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RASSEGNA STAMPA
lunedì 26 maggio 2014
ESTERI
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LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
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IL MANIFESTO
L’UNITÀ
AVVENIRE
IL FATTO
REDATTORE SOCIALE
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Corriere.it (Milano) del 25/05/14
Il Carroponte
Rock d’estate
Dai Bluvertigo ai Linkin Park. Non solo l’arena e lo stadio: la stagione
dei concerti attacca la spina in periferia
Il Mondiale di calcio detta legge: quest’anno al Carroponte si potranno vedere le partite su
maxischermo. Tra le altre attività collaterali, sonorizzazioni di film muti, laboratori per i
bimbi, serate di cabaret e il distaccamento milanese della fiera del fumetto «Lucca
Comics». Ma la musica resta protagonista: grazie all’impegno di Arci Milano, fino a
settembre l’ex area industriale di Sesto San Giovanni ospiterà tantissimi concerti. Si parte
il 29 maggio con Loredana Berté, dopodiché si spazierà dal desert-blues di Bombino al
gipsy punk dei Gogol Bordello, dai ritmi balcanici di Bregovic al dub degli Easy Star All
Stars, dal punk dei californiani Nofx al cantautorato di Paola Turci, Dente e Cesare Basile,
dal pop dei Perturbazione al rap di Emis Killa, dal rock di Estra e Afterhours alle Warpaint,
band losangelina tutta al femminile, passando per la reunion dei Bluvertigo, la band di
Morgan, l’ormai ex giudice di «X Factor» (www.carroponte.org). Alla quinta stagione, forte
delle oltre 250 mila presenze del 2013, il cartellone estivo del Carroponte si presenta,
dunque, molto ricco, con più di 100 giorni di eventi su tre palchi. «Ma non ci basta», dicono
i promotori. «La programmazione 2014 s’inserisce in un più ampio progetto di
ripensamento del parco Ex Breda, l’idea è di farne un distretto culturale». Il tutto con il
sostegno di Fondazione Cariplo. E, sottolinea Emanuele Patti di Arci Milano, «a detrimento
dell’idea che con la cultura non si mangi».
Partenza col botto per «City Sound» (www.citysoundmilano.com). Da tre anni
all'Ippodromo, il festival avrà inizio il 10 giugno con i Linkin Park. In procinto di pubblicare il
nuovo cd «The Hunting Party», la band americana è passata dal nu-metal degli esordi a
un rock infarcito di sintetizzatori apprezzato da un pubblico vastissimo. Lo sa bene il
promoter Vittorio Quattrone: «Per loro ci aspettiamo 25-30 mila persone. Faremo
dell'Ippodromo un villaggio completo di maxischermo per i Mondiali di calcio». Tornando
alla musica, il cast è eclettico: «Il 30 giugno con ZZ Top e Jeff Beck accontenteremo
anche i meno giovani». Nello stesso mese si attendono il folk di Van De Sfroos (il 13),
l'irriverente mix di hip hop, dance e dubstep dei sudafricani Die Antwoord (il 20), il metal di
Motörhead e di Rob Zombie e Megadeth (il 24 e il 27), il trip hop dei Massive Attack (il 25).
Si proseguirà a luglio con Volbeat e Airbourne (il 2), Elio e Le Storie Tese (il 3), John
Fogerty (il 7), Caparezza (l'11), Cypress Hill (il 14), Mannarino (il 15), Battiato (il 17),
Editors (il 20), Placebo (il 22, nella foto), Snoop Dogg (il 30). Soddisfatto l'Assessore alla
Cultura Filippo Del Corno: «Grazie alla capacità di più soggetti privati di assumersi il
rischio d'impresa, quest'estate Milano sarà la capitale dello spettacolo dal vivo».
«Durante l'estate il nostro circolo è una casa per molti». A parlare è Riccardo Negri,
presidente del Magnolia di Segrate, locale in riva all'Idroscalo che nella bella stagione si
trasforma per ospitare concerti e dj-set sotto le stelle. Dal 30 maggio al 14 settembre, 7
giorni su 7, «Magnolia Estate» proporrà il meglio del panorama musicale odierno. Tra gli
appuntamenti più attesi il «Mi Ami», festival di Rockit che dal 6 all'8 giugno festeggerà il
decimo compleanno con un cast tutto nostrano di gruppi e cantautori quali Le Luci della
Centrale Elettrica (foto) , Marta Sui Tubi, Brunori Sas, Lo Stato Sociale, Zen Circus e
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Pierpaolo Capovilla del Teatro degli Orrori, al suo primo cd solista. Di respiro
internazionale «UnAltroFestival» dell'agenzia Comcerto, che il 14 e 15 luglio farà felici i fan
del rock alternativo con gli americani MGMT e Dandy Warhols, gli inglesi Horrors e altre
band tra cui i Temples, esponenti della nuova scena psichedelica. Per il resto sui palchi
del Magnolia - tre all'aperto e uno al chiuso - si avvicenderanno l'israeliano Asaf Avidan, le
Au Revoir Simone da Brooklyn, e ancora Suuns, Samaris, Kodaline, Afghan Whigs,
Wolfmother, Ty Segall, Skid Row, Turbonegro, Red Fang, Deafheaven, Chelsea Wolfe,
Converge, Nobraino, Bud Spencer Blues Explosion e tanti altri. Un mix di rock, indie pop,
elettronica, reggae, folk, ma non solo: dal 29 giugno con l'iniziativa «Corpo di mille balere»
tornerà la domenica pomeriggio a suon di liscio. E ci sarà spazio anche per i Mondiali di
calcio. «I ragazzi del Magnolia sono una risorsa ormai da anni», osserva Cesare Cadeo,
che da project manager dell'Idroscalo annuncia: «Vorrei aprire il parco la sera».
http://milano.corriere.it/notizie/cronaca/14_maggio_25/rock-d-estate-6554c2f0-e3f1-11e38e3e-8f5de4ddd12f.shtml
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ESTERI
del 26/05/14, pag. 18
I Popolari prenotano la guida della Ue
Trenta seggi in più dei socialisti. Juncker: a noi la Commissione Circa
140 i deputati euroscettici. Draghi: occorre dare risposte
BRUXELLES — «Gli elettori in tutta Europa si sono chiaramente allontanati, vogliono
risposte»: forse la diagnosi politica più lucida l’ha data un non politico, il presidente della
Banca centrale europea Mario Draghi.
A tarda sera, i primi risultati degli exit poll fotografano infatti quello che sarà il nuovo
Parlamento europeo: un arco estremamente frammentato, dove quasi tutti i partiti antieuropeisti nei vari Paesi dovrebbero aver quasi triplicato i loro voti — passerebbero
insieme da 56 a 143, contando anche i «senza tessera» — e già si lanciano appelli
all’alleanza; e dove però i «grandi», i popolari e i socialisti che entrambi guardano a
Berlino, sembrano reggere le loro postazioni. Il Ppe prevarrebbe con 212 seggi, i Socialisti
e Democratici seguirebbero con 185, e i liberaldemocratici con 71. Se mai davvero gli antieuropeisti reclameranno il premio dell’avanzata — ma prima dovranno dimostrare di avere
i numeri e la concordia — allora potranno essere solo loro, i popolari e i socialisti, a fare
argine.
Per ora, si può prendere atto della probabile nomina a presidente della Commissione
europea del popolare Jean-Claude Juncker, che avrebbe prevalso sul socialista Martin
Schulz, più diretto concorrente: «Abbiamo vinto nel momento della crisi», ha esultato il
presidente del Ppe, John Daul. Lo stesso Juncker ha detto: «Voglio essere il presidente
della prossima Commissione. Il mio obiettivo è di creare la coalizione più ampia possibile.
Sono pronto a negoziare, ma non mi metterò in ginocchio di fronte al Pse».
Si può riflettere sull’importante dato sull’affluenza alle urne: 60 per cento in Italia, 90 per
cento in Belgio e Lussemburgo, giù giù fino al 13 per cento della Slovacchia. Non c’è stata
in generale la frana che si temeva rispetto alle elezioni del 2009, anzi i votanti sono stati
più numerosi di allora, segno (forse) che il disincanto si può ancora fermare; ma il tempo
per il recupero non sarà lunghissimo, né garantito.
I primi risultati provvisori consentono poi un primo, molto vago scenario. Perde
rovinosamente François Hollande con i suoi socialisti; vincono Angela Merkel in Germania
(il suo partito avrebbe lasciato qualche voto per strada, ma è sempre oltre il 35 per cento e
la sua coalizione con i socialdemocratici è sempre ben salda), Alexis Tsipras in Grecia
(che si sarebbe fermato al 26,7% per cento), gli indipendentisti dell’Ukip in Gran Bretagna
(primo partito con oltre il 30%), gli euroscettici in Danimarca (il loro partito anti-immigrati il
primo del Paese), e quelli in Austria, in Belgio, nella stessa Germania. Poi, naturalmente,
Marine Le Pen, che ha con sé un quarto della Francia, e reclama da Hollande la guida del
governo.
Proprio lei ha pronunciato ieri poche parole che anch’esse potrebbero darci il ritratto del
nuovo Europarlamento: «Unitevi a noi!», ha invitato (o intimato) all’indirizzo degli altri partiti
euroscettici del continente. Fra domani e dopo, annuncia Matteo Salvini da Milano, tutti
loro si riuniranno qui a Bruxelles per decidere il da farsi. E per trovare un linguaggio
comune, che per ora non c’è: di comune c’è solo uno spauracchio, l’Ue, ma da solo non
basta forse a plasmare una coalizione dai nervi saldi.
In ogni caso, l’Europa non sarà più quella di prima. Cambierà, in un senso o nell’altro,
proprio come il suo Parlamento. Anche perché i mercati finanziari potrebbero raccogliere
prestissimo il segnale partito da Parigi o da Londra.
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«Stiamo uscendo dalla crisi gradualmente, molto gradualmente — avverte Mario Draghi
dalla riunione delle Banche centrali a Lisbona —. Solo la sostenibilità della crescita ci farà
andare avanti nell’integrazione, che è garanzia per la pace. Ma l’eredità del debito
pubblico e privato continuerà ad avere un impatto sull’economia per anni».
Luigi Offeddu
del 26/05/14, pag. 1/14
L’ANALISI
L’Europa ferita dai nazionalismi
BERNARDO VALLI
PARIGI
L’EUROPA esce ferita dalle urne. Vacilla dopo il risultato elettorale francese. È come se
una consistente parte dell’Europa, e tra le più storicamente nobili, ripudiasse se stessa. La
ferita è profonda. È la prima volta che in uno dei grandi paesi fondatori un movimento
eurofobo, il Front National di Marine Le Pen, arriva in testa in una consultazione nazionale.
