Il ruolo delle tecnologie nel processo di riforma

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Il ruolo delle tecnologie nel processo di riforma
All’ombra delle tecnologie in fiore…
Tecnologie e disabilità
Brescia, settimana delle buone pratiche, 25 marzo 2015
Mario Maviglia, Dirigente UST Brescia
Apocalittici o integrati?
L’antica querelle tra apocalittici e integrati – introdotta da U. Eco nel 1964 - mantiene ancora
oggi una sua attualità, soprattutto se riferita al ruolo esercitato dalle tecnologie informatiche nella
vita di ognuno di noi e, segnatamente, in campo formativo. E’ vero che oggi i mezzi di
comunicazione di massa - ed in special modo quelli informatici - sono così pervasivamente presenti
nella nostra vita quotidiana che è difficile dichiararsi ‘apocalittici’ allo stato puro rispetto a questi
media, pena il ritrovarsi fuori dal mondo; però va anche rimarcato che proprio nella patria della
‘rivoluzione informatica’ (gli USA) qualcuno comincia a smorzare gli entusiasmi verso queste
tecnologie e ad esprimere più di un dubbio sull’utilità dei computer. Il più feroce di questi
‘detrattori’ è proprio uno dei pionieri di Internet, Clifford Stoll, che nel suo provocatorio libro,
Confessioni di un eretico high-tech, fa un’analisi impietosa delle nuove ignoranze veicolate dai
computer: “Mi preoccupa l’ingenua credulità nelle vuote promesse dei sacerdoti dell’informatica.
Mi intristisce la cieca fede in una tecnologia che, promette, si trasformerà in una cornucopia di beni
distribuiti gratuitamente alle persone (…). Sarebbe facile per me associarmi alla starnazzante folla
plaudente alla nuova frontiera elettronica. Ho a che fare con Internet più o meno dal 1975 e l’ho
aiutata a diventare un fenomeno planetario da quell’oscuro progetto di ricerca che era (…), ma
divento furioso quando vedo le nostre scuole lanciarsi volontariamente nell’ondata di piena della
tecnologia. Come pecore, folle di educatori si mettono in coda per poter riempire di cavi le proprie
scuole. Quando acquistano macchine elettroniche per i figlioli i genitori mettono mano alla carta di
credito con sorriso beato, immaginandoli già piccoli geni dell’informatica. Nel frattempo gli
insegnanti di lettere devono sopportare studenti semianalfabeti i quali, ansiosi di immergersi in
qualche videogioco, non sono in grado di scrivere due righe sensate."1
Si tratta sicuramente di una critica acuta e radicale, forse controcorrente rispetto alle generali
aspettative messianiche che gran parte della gente ripone nei mezzi informatici. Non
dimentichiamo, peraltro, che nel corso di questi anni sono stati realizzati poderosi investimenti per
introdurre il computer nelle scuole italiane (ma analoghi interventi erano già stati avviati in molti
altri Paesi europei) e l’alfabetizzazione informatica è stata finora una parola-chiave condivisa da
ministri dell’istruzione di diverso orientamento politico.
Eppure, tra la Scilla dell’innamoramento totale e inebriante verso le cosiddette nuove
tecnologie e la Cariddi del loro rifiuto assoluto e pregiudiziale, ci sembra che sia possibile una via
di mezzo che consenta di utilizzare al meglio questi media senza farsi utilizzare, di governarli senza
lasciarsi dominare, almeno in ambito professionale. Impresa quanto mai difficile, se non addirittura
impossibile, se è vero quanto afferma Galimberti che i media non sono un mezzo, ma un mondo che
influenza il modo stesso di pensare e di operare.
