La produzione di cannamele nel castello
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La produzione di cannamele nel castello
LA PRODUZIONE DI CANNAMELE NEL CASTELLO DI MAREDOLCE INTRODUZIONE Il Liceo scientifico “E.Basile”, da alcuni anni, si è proposto come soggetto che non si limita a rivisitare di continuo la propria memoria storica in vista di un'acquisizione sempre più solida e fondata della propria identità, ma anche ad interrogare la storia del più vasto territorio in cui è situato, assumendo, nei suoi confronti un punto di vista che non può non destare l'interesse del lettore. Secondo una prospettiva meramente cronachistica - che si è diffusa, in particolare dopo l'assassinio del Beato Don Giuseppe Puglisi - di Brancaccio sono stati evidenziati, in modo martellante, i punti deboli, le situazioni di degrado umano e ambientale che oggettivamente ne caratterizzano il territorio, dimenticando, però, che concentrarsi in modo esclusivo su tali situazioni, fa perdere di vista la tensione progettuale e la ricchezza di valori, di cui si nutre la vita quotidiana di molti dei suoi abitanti. In tempi più recenti, l'individuazione di tali punti di forza si è rivolta alle stagioni più remote della storia di quest'area della citta', concentrandosi sul castello di Maredolce non solo come esempio architettonicamente rilevante del medioevo normanno, ma anche come luogo di fioritura economica, che dal basso medioevo e dagli inizi dell'età moderna si sviluppa grazie alla coltivazione della canna da zucchero nelle zone limitrofe e alla produzione della cannamele – lo zucchero da essa derivante – entro le mura del castello. Come risulta dalle testimonianze di seguito menzionate, tale produzione era così fiorente da incrementare una fitta rete di relazioni commerciali con la città, preservando un territorio geograficamente periferico come quello di Brancaccio, dal rischio di una marginalità economica e sociale, rischio ancora oggi sempre attuale per le aree marginali dell'intero pianeta, al punto da costituire, ai giorni nostri, oggetto di attenzione continua e privilegiata da parte di molti studiosi (economisti, sociologi, antropologi, opinionisti in genere....). E' a partire dalla considerazione di tali punti di forza, risvegliandone la memoria storica piu' remota e, di continuo rievocandola per preservarla dal rischio sempre attuale dell'oblio, che un territorio puo' ritrovare in modo autentico la forza di riproporsi come soggetto della propria storia e, di conseguenza, di interagire, in modo consapevole con altri soggetti, contribuendo, in tal modo, all'edificazione della città. In queste pagine, tenteremo di mostrare come ciò sia avvenuto nel contesto considerato e come può avvenire ai nostri giorni. Anna Maria Vultaggio CAPITOLO PRIMO IL CASTELLO DI MAREDOLCE, LA STORIA In tempi molto recenti (2011/2012), il Castello di Maredolce è stato oggetto di scavi guidati dagli archeologi della Sovrintendenza ai monumenti di Palermo, al fine di individuare le diverse fasi della sua storia e il significato che possono avere per la comprensione della sua attuale fisionomia e di quella del territorio in cui esso è situato Se gli studiosi ce lo rendono noto come una delle residenze estive del re normanno Guglielmo II – insieme alla Cuba e alla Zisa – la sua edificazione originaria risale a tempi molto piu' remoti e, nelle diverse fasi , è stata interessata da usi differenti: -“Nell’area interna al portico è stata messa in luce una struttura muraria che testimonia la presenza, in età ellenistica (intorno al III-II sec. a.C.), di un insediamento a carattere rurale; - tra l’età romano-imperiale (I sec. d.C.) e la fine dell’età bizantina (prima metà del IX sec. d.C.) non vi è alcuna traccia di insediamenti nell’area del castello di Maredolce; - in età islamica, viene costruito un grande recinto fortificato a pianta quadrangolare (ribat? Kasr?) ... L'ubicazione dell’edificio è determinata da chiare esigenze strategico-difensive ed è strettamente connessa alla viabilità che, provenendo da Sud-Est, da accesso alla città di Balarm (Palermo).”(1) Non è difficile cogliere come la presenza araba in questi territori, oltre a proporsi come creatrice di civiltà, abbia , sin dall'inizio, una connotazione militare, seppur ancora di tipo difensivo, di cui il castello di Maredolce è testimone. Pertanto, se,da un lato, gli arabi introducono in Sicilia le loro tecniche agricole e la coltivazione di nuovi prodotti, trasformando profondamente dall'interno l'agricoltura dell'isola; se contribuiscono con le loro maestranze a modificare l'assetto urbanistico delle città ed intessono, in entrambi i casi, relazioni economiche e culturali significative con i loro abitanti ; dall'altro, mostrano, fin dall'inizio, la loro fisionomia di potenza militare, che prevarrà sempre più nei tempi successivi, e fino ai nostri giorni, nei territori dell'Europa mediterranea da essi conquistati e dominati. Si deve agli Arabi, comunque, l'avere introdotto in Sicilia la coltivazione della canna da zucchero, importandola dall'India, - dove era pervenuta dalla Nuova Guinea - e dove più adatte erano le condizioni climatiche per la sua produzione. Tale coltura si diffonderà, tuttavia, nell'isola in tempi successivi. . “In questa fase, l'area del castello in seguito occupata dal bacino artificiale è interessata da una serie di canalizzazioni irrigue che convogliano le acque provenienti dalle sorgenti di S. Ciro. In età normanna (1061-1250), il Castello di Maredolce viene interamente ristrutturato, con importanti lavori che trasformano il complesso in un “sollazzo”, simile ad altri grandi palazzi sorti nello stesso periodo, alla periferia di Palermo, come la Zisa e la Cuba. Esso ... rappresenta uno dei più suggestivi tasselli della ben nota architettura cosiddetta "arabo-normanna" di Palermo. È in questa fase che viene realizzato il grande bacino artificiale, il “mare dolce” con l’isola artificiale.”