Cent`anni di realizzazione della democrazia, in dettaglio. 4. La
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GIOVANNI PAMPANINI TEORIA DELLA DEMOCRAZIA GLOBALE QUINTO VOLUME Cent’anni di realizzazione della democrazia, in dettaglio. 4. La democrazia dal 2001 al 2012 Indice Introduzione Quinto volume: Cent’anni di realizzazione della democrazia, in dettaglio. 4. La democrazia dal 2000 al 2011. Capitolo I. Il Dialogo fra Civiltà e le Torri Gemelle Paragrafo 1: Storia Paragrafo 2: Politica Capitolo II. L’alter-mondializzazione Paragrafo 1: Storia Paragrafo 2: Politica Capitolo III. Ragionamenti sull’ONU Paragrafo 1: Storia Paragrafo 2: Politica Conclusioni Bibliografia Introduzione Questo volume della Teoria della democrazia globale conclude la ricostruzione dell’intreccio fra storia e riflessione politica. Come nel precedente volume, anche qui il criterio scelto è stato quello delle due “passate” sugli stessi anni, da due punti di vista diversi: 1. la prima “passata” illumina le speranze e le frustrazioni (i “passaggi irreversibili”) della democratizzazione internazionale in seguito alla ripresa degli schemi di opposizione e di sfiducia reciproca internazionale conseguenti alle lotte per l’approvvigionamento delle risorse energetiche (le guerre internazionali in Asia centrale, malgrado la funzione mitigante dell’ONU); 2. con la seconda “passata”, le due sezioni politologiche delucidano le nuove teorizzazioni sulla democrazia, inclusi il nuovo orizzonte dell’utopia dell’alter-mondializzazione e le prospettive di riforma dell’ONU in funzione regolativa dell’uso del Pianeta. Allo scopo di indicare quali siano le maggiori civiltà oggi esistenti che possono venire in collusione fra di loro per il dominio sul Pianeta e le sue risorse, Samuel Huntington, nella sua opera sul possibile “scontro fra civiltà” espone una lista di civiltà che comprende le seguenti: occidentale, confuciana, giapponese, induista, africana, musulmana, slavo-ortodossa e latino-americana. La convinzione di Huntington è che, tramontata l’epoca della Guerra Fredda, la linea di divisione fra amico e nemico (per riprendere la comoda terminologia di Carl Schmitt) non corra più lungo i confini fra i blocchi dell’Est e dell’Ovest, o del Nord e del Sud, ma lungo i confini fra civiltà (Huntington, 1996). L’opera di Huntington è stata notevole e ha avuto un’enorme risonanza in tutto il mondo in questo decennio per il fatto di aver delineato con plausibilità un panorama delle Relazioni Internazionali, se non proprio una teoria delle Relazioni Internazionali, che è servita per riorganizzare il campo del pensiero fra gli autori di politica, filosofi, scienziati e teorici. In questo senso, l’opera di Huntington ha contribuito a chiarire i significati dell’appartenere alla destra o alla sinistra in campo internazionale all’indomani della Guerra Fredda. Come abbiamo visto nelle precedenti due sezioni del quarto volume, il campo delle Relazioni Internazionali negli anni ’90 rimane ancora fortemente appannaggio della scuola realista di Morgenthau e Kissinger, benché anche il paradigma liberal-democratico di John Rawls e quello del centro-periferia, o sistemamondo, di Wallerstein, Arrighi e Amin, non siano affatto scomparsi dall’orizzonte, anzi continuino ad esercitare una notevole attrazione soprattutto fra gli avversari del capitalismo e del neo-liberismo. – Questo sia detto, benché ormai, soprattutto da dopo la fine della Guerra Fredda, il campo internazionale non sia più concepibile facilmente come una “selva anarchica” dove fra i numerosi soggetti che la abitano (cioè, gli statinazioni) vale la legge del più forte – presupposto, questo, che è stato la base della scuola del realismo (vedi secondo volume). In particolare, appare sulla scena, e in maniera molto più evidente ed attiva che in precedenza, il rinato soggetto ONU – la segreteria generale di Boutros Boutros-Ghali, in particolare, si fa apprezzare per la sua lungimiranza e il suo attivismo nei vari campi, non solo del peace-making e peacekeeping, ma anche dell’ambiente, del controllo demografico del Pianeta, della difesa della donna e, soprattutto per l’impulso dato all’UNESCO, all’UNDP, al WHO, all’UNICEF e all’ILO. È chiaro che non tutto suona a sinistra, per così dire, nell’ONU degli anni ’90; anzi, i poteri finanziari ed economici, che già sono ben presenti in ciascuna macro-regione e nell’OECD, si alleano con la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l’OMC e tutto il resto degli Organismi che si occupano di gestire la riproduzione materiale della vita del Oianeta, e agiscono il tutto potentemente a partire da lì. Dunque, l’opera di Huntington giunge sul tavolo della discussione quando, concretamente, il mondo si sta ridisegnando dopo gli ex-equilibri della Guerra Fredda. L’idea che, con la globalizzazione, visione che affonda quella gorbacioviana sull’interdipendenza planetaria, si sta ora affermando è che gli USA sono rimasti sul campo come unica super-potenza, capace di imporre con la forza militare, in ogni angolo della terra, un ordine conforme ai propri interessi. Tutti gli altri attori sono di molto inferiori, in campo militare e strategico, agli USA. Questi, peraltro, dispongono anche di un forte potere di suasion, quello che Joseph Nye ha chiamato felicemente potere caldo, distinguendolo da quello, freddo, delle armi. Tuttavia, gli USA non sono capaci, da soli, di mettere ordine nel mondo – gli sforzi di Colin Powell e di Condoleeza Rice, due importanti attori della politica estera USA nel nuovo secolo, in questa direzione non possono che arrivare alla conclusione che, data la complessità delle vicende correnti in Africa e in Asia, soprattutto, sia necessario considerare il mondo come un campo multi-polare (in cui, ovviamente, un polo, gli USA, dominano sugli altri). Sembra quasi, dunque, che non tanto la visione del contratto sociale prevalga – quella che Rawls avrebbe voluto vedere trasferire dal campo intra-nazionale a quello inter-nazionale (Rawls, 1999); piuttosto, l’immagine che sembra essere più appropriata è quella della poliarchia di Robert Dahl, solo applicata in campo internazionale – con qualche, seria, postilla pro-USA. Tuttavia, a complicare le visioni unitarie stesse del mondo – quella del mondo come “selva” (realismo: Morgenthau, Kissinger, Waltz, Panebianco), del mondo come unico imperio sottomesso ad un unico potere centrale (Negri, Hardt), del mondo come diviso essenzialmente fra centri e periferie (Wallerstein, Amin, Gunder Frank, Arrighi), o ancora del mondo come insieme di soggetti che contraggono più o meno liberamente un contratto fra di loro (Rawls, Sen, Nussbaum), o infine del mondo come un luogo dotato di più centri e poteri fra i quali primeggiano gli USA (Dahl) – c’è da considerare non solo il veloce evolversi degli eventi – dalla guerra del Golfo a quella della Somalia, da quella dell’ex-Yugoslavia a quella del Congo, per non parlare delle varie crisi finanziarie catastrofiche, da quella del Messico del 1994 a quella della Russia del 199698, da quella delle Tigri asiatiche del 1997 a quella dell’Argentina del 2001. Come abbiamo già visto, già alcuni osservatori avevano considerato il proliferare di movimenti localistici e nazionalistici come una reazione all’avanzante processo della globalizzazione (così Alain Minc in La vendetta delle nazioni; anche Gellner, 1994) Il nazionalismo diventa la base del rischio del razzismo e della xenofobia quando, in tempio di crisi economica, la maggioranza della popolazione di uno stato vede nella minoranza presente la fonte dell’instabilità. In questi casi, una “febbre identitaria” sembra impadronirsi delle maggioranze (a questo tema dedica un numero speciale la rivista Esprit, Janvier 1997, con