È UN forte, sia pure non decisivo, rifiuto dell’integrazione da parte di un quarto (il 25%) dei
cittadini francesi che ieri hanno votato. La debole partecipazione, poco più del 40%,
ridimensiona il valore dell’elezione ma lascia intatta la sua legittimità, e quindi l’Unione
esce azzoppata dalla prova. Il Movimento Cinque Stelle, con il suo mediocre risultato non
ha contribuito al trauma. Trovando il linguaggio di Beppe Grillo identico al suo, Marine Le
Pen desiderava raggiungere un’intesa con lui. Ma i tentativi sono stati senza successo.
Tuttavia lei ci pensa ancora e ieri l’ha ripetuto.
Nel nuovo Parlamento appena eletto, e dotato di più poteri dei precedenti, si sta per
insediare una forza la cui missione è quello di distruggerlo. Nel breve discorso della vittoria
Marine Le Pen ha chiesto che la Francia riprenda «in mano le redini del proprio destino».
Destino da togliere dalle mani di una commissione di tecnocrati. Nei giorni scorsi aveva
dato come inevitabili le dimissioni del capo dello Stato e lo scioglimento dell’Assemblea
nazionale nel caso il Front National si fosse imposto come primo partito. Sull’onda del
successo è stata più sobria, non ha chiesto a François Hollande di andarsene ma l’ha
invitato a indire nuove elezioni per consentire al popolo di affidare al Parlamento di Parigi
tutti i compiti nazionali che gli competono. Non sarà esaudita perché la richiesta è
infondata, trattandosi di una consultazione europea e non nazionale. Ma il nuovo rapporto
di forza peserà nella società politica.
Il primo ministro socialista, Manuel Valls, ha parlato di uno shock, di un terremoto. In
cinque anni, due dei quali con la sinistra al governo, il Front National ha guadagnato il
20%. Giovani non solo delle classi popolari e molti operai hanno votato in suo favore. Nel
2009 aveva ottenuto il 6, 34%. Il partito socialista, che è anche quello di François
Hollande, ha subito un crollo : è sceso al 13%. Il peggior risultato della sinistra da tempo
memorabile. La destra democratica, che elesse presidente Nicolas Sarkozy in parte con
voti sottratti al Front National, ha raggiunto a fatica il 20%, anche perché penalizzato da
una scissione della corrente di centro. Il segretario Copé richia adesso il posto.
Il terremoto politico è senza precedenti nella Quinta repubblica. Esso apre una breccia
inquietante nel sistema. Non è più tanto assurdo vedere Marine Le Pen come candidata,
sulla soglia dell’Eliseo, quando si esaurirà il mandato di Hollande. L’estrema destra, con la
quale i partiti tradizionali, democratici, rifiutavano alleanze formali, è da ieri sera
rappresentata dal principale partito della République. Marine Le Pen ha annacquato
programmi e linguaggio. Ha purgato il discorso. Niente più aperta xenofobia, niente
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dichiarazioni razziste, antisemite, attenuato nelle espressioni l’antiarabismo, o la nostalgia
per le vecchie ideologie degli anni 40. Sono principi rimasti tra militanti ma non sono
sbandierati. La revisione è servita. Il successo è soltanto in parte ridimensionato dalla
debole affluenza alle urne. Neppure la metà dei francesi ha votato. Le crisi affrontate
dall’Europa, quella finanziaria dell’euro e quella geopolitica dell’Ucraina, non sembrano
spîegazioni sufficienti. Il Fn è eurofobo da sempre. Adesso interpreta uno stato d’animo
diffuso. L’immigrazione è considerata una colpa dell’ Europa, accusata di aprire le frontiere
all’Islam. Si pensava che la nomina a primo ministro di Manuel Valls, personaggio
popolare anche a destra, compensasse l’impopolarità di Hollande. Almeno per ora non è
bastata.
Il Front National porterà nel Parlamento europeo 23-25 deputati. In quello scaduto ne
aveva tre. Adesso gliene mancano soltanto un paio per formare come esige il regolamento
un gruppo di 25 abilitato a presentare progetti di legge. Né dovrebbe essere difficile
includere nel gruppo i rappresentanti di sette diversi paesi membri altrettanto obbligatori.
Nonostante le divergenze, Le Pen saprà trovare gli alleati necessari, con i quali condurre
una campagna contro l’Unione, e in particolare contro l’euro.
Al contrario della Francia, la Germania ha dimostrato equilibrio. Non poteva deludere l’
Europa “tedesca”. I cristiano-democratici (con i cristiano-sociali bavaresi) hanno perso
qualche punto rispetto alle elezioni del 2009: sono scesi dal 37,9 al 35,5%. Mentre i social
democratici, loro alleati nel governo federale ma concorrenti nelle elezioni europee, hanno
fatto un balzo in avanti: dal 20,8 del 2009 sono passati al 27,5. Il progresso è stato vistoso
ma non tale da rovesciare i rapporti nel Parlamento europeo, dove i popolari (212)
resteranno la maggioranza senza tuttavia distaccare troppo i socialdemocratici (185). Il
candidato dei popolari (democristiani), il lussemburghese Juncker, si è proclamato il
vincitore, ma non avendo una maggioranza assoluta dovrà ricorrere ai socialdemocratici, e
formare probabilmente una coalizione “alla tedesca” con loro. E poiché Juncker non
sembra troppo interessato alla carica di capo della Commissione ma piuttosto a quella di
presidente dell’Unione, il tedesco Schulz, candidato della sinistra riformista, potrebbe
succedere al conservatore portoghese Barroso.
Se questi dati, non ancora ufficiali, sono esatti, nonostante il successo, il Front National
non ha consentito alla estrema destra eurofoba di raggiungere il 30 o più per cento
pronosticato dai sondaggi . Essendo la rappresentante di un partito francese, di un grande
paese fondatore, partner privilegiato della Germania semi onnipotente, Marine Le Pen
avrà un ruolo guida nel fronte eurofobo, anche se diviso e litigioso. Potrà condurre
battaglie contro l’integrazione e l’euro. Ma la sua forza si esprimerà soprattutto in Francia,
che cercherà di trasformare in un paese ancor più xenofobo di quel che è. Ed è allora che
l’Ue sarà seriamente minacciata. Gli stretti alleati di Le Pen in Europa saranno gli austriaci
populisti del Fpö, diventati il terzo partito nazionale col 19,9%. Gli olandesi razzisti del Pvv,
che però hanno perduto sei dei diciotto deputati che avevano. In Germania il partito
euroscettico dell’Alternativa ha avuto un 6,5% e andrà in Parlamento. Gli eurofobi
britannici hanno avuto successo ma sono piuttosto solitari. Vogliono che il Regno Unito si
stacchi dall’Europa, dove non vogliono impegnarsi con alleati ideologici.
del 26/05/14, pag. 14
I populisti trionfano e raggiungono quota 140 seggi. Ma la strada di
un’alleanza è in salita. Il Ppe, in calo, mantiene la maggioranza relativa
nel Parlamento. L’astensione si conferma alta
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Avanza l’ultradestra tengono i moderati
Draghi: “Ora risposte”
Front National e Ukip primi partiti in Francia e Gb Ma i partiti tradizionali
governeranno ancora l’Unione
GIAMPIERO MARTINOTTI
DAL NOSTRO INVIATO
BRUXELLES .
Un’avanzata generale, con qualche rara eccezione, del populismo eurofobo, che trova in
Marine Le Pen, trionfatrice in Francia, una possibile leader; una flessione del fronte
moderato, che conserva tuttavia la maggioranza relativa nell’europarlamento;
un’astensione ancora molto alta al 57 per cento, ma stabile rispetto a cinque anni fa, con
una leggera ripresa a ovest e le urne disertate in Europa centrale, dove le popolazioni
sono paradossalmente favorevoli all’Ue. Appena arrivate le prime proiezioni, Jean-Claude
Juncker ha rivendicato per sé, candidato del Partito popolare europeo, il compito di
cercare una maggioranza per diventare presidente della Commissione. Il suo rivale
socialdemocratico, Martin Schulz, ha invece rifiutato di riconoscersi sconfitto, chiedendo di
aspettare i risultati e in particolare quelli italiani. Il presidente uscente Manuel Barroso si è
appellato ai partiti pro-Ue perché «si mettano assieme». Secondo le proiezioni, il Ppe
potrebbe avere 212 seggi, una sessantina in meno, seguito dai socialisti con 185 (undici in
meno). Gli euroscettici potrebbero avere circa 140 seggi su 751, ma non potranno certo
coabitare tutti insieme: i grillini, per esempio, hanno fatto subito sapere di non aver
intenzione di unirsi al Fronte nazionale. I partiti tradizionali, insomma, continueranno a
governare l’Europa in una sorta di grande coalizione continentale, ma non potranno non
tener conto del voto di ieri. L’estrema destra populista ha vinto in Francia, in Danimarca il
primo partito è antiimmigrati. Sia pur ridimensionato, il M5S è sopra il 20%, l’Ukip di Nigel
Farage in Gran Bretagna è primo con il 30,5%: se nell’europarlamento gli anti-Ue non
arrivano al 20 per cento dei seggi, nelle realtà dei 28 voti nazionali il loro peso segnala un
drammatico slittamento verso posizioni più radicali, seppur contraddittorie. La vittoria di
Tsipras in Grecia (26%) si è accompagna al 9% dei neonazisti di Alba Dorata; in Spagna
socialisti e popolari ottengono solo 30 seggi (ne avevano 47) e il movimento nato dagli
Indignados fa il suo ingresso a Bruxelles con cinque rappresentanti. Solo in Germania le
spinte populiste sono contenute. Il quadro è insomma problematico: i sostenitori della
costruzione europea domineranno l’europarlamento con un’opinione pubblica sempre più
scettica sulle ricette economiche di Bruxelles. Lo ha capito bene il presidente della Bce
Mario Draghi: i cittadini europei, ha detto, «vogliono risposte per la crescita e la
distribuzione. Ci guardano per avere soluzioni».
del 26/05/14, pag. 16
Europa-destre
Il Fronte di Le Pen primo partito in Francia
Crollo storico per i socialisti di Hollande La leader dell’ultradestra Le
Pen : «Sciogliere il Parlamento». Oggi riunione all’Eliseo
NANTERRE — Il vecchio e stanco fondatore Jean-Marie Le Pen guarda, impettito e
commosso, la figlia Marine che tre metri davanti a lui, sul piccolo palco della sede di
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partito, dice solennemente «il popolo sovrano ha ripreso in mano il suo destino». Dietro di
lei, il manifesto «Front National, primo partito di Francia».
Sono le 20 e 30 di domenica 25 maggio, e il movimento fondato quarant’anni fa dall’ex
parà dell’Indocina e dell’Algeria francese per raccogliere i nostalgici dell’impero coloniale,
qualche monarchico e tanti neofascisti (la fiamma del simbolo nel 1972 venne copiata dal
Msi di Almirante), vince le elezioni europee con il 25,4% dei voti.