(2). Segni, questi, del fatto che le condizioni per la coltivazione della canna vengono preparate molto gradualmente, secondo un metodo di coltivazione lento, ma efficace e duraturo, che era stato introdotto in Sicilia proprio dagli Arabi e che si era tramandato nei secoli successivi. L'area circostante del castello, infatti, e' destinata alla coltivazione della canna tra il XIV e il XV secolo, dopo la dominazione normanna. “Il complesso viene utilizzato come opificio per la lavorazione della cannamela = canna miele. In questo periodo sono in uso quattro forni in mattoni che hanno tagliato il pavimento del portico, innestandosi tra i pilastri. E' questo il momento, in cui le splendide strutture del palazzo, ancora in piedi,vengono in parte stravolte da attività artigianali, connesse principalmente con la lavorazione della canna da zucchero”. (3) Nello stesso periodo, la lavorazione della canna zucchero, oltre ad interessare il Castello di Maredolce e le aree limitrofe, come la zona di Falsomiele, si diffonde in numerose e vaste aree della Sicilia, in particolare lungo la costa tirrenica e in qualche area dell'entroterra palermitano, dando luogo ad un significativo sviluppo di un'attività protoindustriale di rilevanza internazionale. “La produzione della cannamela avviene mediante un procedimento complesso, che attraverso l'estrazione del succo dalle fibre della canna da zucchero, prevede la cottura dello stesso sino all'addensamento e la successiva colatura entro vasi. (4) Ma per una più precisa e dettagliata comprensione delle diverse fasi della lavorazione della canna da zucchero nel castello di Maredolce, consideriamo come si sviluppa, nello stesso periodo, il lavoro nella piantagione di Galbonogara, in prossimità di Collesano (Pa), secondo la ricostruzione che ne dà il Termotto. Si ritiene, infatti, che tale riferimento sia utile per ricostruire il processo di coltivazione della canna in qualsiasi piantagione e quello della sua lavorazione in qualsiasi frantoio. I tempi verbali, nelle citazioni, sono sempre usati al presente storico, al fine di rispettare la sincronia con il testo di chi scrive. 1) Giuseppina Battaglia - Emanuele Canzoneri - Stefano Vassallo La campagna di scavi 2011/2012 e il progetto didattico “A scuola di Catalogazione: il Castello di Maredolce”, www.arcadeisuoni.org, p.2; 2)Ibidem; 3)Ivi, p.3; 4) Cfr. www.macchinetecnologiaromane.blogspot.i CAPITOLO SECONDO IL CASTELLO DI MAREDOLCE: LA LAVORAZIONE DELLA CANNA COME PUNTO DI FORZA DELL'ECONOMIA CITTADINA DEL TEMPO. Agli inizi dell’età moderna, la lavorazione della canna è diffusa in diversi luoghi della Sicilia (Capo d'Orlando, Torrenova, S.Agata di Militello, Acquedolci, Trabia, Ficarazzi, Carini, Partinico, Trappeto, Marsala...), avviene secondo le stesse modalità e costitusce una preziosa fonte di produzione della ricchezza, per il fatto che soddisfa le esigenze emergenti dal territorio e alimenta, ad un tempo, un settore significativo del commercio, attraverso le esportazioni che si dirigono, in particolare, verso Venezia, fucina degli scambi commerciali nell'Italia dell'epoca, la pianura padana, i maggiori scali commerciali europei. “La canna da zucchero è una pianta originaria della Nuova Guinea. Viene introdotta in Europa dagli Arabi, prima in Spagna (700 d.C.) e poi in Sicilia (900 d.C.);…la sua coltivazione è, in seguito potenziata da Federico II.e nel XV secolo, con Alfonso il Magnanimo, raggiunge il primato in Europa….I Conquistadores spagnoli la diffondono in tutte le Indie occidentali dopo la scoperta delle Americhe da parte di Cristoforo Colombo. Oggi la canna da zucchero è coltivata in quasi tutti i paesi dell’Asia, dell’America, in Africa e Australia. In Europa la coltivazione è limitata alla sola Spagna nella zona tra Malaga e Motrilin, in Andalusia".(5) Fig. 1: Originariamente chiamata Saccharum officinarum la canna da zucchero “...è una pianta tropicale perenne, a portamento cespuglioso, che raggiunge in media i 4-5 metri d'altezza, anche se alcune specie superano i 6 metri. La pianta presenta un rizoma duro ed angoloso, dal quale spuntano numerosi steli legnosi intervallati da nodi. Più che di fusti, nella canna da zucchero si parla di culmi, tipicamente cavi, paragonabili a quelli del bambù: ogni pianta è costituita da un fusto principale ramificato in numerosi culmi aerei. Il culmo presenta un diametro variabile dai 3 ai 5 centimetri, in grado di raggiungere – od oltrepassare – anche i 10 chili di peso. Il colore, variabile a seconda della specie e della varietà, può essere giallo, violaceo, verde o rossiccio (6). Fig. 2: Gli steli sono rivestiti da foglie molto lunghe e verdi, lanceolate ed incastrate su nodi con una guaina che avvolge il culmo. I fiori, molto simili a quelli di avena e frumento, sono riuniti in infiorescenze chiamate pannocchie, che possono raggiungere anche dimensioni piuttosto consistenti (90 cm). Lo zucchero è ricavato da un fluido sciropposo preso all'interno del fusto (7). Fig.3: “La riproduzione della pianta avviene generalmente per talee, prelevate dalla sommità dei fusti, quasi contemporaneamente al raccolto e messe a dimora in buche distanti tra loro circa un metro e mezzo per facilitare la sarchiatura. Il trapianto deve avvenire a metà primavera e necessita un'abbondante quantità idrica cosicché, nei mesi