interventi di Albert Memmi, Todorov e altri: La fièvre identitaire). Di conseguenza, la preoccupazione di molti autori, sensibili ai problemi delle minoranze, si è concentrata sulla protezione delle minoranze, sui loro diritti e sul ruolo delle organizzazioni internazionali in questo campo (così Yacoub, 1995; Fontaine, 1995; Rouland, sous la dir de, 1996 – per citare solo loro). Capitolo I Dialogo fra civiltà e Torri Gemelle 2001-2012 Se, nel novembre 2000, su proposta dell’allora presidente dell’Iran Mohammed Khatami l’Assemblea generale dell’ONU approvava all’unanimità la mozione sul Dialogo fra civiltà e culture, neanche un anno dopo, questa missione, affidata all’UNESCO per la sua implementazione, diventava gia quasi una vuota retorica, dato che Al Qaeda, l’11 settembre 2001, compie l’attacco terroristico contro le Torri Gemelle di Manhattan. Bin Laden è sospettato, e a ragione, di esserne il mandante, e George Bush scatena la “grande guerra” (addirittura, la “guerra contro il Male”, nelle sue parole) contro l’uomo e la sua organizzazione. Comincia così il nuovo decennio, che forma l’ultima parte del percorso storico della Teoria della democrazia globale, che si conclude con l’uccisione dello stesso Bin Laden, la notte fra l’uno e il due maggio 2011, ad opera dei soldati USA attivi in Pakistan. Questo decennio, che segue quello dell’istituzione delle macro-regioni mondiali, è ricco in termini di sviluppo delle Relazioni Internazionali. Entra in funzione una serie di accordi internazionali nel campo del commercio come della giustizia, dell’ambiente come degli armamenti, e ogni volta nuovi schieramenti si formano e nuove ambiguità si manifestano. Così, per esempio, gli USA, unica super-potenza rimasta sulla scena dopo la fine dell’URSS, appoggiano la World Trade Organization insieme a, già da prima dell’11 settembre, la militarizzazione del Pianeta, ma scoraggiano l’istituzione della Corte penale internazionale, snobbano le questioni dell’ambiente o del diritto al lavoro e, addirittura, non firmano la Convenzione internazionale che bandisce le armi batteriologiche (per la Corte penale internazionale, nata ufficialmente il primo luglio 2002, vedi Conesa, Lepick, 2002; per la perdita di democrazia nel mondo a seguito della reazione degli USA all’attacco alle Torri Gemelle, vedi Robin, 2002; per il summit sull’ambiente di Johannesburg del 26 agosto-4 settembre 2002, vedi Ramonet, 2002; per quanto riguarda i rischi di mortalità sul lavoro e le denunce dell’OIT, Organization Internationale du Travail –, 270 milioni di salariati sono vittime di incidenti sul lavoro ogni anno in tutto il mondo – vedi OIT, 2003 e Ramonet, 2003; per la Convenzione internazionale sulle armi batteriologiche, vedi Wright, 2001; nel maggio 2005, all’occorrenza della discussione del trattato di non proliferazione delle armi nucleari, gli USA non firmano: vedi Le Guelte, 2005). Questo quadro così sbilanciato, disarmonico e sbalestrato si irrobustisce durante il decennio nei suoi aspetti più negativi, fino all’arrivo della crisi finanziaria ed economica del 2007-2008. Da una parte, la guerra ruggisce nell’Africa sub-sahariana e nell’Asia centrale, ma gli accordi commerciali e agricoli internazionali, a tutto danno delle economie più povere, proseguono. Così, la WTO completa il suo ciclo istitutivo, dopo l’Uruguay Round – Seattle 1999, Doha, 2001, Cancun, 2003, e Hong Kong, 2005 con la partecipazione di 148 paesi (dossier in Le Monde diplomatique, Décembre 2005) – e, paradossalmente, si può vedere come, spesso, anche i paesi del Sud, impressionati dagli sperati benefici, partecipino all’essere messi sotto tutela da parte degli USA e dell’UE, che sono sì, concorrenti fra di loro, ma più spesso alleati (Cassen, 2003; sulle conseguenti politiche agricole, vedi Barthelot, 2003; sul prezzo del cotone africano, fonte di sostegno per una dozzina di paesi africani, in caduta libera, e la contestazione fatta da Benin e Brasile contro la WTO, che impedisce a questi paesi di difendersi, mentre agevolano le agricolture dei paesi del Nord, vedi Linard, 2003; sulla riforma agraria in Zimbabwe, fatta in maniera autoritaria, e le ambiguità della riforma in Sud Africa, dove la terra sta andando ai Bianchi perché la riforma è guidata “dal mercato”, vedi Braeckman, 2003). Dopo la Cina, anche l’India, l’altro grande gigante asiatico, il primo gennaio 2003, entra nella WTO – con grande preoccupazione dei suoi contadini (il direttore WTO Mike Moore finisce il suo mandato il 31 luglio 2002, mentre l’India si appresta ad entrarvi: Paringaux, 2002; sui nuovi rapporti che ne discendono fra India, Cina e WTO, vedi Spaventa, Monni, 2009). Altri tratti caratteristici del decennio sono la spasmodica ricerca delle fonti energetiche, petrolio e coltan soprattutto (Pomeranz, 2000; Gresh, 2005), il terrorismo (gli attacchi terroristici più forti sono quelli del 2005 a Madrid, Riyad, Casablanca, Sharm el Cheick e Londra: Ramonet, 2005), i traffici illegali di droga, armi ed esseri umani, gli oscuri accordi fra poteri economici e politici (da Berlusconi a Fabius: Halimi, 2002), e il riscaldamento e l’inquinamento globali (il settembre 2005, il settembre più caldo, viene considerato unanimemente come l’inizio del global warming, réchauffement mondial; il summit ONU di Copenhagen del 7-18 dicembre 2009, sul riscaldamento planetario, non porterà a grandi risultati: Petrella, 2009). Ci sono degli importanti tentativi di nuove alleanze internazionali e di resistenza alla globalizzazione, soprattutto in Sud America, dove si costituisce ALBA, Alternative Bolivarienne pour les Amériques, in seguito ad una riunione di capi di stato sudamericani tenutasi a L’Havana il 28 aprile 2005; inoltre, l’11 maggio 2005 si è tenuto il primo summit America del Sud-Lega Araba, manifestando la volontà di indipendenza del sub-continente americano e il rifiuto dell’unilateralismo imposto dagli USA (Lemoine, 2005; sul contrasto USA vs. Cuba, mediato dall’ONU, vedi Weinglass, 2005). Ancora, a Vienna il 12 maggio 2006, in occasione del summit fra UE, America Latina e Caraibi, Evo Morales, presidente della Bolivia, conferma la nazionalizzazione delle imprese (Cassen, 2006). Infine, nel dicembre 2010, il Brasile, l’Argentina, la Bolivia, la Guyana e l’Ecuador riconoscono lo stato palestinese secondo i confini del 1967, associandosi a Costa Rica, Cuba, Nicaragua e Venezuela, che avevano già fatto quest’importante passo diplomatico nel 1988 (Lemoine, 2011). Al di là dell’America Latina, un pronunciamento globale contro la povertà viene dal World Political Forum, fondato da Gorbaciov, nell’ottobre 2004, che propone di dichiarare la povertà semplicemente illegale, fuori legge (WPF, 2005; vedi anche Petrella, 2005). Emergono anche nuove, grandi rivalità internazionali, come quelle che si manifestano fra Cina e Giappone (Namihei, 2005). L’associazione delle imprese più ricche del mondo, il Club di Parigi, festeggia i suoi 50 anni nel 2006, insieme con l’aumento esponenziale del suo potere nel mondo (Millet, Toussaint, 2006). Solo ogni tanto si scoprono episodi di corruzione che, certamente, devono essere molti di più di quelli che la stampa riesce a portare all’opinione pubblica (come quello che porta alle dimissioni di Paul Wolfowitz dalla Banca Mondiale, maggio 2007, per nepotismo (Toussaint, Millet, 2007). Il credito che il Club di Parigi ha accumulato nei confronti dei paesi del Sud è arrivato a 2.500 miliardi quando scoppia la crisi finanziaria ed economica di fine decennio. Nella corsa agli armamenti si distinguono tutti i paesi sviluppati, dagli USA al Giappone, e i maggiori fra quelli in via di sviluppo, dalla Cina al Sud Africa (Guyonnet, 2006); ma, al tempo stesso, il PAM, Programma alimentare mondiale, dal 