Marine Le Pen ripete adesso quello che diceva negli ultimi giorni della campagna:
«Queste elezioni sono europee ma hanno un valore politico enorme per la Francia, sono
eminentemente nazionali. E il popolo francese ha detto oggi nel modo più chiaro possibile
che non vuole più essere governato dall’esterno, da oligarchi di Bruxelles che nessuno ha
votato e che ciò nonostante dettano le condizioni a tutti, infischiandosene delle elezioni e
della democrazia. È una vittoria storica, per il Front National ma soprattutto per la
Francia».
Il Fn ci ha abituato a «avanzate» e «affermazioni» storiche, a partire dal clamoroso
secondo turno di Jean-Marie Le Pen alle presidenziali del 21 aprile 2002, ma stavolta è
diverso: il primo posto alle Europee, con largo vantaggio sul partito del centrodestra Ump
(fermo al 20%) e soprattutto con 10 punti in più rispetto ai socialisti al governo (sotto al
15%), appare dirompente (e meno episodico della vittoria in Italia del Pci alle Europee nel
1984). Un partito da sempre ai margini, e che al precedente scrutinio europeo del 2009
non era andato oltre il 6%, quadruplica il risultato.
«È un terremoto», aveva preannunciato verso le 18 Jean-Marie Le Pen all’arrivo a
Nanterre, un tempo (ormai lontano) cuore delle rivolte studentesche e operaie francesi e
adesso sede del Front National. «È un terremoto, e uno choc per tutti i responsabili
politici», conferma dopo i risultati il socialista Manuel Valls, premier da neanche due mesi.
Il 31 marzo scorso alle elezioni municipali i socialisti patirono una prima batosta, battuti
dell’Ump (il partito di centrodestra dell’ex presidente Sarkozy) e in alcune città anche dai
candidati frontisti. Allora il presidente Hollande si presentò in tv per dire che aveva
compreso il messaggio, cacciò lo scialbo primo ministro Ayrault e lo sostituì con il popolare
Valls; varò un nuovo governo, sostituì il segretario del partito e promise un nuovo corso
più attento alla competitività delle aziende e al potere d’acquisto dei francesi.
Adesso, dopo questa nuova sconfitta, ancora più larga e grave, quale altra carta rimane
da giocare a Hollande, il presidente più impopolare nella storia della V Repubblica? Marine
Le Pen entra subito nei panni della trionfatrice, e nel breve discorso trasmesso in diretta
da tutte le tv lo esorta a «prendere i provvedimenti che si impongono perché l’Assemblea
divenga davvero nazionale e rappresentativa del popolo, e capace di condurre la politica
di indipendenza scelta chiaramente questa sera dal popolo di Francia». In sostanza, il
Front National chiede a Hollande di sciogliere il Parlamento e indire nuove elezioni
politiche, «stavolta con una legge elettorale proporzionale», aggiunge Marine Le Pen, che
ormai ha l’aria di pretendere tutto e subito. «Non vedo come Hollande possa non
sciogliere l’Assemblea, che ormai non rappresenta più nessuno — dice poi tra i giornalisti
la leader del Fn —. A Grillo e a tutti quelli che negli altri Paesi europei combattono contro il
totalitarismo di Bruxelles, io dico: unitevi a noi».
Marine Le Pen vuole la fine dell’Ue, la rinascita degli Stati nazionali, il ristabilimento delle
dogane per fermare le merci straniere e l’innalzamento delle frontiere per arrestare
«l’invasione degli immigrati». A breve termine, pretende le dimissioni del premier Valls,
colui che a sinistra si è più impegnato a favore dell’Europa in questa campagna e che
quindi «se è un uomo d’onore, dovrebbe lasciare il suo posto».
Mentre due passi più in là Jean-Marie Le Pen rievoca quarant’anni di battaglie e di schiaffi
dati e presi, e quel secondo turno del 2002 quando «ai francesi la sinistra chiese di votare
per uno scroccone come Chirac piuttosto che per un fascistone, che sarei stato io»,
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Marine Le Pen spiega che «la Germania è il centro economico dell’Europa, ma la Francia
ne resta il cuore politico. E se in Francia vince il partito anti Ue, le cose a Bruxelles non
possono continuare come se niente fosse». Gli eurodeputati del Front National erano tre,
saranno almeno 25.
Hollande dice che «saranno tratte delle lezioni», e ha indetto per stamattina all’Eliseo una
riunione di crisi. All’Elysée Lounge invece, discoteca pochi metri più in là, ieri notte Marine
Le Pen ha festeggiato la vittoria.
Stefano Montefiori
del 26/05/14, pag. 17
Arriva il terremoto Farage
La vittoria degli euroscettici scuote l Gran
Bretagna
di Fabio Cavalera
I voti raccolti, che lo collocano vicino al 30 per cento davanti ai laburisti e ai tory appaiati,
lo fanno esplodere così: “Se non cambia, distruggerò il partito conservatore”.
Che sia l’euforia per la straordinaria vittoria-shock dello Ukip o che sia una minaccia
davvero seria per i conservatori lo si capirà presto. Ma Nigel Farage, a cavallo
dell’antieuropeismo e della protesta antiimmigrati, entra di prepotenza nel teatro della
politica. E nei prossimi mesi sarà il fantasma che agiterà i sonni di Westminster.
I dati sono chiari: lo Ukip (27,5%) ha messo in ginocchio i tory (fermi al 23,9%) per la
prima volta terzo partito in elezioni nazionali, ha distrutto i liberaldemocratici (6,8%)
superati dai verdi (7,8) e frenato i laburisti (25,4%) che comunque avanzano (anche se
ben sotto le aspettative). Dalle schede europee salta fuori una forza, lo United Kingdom
Independence Party, che scombussola gli scenari di un sistema abituato dal dopoguerra al
bipartitismo (alternanza conservatori-tory), convertito al tripartitismo nel 2010 con
l’ingresso in scena dei liberaldemocratici divenuti all’epoca ago della bilancia, ora costretto
a tenere conto che esiste un quarto incomodo, estraneo alla tradizione britannica: quella
dei delusi, degli anti-elite, degli ex tory (tanti) e degli ex laburisti che si sono raccolti dietro
ai richiami suggestivi della demagogia rappresentata da Nigel Farage il quale dichiara:
“Costruirò una nuova destra”. E tende la mano a Beppe Grillo: “Mi piacerebbe incontrarlo,
abbiamo molte politiche in comune”.
Era stato annunciato che il voto europeo avrebbe portato affanno nelle stanze dei tre
leader (Cameron, Clegg e Miliband) che si sono fino ad oggi divisi la scena fra governo e
opposizione. Ma ragionare su numeri possibili (i sondaggi della vigilia) e ragionare su
numeri veri (le urne) sono due esercizi assai diversi. E di fronte allo spoglio delle schede
per il parlamento europeo i timori si sono trasformati in un terremoto.
Se l’obiettivo di Nigel Farage era quello di rovesciare il tavolo e di rendere ancora più
incerta la corsa alle prossime consultazioni generali (primavera 2015), l’obiettivo è stato
raggiunto in pieno. A destra e a sinistra tutti si leccano le ferite.
I conservatori che si vedono alle corde ripetono il ritornello (con Cameron) che non
sigleranno patti segreti assieme allo Ukip e combatteranno “contro ogni fanatismo in
Europa” ma contemporaneamente (con il cancelliere dello scacchiere George Osborne)
gli lanciano segnali “di stima”. L’emorragia è pesante. Hanno perduto 7 parlamentari
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europei dei 25 che avevano. E la prospettiva di riprendere il controllo dei collegi più fedeli
e vitali nel sud inglese non è scontata. Il partito è in preda alle fibrillazioni.
Rischiano l’estinzione i liberaldemocratici e il loro leader è sulla graticola. Molti deputati di
Comuni ne chiedono le dimissioni, cosa che provocherebbe il collasso del governo. Nick
Clegg alza le barricate e tira avanti. Pensa di potere essere ancora, il prossimo anno,
l’uomo indispensabile alle grandi alleanze, in assenza di maggioranze chiare. Era la sua
scommessa e tale rimane: un pattuglia che sceglie con chi stare in base ai programmi.
I laburisti non vanno male. Ed Miliband guadagna 8 punti sulle europee del 2009 e va forte
a Londra. Ha ragione a rivendicare i notevoli passi in avanti. Però le proiezioni sul futuro
non rallegrano perché in alcune aree registra pericolose defezioni di ex simpatizzanti. I
suoi ondeggiamenti non ne fanno un leader che per il momento appassiona. Gli
rimproverano, per cinismo politico, di non avere contrastato l’avanzata dello Ukip. “La
lezione è stata imparata” avverte Ed Miliband che si deve guardare dal “fuoco amico”.
Il quadro politico britannico si frammenta. E Nigel Farage gioca la sua partita. Il sistema
elettorale maggioritario (passa nei collegi chi arriva primo) lo penalizza. E’ convinto che
concentrando lo sforzo su 20 o 30 collegi per lo più controllati dai conservatori, dove alle
locali e alle europee ha avuto altissime percentuali, gli consentirà di entrare a Westminster
nel 2015 e di essere, lui, l’ago della bilancia e la spina nel fianco di Cameron. Intanto
mette tanto fieno in cascina. Un sondaggio proprio di ieri (svolto da YouGov, credibile
società di rilevazioni) indica che il 43% dei votanti non lo considera un politico xenofobo,
contro il 38 che lo etichetta invece come razzista. Trasversalmente agli schieramenti,
l’immagine del tribuno, l’eretico ex seguace di Margaret Thatcher, migliora. Ed è ciò che
preoccupa di più l’arena dei partiti tradizionali.
del 26/05/14, pag. 21
Zygmunt Bauman
Bauman: «Cittadini distanti L’UE deve
riconciliare potere e politica»
Per il sociologo e filosofo polacco Zygmunt Bauman «Democrazia
rappresentativa in crisi»
Sociologo e filosofo polacco nato nel 1925, Zygmunt Bauman ha attraversato le rivoluzioni
del Novecento elaborando categorie di interpretazione della realtà diventate capisaldi della
sociologia contemporanea, in un pensiero organico sulla «modernità liquida» che
abbraccia sentimenti, consumi e rapporti di forza. Ciò a cui assistiamo oggi, dice al
Corriere , è «il divorzio tra potere e politica».
Professor Bauman, la campagna elettorale ha visto uno sforzo senza precedenti
delle istituzioni europee per mobilitare 400 milioni di cittadini. Reazione all’allarme
populismo ma anche sviluppo naturale di un’integrazione sempre più profonda che
fa perno sul Trattato di Lisbona e sfocerà in una scelta «politica» del presidente
della Commissione. Eppure l’Europa stenta ad appassionare — quando non suscita
aperta ostilità. Cosa c’è all’origine di questo senso di estraneità?