Per tornare all’ambito scolastico, ha ragione R. Simone, quando, commentando il libro di
Stoll, afferma che vanno mantenute due o tre cose difese da questo autore: “Una è che la scuola
deve preservare la collettività di persone umane che operano insieme, imparano insieme, giocano
insieme, parlano tra loro (e magari sono pure contente di quel che fanno). L’altra è che non si
conosce ancora un deposito di conoscenze che sia migliore di un libro. Infine l’idea che vada
preservato e arricchito il contatto con la realtà, non quella simulata, ma quella vera, quella ‘fisica’,
che richiede spirito di esplorazione e di scoperta, movimento, manipolazione.”2
1
2
C. Stoll (1999), Confessioni di un eretico high-tech, Garzanti, Milano, pp. 5-7
R. Simone, Postfazione a C. Stoll (1999), Confessioni di un eretico high-tech, Garzanti, Milano, p. 180
Meritano di essere riprese le perplessità espresse a questo proposito da Simone: “Possiamo
non accorgerci che la diffusione della conoscenza mediata dall’informatica è la più formidabile
barriera che si sia mai presentata nella storia verso il contatto con la realtà? Con un software
opportuno posso visitare Roma senza averci mai messo piede, navigare sotto l’oceano senza
bagnarmi e perfino fingere un gioco violento senza sgraffiarmi. E’ reale tutto questo? O è adatto
piuttosto a una situazione di emergenza e di penuria? A me pare che le tecnologie cognitive
informatizzate siano una drastica forma di de-realizzazione, una via per sostituire il ‘ non vero’ al
‘vero’, il ‘non reale’ (=virtuale) al ‘reale’, per simulare delle cose che non si possono o non si
vogliono fare. Il nostro fare si ridurrà solo a una seduta in cui si smanetta su una tastiera e si
occhieggia un monitor? Penso a questa eventualità con orrore, ma la vedo minacciosamente in
marcia verso di noi.”3
Forse occorre tenere presente queste preoccupazioni quando talvolta si sentono proclami
osannanti il valore taumaturgico della formazione a distanza (e dunque virtuale). E’ banale dirlo, ma
non tutto può essere acquisito in modo virtuale. I processi formativi si sviluppano anche e
soprattutto attraverso la relazione interpersonale e l’esperienza diretta. Questo passaggio non può
essere trascurato, anche se è forte la tentazione di vivere l’esperienza attraverso gli occhi della
tecnologia. “Rendendo vicino il lontano, presente l’assente e disponibile quello che altrimenti non
sarebbe disponibile, i media ci ‘esonerano’ dall’andare sul posto e fare esperienza diretta. Ciò
significa che i media non ci mettono in contatto con gli eventi, ma con l’esperienza che altri hanno
fatto degli eventi, quindi con la nostra esperienza indiretta.”4
Tecnologie e disabilità
Fatta questa premessa, chiediamoci quindi in che modo le tecnologie possono favore i
processi di inclusione.
Questa domanda non è banale in quanto se bastasse introdurre le tecnologie per avere una
migliore inclusione, allora basterebbe introdurre uno o più computer in ogni classe…
Si tratta, dunque, di considerare come vengono ‘trattati’ sul piano didattico questi strumenti
tecnologici e quale ruolo occupa il bambino disabile nella progettazione della scuola. Il fatto che i
bambini non mostrino imbarazzo nell’utilizzo del computer può far pensare che essi siano quasi
naturalmente portati ad acquisirne il linguaggio. Come afferma Stoll, “i bambini non hanno nessuna
difficoltà a imparare a usare il computer, non c’è alcun bisogno di familiarizzare con queste
macchine per evitare che più in là nella vita sviluppino una fobia. I computer possono mandare in
confusione gli adulti, ma non i bambini (…): Guardate i bambini in età prescolare giocare al
computer. Sembrano confermare gli esperimenti di Skinner; a cinque anni avanzano velocemente
tra astronavi nemiche abbattendo UFO minacciosi. Più o meno come i piccioni di Skinner,
addestrati ad agire in cambio di cibo (…). I bambini capiscono subito la logica che guida i
programmi. Sono bravi a comprendere il software.”5
Si può notare come da queste considerazioni emerga prepotentemente il ruolo del rapporto
educativo, ed in modo particolare la relazione che lega i due principali protagonisti dell’azione
educativa, l’alunno e l’adulto. Possiamo insomma dire che, almeno nel contesto scolastico, è
opportuno che l’ingegnere lasci il posto all’insegnante, perché – al di là della adeguatezza o meno
della strumentazione tecnologia – è l’insegnante che aiuta il bambino a sistematizzare le conoscenze
e a dare un senso a ciò che si fa a scuola. E soprattutto, è opportuno che in relazione alle
caratteristiche di ogni allievo disabile si dia ampio spazio all’esperienza personale e alla
manipolazione del mondo. Si potrà non condividere l’analisi impietosa che fa Stoll
dell’introduzione dell’informatica a scuola, e forse è fin troppo provocatoria la sua affermazione
3
R. Simone, op. cit.
U. Galimberti, op. cit., p. 633
5
C. Stoll, op. cit., pp. 55-56
4
che “i computer non hanno niente a che vedere con la scuola”; ma certo è difficile non dargli
ragione quando afferma che “i computer non sono compatibili con la vita piena di plastilina, sporco
e patacche di marmellata di un bambino di cinque anni. I bambini non devono spargere sabbia sulle
tastiere o macchiare di Nutella il monitor. Ho incontrato un’insegnante di scuola media che ha
eliminato i magneti dall’aula perché temeva che potessero cancellare i floppy disk. Ora gli studenti
studiano il magnetismo grazie a qualche software multimediale.” 6
Se l’introduzione delle nuove tecnologie nella scuola dovesse trasformare la didattica in una
fruizione meramente virtuale della realtà, credo che la qualità dell’offerta educativa espressa dalla
scuola dell’infanzia nel corso di questi anni sarebbe destinata ad una drastica e preoccupante
diminuzione.