2007 al 2008, dimezza il suo budget, da 6 a 3 miliardi di dollari (Parmentier, 2009). La corsa agli armamenti ha varie motivazioni, dalla lotta al terrorismo a quella contro la droga, ma nessuna di esse è veramente trasparente, e spesso si ha l’impressione che tali allarmi siano generati a bella posta allo scopo proprio di promuovere l’industria bellica pesante; così, la Bolivia e il Perù rigettano l’ultimo rapporto dell’Organo internazionale di controllo dei stupefacenti, OICS, che aveva intimato loro di ridurre la produzione, fonte di reddito per la stragrande maggioranza degli Indios, piuttosto che controllare la trasformazione della coca in droga, “merce” beneamata soprattutto in Occidente (Levy, 2008), mentre l’India non si fa scrupolo di acquistare armi sofisticate da Israele (SaintMézard, 2010). Anche il business supera ostacoli di tipo religioso, ideologico o semplicemente culturale; così, nascono strane alleanze commerciali, come quella fra l’Iran e l’America Latina (Kozloff, 2010), o fra la Cina e l’Arabia Saudita (Gresh, 2011), mentre, tutto sommato più comprensibili appaiono essere quelle fra i paesi emergenti – India, Brasile e Africa del Sud: Danglin, 2011 – o fra India e Cina, la “Cindia” (Ramesh, 2005; Rampini, 2009; Jaffrelot, 2011), o fra India, Cina e Africa. La crisi finanziaria ed economica del 2007-2008 ha molte cause, anche se la rapacità dei banchieri sembra essere stata la causa scatenante. In realtà, la base della crisi va ricercata nel fatto che il sistema capitalistico ha avuto accesso ai fondi pubblici dei vari stati, i cosiddetti “fondi sovrani”, che diventano, così, fondi di investimento detenuti dalle banche centrali, in competizione con i più tradizionali soggetti e attori di questo sistema, e cioè, le multinazionali. Questo innesto reciproco fra capitalismo (anche nelle sue forme più virtuali, come quelle finanziarie) e fondi statali, rende tutto il sistema più fragile, volubile e incontrollabile, con grandi rischi non solo per i capitalisti, ma, letteralmente, per tutti i cittadini del mondo – così, anche la Cina deve preoccuparsi per la crisi negli USA per via della sua forte esposizione in dollari … (Warde, 2008), fino al punto di parlare di rischi di conflitti fra USA e Cina (Golub, 2011); si imballa anche il mercato mondiale dei cereali (Baillard, 2008). Questo decennio dalle tinte così contrastanti si chiude, non solo con l’uccisione di Bin Laden, ma anche con lo scoppio del doppio caso: di WikiLeaks – le notizie top secret divulgate dal giornalista Julien Assange nell’estate 2010 – e dell’ex-agente CIA Edward Snowden due anni dopo – si tratta della denuncia di controlli a senso unico dagli USA sugli alleati europei (Christensen, 2010; Stalder, 2011), e il disastro nucleare della centrale giapponese di Fukushima dell’11 marzo 2011 (causato dallo tsunami, con epicentro a 130 km al largo di Sendai), con tutto il corteo di interrogativi che esso ha posto, e pone, a proposito del tipo di modello di sviluppo che l’intera umanità sta privilegiando centrate sull’atomo (Harootunian, 2011). La corsa agli armamenti e la crisi finanziario-economica sembrano essere due feste per la parte ultra-ricca del mondo (il finanzcapitalismo, come lo chiama Luciano Gallino, 2011), ma sono anche due serissimi “passaggi irreversibili” della non- democratizzazione nel mondo ai giorni nostri. Le minacce all’ambiente e la crisi di fiducia fra leaders mondiali non possono che aggravare il quadro generale. La Teoria della democrazia globale, che si sta delineando in questi volumi, mi porta ad individuare nell’educazione internazionale democratica uno strumento per dare a tutti i cittadini cosmopoliti, oggi spogliati della loro intelligenza della situazione globale e della loro capacità di intervenire, almeno una conoscenza, una comprensione e una possibilità di dibattito di tutti i temi maggiori dell’attuale global agenda. Per inquadrare meglio l’ambito nel quale questa Teoria della democrazia globale viene ad inserirsi è necessario prima dare conto di due attuali correnti diverse, l’alter-mondializzazione e la riforma dell’ONU. Capitolo II La ricerca di soluzioni: le problematiche generali, l’alterglobalizzazione e la riforma dell’ONU L’attacco di Bin Laden e la risposta di Bush hanno messo il mondo in una prospettiva che, per certi versi, rassomiglia a quella della Guerra Fredda, con due poli opposti – da un lato, gli USA, dall’altro, il loro nuovo nemico, il fondamentalismo islamico – facendo al tempo stesso sembrare avverata la previsione dello “scontro fra civiltà” di Huntington (Roy, 2004; Rahbek, ed. 2006). In realtà, non solo si è finita di affossare la prospettiva gorbacioviana dell’interdipendenza planetaria, ma si è distrutta anche quella speranza di “dialogo fra civiltà” che stava timidamente comparendo all’inizio del nuovo secolo e millennio. Tuttavia, quel che non si poteva sconfiggere è il vero dialogo fra civiltà, quello che ogni giorno tutti i cittadini del mondo realizzano nella loro vita reale – nel mercato, nella scuola, negli ospedali, nella strada, nelle piazze. In questo capitolo seguiremo lo svolgimento della vita politica nel mondo fra aspirazione al dialogo e alla democrazia, da un lato, e “dura realtà” della guerra, dall’altro, lasciando alle prossime sezioni un’analisi più approfondita del movimento no global o alter-mondialista, che si è sviluppato in questo stesso decennio, e una panoramica delle proposte e idee relative alla riforma dell’ONU. Tra l’altro, tutti questi temi sono legati fra di loro: già alla fine dell’ultimo decennio del secolo scorso l’exdirettore dell’UNESCO Federico Mayor stendeva una trattazione del concetto di “cultura di pace” auspicando un cambio radicale nelle dinamiche internazionali che, ovviamente, dato l’inasprirsi della contrapposizione fra “Jihad e McWorld”, non c’è mai stato (Bindé, 1999; Barber, 2001 ed or 1995; Achcar, 2002). Anzi, l’inasprimento delle relazioni internazionali susseguente all’attacco alle Torri Gemelle sembra essere diventata la nuova linea direttrice delle politiche estere dei paesi occidentali più forti, come gli USA, il Regno Unito e la Francia, che preferiscono rinforzare gli eserciti dei paesi poveri, piuttosto che i loro stessi governi democraticamente eletti(Aguirre, 2001). Per quanto riguarda gli USA in particolare, Noam Chomski si dice convinto che adesso, con la scusa dell’11 settembre, la guerra diventerà tout court la politica estera degli USA (Chomski, 2001). Da questo punto di vista, il ruolo democratizzante delle grandi potenze occidentali, auspicato fin dall’indomani della fine della Guerra Fredda da autori come Francis Fukuyama, non sembra esserci stato: Fukuyama, come Huntington, parla adesso della necessità di “esportare la democrazia” a quei paesi che ancora non ne godono (Fukuyama, 2006). In realtà, se si dà uno sguardo globale al mondo dell’inizio decennio 2000-2010, al di là del più evidente attacco alle Torri Gemelle, quel che risulta chiaro è che, mentre nella parte più povera del Pianeta la povertà si inasprisce, nella parte più ricca le forze del capitale riescono a sconfiggere o a inglobare la resistenza degli stati che praticano politiche da Welfare State. Così, abbiamo, da una parte, il direttore della FAO Diouf che pressa per un’azione decisa da parte del Primo Mondo per vincere la fame (Diouf, 2002); dall’altra, economisti e sociologi come Paul Krugman e Ulrich Beck, che si chiedono che ruolo residuale, a difesa del Welfare anche minimo, possa ancora avere lo stato nella globalizzazione (Krugman, 2000; Beck, 1999). Mentre l’Europa sembra perdere la sua anima di Continente del diritto e della democrazia, affidandosi a politiche unicamente interessate alla creazione e protezione