«Si tratta di sentimenti che non sono rivolti solo alle istituzioni europee, fisicamente
lontane dai luoghi dove i cittadini affrontano le difficoltà della vita quotidiana e
regolarmente invocate dalle capitali per spiegare decisioni impopolari. La sfiducia riguarda
il sistema politico nel suo insieme, i cittadini stanno perdendo la fede nella capacità delle
istituzioni di rispettare le promesse. Le radici di questa tendenza vanno ricercate
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nell’ultimo mezzo secolo, nel corso del quale i processi di deregolamentazione promossi e
supervisionati dai governi che hanno aderito alla rivoluzione neoliberale hanno portato alla
graduale separazione tra potere, inteso come capacità di fare, e politica, ovvero capacità
di decidere cosa fare».
Quindi la sfiducia nella politica nasce dall’indebolimento delle prerogative nazionali
che proprio il progetto europeo vuole diluire in un organismo federale?
«In pratica poteri prima esercitati all’interno dei confini dello Stato nazione, e soprattutto i
poteri finanziari che determinano benessere e miseria per milioni di persone, sono
evaporati e confluiti in un dominio extraterritoriale, una terra di nessuno, mentre la politica
è rimasta territorialmente determinata. L’effetto collaterale di tutto questo è, come ha fatto
notare l’economista americano Joseph Stiglitz, la totale separazione tra creazione di
valore di mercato e creazione di lavoro, con un conseguente sotto-utilizzo di uomini e
macchinari, spreco e ingiustizia. I valori fondamentali che credevamo di vedere
salvaguardati dai nostri rappresentanti eletti — eguaglianza di opportunità, onestà, rispetto
delle regole — sono stati platealmente violati. La sopravvivenza dei governi ormai è
percepita come uno strumento per consentire ai ricchi di accrescere la loro ricchezza,
mentre i più vanno incontro a un impoverimento irreversibile».
In questo vuoto di iniziativa politica come si stanno muovendo i partiti tradizionali?
«Qualsiasi cambio della guardia porta modifiche minime nelle politiche dei governi, tanto
meno nelle durezze che comporta la lotta per la sopravvivenza in un clima di acuta
incertezza».
E pur essendo baluardo di pace e diritti, l’Unione Europea viene considerata
complice di questo «tradimento» della politica che perpetua il vecchio sistema del
privilegio e dell’ineguaglianza.
«A questo si aggiunge il progressivo trasferimento all’individuo del compito di contrastare
gli effetti distruttivi del mercato che persegue il profitto a scapito di tutti gli altri valori. È
quello che il sociologo britannico Anthony Giddens ha descritto come il regno della politica
della vita quotidiana dov’è il singolo, con le sue risorse strutturalmente inadeguate, a dover
assumere l’iniziativa per trovare soluzioni individuali a problemi comuni. I due percorsi
paralleli — la contrazione e delocalizzazione delle funzioni statuali e l’esaltazione
dell’iniziativa individuale — portano allo sgretolamento delle credenziali della democrazia
rappresentativa».
In che modo l’Europa può rilanciare queste credenziali?
«La stessa Europa è un collettore locale di problemi globali, ma anche un laboratorio unico
nel quale sono quotidianamente dibattute e sperimentate possibili soluzioni. Solo in tale
misura il contributo dell’Unione può essere significativo per il futuro del pianeta che va
incontro a un nuovo, radicale passaggio: dal livello degli Stati nazione alla dimensione più
ampia dell’umanità già stretta nella rete dell’interdipendenza globale. In questo contesto
conflittuale la Ue deve andare molto più a fondo nel processo interno di riforma, arrivare
alle radici dell’incapacità istituzionale di riconciliare politica e potere».
Maria Serena Natale
del 26/05/14, pag. 21
Al miliardario Petro Poroshenko oltre il 57% dei voti. Per l’ex pasionaria
della Rivoluzione arancione solo il 13% Il leader: “Pronto al dialogo con
Mosca”
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Il re del cioccolato diventa presidente
Tymoshenko sconfitta
NICOLA LOMBARDOZZI
DAL NOSTRO INVIATO
DONETSK
Parla subito di pace il re del cioccolato dal suo curioso ufficio a forma di bomboniera. Gli
exit polls, e via via nella notte anche i risultati degli scrutini, incoronano al primo turno
Petro Poroshenko, 48 anni, primo presidente della tormentata Ucraina del dopo
rivoluzione con oltre il 55 percento dei voti; confermano il clamoroso crollo di consensi
della pasionaria Yiulia Tymoshenko inchiodata sotto a un umiliante 13 percento;
scongiurano la temuta avanzata dei gruppi paramilitari di estrema destra che tuttora
continuano a presidiare il centro di Kiev ma che hanno raccolto insieme meno del due per
cento; e premiano l’ex campione del mondo dei pesi massimi Vitalij Klitckho, amato dalle
folle, con la poltrona di sindaco della capitale.
Poroshenko che deve la sua fortuna all’impero dei dolciumi Roschen, ma che non può
gustarseli a causa del diabete, sa che deve agire subito. Non aspetta i risultati ufficiali né
tantomeno la dichiarazione di resa dei suoi rivali: «Voglio mettere fine alla guerra». E
pensa subito a Putin e alla Russia: «Senza Mosca non è possibile garantire la sicurezza
del nostro Paese». Parole al miele per il Cremlino che aveva già gradito giorni fa la sua
secca frenata sulla adesione alla Nato: «Il Paese non è pronto e la questione non si
pone».
Certo, come prevedono i punti di una trattativa segreta che va avanti da settimane, Putin
non potrà vincerle tutte. Poroshenko annuncia un’accelerazione sull’integrazione europea,
e soprattutto non mette a tacere la questione Crimea: «Istituiremo un ministero per il
recupero della penisola annessa dopo un referendum che riteniamo illegittimo». Ma
sembra un più gioco delle parti che una rivendicazione decisa.
Quanto a legittimità, Poroshenko sa che anche la sua elezione di ieri rischia forti critiche.
Nessuno nella città di Donetsk, una delle più grandi del Paese, ha potuto votare in seggi
elettorali chiusi presidiati da milizie armate. Più o meno la stessa cosa è avvenuta nella
regione di Lugansk, e in tante cittadine e villaggi dell’Ucraina Orientale; in quell’aria
controllata dai ribelli russi che proprio sabato si sono fusi nell’autoproclamato stato di
Novorossjia (Nuova Russia). Anche per questo Poroshenko annuncia che il suo primo
viaggio sarà proprio in questa parte dell’Ucraina, nel bacino carbonifero del Donbass dove
origini e cultura della maggioranza delle popolazione sono fieramente legate alla Russia.
Quasi in tempo reale, a conferma di un risultato atteso da tempo, i leader russi di Ucraina
hanno risposto con i previsti toni duri ma, a guardar bene, aperti al dialogo: «Venga pure
ma porti delle risposte alle nostre rivendicazioni». Spiragli di dialogo nel caos delle solite
voci che vogliono invece colonne di tank in marcia verso Donetsk o le sparatorie tra
opposti schieramenti che si registrano ogni sera: anche ieri tre morti e decine di feriti.
E mentre Poroshenko regala un’ultima chicca («Venderò i miei asset per evitare ogni
conflitto di interessi») l’amarezza regna nel campo di Yiulia Tymoshenko che adesso teme
di veder ridotta nettamente la sua sfera di influenza. L’elezione di ieri ha mandato a casa il
suo stretto collaboratore Oleksandr Turcinov, finora presidente a interim. Ma anche il suo
vice, Arsenj Jatsenjuk, attualmente premier, rischia di saltare in un possibile rimpasto
ordinato dal nuovo Presidente. Per Yiulia la Tigre che aveva conquistato i cuori della
Majdan, arrivando direttamente dal carcere sul palco nel giorno della caduta del regime, la
sconfitta è gravissima. E non basta, come fa qualcuno del suo staff, spiegarla con la
trovata poco scaramantica di sostituire la gloriosa treccia con una “cofana” anni
Cinquanta. Ha pagato forse la sua posizione che strizzava l’occhio alle destre estreme e
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l’ha resa improponibile per un negoziato con Putin. Archiviati gli umori di piazza, gli ucraini
hanno preferito puntare su un uomo contraddittorio e con poco carisma ma che sembra
più adatto alla mediazione. Un “cioccolataio” diabetico che ha militato in tutti i partiti e che
ha fatto il ministro in governi di tendenze opposte. Che suscita poche passioni ma, forse,
qualche speranza.
del 26/05/14, pag. 10
Il Papa oltre al Muro: «Servono due Stati»
Da Betlemme Francesco chiama Peres e Abu Mazen a pregare insieme
in Vaticano: invito accettato ● La sosta davanti alla barriera «della
vergogna» ● L’incontro con il patriarca Bartolomeo I
«È giunto per tutti il momento di avere il coraggio della pace»: non è stato un semplice
monito, ma l’indicazione di un’azione precisa e urgente quella che Papa Francesco ha
avanzato oggi da Betlemme, la città palestinese della Natività. Per superare lo stallo che
ha bloccato i negoziati di pace tra israeliani e palestinesi, e soprattutto per porre fine alle
sofferenze drammatiche che il popolo palestinese soffre da troppo tempo, ha lanciato il
suo invito ai presidenti dello Stato di Palestina,Mahmoud Abbas e di Israele Shimon
Peres: ritrovarsi in Vaticano per pregare insieme per la pace. «In questo luogo, dove è
nato il Principe della pace, desidero rivolgere - ha detto testualmente Papa Francesco -un
invito a Lei, signor presidente Mahmoud Abbas, e al signor presidente Shimon Peres, ad
elevare insieme con me un’intensa preghiera invocando da Dio il dono della pace. Offro la
mia casa in Vaticano per ospitare questo incontro di preghiera». «Tutti desideriamola pace
- ha proseguito -. Tante persone la costruiscono ogni giorno con piccoli gesti; molti
soffrono e sopportano pazientemente la fatica di tanti tentativi per costruirla. E tutti,
specialmente coloro che Sono posti al servizio dei propri popoli, abbiamo il dovere di farci
strumenti e costruttori di pace, prima di tutto nella preghiera. Costruire la pace è difficile,
ma vivere senza pace è un tormento. Tutti gli uomini e le donne di questa Terra e del
mondo intero ci chiedono di portare davanti a Dio la loro ardente aspirazione alla pace».
L’invito è stato raccolto dai due presidenti e si ipotizza già di un possibile incontro in
Vaticano per il prossimo giugno. Ma ieri vi è stato un altro gesto sorprende Di Papa
Francesco: la sosta di riflessione e preghiera davanti al «muro di separazione » chiamato
pure «muro della vergogna » voluto dal governo israeliano e che isola Betlemme e tanti
altri territori della Palestina, spaccando a metà case, famiglie, spezzandola loro vita. Ha
voluto«toccare » quel «muro», segno concreto della Sofferenza di un popolo e delle
conseguenze del conflitto. Non una parola. È bastato quel gesto per sottolineare l’urgenza
della pace tra ebrei e palestinesi nella sicurezza di entrambi gli Stati, indispensabile per
porre fine alle sofferenze di un popolo di cui aveva parlato all’incontro con il presidente
palestinese Mahmoud Abbas. Papa Francesco proprio al destino dei rifugiati, ai palestinesi
cristiani e musulmani dei «territori» o rinchiusi nei campi profughi ha dedicato la sua
giornata a Betlemme. Ha pranzato con alcune famiglie palestinesi che gli hanno
raccontato i loro drammi. Ha visitato il campo profughi di Dheisheh, dove ha incontrato
alcuni bambini «figli della Palestina» provenienti anche dai campi di Aida e Beit Jibrin.
