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pagina 10
il manifesto
SABATO 14 MARZO 2015
CULTURE
GILLES CLÉMENT
PARTICOLARE DEL GIARDINO
ALL’INTERNO DEL MUSEO
QUAI DU BRANLY DI PARIGI;
RITRATTO DI GILLES CLÉMENT
E SOTTO, UN SUO DISEGNO
IL LIBRO · «Tu che conosci le foreste...»
«In che mare sei? Avvertimi se la missione ’Radeau des cimes’ organizza
un alberaggio in Papuasia. Mi interesserebbe. Se il vento mi spinge a
Montpellier, mi farò vivo. Penso spesso alle piante abbandonate sulla
tua terrazza. Diversità nel cemento. Tu che conosci le foreste... Gilles».
Clément e Francis Hallé, il professore di botanica tropicale a Montpellier
a cui è indirizzata la lettera, si incontrarono in una spedizione in Gabon
nel 1996, su quella «zattera delle cime» inventata da Marrel e Ebersolt
per permettere agli scienziati di studiare - senza mai scendere a terra - la
vita in cima agli alberi. Insieme a un’altra bellissima missiva destinata
alla figlia Mahaut («Ammettiamo che esista sulla Terra un giardino più
belo degli altri, senza paragone con quelli che gli uomini hanno sistemato nei ibri di storia. Dove lo andremmo a cercare? Mi accompagneresti
nel viaggio?») la troviamo nel libro «Piccola pedagogia dell’erba. Riflessioni sul giardino planetario» (DeriveApprodi, pp. 157, euro 15), una sorta
di poetico zibaldone, lungo vent’anni, che raccoglie vari interventi di Gilles Clément (nonché una sua introduzione), intuizioni sparse, solitarie
dissertazioni, studi e conferenze, a cura di Louisa Jones e arricchito da
una densa postfazione di Andrea Di Salvo. Una lettura che conserva intatto il fascino del pensiero nel suo farsi, in compagnia di tutto ciò che è
selvatico e vagabondo, sia esso uomo, pianta o animale.
Arianna Di Genova
N
onostante ami le piante e i
rumori inaspettati prodotti
dagli animali, compreso il
russare dei conigli nelle loro tane,
Gilles Clément preferisce, fra tutti i
paesaggi, quello desertico. Ne apprezza il silenzio infinito e probabilmente la sua indomabilità, quello sfuggire a regole e confini, eleggendo a suoi guardiani animali col
vizio del nomadismo.
A confermare la posizione eccentrica nel mondo umanistico e
delle scienze di questo versatile
«giardiniere» c’è poi la sua attitudine allo scarto: sebbene sia ben
piantato con i piedi per terra quando lavora tra arbusti, alberi e bulbi
è solo dopo aver visto le immagini
del nostro pianeta dalla luna che
Clément ha cominciato a disegnare nella sua mente il Giardino Planetario. Brecht l’avrebbe chiamata
tecnica di straniamento, qui è una
presa di distanza poetica, uno scacco alla cultura antropocentrica
che l’occidente si porta sulle spalle
da secoli e secoli.
Inclassificabile, o meglio classificabile attraverso un elenco di professioni che si contaminano una
con l’altra - filosofo, botanico, entomologo, paesaggista, docente
presso l’École Nationale Supérieure du Paysage de Versailles - Gilles
Clément è anche un magnifico
scrittore, sia quando si innamora
delle nuvole durante un viaggio
dalla Francia al Brasile, sia quando
parla delle geometrie e gli abissi
dei cimiteri, lì dove «vige il desiderio di materializzare l’immateriale». O, ancora, è un narratore felice
nelle sue dissertazioni malinconiche sui cani gialli, esseri reietti e
marginali. A volte, poi, si perde nei
sogni, tacciandoli di immensa solitudine perché mai condivisibili.