dell’euro, alcuni autori si preoccupano non solo del fatto che la democrazia odierna sembra non essere più capace di rappresentare il popolo, ma che anche a livello internazionale il connubio fra democrazia mondiale e diritto internazionale si stia perdendo (sull’ “euro scemo” vedi il dossier in Le Monde diplomatique, Novembre 2001; sulle preoccupazioni di scarsa rappresentatività della democrazia in Europa, segnatamente in Francia, vedi Anselme, Masliah, 2001; la rivista Transversales, secondo trimestre 2002, propone un dossier Refonder la démocratie, con interventi di Benasayag e altri; sulla debolezza del nesso fra democrazia cosmopolita e diritto internazionale, vedi Chemillier-Gendreau, 2002). Così, mentre negli stati occidentali democratici la minaccia del terrorismo serve come ragione paventata per approvare misure restrittive delle libertà e consentire un maggiore budget all’industria pesante e militare (misure che, ovviamente, gli stati già a carattere autoritario, se non dittatoriale, prendono come un esplicito invito a fare altrettanto, se non di più), in tutto il mondo la povertà continua a presentare indici altissimi, e finanche il lavoro minorile riappare (sulle misure restrittive delle libertà nei paesi occidentali democratici, vedi Ramonet, Janvier 2002, dove si spiega in questo modo perché il governo USA, impegnato al massimo nella giustificazione e promozione del Patriot Act di Bush, non sia d’accordo sull’istituzione della Corte internazionale penale; per quanto riguarda la povertà, vedi Destremau, Salama, 2002; sul lavoro minorile, incluso il nuovo fenomeno del bambino-soldato, vedi Ramonet, Juillet 2002). In linea con quanto accade negli USA, nel Regno Unito una legge del 2001 permette la detenzione illimitata; politiche restrittive vengono varate anche da Sarkozy nel febbraio 2003. Ovviamente, queste misure restrittive sono subito sposate e fatte proprie da quei regimi dove chi contesta si ritrova già iscritto nella lista dei terroristi – così in Colombia, Indonesia, Cina, Birmania, Uzbekistan, Pakistan, Turchia, Egitto, Giordania e Congo (Ramonet, Mars 2004). Il nodo fra globalizzazione e sviluppo, o povertà, viene al centro del dibattito economico e politico dell’inizio di questo nuovo decennio. Da una parte, lucidi analisti come Ha-Joon Chang notano come, da un lato, le potenze occidentali spingano verso il libero-scambismo, salvo poi ad alzare nuove barriere protezionistiche laddove vedano minacciate le proprie economie (Ha-Joon Chang, 2002 e 2003). Dall’altro, autorevoli economisti come Amartya Sen sembrano voler suggerire che, soprattutto nei paesi poveri, dove la povertà trova una giustificazione nelle limitazioni imposte dalle elite nazionalistiche a difesa dei propri esclusivi interessi tradizionali, proprio la globalizzazione si presenta come un’eccellente opportunità dati ai più poveri per sottrarsi ai vincoli dei servaggi tradizionali e nazionalisti, e adire la strada del proprio sviluppo (Sen, 2002 e 2005). Il lavoro di Sen ha una ricaduta pratica contemporanea nel lavoro parallelo dell’UNDP, che in questo decennio fornisce i suoi Rapporti annuali con focus sui seguenti argomenti (UNDP Rapporti): la qualità della democrazia (2002), le azioni politiche contro la povertà (2003), libertà culturale e diversità culturale (2004), cooperazione internazionale e aiuto (2005), superamento della scarsità (2006), cambiamento climatico (2007), superamento delle barriere e mobilità (2008-2009), la ricchezza delle nazioni e sviluppo umano (2010), lo sviluppo sostenibile e equo (20112012), lo sviluppo del Sud (2013). Nel decennio precedente, 1990-2000, avevamo visto avanzare le forze del capitale e arretrare quelle dello stato di diritto e del lavoro (Piketty, 2012). In modo problematico, i Rapporti sullo sviluppo umano dell’UNDP avevano riflesso questo sistema di tendenze. Anche l’affermarsi della prospettiva della globalizzazione, opposta a quella dell’interdipendenza e della solidarietà planetaria, non era altro, in fondo, che la stessa cosa. Lo svilupparsi del fenomeno dell’interculturalismo si dava come il fenomeno sociale più macroscopico derivante dall’insieme di queste tendenze maggiori. Ora, nel nuovo decennio 2001-2011, i fatti di guerra si presentano con maggiore violenza rispetto a prima, mentre gli episodi di genocidio compiuti precedentemente come quello del Ruanda e della Bosnia, vengono ora conosciuti con maggiore profondità (Semelin, 2002; per quanto riguarda le commissioni verità e riconciliazione, vedi Cassin, Cayla, Salazar, 2004). Come se l’umanità non fosse ancora paga di tutto questo, proprio nella prima metà del nuovo decennio i soldati USA e UK si macchiano di nuove aberrazioni: nella prigione cubana di Guantanamo, in Afghanistan, in Iran e altrove. Fatti come questi non saranno, purtroppo, isolati. In Israele/Palestina, dove la decisione del governo israeliano è quella di innalzare un muro di separazione, più simbolica che reale (comunque, ben reale), la ghettizzazione di un’intera popolazione, quella palestinese, sottomessa all’occupazione, diventa una politica sistematica, in quanto si associa alla colonizzazione israeliana dei territori palestinesi residui (Mardam-Bey, Sanbar, 2002, con interventi a favore dei rifugiati palestinesi di Said e Chomski) Dunque: sviluppo, globalizzazione, intercultura. Questi tre assi che ci hanno guidato nell’esposizione dei fatti storici e delle opere politiche del decennio 1990-2000 sono, quindi, ancora utili per orientarci nel decennio, mentre ial proclamato “dialogo fra civiltà” dell’ONU viene subito assassinato dall’attacco alle Torri Gemelle. In questa sezione vediamo più in particolare gli aspetti relativi alla filosofia politica. Per quanto riguarda la struttura del potere economico-finanziario e politico internazionale del grande capitale, gli osservatori hanno notato come l’effetto più evidente del prevalere della potenza statunitense, con tutto il corteo di “poteri opachi” che esso porta con sé, su tutto il resto del mondo si traduca nei fatti in un caos piuttosto che in un nuovo “ordine” quale che sia (Joxa, 2002; interventi critici sono raccolti anche in Cooper, 2002). Boiral, facendo focus sul Forum di Davos, l’appuntamento annuale del grande capitale internazionale, ne rintraccia la storia fin dal luglio 1973, quando David Rockfeller lanciò la “commissione trilaterale” intuendo che soltanto con un coordinamento globale, appunto, il grande capitale sarebbe potuto sopravvivere – e da quell’epoca il Forum di Davos, come anche l’altra struttura opaca parallela, il Club di Parigi, ha avuto vita (Boiral, 2003, nel 2003 ci partecipano Clinton, Bush, Kissinger, Soros, D’Estaing, Ernesto Zedillo, Madelein Albright, e dirigenti di multinazionali come la Exxon-Mobil, General Electric, Daimler-Chrysler, Levi Strauss, Kodak, Xerox, ABB, Johnson & Johnson. Per quanto riguarda il Club di Paris vedi Lawson, 2004). La Tricontinentale capitalistica, cioè, il Forum di Davos e il Club de Paris costituiscono due tra le più importanti strutture opache del potere del capitalismo internazionale. Grazie a queste strutture di coordinamento internazionale, effettivamente, i grandi soggetti del capitalismo sono capaci di organizzare le loro azioni in modo da condizionare sia i mercati, sia le politiche statali – di diversi stati, e indipendentemente dal colore politico del governo al momento in carica. La loro forza è tale da riuscire a influenzare le politiche industriali e monetarie degli stati, mettendo in concorrenza un proletariato di uno stato con quello di un altro stato, de localizzando i processi produttivi da un paese ad un altro, e indebolendo complessivamente il movimento sindacale e la controparte politica di classe, sia nazionale che