone ha avuto l’incarico sublime di cullarci, arrochito cantante che accompagna dei burberi venti l’organo smisurato? Il mare, il vasto mare consola i nostri affanni! Treno, portami via! rapiscimi, vascello! Va’ lontano! qui il fango dei nostri pianti è intriso. - Non è vero che a volte il triste cuore d’Agathe dice: Ai rimorsi, ai crimini, ai dolori, treno, portami via, rapiscimi, vascello? Ah! come sei lontano, paradiso d’odori dove sotto l’azzurro non c’è che amore e gioia, dove è degna d’amore ogni cosa che s’ama e nel puro piacere annega il cuore! Ah! come sei lontano, paradiso d’odori! Ma il verde paradiso degli amori infantili, le corse, i baci, i fiori raccolti, le canzoni, i violini che vibrano di là dalla collina e a sera, sotto gli alberi, il vino nei boccali - ma il verde paradiso degli amori infantili, così innocente e colmo di piaceri furtivi, già è più lontano dunque dell’India e della Cina? Possiamo richiamarlo con i nostri lamenti, può dargli nuova vita una voce argentina, paradiso innocente di piaceri furtivi? «Il verde paradiso degli amori infantili», scrive Baudelaire, è perduto. La gioia in terra si rivela impossibile. Solo un mondo interamente nuovo potrebbe dare ciò che l’infanzia aveva promesso, ma entro un mondo interamente nuovo l’uomo dovrebbe rinunciare a essere ciò che è ora, dovrebbe rinunciare alla propria carne e al proprio sangue, ai propri desideri. Paradossalmente potrebbe ottenere ciò che lo appaga rinunciando ad essere colui che può essere appagato. I problemi della storia dovrebbero poter trovare soluzione al di fuori della storia. Quando però il problema non esiste più (GM). Quindi la soluzione al male di vivere non può che essere un sogno. Ma per sognare «un altro mondo» non si può che essere in questo mondo. Venuto a contatto col sogno, il soggetto lo registra attraverso la poesia, «una voce argentina» che giunge ai confini del nuovo, senza poter abbandonare del tutto il vecchio. «La Poesia è ciò che vi è di più reale, ciò che non è completamente vero che in un altro mondo» scrive Baudelaire. La litografia Liberazione di Escher dipinge il contrasto fra ciò che è formalizzato e ciò che è libero, con una curiosa zona di transizione. Sono triangoli o sono colombe? Così la parola di Baudelaire aspira all’infinito a partire dal formalizzato, associando al proprio suono inauditi e inattesi significati. E i triangoli sono colombe. E le colombe non più colombe. E logore forme troppo vissute godono di nuova «vita iniziale» (GU). In un’altra litografia di Escher rettili entrano ed escono dalla rappresentazione di rettili. Il poeta entra ed esce dal mondo costituito dalla sua stessa rappresentazione del mondo. Ogni forma di pensiero, ogni interpretazione di sé e della realtà avviene alla luce delle emozioni e degli affetti. Etimologicamente «emozione» (dal latino emotus) indica la reazione a un mondo che viene in contatto con me. Come quando diciamo: «Quel fatto di cronaca mi ha emozionato». L’affetto invece (dal latino adfectus) designa una disposizione dell’animo, un desiderio, una volontà. Un andare verso un incontro con il mondo. Come quando diciamo: «Provo affetto per quella persona e la cerco». Quindi se l’emozione è un «essere mosso da...», l’affetto è un «muoversi verso...». La poesia è il sogno di un uomo sospeso tra emozione e affetto. Di un uomo che soffre per un’assenza e si protende col cuore e la mente verso il nuovo. La poesia è pensiero prestato al sogno. Le emozioni e gli affetti sono insomma in continuo scambio comunicativo con l’attività cognitiva. L’emozione attiva il pensiero, l’affetto lo muove verso il mondo sognato. Dalla noia esistenziale all’azzurro della perfezione: la sofferenza è forza propulsiva irresistibile. Attraverso il simbolo, attraverso l’analogia