Bottino e Chiappini individuano a questo proposito alcuni criteri per un’efficace utilizzo delle
tecnologie nella formazione dei docenti:
“ * aggiornamento basato sulla sperimentazione in aula, dove all’insegnante non vengano solo
trasmesse delle conoscenze, ma anche gli sia fornito un aiuto nella programmazione del lavoro e
nella messa a punto di un itinerario didattico;
* necessità di favorire lo scambio di opinioni, problemi, esperienze, ecc., con chi attua
l’intervento formativo e con altri colleghi impegnati nella stessa attività;
* offerta di assistenza agli insegnanti finalizzata a orientarli nella sperimentazione in classe e
a favorire il processo di rielaborazione sulle esperienze condotte. Le forme di assistenza sono
molteplici (modellazione, gestione della contingenza, dare feedback, offrire informazioni, porre
domande, delineare una struttura cognitiva). L’attività di formazione dovrebbe essere progettata in
modo tale da poter mettere in atto tali forme di assistenza.”7
In altre parole, si tratta – come opportunamente sottolineano i docenti del 3° Circolo di
Sanremo – di utilizzare a pieno le potenzialità delle nuove tecnologie per favorire lo scambio e
l’apprendimento cooperativo. La rete consente dunque di istituire una sorta di comunità di pratiche
all’interno della quale sia possibile raccontarsi, ritrovarsi, confrontarsi, scambiarsi informazioni e
trovare proposte operative o riflessive. Come nota Cesareni, “sia in Italia che in altri paesi sono
state attuate molte esperienze di apprendimento collaborativo attraverso l’uso delle reti, con risultati
apprezzabili ai fini educativi. Ad un primo livello si hanno esperienze di scambio interpersonale
attraverso la posta elettronica. E’ la prosecuzione delle attività di ‘corrispondenza scolastica’
introdotte nella scuola da Celestin Freinet e diffuse in Italia dal Movimento di cooperazione
educativa. Ad un secondo livello abbiamo esperienze di apprendimento cooperativo, che si radicano
nei paradigmi costruttivista e socioculturale. Si tratta di esperienze che si pongono come fine quello
di costituire comunità di apprendimento a distanza.”8
.
Conclusioni
In un suo stimolante libro, R. Simone9 afferma che siamo entrati in quella che lui chiama la
Terza Fase della storia del conoscere, dopo la Prima (dominata dalla scrittura) e la Seconda
(caratterizzata dalla stampa). I motori della Terza Fase sono la televisione e il computer, con tutti gli
effetti che hanno avuto sulla società e con gli sviluppi tecnologici che hanno prodotto. Ma questa
profonda trasformazione del modo di conoscere, rischia di farci abbandonare – forse per sempre –
una varietà di forme di sapere secolari, tra le quali la sensorialità (intesa come intreccio dei cinque
sensi), l’arte del parlare e dell’ascoltare, le forme pratiche e operative del conoscere, la lettura nella
sua dimensione tradizionale.
D’altro canto, come nota L. Russo, “l’attuale rivoluzione delle tecnologie della
6
C. Stoll, op. cit., p. 57
R. M. Bottini, G. Chiappino (1998), TD – Tecnologie Didattiche, Volume 2, n. 14, pp. 33-39
8
D. Cesareni, op. cit., p. 355
9
R. Simone (2000), La Terza Fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Editori Laterza, Bari-Roma
7
comunicazione non può non modificare profondamente l’insegnamento. La crescente sostituzione
delle immagini ai testi scritti, che può essere fatta risalire almeno all’invenzione della fotografia e
ha portato all’attuale ‘cultura delle immagini’, può essere considerata la prima fase di tale
rivoluzione e continua a rappresentare un aspetto importante. Anche il computer è infatti, in misura
crescente, uno strumento usato per vedere immagini, e una parte essenziale della ‘multimedialità’
consiste nella sostituzione del testo scritto con immagini.”10
Dunque, la multimedialità – in tutte le sue varie espressioni – è così presente nella nostra vita
privata e professionale che influenza il nostro modo di vivere e di lavorare. La formazione,
evidentemente, non può ritenersi esclusa da tale influenza, ed anzi ne può trarre grande vantaggio.
Riteniamo comunque che le nuove tecnologie possono effettivamente offrire un contributo
significativo ai processi di inclusione scolastica se vengono inserite in un contesto educativo di
apprendimento e di relazione. Per quanto riguarda la pratica didattica ciò significa non trascurare il
ruolo che l’esperienza concreta esercita nella vita del bambino disabile e non e la possibilità di
condividerla e confrontarla con gli altri bambini.
Fuori da questi significati, l’utilizzo delle nuove tecnologie rischia di confinare adulti e
bambini in una situazione solipsistica e in una dimensione esperienziale vissuta con gli occhi degli
altri e non in prima persona. Come acutamente sottolinea qualche docente nell’ambito di una ricerca
svolta qualche anno fa dall’IRRE Liguria, occorre non confondere l’immagine della realtà (ossia la
sua rappresentazione) con la realtà stessa. La realtà va vissuta in prima persona perché solo in tal
modo è possibile costruire apprendimento, relazioni e processi di autonomia personale. L’agorà
telematica può rivelarsi a questo proposito un potente strumento di formazione, a patto che non
venga trattata come un golem che pensa in vece nostra.
10
L. Russo (2000), Segmenti e bastoncini, Feltrinelli, Milano, p. 42