internazionale (Pottier, 2003; sulle politiche monetarie dell’Europa, vedi Wachtel, 2003; sull’internazionalizzazione della finanza vedi Chesnais, sous la dir de, 2004, e Chalmin, sous la dir de, 2004; per una critica ai concetti-base dello sviluppo, vedi il volume Rifare lo sviluppo). Il rinforzamento del capitalismo mondiale ovviamente corrisponde ad un’ufficializzazione di tale internazionalizzazione; in altri termini, il grande capitale va a posizionarsi alle spalle delle Organizzazioni internazionali che costituiscono il sistema delle Nazioni Unite, a partire dalla Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio (Zacharie, Malvoisin, 2003; Zizek, 2005). Per contraccolpo, a questa super-forza del capitalismo corrisponde una super-debolezza della democrazia: gli stati, e non solo i partiti di sinistra o i sindacati, non sono più capaci di proteggere i lavoratori e i cittadini in genere rispetto alle politiche imposte dal finanz-capitalismo, come lo ha acutamente chiamato Gallino (Gallino, 2011). Il gioco parlamentare, il dibattito fra destra e sinistra, le politiche di protezione dell’ambiente, la stessa “libertà di stampa” e il dibattito pubblico – tutto questo sembra diventare una mera facciata rispetto ai veri movimenti che si sviluppano sotterraneamente (Gaxie, sous la dir de, 2003; Beauvois, 2005; Coutrot, 2005; Farrugia, 2005; Caillé, sous la dir de, 2006; Rosanvallon, 2006; Chataigner, Magro, sous la dir de, 2007). L’astensionismo alle elezioni nei paesi democratici, ovviamente, costituisce un problema importante per il concetto di rappresentatività della democrazia, e Garrigou, 2009 giustamente ne critica la minimizzazione. Al contrario, Testart, 2005 enfatizza il ruolo importante che possono giocare le nuove tecnologie informatiche per lo sviluppo della democrazia partecipativa (sulla crisi del sindacalismo, vedi Pernot, 2007, e Revelli, 2005 sui lavoratori del Salvador o Guatemala minacciati dalla delocalizzazione). Eric Toussaint, a proposito della Banca Mondiale, arriva a parlare di un’istituzione che persegue scientemente una politica prolungata di colpi di stato a danno di tutti quegli stati che sono classificati “disobbedienti” (Toussaint, 2006). Il fatto è che le politiche capitalistiche internazionali creano dipendenza dei paesi che sono già più deboli al momento della fine della Guerra Fredda o che, dopo di essa, lo sono diventati (come l’Europa dell’Est), o hanno accelerato il loro processo di indebolimento (come l’America Latina, gran parte dell’Asia e l’intera Africa). Nei fatti, un gran numero di paesi diventano “clienti”, obbligati ad esserlo, della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale proprio a partire dalla fine della guerra fredda, mentre il divario tra i più ricchi e i più poveri nel mondo, già cresciuto in maniera esponenziale dagli anni ‘60 al 1990, cresce ancora più rapidamente a partire dal 1990 (Millet, Toussaint, 2005; i due autori fanno abitualmente un commento critico sui rapporti di Global Development Governance della Banca Mondiale; Golub, 2005; Collovald, Gaiti, sous la dir de ANNO). La dipendenza finanziaria si crea con la dipendenza economica, industriale, agricola e commerciale – e proprio a questo si dedicano le organizzazioni internazionali con decisioni e politiche ad hoc (sui grandi progetti di gasdotti e oleodotti, vedi Kandiyoti, 2005; sulla dipendenza e il “bisogno” di energia, vedi Agenzia internazionale dell’energia, 2005; sul dipendenza dal petrolio, vedi De Lestrange, Paillard, Zelenko, 2005 e Chaliand, Jafalian, sous la dir de, 2005; sulla dipendenza dalle armi, vedi Hébert, 2006). In questo contesto, la non-protezione dei lavoratori fa tutt’uno con la non-protezione dell’ambiente, dato che certamente la “legge del profitto” non ha alcun interesse in essa, anzi, ha paura degli “ostacoli” che uno stato può eventualmente erigere emettendo una legge ad hoc (sull’inquinamento “invisibile”, vedi Larbi Bouguerra, 1997 e Nouzille, 2005; sulle bugie della mondializzazione sull’ambiente, vedi Darcanges, 2002; sulla de-forestazione vedi Smouts, 2001; sull’amianto, vedi Herman, 2002; sui brevetti imposti alle sementi da parte dell’OMC e dunque sull’aumento del rischio di impoverimento dei contadini di tutto il mondo, vedi Berthelot, 2001; sul protocollo di Kyoto, vedi Bernier, 2007; sulle energie rinnovabili, in Francia come altrove, e la competizione con gli altri tipi di energia, vedi Orozco-Souel, Delatte, 2010). Talmente è forte il finanzcapitalismo in questo decennio che alcuni osservatori hanno addirittura commentato che esso sarebbe sul punto di auto-distruggersi – effettivamente, una prospettiva che è sembrata avverarsi nella seconda metà del decennio con la crisi internazionale iniziata nel 2007 (Artus, Virard, 2005, dove si parla dei nuovi “prodotti” finanziari e del loro pericolo; Kolko, 2006; Tenembaum, 2006). A questo punto, le analisi sull’evoluzione del capitalismo si diversificano: Amin, 2006, sviluppando il paradigma del centro-periferia, ha puntato al nuovo concetto di “mondo multipolare”; Marès, 2007 ha fatto focus sulle politiche estere delle nuove democrazie popolari; Laval, 2007 ha rintracciato in maniera critica le radici del neo-liberalismo. E, mentre l’analisi sulle contraddizioni della democrazia nell’era della globalizzazione si è fatta più stringente, insieme ad una critica delle categorie di base dell’economia, si è cominciata a diffondere l’impressione che proprio la globalizzazione sia diventata una nuova cornice all’interno della quale rivisitare i vecchi concetti filosofico-politici ed economici, a partire proprio da ‘democrazia’ (sull’analisi della democrazia oggi: Sharanski, 2004; Tilly, 2007; Dworkin, 2004; Braconnier, Dormagen, 2007; Chomski, 2007; Todd, 2008; Amin, 2008; sulla critica dell’economia, vedi Sapir, 2006; sulla globalizzazione come nuova cornice, vedi Courbage, Todd, 2008 e l’opera di Zygmut Bauman estensivamente). Non c’è dubbio che la crisi economica internazionale iniziata nel 2007 abbia acuito questa impressione. Perfino l’aiuto internazionale, un argomento ed un canale che, con l’UNICEF e altre agenzie non-governative era stato sempre considerato finora come alquanto pacifico e benemerito (se si fa eccezione dall’importante denuncia di Hancok del 1989, I signori dell’aiuto, sulla corruzione anche in questo settore), viene ora visto con occhi politicamente critici. Così, alcuni ricercatori si sono cimentati in una ricostruzione storica del settore, mostrandone gli aspetti meno edificanti (Ryfman, 2008; Troubé, 2009; Vienot, 2010). Qualcuno, come l’economista africana Moyo, si è spinto fino a richiederne espressamente l’abolizione, poiché ricettacolo in buona o in malafede, di un business insospettabile e, in realtà, perfino dannoso a chi dovrebbe aiutare (Moyo, 2009). La crisi finanziario-economica iniziata nel 2007 ha accentuato tutti questi aspetti critici delle situazioni sia internazionali, sia nazionali. Così, alcuni osservatori internazionali, come l’ex-ministro dell’Economia del Venezuela Moises Naim ha dedicato un volume agli aspetti economici negativi della globalizzazione, mentre altri si sono dedicati al risorgente fenomeno del populismo, in voga, che minimizzano gli effetti della crisi (quasi un contro-altare rispetto a Sen. Vedi anche Dardot, Laval, 2009; Badie, Vidal, 2009; sul populismo, vedi, oltre a Laclau e Zizek, Frank, 2008; sulle politiche ultraliberiste raccomandate come rimedio, vedi Kunanayakam, 2007; Daviron, 2007; Boniface, Védrine, 2008; Bihr, Pfefferkorn, 2008; Klein, 2008; Cordonnier, 2009 sulle illusioni dell’imminente “ripresa economica”; Laurent, 2009 sul ruolo delle banche; Brender, Pisani, 2009 sui crescenti squilibri internazionali; Aglietta, Rigot, 2009 sul ruolo “creativo” della crisi a vantaggio della finanza; Lordon, 2009 e Orléan, 2009 sull’analisi della crisi in alcuni casi nazionali; Bulard, Dion, 2009 e Malet, 2009 sulla crisi in generale come esito dell’“occidentalizzazione” del mondo; Langouet, 2011; Fassin, 2012 sulla precarizzazione della democrazia; Bourguignon, 2012). Argomenti che, così, occupano la scena del dibattito politico nella seconda metà del decennio sotto esame diventano la crisi della sinistra, incapace di reagire a largo spettro alla situazione della globalizzazione capitalistica (e, insieme a questo, il nuovo significato di stato, più o meno Welfare e più o meno “performante”, nonché sulla politica fiscale), il salvataggio delle banche e borse, argomento quanto mai controverso, sia per il suo inquadramento teorico e politico, sia per la sua praticabilità in se stesso (a questo va associato l’argomento dei paradisi fiscali); la sicurezza nazionale ed internazionale e l’uso dei droni; lo sviluppo internazionale delle mafie (sulla grande crisi della sinistra, vedi il dossier Où est passée la gauche? 