e la sinestesia, la scrittura poetica associa elementi appartenenti a piani percettivi differenti e dati provenienti da sensi diversi. Proprio come avviene nell’abisso dell’interiorità, nel luogo della PURA ESTENSIONE, nell’oceano in cui percezione, emozione, affetto e istinto interagiscono indistinti, ciascuno alla massima intensità. Lo stesso magma indistinto che immaginiamo in quell’altro mondo, nell’abisso del sogno, nella PURA ESTENSIONE dell’oceano acceso di splendore, in cui la poesia è vera, perché è essa stessa a creare il suo mondo. Si potrebbe affermare che il soffrire è un rivelatore dell’identità. Ci sono angoli riposti del cuore che si rivelano nel momento in cui la sofferenza li attraversa e li fa vivere trascinandoli nella vita POETICA della consapevolezza. 2) La parola che ristabilisce relazioni Dino CAMPANA Sogno di prigione Nel viola della notte odo canzoni bronzee. La cella è bianca, il giaciglio è bianco. La cella è bianca, piena di un torrente di voci che muoiono nelle angeliche cune, delle voci angeliche bronzee è piena la cella bianca. Silenzio: il viola della notte: in rabeschi dalle sbarre bianche il blu del sonno. Penso ad Anika: stelle deserte sui monti nevosi: strade bianche deserte: poi chiese di marmo bianche: nelle strade Anika canta: un buffo dall’occhio infernale la guida, che grida. Ora il mio paese tra le montagne. Io al parapetto del cimitero davanti alla stazione che guardo il cammino nero delle macchine, sù, giù. Non è ancor notte; silenzio occhiuto di fuoco: le macchine mangiano rimangiano il nero silenzio nel cammino della notte. Un treno: si sgonfia arriva in silenzio, è fermo: la porpora del treno morde la notte: dal parapetto del cimitero le occhiaie rosse che si gonfiano nella notte: poi tutto, mi pare, si muta in rombo: Da un finestrino in fuga io? io ch’alzo le braccia nella luce!! (il treno mi passa sotto rombando come un demonio). Sogno di prigione (in cui «prigione» può significare anche «prigioniero») è una prosa lirica di Dino Campana. Forse è da connettersi con il dato biografico dell’internamento dell’autore in un ospedale psichiatrico in Belgio, nel 1910. La scrittura si dichiara sogno, è colma di componenti oniriche, ha tratti di ossessività. È PURA pura sequenza iterata di immagini. Immagini di valenza funebre: il viola, il nero, le canzoni bronzee. Immagini di fuga: l’io lirico vede se stesso su un treno, ma il treno ha natura mostruosa e demoniaca. ESTENSIONE, Ripetizione e circolarità, ripetizione e variazione rendono difficile e complesso il testo. Non si capisce se la parola sia ricca o povera, sia visionaria o semplicemente visiva. Forse la si può leggere come parola di resistenza al DESERTO della solitudine. La sofferenza, infatti, interrompe ogni sorta di relazione. Come una forza oscura e distraente che impedisce di capire il senso di una frase, facendo perdere il collegamento fra soggetto e predicato. Come una cortina invisibile che, frapponendosi fra significante e significato, ci vieta ogni inferenza. La persona che soffre percepisce sé e il mondo come un insieme di oggetti di cui nulla si può dire. Si colgono cose, non eventi. Ci si accontenta di cose, non ci si involve nel gioco consapevole dell’interpretazione, del giudizio, dell’attribuzione di significato. Un mondo di cose prive di reciproca relazione, un mondo privo di predicati. Nella litografia Mosaico di Escher animali fantasmagorici, neri, e altri animali nello spazio negativo, quello bianco. Lì in mezzo anche una chitarra: l’ultima cosa che uno si aspetterebbe di trovare in mezzo a tutte quelle strane creature. Quale relazione fra gli oggetti? In Relatività compaiono immagini manifestamente impossibili. Le singole rampe di scale sono logiche «isole di certezza» (DRH), conciliabili