Nelle loro testimonianze ha toccato l’umiliazione di un popolo. C’è chi tra loro non ha mai
visto il mare. Chi ha denunciato il dramma di non avere più una casa per effetto
dell’occupazione israeliana che «dura da ben 66 anni». «Vogliamo dire al mondo:basta
sofferenze e umiliazioni! » gli ha detto uno di loro. «Lavorate e lottate per ottenere le cose
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che volete. Però, sappiate una cosa –ha detto loro il pontefice - che la violenza non si
vince con la violenza! La violenza si vince con la pace! ». E fare questo, ha aggiunto,
lasciandosi alle spalle ogni logica di vendetta. Proprio alla condizione di sfruttamento
disumano dei bambini ha dedicato l’omelia pronunciata nella piazza della Mangiatoia,
vicino alla basilica della Natività, davanti a diecimila fedeli.
«NO ALL’ANTISEMITISMO»
È nel pomeriggio che è iniziata la terza tappa del pellegrinaggio in Terra santa di Papa
Francesco con la visita in Israele. Ha raggiunto in elicottero l’aeroporto internazionale di
Tel Aviv dove ad accoglierlo vi erano il presidente della Repubblica, Shimon Peres e il
primo ministro Benjamin Netanyahu. Nel suo saluto Bergoglio ha rilanciato con forza
quella soluzione politica al conflitto israelo-palestinese di «due popoli e due Stati» nella
sicurezza reciproca avanzata da tempo dalla Santa Sede e riproposta al presidente
palestinese. «La soluzione di due Stati diventi realtà e non rimanga un sogno » ha
affermato, rilanciando la cultura dell’inclusione e del confronto che «non lasci spazio
all’antisemitismo, in qualsiasi forma si manifesti e per ogni espressione di ostilità,
discriminazione o intolleranza verso persone o popoli ». Fermissima è stata la sua
condanna della Shoah. Parole apprezzate dal premier israeliano Netanyahu, come la
ferma condanna espressa dal pontefice per l’attentato al museo ebraico di Bruxelles. Ma è
a Gerusalemme, la «città della pace »,santa per le tre grandi religioni monoteiste, che vi è
stato l’altro grande gesto di Papa Francesco, questo però atteso: l’incontro con il patriarca
ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I nel 50° dello storico abbraccio tra i loro
predecessori, Paolo VI e il patriarca Atenagora. Il vescovo di Roma e quello ortodosso di
Costantinopoli sono entrati assieme nella basilica del Sacro Sepolcro e assieme hanno
pregato in quel luogo sacro per tutti i cristiani, ma paradossalmente segno di storiche
divisione. È la prima volta che accade. Papa Francesco e il patriarca di Costantinopoli
Bartolomeo I hanno pure sottoscritto un’impegnativa «dichiarazione congiunta » che apre
una nuova fase nel cammino verso l’unità tra la Chiesa di Roma e la Chiesa d’Oriente.
del 26/05/14, pag. 14
Dentro le miniere cinesi
dove vivere è un miracolo
di Cecilia Attanasio Ghezzi
Pechino
C’è un detto cinese sui lavoratori delle miniere di carbone: “tornano umani solo quando
risalgono in superficie”. L'immagine dei loro volti neri di fuliggine è quella che più colpisce.
Anche nel documentario di Yuanchen Liu: To the Light (2011). Segue i minatori che si
infilano nei budelli della terra senza maschere protettive. Non usano martelli pneumatici,
ma attrezzi rudimentali più simili ad asce. Il fascio di luce che proviene dall'elmetto, fa
brillare le polveri mortali che sollevano e inalano in gallerie non abbastanza ventilate.
Lavorano stesi o accovacciati in tunnel alti meno di un metro, tagliando quella pietra che
gli dà da vivere e che, fin troppo spesso, è causa della loro morte. Chi rimane ammirato
dallo scintillante skyline di Shanghai, difficilmente si ferma a riflettere che le luci della città
sono accese dai milioni di lavoratori che lavorano in queste condizioni per una cifra che va
dai dieci ai venti euro al giorno. L'energia che serve a quella che si appresta a diventare la
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prima economia mondiale è prodotta dal carbone per oltre il 65 per cento. Si tratta di circa
3,8 miliardi di tonnellate all'anno, un ammontare quasi pari a quello consumato in tutto il
resto del mondo. E lavorare nelle miniere è spesso l'unica forma di sostentamento per le
famiglie di contadini che non vogliono trasferirsi nelle lontane metropoli. Ci sono famiglie in
cui tre generazioni di maschi hanno lavorato negli stessi cunicoli. Uno dei protagonisti del
documentario, il signor Luo, ha cominciato ad estrarre carbone per pagare la multa sul
secondo figlio. Oggi è paralizzato a causa di un incidente. È costretto a letto, lavato e
accudito da sua moglie, una donna esausta. Suo figlio ha preferito guidare i carrelli nella
stessa miniera piuttosto che lasciarlo per cercare fortuna in una lontana città. I minatori
conoscono i rischi per la salute e la frequenza degli incidenti sul lavoro. Persino nel film si
assiste al crollo improvviso di una galleria. Uno di quei minatori non vedrà più la luce. Di
padre in figlio Anche la televisione di Stato Cctv , quando racconta per immagini la vita di
un operaio del carbone si sofferma sul rapporto padre-figlio: “quando ti vedo in salute,
papà si dimentica immediatamente della fatica”. Documenta la prima volta che un bambino
vede suo padre uscire alla luce dopo il turno notturno. È un tuffo al cuore. E il giorno dopo
il piccolo lo aspetta ancora lì, lo porta ai bagni pubblici per lavargli delicatamente la faccia.
Propaganda? La miniera nella regione settentrionale dello Shanxi scelta dalla Cctv ,
ovviamente, è completamente a norma. Gli operai, tutti nati negli anni Ottanta, indossano
maschere e protezioni. L'ambiente è asettico, la produzione meccanizzata. Si tratta di una
miniera che da sola produce 4,5 milioni di tonnellate di carbone, paga gli operai una cifra
onesta, che si aggira sui 900 euro mensili per otto ore di lavoro al giorno. Insomma, alcuni
virtuosi esempi ci sono. Ma per molti anni le miniere cinesi hanno mantenuto un primato
negativo. Negli anni Novanta facevano intorno ai seimila morti all'anno, ovvero cinque vite
stroncate ogni tonnellata di carbone prodotta. E non si contano gli operai affetti da malattie
polmonari. Secondo un rapporto del China Labour Bullettin (Clb) – ong di Hong Kong
impegnata in difesa dei diritti dei lavoratori – la pneumoconiosi ha ormai colpito un numero
di lavoratori compreso tra il milione (fonti ufficiali) e i sei milioni (stima del Clb). Si tratta di
una malattia professionale che comporta reazioni fibrose croniche polmonari ed è
provocata dalla prolungata inalazione di quantità eccessive di polveri. È incurabile. “Se
fossi rimasto un contadino – spiega un miniatore della provincia sud occidentale del
Guizhou all'Afp –avrei impiegato un anno per guadagnare quello che oggi è il mio salario
mensile”. I suoi polmoni “non fanno così male”. E in ogni caso non avrebbe il denaro
sufficiente per affrontare le cure mediche. Quest'anno, in occasione del Congresso del
popolo, il premier Li Keqiang ha “dichiarato guerra all'inquinamento”. Il governo ha
annunciato di voler porre un tetto massimo al consumo energetico, chiudere 50mila
fornaci, riconvertire le più grandi fabbriche a carbone e togliere dalle strade sei milioni di
veicoli altamente inquinanti. Sono state varate nuove leggi sulla sicurezza sul lavoro e
chiuse almeno 5mila gallerie considerate a rischio. Ma le difficoltà a monitorare tutte le
miniere presenti sul territorio cinese sono evidenti. La Cina detiene il primato mondiale per
numero di miniere (circa 12mila) e per consumo di carbone. Molte misure di sicurezza
erano già cominciate all'inizio degli anni Duemila. Specialmente in aree di recente
sviluppo, come la regione della Mongolia interna, dove si sono cominciate a preferire le
estrazioni a cielo aperto e si sono costrette le aziende impegnate nelle miniere a investire i
tecnologie atte a ridurre il gas che si sprigiona dal carbone e che troppo spesso provoca le
esplosioni mortali. Al tempo stesso sono aumentati i risarcimenti che le aziende avrebbero
dovuto pagare per gli incidenti sul lavoro. Gli sforzi sono stati premiati da una sensibile
diminuzione dei morti sul lavoro che nel 2013 si sono attestati a poco più di mille. Ma
secondo alcuni il calo delle morti in miniera non è dovuto al buon lavoro del governo. O
almeno non solo. Nel 2013 i prezzi del carbone sono continuati a scendere per il sesto
anno di fila. La crescita economica è rallentata e la domanda è diminuita. Così la
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pressione sui lavoratori e gli obiettivi di produzione si sono mantenuti entro limiti di
sicurezza. Ma se la domanda tornerà a crescere, i lavoratori saranno costretti a turni
massacranti e ad aprire nuove gallerie in fretta, senza per forza rispettare la legislazione
sulla sicurezza sul lavoro.
Il caso del Guizhou
Questo è precisamente quello che è accaduto in una miniera della regione occidentale
dello Xinjiang. Il 14 dicembre scorso un'esplosione ha provocato la morte di 22 persone.
La miniera era stata chiusa dalle autorità nel giugno dello stesso anno per problemi di
sicurezza. Ha riaperto appena ha potuto, con questo macabro risultato. Speriamo non
accadrà lo steso nella regione sudoccidentale del Guizhou. Qui il governo ha promesso
chiudere quasi la metà delle miniere attive, circa 800, entro la metà di quest'anno. Una
botta per l'economia locale perché l'estrazione del carbone garantiva salari dieci volte più
alti rispetto al lavoro nei campi. Ma non tutto il male viene per nuocere. Ormai l'alto rischio
per la vita dei lavoratori del carbone è noto: frequenti esplosioni, malattie polmonari e
carenza di acqua nelle regioni sfruttate e maggiore possibilità di frane e smottamenti. “I
benefici dell'industria sono temporanei”, confessa un altro minatore al giornalista dell'Afp .