1997-2007. Mouvements des idées et des luttes, su Le Monde diplomatique di Juin-Aout 2007. Sulla proposta della « terza via » di Giddens, vedi Giddens, ed., 2003. Quindi, Bricmont, 2007; Débray, 2007; Michalet, 2007, Duménil, Bidet, 2007; George, 2007; sullo stato, vedi Clarke, Newman, 1997; Saint-Martin, 2000; Bonelli, Pelletier, 2009; Sapir, 2008; Cordonnier, 2008. Sulle politiche fiscali, vedi Le Duigou, 1995 e 2011; Landais, Piketty, Saez, 2011. Sul salvataggio delle banche, vedi Lebaron, 2006; Lordon, 2008; Bulard, 2008; sul costo di questo salvataggio, stimato in 11.400 miliardi di dollari dall’OECD, vedi Lordon, 2010; Atkinson, Piketty, eds., 2010; George, 2010; Herrera, 2010. Sui paradisi fiscali, vedi Cyran, 2008. Sulla sicurezza e i droni, vedi Checola, Pflimlin, 2009. Sullo sviluppo internazionale della mafia, vedi De Saint Victor, 2008). Va da sé che, in una situazione internazionale come questa, le preoccupazioni più forti si concentrano sul diritto internazionale, con la speranza che, se non il diritto nazionale, almeno quello internazionale sia più forte, e faccia valere i diritti dei più deboli (Chemillier-Gendreau, 2007; Felous, 2010). Si impongono all’attenzione anche i temi identitari, dall’islam ai popoli indigeni, e della protezione dell’ambiente (nuovo il tema del gas di sciste). In particolare, la questione dei popoli nativi in America Latina assume una particolar rilevanza, poiché si sposano con quelli dello sviluppo economico sia della macro-regione, sia dell’umanità in generale, intesa come “fratellanza” (Del Percio, 2006, 2009 e 2015; Tanaka, ed. 2009; Pinet, sous la dir de, 2013; Salama, 2012; Mouttet, Pacorel, 2013; Vulliamy, 2013). Tuttavia, i temi che rimangono dominanti fino alla fine del decennio 2001-2011 sono quelli dei nuovi equilibri e squilibri internazionali (Garcin, 2009; Corm, 2010; Bellon, 2010), del super-potere del finanzcapitalismo, banche in testa (Lallau, 2011; Guilbert, 2011), e delle disfunzioni di riflesso che provocano nell’organizzazione dello stato-nazione (dal principio della divisione dei poteri alla lotta alla corruzione. Per quanto riguarda il primo punto, vedi Duménil, Lévy, 2010; Lemarie, 2010; Magnin, 2011, Fau-Vincenti, 2010; Kempf, 2011; Bogdanor, 2011. Per quanto riguarda il secondo, vedi Alt, 1997 e 2010). Tentativi di ricostruzione di una forza-lavoro autoorganizzata si registrano qui e lì (Collectif, 2010), anche se la lotta rimane impari – considerando sia la forza del capitalismo internazionale, sia i guasti sociali che da esso vengono creati in tutto il mondo, dall’incremento della povertà alle bidonville (DelmasMarty, Fouchard, Fronza, Neyret, 2009; Wallraff, 2010. Sulle bidonville, vedi Golub, 2010). Gli attacchi ideologici dei capitalisti contro gli operai e i giovani “che non vogliono lavorare” vengono smascherati, così come viene smascherata l’ideologia del “credito” acquisito dai grandi gruppi bancari nei confronti di stati che tentano di promuovere politiche di difesa dei beni comuni (su Democracy Now negli USA, vedi Follett, Boothe, 2008; Quiniou, 2010 e Juillet 2010; Chesnais, 2011; Graeber, 2011). Non stupisce, dunque, vedere il decennio terminare con nuovi richiami al concetto di impero e di imperialismo. Fra i tentativi più sistematici e prolungati di combattere la globalizzazione capitalistica e i suoi disastrosi effetti sociali, politici ed economici, un posto particolare spetta al movimento dell’Alter-globalizzazione, nato col primo summit, denominato World Social Forum, in ottobre 2001 a Porto Alegre, Brasile. I successivi meetings globali si sono tenuti in Africa, in Asia e in Europa in successive edizioni, raccogliendo movimenti alternativi e no-global e con grande successo di pubblico (Ramonet, 2001 e 2006). Uno dei concetti-base di questo movimento, teso a ridare potere al cittadino e al popolo è il “bilancio partecipativo”. Eccone la definizione data da Ramonet: “La possibilité pour les habitants des différents quartiers de définir très concrètement et très démocratiquement l’affectation des fonds municipaux. C’est-à-dire décider quel type d’infrastructure ils souhaitent créer ou améliorer, et la possibilité de suivre à la trace l’évolution des travaux et le parcours des engagements financiers. Aucun détournement de fonds, aucun abus n’est ainsi possible, et les investissements correspondent exactement aux souhaits majoritaires de la population des quartiers” (Ramonet, 2001). In effetti, questo movimento socio-politico, almeno in Brasile, si è potuto rinforzare sotto la presidenza di Lula (Surian, 2001; Aguiton, 2001; Ponniah, Fisher, 2003; Cassen, 2003; Wolton, 2003; Houtart, 2003; Nikonoff, 2004; Bellon, 2005; Amin, 2006; Amin, Houtart, 2006; Amin, 2007; Lévy, 2007; Pampanini, 2007; Anderson, 2008; Polet, 2008; Jeantet, 2008; Brustier, 2008; Faligot, 2013). In generale, la galassia teorica critica di Porto Alegre è vicina ad autori della decrescita, come Serge Latouche (Latouche, 2005 e 2007) e Majid Rahnema (Rahnema, 2005), della teoria centro-periferia, come Samir Amin e Immanuel Wallerstein, e che si estende anche a autori diversi fra di loro come Ivan Illich, (Wallerstein, 2007), e della sociologia critica, come Boaventura de Sousa Santos (che ha creato un’equipe di ricerca internazionale, ponendosi sulla scia dell’antropologia economica di Carl Polanyi, e tentando di dimostrare come il mercato capitalistico sia solamente una fra le possibili alternative di uso del mercato, e certamente non quello più razionale, se razionale deve significare il più utile per tutti: De Sousa, 2002 e 2003), e pensatori critici di vario orientamento, come Ernesto Laclau, Slavoj Zizek, Antonio Negri, Michael Hardt (Amaral, coord., 2003; Keucheyan, 2010). L’idea che accomuna tutti questi autori è che proprio la crescita economica, men che essere la soluzione alla povertà, ne è la causa principale, e questo per almeno tre buoni motivi: 1. vengono create apposta dei bisogni artificiali in tutta la popolazione, sicché il potere “democratico” è sostanzialmente deviato nel suo potere di controllo dell’economia per evitare illeciti arricchimenti e la frammentazione della società; 2. la globalizzazione non dovrebbe surclassare il potere democratico nazionale, come invece troppo spesso accade; e 3. infine, la ricchezza spirituale dovrebbe essere un valore da mettere in conto per non restare impoveriti in un’ottica economicistica deformante e corruttiva del valore della vita umana (così, per esempio, argomenta Rahnema, 2005 in un’ottica che si avvicina a quella di Polanyi, recupera la vecchia idea della autosufficienza di Gandhi; vedi anche Harribey, 2013). Rispetto al