successivi, si possa accumulare una cospicua quantità di zucchero all'interno della linfa. È doveroso puntualizzare che, al momento della raccolta per la successiva estrazione dello zucchero, il culmo non dev'essere strappato, ma reciso in basso, lasciando indenne la radice: in questo modo, il fusto è in grado nuovamente di crescere e di svilupparsi e, l'anno successivo, è pronto per una nuova raccolta.” (9) . Più in particolare,“La coltivazione della canna si diffonde intorno a Palermo, nel trapanese e sulla costa ionica etnea in aree prossime al mare dove il clima è mite, con ampia disponibilità d’acqua, dove ci sia abbondanza di concime animale e di manodopera a basso costo... La lavorazione della canna da zucchero richiede inoltre la realizzazione, in prossimità delle aree di produzione, di veri e propri stabilimenti di produzione chiamati trappeti di cannamele, un toponimo molto diffuso ancora oggi in Sicilia a dimostrazione di quanto fosse diffusa sul territorio isolano questa remunerativa attività economica”.(10 ) Non è difficile immaginare, pertanto, come questa fiorenissima attività industriale si sviluppasse in due distinte e complementari direzioni: quella della fabbricazione dei trappeti e quella della lavorazione della canna, determinando così un notevole ampliamento della domanda di manodopera differenziata. “Dopo una iniziale fase familiare-artigianale, in cui la canna da zucchero, a Palermo, viene coltivata in appezzamenti di ridotta estensione in promiscuità con altre colture orticole e trasformata in piccoli trappeti, anche dentro le mura cittadine, negli ultimi decenni del Trecento coltivazione e trasformazione della canna si spostano progressivamente verso le zone costiere pianeggianti “(11). Il castello di Maredolce si colloca proprio in una di queste, alla periferia sud est della citta', non lontano dal monte Grifone, circondato da estese zone boschive, che verranno sfruttate per il reperimento della legna da ardere per la cottura della canna, la cui produzione subisce – proprio in queste aree periferiche – un incremento molto significativo nel Quattrocento. Nello stesso periodo entro le mura cittadine restano attive e spesso vengono potenziate solo le raffinerie. Questo aspetto è di vitale importanza per comprendere l'evoluzione del rapporto città-campagna a Palermo nel 1400. Le periferie agrarie a sud della città, diffusamente coltivate a canna da zucchero, infatti, lungi dal costituire, all'epoca, delle aree marginali, tagliate fuori, cioè, dal circuito degli scambi commerciali, intessono con le raffinerie cittadine relazioni capaci di creare, in modo assai significativo, produzione e circolazione della ricchezza. Tale aspetto non può non considerarsi un punto di forza inequivocabile dell'economia palermitana del tempo, e quindi anche del castello di Maredolce, oltre che un vero modello di riferimento per la creazione di rapporti economici produttivi tra città e campagna nelle epoche che seguono, fino ai nostri giorni, come tenterò di mostrare piu' avanti, in questo percorso, la diffusione delle piantagioni di canna fuori dalle mura cittadine e la creazione, in un territorio più vasto e non urbanizzato, di numerosi frantoi rendono più agevole il reperimento di tonnellate di legna da ardere attraverso la deforestazione dei monti piu' prossimi alla città (12), come avviene, presumibilmente, per il monte Grifone e per le sue falde, a proposito del castello di Maredolce. Lo sfruttamento delle risorse naturali del territorio e la fase agricola della lavorazione della canna – quella cioè che coincide con la piantagione, la coltivazione e la raccolta - determinano già l'impiego di una notevole quantita' di manodopera variamente articolata, a seconda della qualifica. Seppure scarsamente retribuita nella maggior parte dei casi come risulta dal lavoro del Termotto, non è difficile immaginare quanto la produzione e la lavorazione della canna abbiano contribuito, a suo tempo, ad un notevole incremento dell'occupazione, sottraendo a situazioni di estrema povertà e miseria strati consistenti della popolazione. Solitamente, all'interno di un'azienda per la produzione dello zucchero, “il cuore delle attività è costituito dalla macina e dal torchio, dalla sala che accoglie le caldaie con i forni, dai magazzini e dai locali di servizio”(13). Le caldaie di ogni azienda, quindi anche quelle di Maredolce “...che ribollono notte e giorno, restituiscono veramente l'immagine efficace, proposta dal bolognese Leandro Alberti quando, visitando la Sicilia nel '500, riferisce dei trappeti locali come di fucine di vulcano nelle quali 'huomini s'affaticano, sì affumicati, lordi, sudici et arsicci, che somigliano demoni anzi che uomini'”(14). I torchi e gli arredi sono gli altri elementi importanti del trappeto; tra questi ultimi vanno ricordati i colatori, utilizzati per colare il succo della canna dopo essere stato portato ad ebollizione e i cantarelli, in cui veniva versato lo zucchero per la conservazione. Gli animali, solitamente buoi, successivamente muli, venivano utilizzati sia per l'aratura, sia per il traino dei mezzi di trasporto (della legna per alimentare il fuoco, delle canne dalla piantagione al trappeto), sia per azionare il torchio. Queste, dunque, le fasi della lavorazione della canna da zucchero anche nel castello di Maredolce: • Predisposizione di vaste aree limitrofe alla coltivazione della canna attraverso l'aratura e, prima ancora, se necessario, al disboscamento; • Raccolta e utilizzo dell'acqua sia per l'irrigazione delle canne, che per il funzionamento del frantoio; • Piantata delle canne; • Arrotolamento delle piantine; • Dopo