“A lungo termine non c'è vantaggio”.
del 26/05/14, pag. 15
Non è un mestiere da europei
e una vita vale sempre meno
di Alessio Schiesari
Un cortocircuito, un’esplosione, l’impianto di ventilazione bloccato e quasi seicento
persone bloccate a 2 mila metri sotto terra, a quattro chilometri dalle uscite. Questa la
sequenza che, il 13 maggio scorso, ha portato alla morte di 301 minatori turchi nella
miniera carbonifera di Soma. Ad ammazzarne così tanti non sono state le fiamme, né le
macerie conseguenti ai crolli, ma il monossido di carbonio che ha invaso il dedalo di
cunicoli. Quello di Soma è stato il più grave incidente minerario della storia del Paese, ma
certamente non il primo. E probabilmente nemmeno l’ultimo. Mille tonnellate di carbone
turco costano 20 milioni di dollari e 7,22 vite umane. Questo dato diffuso dal think tank
Tepav –si riferisce al 2010, l’ultimo disponibile – colloca Ankara al primo posto nella poco
invidiabile classifica delle miniere di carbone più pericolose al mondo. In Turchia le
probabilità di subire un incidente mortale sono cinque volte più alte rispetto alla Cina (che
è in testa per numero assoluto di morti, ma estrae quasi la metà del carbone mondiale,
48,3 per cento, secondo l’ultimo rapporto diffuso dalla Conferenza mondiale dell’industria
mineraria). Il paragone con gli Usa è ancora più impietoso: un minatore turco ha 361
possibilità di morire più di un suo collega yankee.
QUANTO VALE la vita di un minatore? I 301 cadaveri estratti da Soma avevano uno
stipendio variabile dai 450 ai 670 euro al mese, a seconda dell’anzianità. È il 50 per cento
in più dello stipendio di un operaio tradizionale, lo stesso salario di un’autista di autobus e
meno della metà di quanto percepisce un medico. Osservando i volti dei minatori turchi
muti di fronte alle bare dei loro colleghi, i loro abiti bisunti, le facce fuligginose e la barba
incolta, sembra di fare un salto indietro di 130 anni, alle miniere di Montsou raccontate da
Émile Zola in Germinale o alle cave di zolfo del Rosso Malpelo di Giovanni Verga. Le
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uniche differenze che saltano agli occhi sono i colori fluorescenti dei caschetti e, quando
va bene, dei gilet catarinfrangenti. Ma ce n’è un’altra, meno evidente, che si evince dai
dati: il minatore non è più un lavoro da europei. Se all’epoca di veristi e naturalisti oltre il
60 per cento delle materie prime estratte in miniera proveniva dal Vecchio Continente,
oggi la questa quota è crollata intorno al 6 per cento (in larga misura proveniente dalle
miniere di ferro grezzo di Dnipropetrovsk Oblast, in Ucraina). Il resto della produzione è
suddivisa abbastanza equamente tra gli altri continenti se considera il valore in dollari delle
estrazioni, ma con differenze significative per quanto riguarda i singoli materiali: la Cina è il
primo produttore al mondo di carbone, oro, alluminio, materiali ferrosi e terre rare; il
Messico è in testa per quanto riguarda l’argento; grazie ai 33 minatori intrappolati per 69
giorni nei cunicoli di Copiapó, in molti hanno scoperto che il Cile è di gran lunga la più
grande riserva mondiale di rame; Filippine e Indonesia si contendono il primato per
l’estrazione di nichel, Russia e Sudafrica quello del platino; ancora Mosca divide la
produzione di diamanti con una sfilza di Stati africani (Congo, Botswana e Angola), mentre
le miniere di manganese sono distribuite tra l’onnipresente Cina, il Sudafrica, l’Australia e il
Brasile.
SE DAI DATI EMERGE in modo lampante il declino delle miniere europee, non si può dire
lo stesso della proprietà dei giganti dell’estrazione. Delle prime dieci industrie minerarie al
mondo, ben otto parlano inglese, almeno a livello di controllo azionario. Le uniche
eccezioni sono la brasiliana Vale (quarta) e il colosso cinese a controllo statale Shenhua
(quinta). Sul podio ci sono la britannica Glencore International, l’anglo-austra - liana Bhp
Billiton e, sul gradino più basso, un nome che inganna: la Rio Tinto ha un nome
spagnoleggiante, ma un azionariato anglo-australiano. La federazione internazionali dei
sindacati minerari, l’Icem, ha realizzato una serie di sondaggi che analizzano le maggiori
preoccupazioni del management delle multinazionali delle miniere: nonostante il fatturato
globale delle prime dieci aziende del settore nel 2013 abbia sfondato i 519 miliardi di
dollari, peraltro con dei profitti impensabili in altri settori, il livello di tassazione è il primo
cruccio dei dirigenti (31 per cento), mentre la sicurezza dei 10 milioni di lavoratori impiegati
in miniera è solo al quinto posto (con uno striminzito 5 per cento). Stando ai pochi (e non
del tutto affidabili) dati a disposizione, le morti in miniera sarebbero all’incirca 12 mila ogni
anno ma –aggiungono i sindacati – un numero ancora più consistente non finirebbe nelle
statistiche ufficiali. In Paesi come Cina e Russia qualcosa è stato fatto, ma per un
minatore le possibilità di morire sul lavoro sono otto volte maggiori rispetto al resto della
popolazione.
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INTERNI
del 26/05/14, pag. 1/2
Proiezioni Europee: democratici al 41,8%, doppiato M5S
Il trionfo di Renzi, flop di Grillo
GOFFREDO DE MARCHIS
È QUI la festa. Largo del Nazareno, sede del Pd. Anche Palazzo Chigi, piazza Colonna.
Matteo Renzi è già oltre gli aggettivi del trionfo. «Abbiamo fatto il miracolo», grida nei
corridoi usando le categorie della mistica.
«SIAMO il primo partito socialista d’Europa. Se vogliono fermare il populismo dovranno
ascoltarci anche a Bruxelles». Col 41 per cento e Grillo dietro di 20 punti «è un risultato
storico». All’una e 42 il suo tweet certifica la vittoria: «Commosso e determinato adesso al
lavoro per un’Italia che cambi l’Europa. Grazie #unoxuno. @pdnetwork #senzapaura».
Sembrano tutti ubriachi al Nazareno. Hanno un sorriso stampato sulla faccia. Sono
tantissimi, tutta la nuova generazione, attraversando le correnti. Fermano l’immagine, nella
grande sala della direzione, in una foto che resterà rinnovando definitivamente l’album di
famiglia della sinistra. C’è il nucleo storico renziano. Orfini e Stumpo, Fassina e Speranza.
Le giovani donne del nuovo Pd. Restano a casa D’Alema, Bersani, Bindi, Veltroni, che
oggi vede polverizzato l’ottimo risultato del 2008. Ma non scorre champagne nella stanza
del segretario. Solo acqua. Con l’eccezione del portavoce di Renzi, Filippo Sensi, che
stappa una bottiglia grande di Coca Zero, il suo doping, e
offre nei bicchieri di plastica.
QUANDO sugli schermi tv scorrono le prime proiezioni e c’è il “4” davanti alla doppia cifra
del Partito democratico, Renzi è ancora nella sede del governo. Adesso è il momento di
correre al Nazareno, di festeggiare con gli altri. «Mi sono tolto anche un peso. Si capisce
meglio quello che è successo con il governo Letta. Perché abbiamo dovuto accelerare,
perché non potevamo rimanere fermi», dice. Il Pd sarebbe arrivato secondo, spiegano i
suoi fedelissimi. Il 30 per cento sarebbe diventato una chimera, il 40 un pronostico
impossibile. Invece
le riforme, gli 80 euro, gli annunci e la promessa di cambiare l’Italia hanno scosso
l’elettorato, la sinistra, i fuoriusciti del centrodestra che non hanno più avuto bisogno di
transitare dai 5stelle per trovare una nuova casa. La lunga giornata, trascorsa quasi tutta a
Pontassieve, può alla fine trasfigurarsi in una celebrazione. Con l’avvertenza di Renzi:
«Servono ancora umiltà e lavoro», si raccomanda. Ma il consenso al governo e quello
personale è arrivato in maniera sorprendente per tutti. «Non penso affatto a elezioni
anticipate. Il
2018 è il nostro obiettivo».
Facendo un passo indietro, si va nel cuore della Toscana. Poche ore prima che tutto
accadesse. Dietro il muretto di cinta dell’abitazione del premier. Tappeto elastico, rete da
pallavolo ribassata, mini porta da calcetto, due palloni di cuoio. Questo sul prato. Un tavolo
da ping pong nella parte lastricata. È la parte esterna della villetta di Pontassieve, una
delle prime che si incontrano salendo verso la collina, verso il classico paesaggio toscano:
il verde intenso, i cipressi, il bosco in cima. Tutti possono dare una sbirciata, non c’è
bisogno di arrampicarsi. Basta mettersi in alto sulla strada, non ci sono barriere. All’una il
premier rientra a casa con la sua auto. La moglie Agnese ha in mano un dolce gelato
comprato in pasticceria. Al capo scorta Renzi dice: «Ci vediamo alle otto e torniamo a
Roma. Sto qui tutto il pomeriggio». Il paese ripiomba così nella quiete domenicale. Fuori
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dalla villa rimane un auto civetta dei Carabinieri. Gli agenti della sicurezza vanno a
mangiare al ristorante. Il cancello
automatico si chiude. La vicina di fronte, quando le telecamere finalmente mollano l’osso,
esce in giardino a curare le sue magnifiche rose, al massimo della fioritura.
Dura appena un paio d’ore il trambusto discreto che accompagna il voto del premier, il suo
piccolo giro in centro, la messa alla parrocchia di San Giovanni Gualberto, dalla parte
opposta della villetta del premier, nella zona bassa del paese. Alle 11 e 10 Renzi si
presenta alla scuola materna ed elementare Edmondo De Amicis. Lo aspettano una
sessantina di persone, famiglie al completo con i nonni, i bambini sulle loro bici che non
vedono l’ora di fare qualche impennata in santa pace. «Hai votato Grillo?», chiede un
piccolo col casco alla nonna. «Ma che sei matto. Ho votato Renzi. Come ti viene in mente
Grillo?». Dalle scale scende una coppia di anziani che ha appena deposto la scheda. Lui,
politologo, prevede: «Tra un anno torniamo qui per votare di nuovo». Arriva Renzi. Jeans
e camicia bianca. Stessa tenuta per la moglie. Dalla sua canottiera bianca ricamata
spuntano lunghe braccia già abbronzate. I tre bambini seguono i genitori senza fare storie.
Una perfetta first family , in una provincia paradisiaca, a 30 chilometri da Firenze ma
protetta da una rete di comunità vera.