con l’idea che abbiamo del mondo. Ma, se cerchiamo di capire il loro reciproco rapporto, ci perdiamo. La comprensione dell’insieme ci sfugge, ma è difficile anche tornare indietro e immaginare che le scale non siano scale. Per noi quei segni continuano ad avere quel significato e dunque vediamo un mondo insensato perché senza interne connessioni. Insomma la sofferenza interrompe le relazioni. Quando è acuta ti senti lontano dagli altri ma anche da te stesso: come se avvenisse uno sdoppiamento. C’è un essere là in fondo che soffre e poi c’è un essere che lo osserva incapace di ogni reazione e iniziativa vitale. La solitudine che avanza ti fa arrancare, desideri fuggire su un treno, ma il treno ansima mostruoso, il suo alito di fuoco morde la notte, i fanali sono occhiaie rosse che si gonfiano. La luce, la vedo la luce, ma il treno non mi porta alla luce, si riprende subito la sua natura di essere demoniaco e mi scorre sotto. L’ordine della mia presenza nel mondo e fra le cose si è annullato, la mia distanza da tutto si fa sempre più ampia. Però la parola poetica può farsi carico della mia fragilità, rivelandola agli altri e a me stesso, attingendo in modo «indifeso, disorganico e avventuroso, ma sincero» (ML) al bisogno di dire e di ascoltare comunque, al bisogno di trovare una via d’uscita alla solitudine quando la solitudine permane inevitabile. Eppure paradossalmente, una volta cercata e trovata la parola poetica può produrre altra solitudine. Come se l’esplorazione della vita, nei suoi luoghi riposti e oscuri, rendendo difficile la dispersione nel mondo delle cose e il facile accontentamento del divertimento effimero, permettesse di sentire vicino solo chi vuol condividere il percorso di conoscenza di sé. Ma un simile compagno di viaggio è dono troppo raro. E la solitudine irreversibile. Scrivere significa dunque sospendere la dispersione irrelata delle cose e ristabilire la concentrazione, riaprire il dialogo fra l’io e il me, e presupporre la presenza di un testimone, di un terzo, di un lettore. Scrivere è un modo per ristabilire relazioni, tentando l’attribuzione di significati. È dialogo nell’anima e con le anime. Un dialogo che annienta la chiacchiera, così poco interessante. Dunque, come un disegno di Escher, la parola è, allo stesso tempo, epifania della solitudine e resistenza alla solitudine. 3) La parola che custodisce GEORG TRAKL Sonja (trad di) Torna la sera nel vecchio giardino; Vita di Sonja, azzurra quiete. Voli d’uccelli in lunghe schiere; Albero spoglio in autunnale quiete. Girasole che mite ricopre Di Sonja la bianca vita. Piaga rossa, mai mostrata, In stanze buie costringe la vita. Dove suonano azzurre campane; Passi di Sonja e dolce quiete. Morente animale saluta e scompare, Albero spoglio in autunnale quiete. Sole d’altri giorni rischiara A Sonja bianche ciglia, Neve inumidisce le sue gote E il groviglio delle sue ciglia. Ancora un vuoto, una affetti. PURA ESTENSIONE. Ancora un DESERTO. Stavolta è il DESERTO degli I versi sono di Trakl, il poeta austriaco morto suicida a ventisette anni, nell’ospedale militare di Cracovia, il 3 novembre del 1914. Quella di Trakl è una poesia dai temi contrapposti, spesso in vera dissociazione. Le ambivalenze emozionali ed esistenziali oppongono la tristezza folle e disperata alla dolcezza ferita e fiduciosa. Da una parte il dolore. Il deserto arido delle emozioni che dissolve la vita. Affogante come il mare, solido come la pietra: un orrido scoglio contro cui si schianta il corpo che geme con «voce buia»; sentimento della violenta contrapposizione rispetto a qualcosa. «Su orridi scogli / Si schianta il corpo purpureo / E geme la voce buia / Sul mare. / Sorella di tempestosa tristezza / Guarda, impaurita una barca affonda / Sotto le stelle. / Volto silenzioso