un periodo che va dagli otto ai dodici mesi, taglio delle canne ormai mature, estirpazione dei ceppi e liberazione delle foglie; • Trasporto delle canne e dei ceppi al trappeto; • Pulitura delle canne (mondanatura); • Taglio delle canne e loro preparazione per la macina e il torchio; • Schiacciamento con la macina degli spezzoni di canna e ottenimento del primo sugo; • Versamento della poltiglia ricavata in sacchi per essere pressata col torchio; • Cottura del sugo ricavato in grandi caldaie di rame; • Defecazione dei sughi mediante un sapone a base di olio di oliva; • Versamento del sugo portato ad ebollizione e purificato in contenitori (colatori) dotati di una punta rivolta verso il basso, in cui si depositano le rimanenti parti spurie del prodotto; • Versamento del sugo ormai libero dalle scorie in contenitori di terracotta (cantarelli); • Conservazione dei cantarelli in apposite scaffe situate in magazzini di cui è dotato il frantoio; • I mellusi, ossia i contenitori cosi sigillati e conservati, sono pronti per la conservazione interna al castello, ma più ancora per la vendita nei mercati cittadini. • Non si esclude che, come avviene per molti frantoi della Sicilia dell'epoca, anche lo zucchero prodotto a Maredolce sia stato esportato fuori dall'isola, prendendo in particolare la via di Venezia, in cui, dopo essere stato sottoposto ad un'ultima raffinazione, alimenta il mercato italiano ed europeo del settore. Molto elevato risulta il prezzo dell'olio di oliva, utilizzato sia come additivo nel processo di lavorazione, sia per la purificazione del prodotto; col salario medio di una giornata è possibile, infatti, acquistare appena un litro di olio. “Uno dei momenti più delicati della fase industriale è quello del “fuoco”, che richiede personale con notevole specializzazione, cui è demandato un compito decisivo, senza che possa avvalersi di particolare strumentazione se non la propria esperienza. Il compito di accendere e alimentare la legna da ardere, governando ininterrottamente giorno e notte, alla giusta temperatura, la combustione fino al termine della cottura, spetta, infatti, al fucaloro”(15). Oltre al fuoco, anche la cottura viene costantemente controllata da operai specializzati e perciò, come il fucaloro, meglio retribuiti (sucalori, xiroppaturi). Non è difficile cogliere come nella fase della cottura del liquido si richiede la manodopera piu' specializzata, di cui è espressione piu' significativa il “...magister zuccararius, vero e proprio direttore tecnico dello stabilimento, che decide quando è giunto il momento di levare lo sciroppo dal fuoco per versarlo nei contenitori e quindi confezionare i pani di zucchero di una cotta e governare i sottoprodotti.” (16) Fig.4: La più antica immagine che riproduce le fasi piu’ importanti della lavorazione della canna in un tappeto. Il reposteri ha il compito di badare agli attrezzi e al prodotto finito Nel frantoio, inoltre, viene impiegata una parte di manodopera priva di una qualifica specifica col compito di sostituire eventuali operai assenti, al fine di assicurare la continuità del processo produttivo. Si anticipa, in tal modo, la pianificazione della produzione che, in età industriale avverrà con l'introduzione della catena di montaggio, teorizzata per la prima volta da Taylor (17) e applicata sia all'industria leggera che all'industria pesante. E' in questa fase della lavorazione industriale che viene impiegata maggiormente la manodopera minorile col compito di vigilare sulla combustione della legna, lavoro molto faticoso, per il quale viene percepita una retribuzione davvero insignificante. Si presume che “l’incidenza dei lavori di manutenzione dell’acquedotto sui costi di gestione dell’arbitrio è piuttosto alta, ed è anche frequente, se non proprio annuale... L’estate è, per il trappeto, tempo di manutenzione e di rinnovo dei macchinari e delle attrezzature lignee “(18), così come verosimilmente sarà stata alta “...la spesa per il combustibile nell'economia dell'azienda zuccheriera, soprattuto a causa dei grandi quantitativi necessari”(19). Non è poi così difficile immaginare come, per far fronte agli elevati ed obbligatori costi della produzione, l'unica variabile interna su cui e’ possibile intervenire per il contenimento della spesa e’ quella della manodopera, anche minorile, retribuita, nella maggior parte dei casi, con salari molto bassi e utilizzata per periodi di tempo limitati, dando così origine a situazioni di vero e proprio sfruttamento disumano, le cui caratteristiche anticipano quello che sara' operato nelle società industriali, a partire dagli ultimi decenni del 1700 e, in molte aree del pianeta, ancora ai nostri giorni. La variabile esterna e’ quella della possibilità di collocare il prodotto sui mercati dell'epoca economicamente più dinamici.Non si esclude, infatti, che lo zucchero prodotto a Maredolce, oltre ad alimentare il mercato cittadino, molto fiorente, fino alla fine del '400, sia stato esportato, come avviene per molti frantoi della Sicilia, fuori dai confini dell'isola, prendendo in particolare la via di Venezia, in cui, dopo essere stato sottoposto ad un'ultima raffinazione, alimenta il mercato italiano ed europeo del settore. Gli elevati ed inevitabili costi della produzione (fornitura della legna, del concime e della creta per i vasi, spese per la manutenzione permanente del frantoio, costo – seppur modesto – della manodopera) e la contrazione della domanda dei mercati, via via che all'uso dello zucchero di canna si sostituirà quello di barbabietola, contribuiranno, come vedremo, a determinare gradualmente la scomparsa della coltura della canna in Sicilia e il suo spostamento fuori dall'Europa. 