punto 1., ovviamente, le critiche sono andate aumentando con lo scorrere del decennio, soprattutto quando, da dopo il 2008, si è manifestata la crisi finanziaria globale. Con essa diverse forme di corruzione si sono rese palesi e lo stato non è attrezzato a combattere, più o meno con sua convenienza (Halimi, 2009). La mafia ha esteso il suo modo di funzionare a livello globale, entrando in collaborazione, paradossalmente, spesso con l’economia pulita (de Saint Victor, 2012; Koutouzis, Perez, 2012). L’argomento delle imposte, pagate dai cittadini e utilizzate dal potere centrale in modi poco condivisibili, è diventato un altro argomento centrale in questo contesto (Bertrand, Lyon, 2013). Associato a questo argomento dobbiamo collocare l’altro, relativo al costo del lavoro, considerato, ovviamente, sempre eccessivo dalla parte padronale, mentre quello del capitale viene spesso trascurato, per non parlare dei costi dei servizi pubblici (Cordonnier, 2013; Ogien, 2013). Per concludere, sulla scorta di studi economici sul rapporto fra capitalismo e democrazia, alcuni studiosi hanno parlato, semplicemente, di “capitalismo sbagliato” (Fitoussi, 2013; Mitchell, 2013). Per quanto riguarda il punto 2. è stato notato come la globalizzazione abbia seriamente minacciato alla base gli antichi stati-nazioni, senza per questo rimpiazzarli con una soluzione accettabile (Bihr, 2000). Rispetto al punto 3. alcuni autori si sono augurati che le visioni globali alternative a quella economicistica, promossa soprattutto dagli USA, possa essere espressa anche da diversi punti di vista culturali (per esempio, Hicham Ben Abdallah El Alaoui, 2003, spera in una visione araba dell’economia mondiale alternativa. Esiste un sito, Muslim for Secular Democracy www.mfsd.org). Alcune critiche sono state più specifiche, per esempio, su come il populismo abbia curvato e deformato la democrazia (Dorna, 2003); o su come l’integralismo abbia talvolta prevalso sullo spirito laico della democrazia (Fourest, Venner, 2003); o sull’uso distorto degli “aiuti internazionali” (Sogge, 2003); o sull’assurdo sviluppo dell’industria militare (Singer, 2003); o sull’uso condiviso dell’energia del Pianeta (Chomski, 2004; Dessus, 2004; Garcin, 2013). Non mancano, ovviamente, ombre sul movimento utopico dell’alter-mondializzazione, dovute in parte anche a protagonismi e opportunismi dei suoi vari attori. Per esempio, da subito Serge Halimi ha espresso la paura che il nuovo capitalismo voglia irretire il nuovo movimento di Porto Alegre, mettendo in evidenza i legami quasi-nascosti che l’evento di Porto Alegre ha avuto con la contro-parte padronale (perfino l’FMI ha sponsorizzato, con la Fondation Ford, con 100.000 dollari, l’incontro di Porto Alegre; molte tv sono state invitate per creare l’evento mediatico; il Commissario europeo al commercio, il socialista Pascal Lamy, è stato invitato all’Université d’été di Attac per conoscere la “società civile” … un aiuto è stato offerto perfino da Bill Gates con la sua fondazione privata, per lottare contro l’AIDS, unendosi al coro retorico di tutti i grandi patroni che si dichiarano sensibili, a parole, alle grandi cause umanitarie (Halimi, 2001). Al di là della kermesse, l’utopia alter-mondialista è stata l’occasione per esprimere opinioni diverse e muovere critiche trasversali (come, per esempio, quelle di Atilio Boron contro Chantal Mouffe e Giacomo Marramao, la prima in particolare, per aver recuperato, nel suo saggio critico su Carl Schmitt, il noto pensatore vicino al nazismo come se lo si potesse usare in qualche modo per le cause della sinistra: Boron, Gonzalez, 2003, p. 137; o come il caso di Michel Camdessus, passato dalla direzione del FMI al Vaticano come consulente: Jennar, 2004). Non sono mancate anche denunce e disillusioni, come quella di Saramago, che in un suo saggio del 2004 riprende in prestito il famoso detto del Gattopardo – Il faut tout changer pour que rien ne change (Saramago, 2004). Tantativi più mirati di trovare soluzioni ai guasti della globalizzazione capitalistica sfrenata sono andati a riguardare la possibilità di iniziare dalla riforma dell’ONU. In effetti, in questo campo, fin dall’immediato post-Guerra Fredda, l’ONU ha rinnovato e rinforzato il suo ruolo politico internazionale in diversi campi molto importanti dell’agenda globale – dai programmi sullo sviluppo (UNDP, 1990), l’educazione (UNESCO, 1990), la salute (WHO, 1990), il “lavoro decente” (ILO, 1990), fino all’Agenda per la pace di Boutros-Boutros Ghali (Boutros-Ghali, 1994) e alle Conferenze sull’ambiente (Rio, 1993), lo sviluppo sociale (Copenhagen, 1995) e la questione della donna (Cairo, 1995). Tuttavia, a causa dell’enorme complessità dell’agenda globale, molti osservatori hanno espresso perplessità sull’adeguatezza dell’ONU e sulle effettive possibilità di una sua riforma (Bertrand, 1994; Deldique, 1994). Tali perplessità sono state manifestate in tante sedi già nel primo decennio del dopo-Guerra Fredda e sono state estese anche alle Organizzazioni internazionali che fanno parte del sistema dell’ONU (Ferrié, 1994; Gerbet, Ghebali, Mouton, 1996; Aguirre, 1996; Chemillier-Gendreau, 1996). Così, malgrado un certo ottimismo presente in alcuni autori che hanno cominciato, timidamente, a parlare di Cosmopolitan Democracy (Archibugi, Held, 1995), la maggior parte di coloro che si sono occupati dell’argomento della riforma dell’ONU si sono espressi in modo scettico e fortemente problematico, soprattutto nel secondo decennio post-Guerra Fredda, quello che ha fatto seguito all’attacco alle Torri Gemelle 2001-2011 (Conesa, 2001; Chemillier-Gendreau, 2002; Cooper, 2002; Ferro, 2003; Delmas-Marty, 2003; Bensaid, 2003; Ziegler, 2005; Power, 2005; Corten, 2005; George, 2007; Abélès, 2011; Maurel, 2010 e 2013). In quest’ultimo decennio, tuttavia, non sono mancate anche proposte positive e costruttive, che hanno seguito l’ottimistica approvazione (il 23 settembre 2000) dei Millennium Development Goals da parte dell’Assemblea generale dell’ONU. Per esempio, una, importante, è giunta da Serge Hessel, relativamente all’istituzione di un Consiglio di sicurezza economico e sociale per affrontare in modo specifico le problematiche della povertà globale (Hessel, 2003); un’altra da Essy, presidente ad interim della Commissione dell’UA, consistente nel fare dell’ONU un partner dell’Africa (Essy, 2003, a cui bisogna aggiungere Lecoutre, 2005); altre proposte ancora sono giunte da Ruiz-Diaz (sull’ONU come “cassa di risonanza” delle richieste della parte più povera del mondo: Ruiz-Diaz, 2005); da Chemillier-Gendreau per una migliore difesa della giustizia sociale internazionale (Chemillier-Gendreau, 2005; Collectif, 2005); e da Barber e Kennedy per una maggiore difesa della democrazia: Barber, 2003; Kennedy, 2007) – per non citare che questi autori soltanto. Naturalmente, è stato considerato il possibile ruolo dell’ONU relativamente ai problemi più sensibili come la povertà e l’ingiustizia internazionale (Mestrum, 2002; importante, da questo punto di vista, l’iniziativa del World Political Forum nella sua sessione del 2005, diretto dall’ex-leader sovietico Gorbaciov, di mettere fuori legge la povertà), e dunque nell’alleviare la tensione fra democrazia e capitalismo (Coutrot, 2005 – anche se va ricordato il successo dell’ONU a Timor Leste, diventata una democrazia nel 2005), insieme alle politiche internazionali di sviluppo e il rispetto dell’ambiente (Collier, 2012; ed or 2010). Un problema specifico per l’ONU, naturalmente, riguarda la retorica dei “valori universali” e le loro diverse interpretazioni macro-regionali (ElAlaoui, 2005; Texier, 2006; Jullien, 2008; Massiah: www.cadtm.org/article.php?id_article=1187 ). Tenendo in considerazione la problematicità