Il Parc André Citroën e il Musée
du quai Branly, entrambi a Parigi,
sono alcune delle sue più celebri
realizzazioni. In Italia, invece, conosciamo il Jardin Mandala
(2010), nato per la superficie verde
del tetto pensile del torinese Parco
d’Arte Vivente (Pav), un intervento
che sposa l’impermanenza delle
sabbie e si sviluppa sulla collina
del «Bioma», il percorso interattivo concepito dall’artista Piero Gilardi.
Tradotto in Italia soprattutto da
Quodlibet (dal Manifesto del Terzo
paesaggio nel 2005 fino all’ultimo,
Ho costruito una casa da giardiniere) e da DeriveApprodi (Piccola pedagogia dell’erba, in libreria dal 16
marzo), Clément sarà a Roma domani, alle 12, ospite al festival Libri Come dell’Auditorium (un incontro in collaborazione con Institut français d’Italie e Ambassade
de France en Italie). Nel Teatro Studio Borgna, interverrà sul tema Come un paesaggio. «Nessuna risposta arriva in un colpo solo. L’umanità incredula, volta per volta addormentata dai media o risveglia-
Il giardiniere infinito
Domenica, il filosofo del paesaggio e scrittore francese incontrerà il pubblico
in occasione di «Libri Come», a Roma. «L’informazione più importante
che gli esseri umani possono trasmettere alla natura è qualcosa che riguarda
sempre la vita e non la forma. È con le altre specie che il canale
di comunicazione deve rimanere aperto, niente di riconducibile all’idea di décor»
ta dalla crisi, cerca nuove piste vitali su un terreno sconosciuto. Tutto
è da reinventare», dice mentre si
avventura su nuove strade ecologiche, mantenendo intatto lo stupore di fronte alle meraviglie della natura.
Luoghi dismessi e residuali, piccoli boschi urbani, sterpaglie e
prati incolti che creano incroci
di specie e stratificazioni della
memoria «naturale». Il suo «Manifesto del Terzo Paesaggio» ha
compiuto ormai dieci anni: oggi
lo definirebbe ancora attuale?
Il Terzo Paesaggio non è che un
frammento del Giardino Planetario. È la somma di spazi trascurati
o mai sfruttati dall’uomo. Direi
che oggi questo approccio sia più
che mai di attualità. La presenza
del Terzo Paesaggio crea un territorio di accoglienza per la diversità,
peraltro cacciata altrove. Può essere considerato come un tesoro il
cui valore va aumentando con il
tempo proprio perché, purtroppo,
il suo territorio di espressione, invece, diminuisce con il passare del
tempo.
Il destino di ogni cosa vivente persone, animali, piante - è la trasformazione. Il giardiniere, in
quanto essere vivente, fa parte
di questo processo e ha un ruolo
attivo, è un trasmettitore di informazioni. Ma quali sono le informazioni che può «passare»?
Di fronte al paesaggio, può farsi
ambasciatore solo di informazioni
di tipo architettonico. L’informazione più importante che gli esseri
umani possono trasmettere riguarda comunque la vita e non la forma. È con le altre specie che il canale di comunicazione deve rimanere aperto, non con qualcosa riconducibile a un’idea di décor. Si
può entrare in dialogo con il «vivente», comprendere il suo sviluppo nel tempo e imparare a comportarsi in una continua relazione
con esso, al fine di preservarlo. Per
questo suo lavoro, il giardiniere ha
bisogno degli scienziati.
Cosa pensa dei giardini giapponesi, o di quelli di scuola manieri-
sta italiana? Sono luoghi in cui
l’armonia nasce artificialmente
e la trasformazione naturale è rigidamente sotto controllo...