della notte.» (Da Il lamento II.) Ecco perché «Il dolore ha pietrificato la soglia» (da Una sera d’inverno): la soglia divide e unisce, diversifica e congiunge ciò che, a causa dello stacco, rimane comunque distinto. Il dolore è la connessura, la soglia appunto. Dall’altra parte la speranza, impalpabile come l’aria. Scintillante e indelebile come l’azzurro. E azzurro è il pianto della sera, il funebre pianto delle madri, il crepuscolo della primavera, azzurra è la fonte, la grotta, la colomba, azzurri i rintocchi della sera e gli occhi di papavero. Il silenzio, il fiume che scende dolcemente al piano, il sorriso e lo specchio. Azzurre le campane. E la quiete. Come in Sonja. L’azzurro è immagine dell’essenza della cosa: l’azzurra quiete è l’azzurro della quiete, l’essenza della quiete, l’assoluto. È l’epifania delle speranze dentro lo schiantarsi e il naufragare. E, in Sonja, la speranza è malinconica sognante luminosa, infranta e anelata dentro le laceranti negazioni incombenti quali rosse piaghe e animali morenti. La speranza vive nelle immagini della sera e dell’autunno, simboli di inafferrabile infinitudine crepuscolare. Vive nel bianco che evoca dolcissimo il pallore e la purezza. La poesia ferma la vita della speranza, si contrappone alla dissoluzione, all’affogamento dopo lo schianto contro gli scogli. È un attimo: in una sorta di evocazione dostoevskijana, l’io lirico concepisce con l’immagine di Sonja il sentimento di una vita custodita e sottratta al rapimento. La creazione artistica trasforma la percezione in un’immagine poetica, al contempo vivente e duratura. E da essa più non si recede. La parola dunque realizza l’esperienza della durata e della custodia: in sua assenza la vita si sperde incompleta e irresoluta. Scrivere dunque è conferimento di vita non effimera a sensazioni e pensieri. È attribuzione di vita propria all’azzurro. Una vita sottratta alla mutevolezza del tempo e all’oscurità confusa. Sottratta al caos dell’indistinto. Affidandosi alla scrittura l’io lirico custodisce il significato della propria vita, ha cura della propria immagine di sé. Sospende la frammentazione dell’esistenza. E per un attimo dentro le parentesi della sospensione la vita non è un problema. La parola scritta dà nomi alla speranza, mette un po’ le cose a posto nel disordine delle sensazioni e dei pensieri e rende possibile persino il recupero dell’armonia. Il soffrire diventa oggetto esterno al sé, e si fa un po’ più lontano. Ovviamente mettere ordine vuol dire sovrapporre alla realtà una «finzione» o un’«illusione». Etimologicamente il termine «finzione» è connesso con l’attività del rappresentare, del modellare, del plasmare. È quello che fa il vasaio con l’argilla. «Illusione» significa «entrare in un gioco» (dal latino ludus, «gioco»), con momentanea sospensione della realtà. La scrittura può essere considerata finzione, perché ogni rappresentazione ordinata della realtà è un prodotto della mente, ma è anche illusione, in quanto nell’atto della scrittura chi scrive crea un mondo in cui, come nel gioco, le regole sono tutte conosciute e dominabili. Trakl scrivendo costruisce un’immagine di sé e un’immagine del mondo: entrambe dotate di significato e soggette a regole conoscibili. Un po’ come quando troviamo corrispondenze all’interno di una caotica serie di numeri, e le cifre diventano ordinate e memorizzabili. Oppure quando, riconoscendo figure nel cielo stellato, riusciamo a rendere pensabile il cielo e con le costellazioni riusciamo persino a orientarci. Così un cielo nelle cui nubi riconosciamo profili familiari perderà un po’ della sua inafferrabile evanescenza. La realtà viene ridotta alle regole di un gioco, del nostro gioco, del gioco che corrisponde al nostro modo di sentire il mondo. Rappresentare il