dell’argomento evidenziata dai contributi adesso citati, in questa tesi avanzo la convinzione che la riforma dell’ONU guadagnerebbe in coerenza se fosse inserita all’interno della Teoria della democrazia globale, che sarà esposta compiutamente nella prossima e ultima Parte. La ricerca sviluppata fino a questo punto, infatti, ci fa comprendere che la globalizzazione di tutta l’agenda dei problemi dell’umanità si estende anche alla democrazia in quanto tale. I precedenti volumi di questa Teoria della democrazia globale hanno messo in luce il carattere etnico che finora la democrazia ha avuto in tutti i suoi esperimenti (peraltro, non riusciti), che hanno avuto invariabilmente un carattere occidentale. Da questo punto di vista avanzo l’idea che una democrazia non-etnica, ma veramente globale, debba basarsi su quattro principi fondamentali: 1. non c’è democrazia se non a livello globale; 2. la democrazia globale deve coincidere con il dialogo fra civiltà; e 3. la democrazia globale si nutre di educazione internazionale, e 4. bisogna assolutamente riformare l’ONU in senso democratico. Questi quattro principi indicano la sede dell’ONU come il luogo della diplomazia democratica internazionale par excellance, dove ciascuna macro-regione e ciascuna civiltà dovrebbe essere messa nelle condizione di comprendere e spiegare alle altre, proprio come in un processo educativo internazionale, il proprio punto di vista rispetto ai maggiori problemi dell’umanità (Pampanini, 2012a). Considerato che l’ambiente internazionale post-Guerra Fredda non è più quello anarchico dell’età degli imperialismi o della Guerra Fredda, in cui ciascun stato-nazione doveva procacciarsi le risorse per sopravvivere gareggiando contro gli altri stati-nazione, ma è un ambiente in cui le informazioni corrono velocissime da una zona all’altra dal mondo, e i problemi di un’area si ripercuotono in brevissimo tempo in un’area lontanissima; e considerato, inoltre, che tutte le società in tutto il mondo si sono mescolate in misura notevole (Pampanini, 2010), allora, non può più valere la conclusione della scuola del realismo, e cioè, che non importa quale sia il governo in carica in uno stato, la politica estera deve essere sempre di tipo aggressivo – neanche nella versione stemperata di Angelo Panebianco dei “guerrieri democratici” (Panebianco, 1997). Una democrazia globale non può fare a meno di “cittadini globali” ,informati e capaci di prendere posizione critica sui maggiori problemi dell’umanità: da qui la necessità che il sistema educativo di ciascun paese del mondo implementi un diritto all’educazione internazionale democratica – e questo deve essere inteso come un dovere normativo discendente da un obbligo politico, così come viene previsto nella Teoria della democrazia globale, garantito dall’ONU. Da questo punto di vista, la Teoria della democrazia globale capovolge la conclusione del realismo, in questo modo: Non importa quale sia il governo in carica, l’ONU e le macro-regioni devono regolare le relazioni internazionali in modo democratico, assicurando la pace perpetua kantiana. Conclusioni Parte V: Las conclusiones de esta parte son: - “exportar la democracia” (como afirma Francis Fukuyama) - versión actualizada de la “carga del hombre blanco” - es la prueba más evidente de mi tesis sobre la internacionalización de la democracia étnica; - la consideracion nueva de la idea del bien común universal preconizado por el derecho internacional (Monique Chemillier-Gendreau); - continua la agenda de la globalización y, al mismo tiempo, también pasa la de la Alter-globalización; - el poder del capitalismo se enrosca sobre sí mismo (corrupción nacional e internacional, el espionaje entre los jefes de Estado “aliados”, las amenazas a Irán por los EE.UU., China, Rusia, conexiónes subterráneas internacionales entre ellos para la explotación de los recursos energéticos, las políticas despiadadas de seguridad – el MUOS, Mobile User Objective System, etc.); - frente a los crecientes desequilibrios globales fortalece el debate sobre la reforma de las Naciones Unidas; - Gorbachov y el World Political Forum de 2004: El hambre está fuera de la ley; - Luigi Ferrajoli, a traves del derecho, trata de bloquear positivamente los alcances de la democracia; - importancia de la propuesta de Marzouki 2011, ahora Presidente de Túnez, para establecer la Corte Constitucional Internacional, lo que obligará a los países a cumplir con su palabra; - importancia del trabajo de investigacion sobre las políticas educativas hecho por las democracias de Katerian Tomacevski con su Grupo Right to Education Project y la Oficina de Nacciones Unidas para el Derecho a la educacion, de 1999 hasta 2004; - el autor de esta tesis avanca la propuesta de Iluminismo pedagogíco (Pampanini, 2008), con, primero, la Interculturalidad, la Inteligencia intercultural y, finalmente, el “diálogo entre civilizaciones” como la herramienta para la superación de la democracia étnica internacional y de la concepción de la educación de Sen-Nussbaum como parte de la capacitación sólo: la educación debe conectarse a la globalización de la democracia claramente no étnica (Pampanini, 2013). La trayectoria histórica-teórica, al final, pone en claro que: 1. hoy la democracia no puede ser un sistema político de gobierno de una sola nación o grupo de naciones, pero debe ser un sistema de gestión de las relaciones entre las naciones del mundo; 2. la democracia en el sistema de control de poder - legislativo, ejecutivo y judicial debe ampliarse para incluir los ámbitos de la economía, de las finanzas y de la información, el riesgo es la distorsión de la vida democrática misma; 3. la educación pluralista hoy tiene más importancia que en el pasado; 4. fundamentalmente, la tarea de la educación democrática de hoy se convierte en el derecho del público a la comprensión de los principales problemas nacionales e internacionales, incluyendo el derecho a debatir todas las ideas y las posibles soluciones a ellos, en el marco de la contratación directa de responsabilidad por las acciones de cada ser humano contra otros seres humanos, tanto a nivel nacional e internacional (“Teoría Política de la Institución Educativa”: Pampanini, 2006); 5. La “Teoría de la democracia mundial” debe, por tanto, indicar claramente el compromiso internacional (es decir, de las Naciones Unidas) para la democratización de las Relaciones Internacionales. Ecco i principi della Teoria della democrazia globale con dei punti chiari: 1. la democrazia non si ha in un paese solo – si ha, cioè, se vige fra tutti i paesi del mondo; 2. la dimensione economica deve essere contemplata nella teoria del controllo del potere da parte della democrazia – dunque, questa dimensione deve essere aggiunta alle già contemplate dimensioni del legislativo, esecutivo e giudiziario; 3. l’educazione alla democrazia, nel suo essere di carattere internazionale, deve basarsi sul dialogo fra civiltà; 4. fondamentalmente, tale educazione democratica si converte nel dovere da parte di tutti i sistemi educativi di informare e far comprendere i maggiori problemi dell’umanità, di far dibattere e di far prendere posizione rispetto ad essi a tutti i cittadini; 5. l’ONU deve essere trasformata in modo da funzionare come un ente, riconosciuto da tutti gli stati, che regola le Relazioni Internazionali, secondo questo principio: non importa quale sia il sistema politico vigente all’interno di ciascuno stato, ciascuno stato si deve impegnare a rispettare il limite della porzione di risorse energetiche disponibili del pianeta indicato dall’ONU, sulla base di studi scientifici attendibili e condivisi dalla comunità scientifica internazionale. 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