I giardini sono l’emanazione di
una cultura, non sono che un riflesso. Il loro messaggio è commisurato a quello che gli individui di
una particolare cultura cercano di
trasmettere ai propri coetanei e ai
loro discendenti. I giapponesi perpetuano una tipologia di «paesaggio preso in prestito», di antica derivazione cinese, e idealizzano il
paesaggio che hanno costruito artificialmente, mantenendolo nel
tempo nella sua forma, con un intervento intensivo. È un modello
persistente. Sebbene il «giardino
in movimento» sia stato recentemente tradotto in giapponese, dubito che potrà contribuire a un
cambiamento nella composizione
e, soprattutto, nella gestione degli
spazi verdi. La metamorfosi di un
modello culturale è immaginabile
all’interno di un sistema di valori
condivisi, per esempio in Europa,
ma è molto più difficile tra culture
lontane. È possibile però provare a
concepire la manutenzione di un
giardino giapponese in un modo
che sia ecologico, senza necessariamente trasfigurare il suo aspetto né il suo valore simbolico.
A Bali (per fare un esempio) gli
spazi del paesaggio artificiale –
le zone coltivate - sono orientate
verso un ideale nord, in direzione
della montagna sacra degli dèi.
Lei ha parlato più volte di invisibile e visibile rispetto ai giardini,
configurando una sorta di cosmogonia interna. Può spiegare
questo concetto?
La nostra concezione del mondo
ha anche un impatto sul modo in
cui ce ne occupiamo. E naturalmente si riflette anche sul giardino, che esprime una visione della
vita. Al centro del giardino c’è sempre ciò che consideriamo migliore
e più prezioso. Ma tutto cambia
nelle relazioni fra culture e con lo
scorrere del tempo. In Occidente
si è passati da una visione classica,
dove il trattamento formale della
prospettiva rifletteva una certa
idea di potere, a una visione romantica, dove la natura drammatizzata veniva osservata da «punti
di vista». Approcci differenti per
paesaggi diversi.
L’artista brasiliana Maria Thereza Alves, lavora da dieci anni al
progetto «Seeds of Change». Il
suo lavoro parte dall’idea che i
terreni agricoli nei paesi industrializzati (e in via di sviluppo),
siano in gran parte ricoperti da
piante migrate all’interno o introdotte dall’esterno. Va nei principali porti e si concentra sulle zavorre: la terra usata come zavorra per ancorare le navi mercantili viene trasportata inavvertitamente nel mondo. I semi, così,
possono germinare, cambiare il
paesaggio e raccontare la storia
della colonizzazione... Lo trova
interessante?
Questo progetto evidenzia ciò che
io chiamo il «melting pot globale»,
che raggruppa le specie precedentemente isolate le une dalle altre.
All’interno del giardino globale,
corrisponde a ciò che gli scienziati
chiamano un «ecosistema emergente», cioè un insieme di esseri viventi con diverse origini geografiche che si riequilibrano gli uni con
gli altri, entrando in relazione.
Spesso, lei ha espresso la sua
simpatia per l’animale errante,
che vive in zone di confine, dimenticate... Quel vagabondo urbano è un po’ come una pianta
randagia che riporta vitalità: esiste dunque un Terzo paesaggio
animale?
Gli animali abitano tutti gli spazi,
siano essi liberi o occupati dagli
uomini. Ci accompagnano e accettano di viverci accanto quando anche noi decidiamo di dimorare sulla terra accanto a loro.
Per praticare la strada di una
nuova ecologia, lei sostiene che
si possa sperimentare un percorso alternativo, che non è il Green Business...
Il Green Business è qualcosa che
mira alla mercificazione della natura. Può quindi soltanto accelerare
la sua distruzione, conducendo a
un crollo della biodiversità e creando un mercato della scarsità. L’alternativa economica a questo sistema c’è ed è quella di ricorrere a un
uso del libero, che poi è insito nel
«genio naturale». Bisogna contrastare ogni divieto di accesso al bene comune sotto la pressione di laboratori che privatizzano tutto
con il pretesto dei brevetti. Il giardino del futuro si farà in collaborazione con gli scienziati, ma senza i
laboratori.