nostro mondo come regolato e controllato da noi significa sospendere il soffrire, evadere, forse non provvisoriamente, da una realtà che ci sfugge sempre, e tanto più quando crediamo di controllarla. D’altra parte la sospensione della realtà è solo apparente perché quella delineata attraverso la scrittura non è che realtà piccola, riproduzione o metafora di quella più vasta. Il caos indistinto della sofferenza insomma ti domina quando ci sei dentro. Se lo rappresenti, attraverso la finzione e l’illusione, lo sposti fuori di te e in certa misura ne assumi il controllo. Di più. L’immagine poetica diventa strumento conoscitivo. La pura sensazione iniziale attraverso il processo della rappresentazione si trasforma in nuova percezione del sé e del mondo. Escher, Ordine e caos Durata e custodia. Finzione e illusione. Nella litografia di Escher: ordine e caos formano una sorprendente unità. Nella struttura più armoniosa e perfetta sono implicitamente presenti coincidenze infinite, condizioni innumerabili, dunque il caos. Però non si percepisce l’infinità dei particolari costitutivi ma semplicemente l’immagine sintetica che si utilizza. Come dire che la struttura armoniosa centrale contiene il riflesso del disordine circostante, ma lo trasforma in ordine. E lo rende accettabile. La scrittura rappresenta la morte al proprio soffrire e la rinascita a una più dettagliata e accettabile immagine di sé. E se la sofferenza distacca, da qualcosa, da qualunque cosa, non è una sofferenza perduta. (SV) Parafrasando Bassani, nella vita, se uno vuol capire, capire veramente come stanno le cose di questo mondo, deve morire almeno una volta. conclusione Dentro la parola poetica, dentro la finzione, la sofferenza della vita rinasce vera una seconda volta. Noi lettori possiamo vederla. Ed essere o diventare vedenti è ciò che tutti intensamente vogliamo. Scrive Ingeborg Bachmann: «Il poeta deve trascinare l'uomo nelle esperienze del dolore degli altri, perché altrimenti il pericoloso sviluppo di questo mondo moderno glielo sottrae. [...] Il compito dello scrittore non può consistere nel negare il dolore, nel nasconderne le tracce [...]. Per lui, anzi, il dolore deve essere vero e deve essere tale una seconda volta, cosicché noi possiamo vederlo. Tutti, infatti, vogliamo diventare vedenti.» Vedere la paura e la sofferenza dell’altro e immedesimarsi in esse è certo questione della mente. Del corpo, no. Il corpo non rivive lo stesso effetto di soffocamento, non si sente topo in trappola davanti alla propria distruzione. Però l’opera d’arte è metafora, rivelatrice di nomi e immagini per dire un certo problema, per renderlo conoscibile e avviarne, se non la soluzione, almeno la trasformazione. L’opera d’arte dunque coinvolge nel «fiammeggiante contemplare» che determina la grandezza dell’anima. «Oh dolore, tu fiammeggiante contemplare / Della grande anima!» (da TRAKL, Il temporale) Solo alla fiamma dello sguardo, la realtà si illumina e, diventando visibile, assume presenza. E la parola è emozione. Il sapere sensibilità. Se tutto ciò che vive è nel dolore, dolore è anche il contemplare. L’anima che illumina e contempla si trova nel dolore come nella sua naturale dimora, ma al contempo se ne ritrae con interiore disappunto. E, nell’atto di ritrarsi, realizza l’esperienza del distinguere e del definire, l’esperienza del nominare che ci allontana dalla sofferenza, collocandoci all’impronta su un livello superiore. Quei nomi e quelle immagini, involvendoci nell’esplorazione del mondo interiore, intessono l’opera d’arte delle nostre emozioni e dei nostri affetti. Soffocata da rantoli scompare, Torna, ritorna, fuori di sé torna, E sempre l’odo più addentro di me Farsi sempre più viva, Chiara, affettuosa, più amata, terribile, La tua parola spenta.