Renzi appare tranquillissimo, anche se si gioca molto in questo voto. Quasi tutto. La
legittimazione, le riforme, la stabilità del governo,
il peso in Europa del Pd mentre dappertutto i socialisti arrancano o tengono a fatica. Le
spalle contratte mostrano però la tensione dell’attesa. Annuncia che non farà dichiarazioni
ufficiali. «Non mi fido degli exit poll, si dicono un sacco di bischerate commentando quei
dati. Anche a Guerini ho detto di stare attento ai commenti. Sapremo qualcosa di
attendibile alle due di notte». Il premier perciò usa l’arma della prudenza. Dissimula una
serenità assoluta, che si sposa con l’ambiente di Pontassieve. Dà cazzotti piuttosto forti
sul petto agli amici come forma di saluto, stringe le mani ai vecchietti, si mette in fila al
seggio accanto alla candidata sindaco del Pd Monica Marini, una non renziana. S’informa,
scruta i movimenti dei rappresentanti di seggio, vede il candidato 5 stelle Simone Gori e si
fa confermare che sia proprio lui dalla Marini. Il figlio di mezzo ha un’informazione
importante: «È il papà di un mio amichetto ». «Quale?», chiede subito il padre. Qui alla
scuola ci sono tutti i principali concorrenti delle comunali. Marini, Gori che ha una “mosca”
brizzolata, Alessandro Borgheresi (Forza Italia). Renzi parla con tutti, si informa, alla fine
entra e vota sotto i flash dei fotografi. Ma la sua partita è più grande di Pontassieve. E
nella notte arriva una vittoria dalle dimensioni davvero storiche. Una clamorosa prima
volta della sinistra italiana.
del 26/05/14, pag. 5
Travolta anche la minoranza del partito
La (contestata) campagna centrata sul leader ha pagato
Monica Guerzoni
«Piazze piene, urne vuote...» aveva scherzato Matteo Renzi per esorcizzare il fantasma di
Grillo, dopo la sfida tra San Giovanni e piazza del Popolo. Ha avuto ragione lui. Il
segretario-premier ha stravinto il «derby» delle Europee, scavalcando anche i sondaggi
più ottimistici. È riuscito nell'impresa di «asfaltare» Grillo ed è andato molto oltre il
sospirato «voto in più» rispetto alle Politiche 2013 e alle Europee 2009.
Non solo ha doppiato il M5S, ma ha polverizzato il 33,2 di Veltroni nel 2008, che per lungo
tempo era sembrato un record inarrivabile. Allora la «vocazione maggioritaria» era un
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miraggio, adesso sembra quasi a portata di mano. «È un risultato storico» scolpisce il
premier su Twitter all'una e mezza di notte, «commosso e determinato».
La scelta di centrare la campagna su se stesso, che aveva fatto storcere il naso alla
minoranza, ha pagato. E se anche verrà confermato che le cose al Sud non sono andate
affatto bene, il risultato supera le aspettative più ottimistiche. «È la vittoria di Matteo Renzi
ed è straordinaria - brinda il vice Lorenzo Guerini - Siamo il primo partito della sinistra
europea e l'unico, insieme alla Cdu della Merkel, che cresce governando. Altro che Grillo,
il sorpasso lo abbiamo fatto noi. Chi ha insultato ha ricevuto la giusta risposta dagli
italiani».
Il problema, semmai, sono i numeri (risicati) dell'alleanza di governo. «Exit Alfano», è la
sintesi sarcastica di Pippo Civati: «Con questi dati si torna a votare, nel senso che
vinceremmo. Ma sarebbe ora di mollare certi alleati scomodi». Salutare il Ncd? Tornare
alle urne? Per Guerini non accadrà nulla di tutto questo: «Siamo il motore del
cambiamento, gli italiani ci hanno votato per andare avanti».
Centrato il bersaglio, le polemiche sulla maggioranza e sul profilo del partito, che la
sinistra ritiene a trazione troppo renziana, possono attendere. Prova ne sia la presenza al
Nazareno di Stefano Fassina, Alfredo D'Attorre, Matteo Orfini, che aspettano notte per
festeggiare con Renzi. Maria Elena Boschi è la prima a parlare in tv di «risultato storico»,
rilanciando l'azione riformista e promettendo «umiltà».
E Debora Serracchiani le fa eco: «Straordinario, sì». Merito del solo Renzi? «L'intero
gruppo dirigente si è speso - assicura la vicesegretaria -. Alcuni magari non erano in prima
linea, ma è normale... Se le scorse volte eravamo abituati a vedere l'agenda Bindi,
l'agenda Bersani e l'agenda D'Alema, questa volta ha prevalso una classe dirigente
nuova». È la rottamazione, bellezza.
Il tema «gufi» aleggia nell'aria elettrica e poi euforica del Nazareno: chi ci ha messo la
faccia e chi, tra i vecchi «big», si è fatto vedere in campagna elettorale solo in cartolina?
Interrogativi che la vittoria sembra aver spazzato via. Civati assicura di essersi
«letteralmente massacrato» per racimolare voti ed è felice che il Pd abbia «fatto il botto».
I «tanti dubbi» sulla capacità di mobilitare al Sud restano, ma non è questo il tempo per
parlarne. Tra i bersaniani il sollievo fa premio sul disagio. Nico Stumpo è contento, anche
se non ha apprezzato la «totale anarchia sulle candidature». Per lui il nome di Matteo, che
ha corso a velocità folle da una piazza all'altra, da una tv all'altra, non basta a costruire un
partito: «Il problema è cosa ne facciamo del Pd».
E adesso l'unica speranza per l'opposizione interna di poter ridimensionare i renziani
almeno un po' è che ci sia qualche clamoroso sorpasso ai danni delle capolista. Beppe
Fioroni è tra coloro che hanno assistito con preoccupazione alla sovraesposizione
mediatica del leader, eppure lo ringrazia:
«Per fortuna che Renzi c'è! Ha fatto argine a Grillo. Ma adesso Matteo sarà il primo a
capire che anche un grande capitano, se vuole portarci sempre alla vittoria, ha bisogno del
gioco di squadra». La prossima settimana il leader riunirà la direzione. Fra due verrà
rinnovata la segreteria e scelto il presidente. E se nella Capitale i «dem» hanno tremato
per la crescita di Grillo, era solo un brutto sogno. Per Graziano Delrio bastano tre parole:
«Abbiamo seminato speranza».
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del 26/05/14, pag. 8
Fi è la terza forza ma precipita. Il tracollo nelle roccaforti del Nord Toti:
risultato non soddisfacente ma il centrodestra unito può ancora
competere. Quindi il Cavaliere proverà a ricucire con Alfano
Berlusconi in caduta “Io messo fuori gioco
Marina, tieniti pronta”
Per l’ex premier “è tutta colpa della scissione” e ora teme nuove fughe e
l’esplosione del partito
CARMELO LOPAPA
ROMA . È l’ora del tracollo, del tramonto, quello vero. Oltre la condanna, oltre la
decadenza, oltre l’interdizione. Silvio Berlusconi se ne rende conto a notte fonda, al
termine di una giornata vissuta ad Arcore sulla soglia della depressione, raccontano i suoi,
come se avesse avvertito già ore prima l’imminenza dell’addio. Quello degli elettori che lo
hanno voluto e votato per vent’anni. «Forse potevo fare di più, fare di meglio, ma mi hanno
messo fuori gioco e più di questo non potevo, ho dovuto fare tutto da solo» si sfoga,
stremato. Al fianco di Giovanni Toti, di Adriano Galliano, di Francesca Pascale appena
rientrata con Maria Rosaria Rossi da Roma, il leader a Villa San Martino appare ai suoi
come un pugile suonato.
Prova a dettare la linea della “resistenza”, ha ricominciato col dire: «Ora cambio tutto». Ma
Forza Italia è un partito allo sbando, altro che soglia del 20, via via nella notte precipita al
16 per cento, relegato al ruolo di terza forza. È un partito nel bunker, come il suo capo. I
consensi si sono dimezzati rispetto alle precedenti Europee e ridotti di mezza dozzina
rispetto alle Politiche 2013 (allora era Pdl). Ora il rischio della fuga si fa concreto. Quanti
deputati, quanti senatori saranno disposti nei prossimi giorni, nelle prossime settimane, a
restare in un serbatoio a esaurimento? «Tutta colpa della scissione, i nostri voti sommati a
quelli dell’Ncd e dei Fratelli d’Italia sarebbero stati gli stessi dello scorso anno, addirittura
cresciuti » spiega il leader al telefono a Denis Verdini e agli altri pochi big ammutoliti nella
sede romana di San Lorenzo in Lucina. Giovanni Toti lo ripete in tv. Ma nel quartier
generale è già un terremoto. E in questo quadro, di declino evidente, l’avvento di Marina
potrebbe subire un’accelerazione.
Il tracollo investe prima di tutto le ragioni chiave del consenso berlusconiano. Nella
Lombardia nella notte si viaggiava sotto quota 15. Nel Nordest la disfatta dell’11-12 per
cento. Il leader vuole dare un segnale, una scossa, «se non sarà così, da qui a breve
Forza Italia muore» racconta uno dei dirigenti di punta, ancora incredulo. Nella sede di
San Lorenzo in Lucina la sola Deborah Bergamini ha il coraggio di affrontare le telecamere
per ricordare che questo è stato «l’annus horribilis» del partito e del suo leader, «risultato
non esaltante» minimizza. Berlusconi ha convocato per mercoledì un ufficio di presidenza,
per leggere i risultati, ma anche per imprimere una svolta, provarci, dare un segnale di
vita. A Giovanni Toti e al giovane amministratore Alessandro Cattaneo il compito di
selezionare volti nuovi. Tanto per cambiare. Ma soprattutto, vuole «strutturare il partito».
Saranno istituiti dipartimenti, una segreteria ristretta, nuovi organismi. Altro che club, come
ha ammesso in privato: «La gente non li ha capiti, non sono decollati come avrebbero
dovuto». Ci vuole un partito vero, necessario per preparare la strada alla successione
dinastica.
A ora di pranzo, nel giorno cruciale, Silvio Berlusconi è a tavola proprio con i suoi figli. È a
loro che confessa: «Avrei potuto fare di più. Ma ancora una volta ho dovuto fare tutto da
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solo e senza di me chissà come saremmo finiti». Il fatto di non aver potuto mettere la
scheda nell’urna è la cosa che definisce più «umiliante».
Niente ressa stavolta nel seggio 502 di via Scrosati a Milano, dove abitualmente andava.
Si è presentata lì per solidarietà al capo la sola fedelissima eurodeputata Licia Ronzulli.
L’handicap «imposto dai giudici» è il vero alibi con cui l’ex premier spiega il flop. «Tutti a
dire che non ho fatto le piazze, ma se i giudici me lo hanno impedito, tutte le volte in cui
abbiamo chiesto delle deroghe per fare comizi ce le hanno negate». L’unica chiave per
invertire il trend è rilanciare il partito e il centrodestra con la carta Marina, Berlusconi ne è
sempre più convinto. «Tieniti pronta» le ha ripetuto in queste ore. Dentro Forza Italia è
chiaro già da tempo dove che quello è l’approdo. L’annuncio di Marina non avverrà ad
horas, ma da oggi lo scenario cambia.
del 26/05/14, pag. 1/4
LO SCONFITTO
La tentazione di Beppe “Con la politica
chiudo”
TOMMASO CIRIACO
SE GLI italiani vogliono Renzi, che se lo tengano. Ne pagheranno le conseguenze.