5) it.wikipedia.org/wiki/Saccarum_officinarum; 6)Ivi; 7) Ivi; 8) Ivi; 9) Ivi; 10) www.verdeinsiemeweb.com/.../saccarum-officinarum-o-cannamele _28.ht,28 dic.2013. 11) ROSARIO TERMOTTO,Una industria zuccheriera del cinquecento:Galbonogara, p.1 (www.collesanocultura.it), pubblicato in “Mediterranea”, Ricerche storiche, 3 aprile 2005., pp.45-74; 12)Cfr.Ibidem; 13)Ivi, p.7; 14)Ivi, p.8; 15)Ivi, p.20; 16)Ibidem; 17)Nel 1911, Frederick Winslow Taylor, negli Stati Uniti, nell’opera “L'organizzazione scientifica del lavoro” teorizza la razionalizzazione del lavoro nella fabbrica, secondo la quale per ottenere un pieno impiego della manodopera, evitando ogni sua dispersione , ciascun operaio svolge sempre lo stesso compito, in modo meccanico L'esito più significativo di tale teoria è l'introduzione della catena di montaggio nelle aziende industriali 18) R.TERMOTTO, Op.cit.,p.13; 19) Ivi, p.16. Molto utile risulta la biblioografia fornita dal Termotto per eventuali approfondimenti dell'argomento: Sulla coltivazione e trasformazione della canna da zucchero in Sicilia sono fondamentali: • C. Trasselli, La canna da zucchero nell’agro palermitano nel sec. .XV, «Annali della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di zucchero nell’agro palermitano nel sec. .XV, «Annali della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Palermo», VIII, (1953). • Id., Produzione e commercio dello zucchero in Sicilia dal XIII al XIX secolo, «Economia e Storia», (1955); Id., Lineamenti di una storia dello zucchero siciliano, «Archivio Storico per la Sicilia orientale” (1973); • Id., Storia dello zucchero siciliano, introduzione di Orazio Cancila, Sciascia, Caltanissetta-Roma, 1982;. • G..Rebora, Un’impresa zuccheriera del Cinquecento, «Annali di storia economica e sociale», 1968, ora anche in • Imprese industriali in Sicilia (secc. XV-XVI), a cura di A. Giuffrida, Sciascia, Caltanissetta-Roma, 1996; • Giuffrida, La produzione dello zucchero in un opificio della piana di Carini nella seconda metà del sec. XV, «La cultura materiale in Sicilia, Quaderni del Circolo semiologico siciliano», n.12-13, 1980, ora anche in • Imprese industriali . CAPITOLO TERZO L'IMPIEGO DELLO ZUCCHERO DI CANNA NELLA PRIMA FASE DELLA SUA PRODUZIONE Agli inizi della sua produzione in Sicilia, lo zucchero di canna e' considerato un vero esotismo e le piccole quantità di cristalli ottenute attraverso spremitura dei culmi vengono vendute nelle farmacie, utilizzate per edulcorare il gusto terribile delle medicine dell’epoca”(20) . Il suo uso come dolcificante è ancora molto raro e, per ciò stesso elitario, non tanto per una sua mancata disponibilità, quanto piuttosto per il fatto che il suo prezzo elevato lo rende accessibile solo ai ceti più abbienti, i quali se ne servono per edulcorare i cibi prelibati di cui sono ricche le loro mense. La stragrande maggioranza della popolazione, quindi, rimane esclusa dall'accesso a questo prodotto, sia per il suo costo elevato, sia per il fatto che, disponendo di un'alimentazione molto povera, non sa che farsene. Fig.5: un esempio di canna da zucchero all’ultimo stadio di raffinazione. L'elevato prezzo dello zucchero – allora detto “cannamele”(=dolce come il miele) - è dovuto al fatto che la sua estrazione dalla canna è molto costos “ Dal 1300 e per circa duecento anni – infatti - in Sicilia la coltivazione della canna da zucchero diventa un’importante coltura da reddito grazie alle forti richieste dei mercanti genovesi e veneziani che ne commercializzano lo zucchero per la produzione del marzapane”(21), dolce, anche questo, molto pregiato ancora ai nostri giorni. Fig.6: un assortimento di marzapane. Fig. 7: un’esposizione contemporanea di frutta esotica, tra cui la canna da zucchero. “La coltivazione della canna si diffonde intorno a Palermo, nel trapanese e sulla costa ionica etnea in aree prossime al mare dove il clima è mite, con ampia disponibilità d’acqua, dove ci sia abbondanza di concime animale e di manodopera a basso costo... La lavorazione della canna da zucchero Richiede, inoltre, – come si è visto - la realizzazione, in prossimità delle aree di produzione, di veri e propri stabilimenti chiamati trappeti di cannamele, un toponimo molto diffuso ancora oggi in Sicilia a dimostrazione di quanto fosse diffusa sul territorio isolano questa remunerativa attività economica”(22 ), in cui attività agricola, preindustriale e commerciale costituiscono un continuum capace di creare una piu diffusa produzione e circolazione della ricchezza, contribuendo così a migliorare per un periodo di ben due secoli, la situazione economica globale dell'isola, che se in alcuni periodi è stata segnata da profonde depressioni dovute a fasi di stagnazione, in altri, come questo, è stata molto fiorente e, per ciò stesso, capace di generare significativi processi di crescita economica e sociale. 20) www.verdeinsiemeweb.com/.../saccharum-officinarun-o-cannamele) dic.2013 21)Ibidem;. 22) Ibidem. CAPITOLO QUARTO LE PRINCIPALI RAGIONI DELLA CRISI DELLA PRODUZIONE ZUCCHERIERA IN SICILIA E', a dir poco, necessario guardarsi dal rischio di compiere una lettura semplicistica delle ragioni che determinano, a partire dalla II metà del '500, un processo di crisi irreversibile della produzione di zucchero di canna in Sicilia. La sua progressiva scomparsa interessa, prima di tutto, proprio le aree periferiche della zona sud di Palermo, dove si trova anche il castello di Maredolce, travolto, quindi,molto verosimilmente, dalla medesima crisi. In essa, per una sua adeguata comprensione, è utile distinguere tra quella che si può chiamare una microcrisi, per il fatto che riguarda ancora delle aree molto circoscritte – quelle periferiche della città di Palermo, appunto – e un'altra che chiamiamo macrocrisi, per il fatto che, in tempi successivi, fino agli inizi del '700, riguarda aree sempre più estese dell'isola. Lo storico castelbuonese Orazio Cancila, di cui si dispongono diversi testi scientifici sulla storia economica della Sicilia moderna, riguardo alla scomparsa della produzione zuccheriera nelle periferie meridionali di Palermo, individua quattro cause fondamentali, una delle quali va riletta e interpretata, quella cioè, della diminuzione della disponibilità della legna per alimentare il fuoco dei calderoni all'interno dei trappeti. In realtà, nel periodo in questione – siamo agli inizi del 1500 – la disponibilità di legna nelle periferie meridionali di Palermo e’ notevole, basti pensare a quella fornita dai boschi del monte Grifone, solo per fare l'esempio più significativo; a variare, rispetto alle altre zone dell'isola, non e’ pertanto il quantitativo di legna disponibile, quanto piuttosto il suo prezzo, che si presume più elevato a motivo dell'elevata domanda del prodotto dovuta al fatto che in questa zona i trappeti sono molto fiorenti e diffusi. Nella II metà del '400, inoltre, la città è interessata da un notevole aumento demografico, che fa avvertire l'esigenza di espandere nelle aree periferiche la coltivazione della vite e degli orti, sottraendo, in tal modo, vasti territori alla coltivazione della canna. Un ruolo significativo nella crisi della produzione zuccheriera ha anche la siccità, che interessa diverse zone dell'isola nell'ultimo decennio del 1400 , per un quarto di secolo, danneggiando anche gli altri settori dell'agricoltura. “... come ha ben documentato Carmelo Trasselli,… essa è una delle diverse cause, che si intreccia con altre e ne moltiplica gli effetti. Sue conseguenze sono certamente la perdita dei raccolti e la moria del bestiame. La siccità brucia e devasta i campi di grano, i vigneti, gli oliveti, i pascoli, le piantagioni di canna da zucchero e forse influenza anche il regolare corso dei tonni”(23). Ma, più in generale, molti storici ritengono che i fattori climatici, nel loro complesso, non soltanto la siccità, abbiano inciso in modo significativo sulla crisi della coltivazione della canna. Nei secoli successivi, fino al XVII secolo, infatti,“la canna da zucchero in Sicilia vive al suo limite ecologico settentrionale, ...e pertanto un lieve abbassamento della temperatura minima invernale può ucciderla, o un abbassamento della media annuale diminuirne la produttività, o un eccesso di umidità dare al succo un eccesso d’acqua”;(24) e si fa notare come molti segni indicano che durante il XVII secolo, vi sia stato effettivamente un raffreddamento del clima. Il succo comincia a risultare meno ricco di sostanze zuccherine e in minore percentuale arrivava allo stato solido con la prima cottura.(25) Viene ad essere più difficile così, per il produttore, dato che il trappeto non dà più che 1/3 o ¼ di zucchero solido, recuperare tutto il capitale investito: non contando che il prezzo precipita a causa della cattiva qualità del prodotto.(26) Non è difficile immaginare come tale situazione alterasse notevolmente il bilanci consuntivi – oggi si direbbe i fatturati - delle aziende zuccheriere, facendo lievitare le uscite rispetto alle entrate e determinando, in tal modo, una notevole contrazione del guadagno netto. Le alterazioni climatiche e l'espansione, oltre le mura cittadine, dei vigneti e degli orti, a motivo dell'incremento demografico, contribuiscono, dunque, in modo significativo alla crisi della produzione della canna, ma non sono ancora la causa determinante; essi alimentano quella che ho chiamato la microcrisi, ma non ancora la macrocrisi. Non manca, nel testo del Cancila, il riferimento puntuale alla politica fiscale del governo palermitano agli inizi del '500, quando sui mercati siciliani comincia ad essere venduto lo zucchero americano. I governi comprendono bene che è in tale concorrenza che si deve individuare la causa più profonda della crisi in atto, - quella che qui chiamo macrocrisi - , ma, forse per non alienarsi eccessivamente il consenso della popolazione, mostrano di ritenere che tale crisi sia facilmente arginabile, se si introduce una politica economica che preveda l'aumento del dazio sullo zucchero straniero in entrata e la diminuzione di quello sullo zucchero locale in uscita, dimenticando, osserva acutamente il Cancila, che tale provvedimento era già stato preso nel secolo precedente ('400), quando la produzione dello zucchero in Sicilia era ancora nel pieno della sua fioritura. (27). Il governo, dunque, pur avendo individuato la causa più profonda della crisi – la concorrenza dello zucchero americano – non riesce a predisporre una politica economica capace di risolverla al punto che, nonostante l'aumento dei dazi, lo zucchero americano riesce ugualmente a imporsi sul mercato europeo e perfino su quello siciliano. Due sono le ragioni per le quali lo zucchero americano si impone in maniera incontestabile sui mercati europei: • In primo luogo, il Brasile offre le condizioni climatiche più favorevoli alla coltivazione della canna da zucchero che, proprio per questo, viene prodotta e lavorata nei suoi vastissimi territori e, in particolare, nelle aree a clima tropicale. • In secondo luogo, nei trappeti siciliani, la manodopera, seppur retribuita con salari contenuti, risulta, comunque, molto più costosa di quella impiegata nelle piantagioni brasiliane, dove viene sistematicamente operata la tratta degli schiavi neri, ai quali si assicura solo la sussistenza fisica. E' la concorrenza dello zucchero americano, dunque, la causa storicamente individuabile che determina la macrocrisi nella produzione zuccheriera della Sicilia moderna; rispetto ad essa, tutte le altre risultano concause; esse cioè hanno contribuito, in maniera più o meno significativa alla crisi della produzione zuccheriera in Sicilia, ma mai in modo decisivo. Sarebbe stato possibile evitare la macrocrisi? Forse, se il governo avesse perseguito una politica economica piu' vigorosa; magari sovvenzionando con lauti contributi la produzione zuccheriera in Sicilia, la crisi si sarebbe potuta, in qualche modo, arginare. Ma il governo non possiede le risorse per tale tipo di intervento, per il quale, peraltro, i tempi non sono ancora storicamente maturi. 23) O.CANCILA, L’economia siciliana nella prima metà del Cinquecento. (www.cdlstoria.unina.it/storia/dipartimentostoriaold). 24) www.archinebros.wordpress.com/.../sul-trappeto-degli-zuccari-di-malvicino. 25) Ibidem; 26) Ibidem; 27) O.CANCILA, op.cit. CAPITOLO QUINTO LA COMUNITA' EUROPEA INTERROGA LE PERIFERIE DI PALERMO E' ormai quotidiano, sia attraverso i contributi della ricerca scientifica che attraverso i mezzi di comunicazione, il dibattito sul recupero delle periferie urbane, soprattutto quelle delle città mediterranee, che non sono state ancora ricostruite dopo il secondo dopoguerra, o che sono state invase, in modo dilagante e senza alcun progetto di politica urbanistica, dalla speculazione edilizia. Essa, infatti, ne ha gravemente alterato l'assetto originario, sacrificando sia il precedente sistema abitativo, spesso segnato al suo interno da testimonianze storico-artistiche di particolare rilievo, sia le aree adibite a diverse colture, un tempo preziosa risorsa per l'economia della città. La sovrapposizione agli antichi, bimillenari, equilibri di una caotica utilizzazione del suolo, ha avuto un effetto a dir poco corrosivo nei confronti della memoria storica e, per ciò stesso dell'identità di molte periferie urbane in genere e di quelle di Palermo, di cui mi sto occupando, in particolare. Un territorio, che ha smarrito progressivamente la propria identità, diventando cosi incapace di proporsi in modo significativo dal punto di vista socio-economico e culturale, e perdendo per ciò stesso i suoi interlocutori, non può non offrire l'humus, ormai degenerato, all'affermazione di fenomeni dilaganti di disagio e di devianza in tutte le loro possibili espressioni. “In qualche modo si può dire che quando si perde la memoria ci si disorienta fino ad impazzire, cosi il territorio che perde i propri riferimenti storici, culturali e ambientali rischia di degradarsi fino ad impazzire nella congestione o nel disordine degli insediamenti e nella perdita delle regole.” (28) Il rischio che si corre, per quanti si ritrovano vittime consapevoli o inconsapevoli del problema, è quello di subirlo in modo fatalistico, un modo che genera passività, inerzia,rassegnazione, diffidenza, chiusura; ed è proprio in questi casi che urge, come avviene sempre più spesso ai nostri giorni , una riconsiderazione attenta dei luoghi in cui il problema è attecchito, guardando sempre al di là di esso, al fine di riscoprire le radici storiche più remote che hanno contribuito, in modo più significativo, a conferire ad un determinato territorio la propria peculiare identità. La riappropriazione della memoria storica di un territorio, in tutto ciò che ha di positivo, è, pertanto, la condizione indispensabile per neutralizzare e risolvere i problemi e gli effetti corrosivi da essi generati, avviando, in tal modo, un processo di bonifica di un intero contesto. “Se il paragone non fosse troppo azzardato, si potrebbe sostenere che lo statuto dei luoghi equivale al nostro Dna Individuare la "storia" del territorio equivale ad identificare la sua cultura. La storia, in questo caso, diventa "futuro”(29). Individuando i fatti e i processi storici che hanno generato, in un particolare territorio, degli effetti positivi di lunga durata, e' possibile, cioè, radicare il presente nel passato, facendolo in tal modo rivivere e individuando al suo interno gli elementi per una nuova tensione progettuale verso il futuro. Solo così un territorio può ridiventare soggetto della propria storia e rendersi nuovamente interlocutore significativo di altri soggetti, in vista dell'elaborazione e della realizzazione di percorsi nuovi e condivisi.. Le attuali teorizzazioni della “società liquida”(30) intorno alla storia, se da un lato rispecchiano un modo di sentire e di vivere sempre più diffuso nelle società occidentali del nostro tempo, in cui, cioè, le esistenze sono spesso costituite dalla sovrapposizione di attimi fuggenti privi di una loro strutturale relazione, potrebbero risultare nocive ad una adeguata autocomprensione della storia di un individuo o di un gruppo, il cui significato deriva proprio dalla continuità del suo dispiegarsi nel tempo, scandito, come affermava Agostino, (31) dalla memoria del passato, dall'attenzione per il presente e dall'attesa del futuro. Pertanto, la rivalutazione delle aree marginali, sempre più diffusa ed efficace ai nostri giorni, non deriva dall'esigenza utilitaristica di sfruttarne le risorse, quanto, piuttosto da quella di tornare a interrogare questi luoghi, lasciando parlare la storia che in essi si è sviluppata e che continua ad essere carica di significato ai nostri giorni, “…una sperimentazione sul territorio attraverso cui una città rilegge la sua storia, rivisita le sue ferite, recupera quel che è sopravvissuto ai cambiamenti tumultuosi che l'hanno investita. Al tempo stesso un'ipotesi per il futuro, il disegno di quel che la città vuol essere nei decenni a venire e le opportunità per quanti sul territorio vivono e lavorano”. (32) E' in questa prospettiva che “la CIA, forte delle esperienze già realizzate in proposito... ha presentato alla Commissione dell'UE un proprio progetto nel quadro del programma Life '94 - denominato 'Modello di gestione agricola in una zona periurbana di Palermo'...La zona di localizzazione del 'Progetto' - 800 ettari della Conca d'Oro di Palermo coltivati quasi esclusivame nte a mandarini - registrava, infatti, già da qualche anno, un forte fenomeno di abbandono dei terreni agricoli, in particolare lungo la fascia pedemontana terrazzata.(33). Il programma Life, rivolto al risanamento mirato e circoscritto di una particolare area della periferia sud di Palermo – quella di Ciaculli -, costituisce un valido esempio di possibile intervento su altri territori in cui sono stati alterati gli equilibri originari e che possono essere restituiti alla loro peculiare fisionomia. “La città – infatti -può diventare veramente amica dell'uomo solo se è capace di far vivere in modo sano le sue periferie”(34), se si considera che, il più delle volte, è proprio da queste che si originano le diverse forme di disagio, che hanno le loro ripercussioni sul tessuto cittadino. “ Il valore dei "Progetto" sta proprio in questo fatto: essere riuscito a dimostrare, in un ambiente così difficile, che legalità, coerenza e impegno per cambiare le cose possono rimuovere ostacoli sociali pesanti e vanificare attività criminose presenti in forme varie sul territorio”(35). Ciò è stato reso possibile, in particolare dal fatto “…che, per tutti gli interventi agronomici ed agroforestali preventivati nel ‘Progetto’, è stata utilizzata una cooperativa locale con la quale è stato formalizzato un affidamento d'incarico per i lavori applicando le tariffe sindacali ufficiali… Affidare l'incarico a lavoratori della zona ha garantito… due condizioni essenziali: una più consapevole e affidabile partecipazione all'esecuzione dei lavori; la gestione corretta di tutte le iniziative connesse alla nuova realtà”(36). Tale tipo di intervento è la dimostrazione concreta del fatto che il lavoro, correttamente eseguito e giustamente retribuito, costituisce il primo passo per la rinascita di un territorio, che deve trovare in una sana economia il necessario presupposto su cui fondare ulteriori livelli di crescita “Una realtà ben ordinata ed efficiente, che assicura a tutti attività e redditi sufficienti, blocca e respinge - infatti fenomeni di violenza e di malavita organizzata” (37). L’intervento, menzionato all’inizio di questo lavoro, della Sovrintendenza ai monumenti di Palermo proprio nei confronti del castello di Maredolce,si colloca in questa stessa prospettiva, nella misura in cui riscopre gli elementi che testimoniano la fioritura, al suo interno, di attività economiche in tempi ormai remoti, in particolare, la produzione di cannamele, che faceva del castello non solo un punto di forza dell’economia di questa’area periferica della città, ma, più ancora, un interlocutore significativo della metropoli di allora, con cui intesseva scambi commerciali dotati di una notevole rilevanza culturale. Il commercio, infatti, in ogni luogo in cui si è sviluppato e in ogni sua espressione, è sempre stato crocevia di relazioni significative non solo da un punto di vista economico, ma anche da quello, oggi si direbbe, interculturale. Tali, costruttive, relazioni si possono instaurare, tuttavia, solo tra identità ben definite. Pertanto, un quartiere, come Brancaccio, oggi sempre più impegnato nella riscoperta e nella riappropriazione delle sue radici storiche più remote, mostra di possedere il potenziale necessario per tornare a rendersi interlocutore significativo della città. Ciò che è avvenuto in tempi remoti può avvenire, dunque, ai nostri giorni a condizione che quanti vi abitano vengano in vario modo sollecitati a ritrovare la volontà e il coraggio di dialogare con quegli aspetti delle loro tradizioni attraverso i quali si è espressa in modo privilegiato la ricchezza della loro umanità. La storia del castello di Maredolce,in particolare nei suoi momenti di maggiore fioritura come quello della produzione di cannamele, può costituire un vero paradigma in questo cammino di rinascita. Solo in questo modo sarà possibile – si ripete ancora - neutralizzare in modo efficace e duraturo i focolai di disagio che in vario modo hanno contaminato e deturpato, in tempi più recenti, questi luoghi, laddove sono rimasti abbandonati a se stessi, privati, pertanto, di relazioni significative con la cultura e con la vita. 28) P.CERVELLATI, Un parco agricolo in cui stupirsi e istruirsi, in Il progetto Life per il parco agricolo di Palermo, p.12. 29) Ibidem; 30) Teorizzata con maggiore autorevolezza da Bauman, la società liquida è il risultato di tante esistenze liquide, che si dispiegano, cioè, prescindendo da qualsiasi relazione con punti stabili di riferimento, attraverso il susseguirsi di momenti spesso privi di un significato che li connetta strutturalmente; la visione della storia che ne deriva è, pertanto, frammentaria; in essa si è smarrita la consapevolezza della connessione tra gli eventi. 31) Circa la visione agostiniana del tempo, cfr. AGOSTINO, Le Confessioni; 32) L.ORLANDO, La memoria e il futuro, in Op.cit.,p.4; 33) G..AVOLIO, Una strategia agricola tra città e campagna, in Op.cit.,p.6; 34) Ibidem; 35) Ivi, p.8; 36) Ibidem; 37) Ibidem. ANNA MARIA VULTAGGIO PALERMO, Liceo Scientifico “E.Basile”, Settembre 2014. . .