Avevano un’opportunità importante per cambiare, non l’hanno voluta cogliere». Beppe
Grillo è distrutto. Infuriato. Registrerà già oggi un video messaggio dai toni drammatici, ma
intanto nella notte più lunga non esclude nulla. Neanche un gesto eclatante, neanche
l’addio alla politica.
L’UNICA certezza è che per la prima volta negli ultimi dodici mesi Beppe Grillo è costretto
a fare i conti con la delusione. Anzi, con lo sconforto.
Il telefono di Gianroberto Casaleggio squilla a vuoto per tutti o quasi, nella vigilia più lunga
del guru. In pochi riescono a contattarlo, mentre scorrono i primi dati elettorali. È lui ad
aver creduto fino alla fine — e più di tutti, nel Movimento — nel “ribaltone”. Ed è sempre lui
ad aver spinto quell’asticella sempre più in alto. Adesso è deluso. «Sono depresso»,
confida ai suoi. Accanto al Fondatore della Casaleggio associati c’è Grillo, accorso a
Milano in fretta e furia nella notte. Devono ragionare sulla strategia, evitare che il
contraccolpo sia troppo doloroso.
Oggi i cinquestelle organizzeranno un banchetto davanti Montecitorio, una sorta di seduta
di autocoscienza. Resta il sorpasso fallito. Non per questo Grillo è disposto ad arrendersi.
Anzi, è pronto a scagliarsi contro il «garante» delle larghe intese: è Giorgio Napolitano
l’obiettivo della prossima campagna grillina. «Attaccheremo lui — promette Grillo nella
notte elettorale — dobbiamo costringerlo comunque alle dimissioni. E così cadrà pure il
governo guidato dall’ebetino».
Vogliono accreditarsi, ancora di più, come «l’unica opposizione rimasta in campo in Italia».
Senza scivolare però in Europa nelle braccia della trionfante Marine Le Pen. La guida del
Front National invita il Movimento a unirsi nella battaglia antieuropeista, ma già oggi Grillo
respingerà la proposta di matrimonio con l’estrema destra francese. Di più, rispetto alle
alleanze all’Europarlamento, si saprà direttamente dal leader nel corso del viaggio a
Bruxelles in agenda per le prossime settimane.
Il passo indietro, comunque, non assomiglia a un fulmine a ciel sereno. I vertici
pentastellati fiutano l’aria fin dal pomeriggio. Qualcosa non torna, soprattutto la
scarsissima affluenza al Sud. Sulla carta era proprio il Meridione a dover premiare il
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Movimento, lanciandolo verso vette da urlo. E invece nulla, tanto che lo staff della
comunicazione pentastellato inoltra per l’intero pomeriggio — a cadenza regolare — una
mail utile a evitare fughe in avanti. Di fatto, si ordina un silenzio stampa che certo non
rassicura le truppe grilline in trepidante attesa. Poi, a sera, arriva un altro segnale: Grillo
annulla una conferenza stampa già fissata e prevista in un primo momento per oggi a
Milano. Meglio affidarsi a un video sul blog. Registrato, ponderato, soprattutto senza
domande su quel “vinciamo noi” urlato dai palchi d’Italia.
La sonnacchiosa domenica d’attesa del comico genovese è un infinito zig-zag tra
Toscana, Liguria e Lombardia, anche se i motori di Beppe ci mettono parecchio a
scaldarsi. È reduce da una cena con amici a Marina di Bibbona, qualche ora di relax nella
sua villa con vista sul mare. Se la prende comoda, il Capo, perché le settimane di “vaffa”
l’hanno fiaccato almeno un po’. A Genova, dove è atteso per votare, arriva solo a
mezzogiorno.
Fa tappa nella residenza di Sant’Ilario. I concittadini lo salutano con uno striscione che
implora attenzione: “Grillo non fare la cicala, pensa alle formiche del tuo paese”. Dalla villa
esce però un altro Grillo: è il figlio Rocco.
Che scherza con i cronisti: «Vado a votare per il Pd... ». Poco dopo le quindici Beppe si
mostra ai curiosi e ai media a due passi dal suo seggio, nell’Istituto Agrario Marsano. È
sorridente, ma prudente. Come negarsi però un ultimo spot fuori tempo massimo? Con
una palese violazione delle norme che regolano la contesa infrange il silenzio elettorale.
Sabato Silvio Berlusconi aveva ignorato lo stesso divieto.
La prima battuta che il comico consegna alla stampa racchiude speranza e tensione,
sogno e incubo. Tutto appare in bilico, perché la posta è altissima e il Capo dei grillini ha
scelto di puntare tutto su questo passaggio elettorale: «Prepariamo i maalox — scherza —
possono servire a noi o agli altri...». Il leader, deluso, prova adesso almeno ad aggrapparsi
a un altro obiettivo: «Conquistare Abruzzo o Piemonte? Ci conto». Lo spoglio inizierà solo
oggi, ma Beppe ha già spinto in alto un’altra asticella.
del 26/05/14, pag. 6
Fi è la terza forza ma precipita. Il tracollo nelle roccaforti del Nord Toti:
risultato non soddisfacente ma il centrodestra unito può ancora
competere. Quindi il Cavaliere proverà a ricucire con Alfano
Berlusconi in caduta “Io messo fuori gioco
Marina, tieniti pronta”
Per l’ex premier “è tutta colpa della scissione” e ora teme nuove fughe e
l’esplosione del partito
CARMELO LOPAPA
ROMA . È l’ora del tracollo, del tramonto, quello vero. Oltre la condanna, oltre la
decadenza, oltre l’interdizione. Silvio Berlusconi se ne rende conto a notte fonda, al
termine di una giornata vissuta ad Arcore sulla soglia della depressione, raccontano i suoi,
come se avesse avvertito già ore prima l’imminenza dell’addio. Quello degli elettori che lo
hanno voluto e votato per vent’anni. «Forse potevo fare di più, fare di meglio, ma mi hanno
messo fuori gioco e più di questo non potevo, ho dovuto fare tutto da solo» si sfoga,
stremato. Al fianco di Giovanni Toti, di Adriano Galliano, di Francesca Pascale appena
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rientrata con Maria Rosaria Rossi da Roma, il leader a Villa San Martino appare ai suoi
come un pugile suonato.
Prova a dettare la linea della “resistenza”, ha ricominciato col dire: «Ora cambio tutto». Ma
Forza Italia è un partito allo sbando, altro che soglia del 20, via via nella notte precipita al
16 per cento, relegato al ruolo di terza forza. È un partito nel bunker, come il suo capo. I
consensi si sono dimezzati rispetto alle precedenti Europee e ridotti di mezza dozzina
rispetto alle Politiche 2013 (allora era Pdl). Ora il rischio della fuga si fa concreto. Quanti
deputati, quanti senatori saranno disposti nei prossimi giorni, nelle prossime settimane, a
restare in un serbatoio a esaurimento? «Tutta colpa della scissione, i nostri voti sommati a
quelli dell’Ncd e dei Fratelli d’Italia sarebbero stati gli stessi dello scorso anno, addirittura
cresciuti » spiega il leader al telefono a Denis Verdini e agli altri pochi big ammutoliti nella
sede romana di San Lorenzo in Lucina. Giovanni Toti lo ripete in tv. Ma nel quartier
generale è già un terremoto. E in questo quadro, di declino evidente, l’avvento di Marina
potrebbe subire un’accelerazione.
Il tracollo investe prima di tutto le ragioni chiave del consenso berlusconiano. Nella
Lombardia nella notte si viaggiava sotto quota 15. Nel Nordest la disfatta dell’11-12 per
cento. Il leader vuole dare un segnale, una scossa, «se non sarà così, da qui a breve
Forza Italia muore» racconta uno dei dirigenti di punta, ancora incredulo. Nella sede di
San Lorenzo in Lucina la sola Deborah Bergamini ha il coraggio di affrontare le telecamere
per ricordare che questo è stato «l’annus horribilis» del partito e del suo leader, «risultato
non esaltante» minimizza. Berlusconi ha convocato per mercoledì un ufficio di presidenza,
per leggere i risultati, ma anche per imprimere una svolta, provarci, dare un segnale di
vita. A Giovanni Toti e al giovane amministratore Alessandro Cattaneo il compito di
selezionare volti nuovi. Tanto per cambiare. Ma soprattutto, vuole «strutturare il partito».
Saranno istituiti dipartimenti, una segreteria ristretta, nuovi organismi. Altro che club, come
ha ammesso in privato: «La gente non li ha capiti, non sono decollati come avrebbero
dovuto». Ci vuole un partito vero, necessario per preparare la strada alla successione
dinastica.
A ora di pranzo, nel giorno cruciale, Silvio Berlusconi è a tavola proprio con i suoi figli. È a
loro che confessa: «Avrei potuto fare di più. Ma ancora una volta ho dovuto fare tutto da
solo e senza di me chissà come saremmo finiti». Il fatto di non aver potuto mettere la
scheda nell’urna è la cosa che definisce più «umiliante».
Niente ressa stavolta nel seggio 502 di via Scrosati a Milano, dove abitualmente andava.
Si è presentata lì per solidarietà al capo la sola fedelissima eurodeputata Licia Ronzulli.
L’handicap «imposto dai giudici» è il vero alibi con cui l’ex premier spiega il flop. «Tutti a
dire che non ho fatto le piazze, ma se i giudici me lo hanno impedito, tutte le volte in cui
abbiamo chiesto delle deroghe per fare comizi ce le hanno negate». L’unica chiave per
invertire il trend è rilanciare il partito e il centrodestra con la carta Marina, Berlusconi ne è
sempre più convinto. «Tieniti pronta» le ha ripetuto in queste ore. Dentro Forza Italia è
chiaro già da tempo dove che quello è l’approdo. L’annuncio di Marina non avverrà ad
horas, ma da oggi lo scenario cambia.
del 26/05/14, pag. 10
L’Ncd non sfonda. Il leader: “Appesi a un filo, siamo finiti nella tenaglia
tra Renzi e Grillo” Quagliariello ammette: ci aspettavamo di più
Era vitale superare il 4 per cento “Gli ultimi scandali ci hanno
penalizzato” Gasparri: tornate con noi in Forza Italia
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Alfano: ci hanno schiacciati, ma non mollo
ALBERTO D’ARGENIO
ROMA .
«Siamo appesi a un filo, ma il progetto va avanti, siamo finiti schiacciati nella tenaglia tra
Grillo e Renzi». Per Angelino Alfano la notte elettorale passata al Viminale è la più carica
di ansie. Per il Nuovo Centrodestra le europee erano la sfida per la sopravvivenza. Per un
partito nato da sei mesi dopo lo strappo con Berlusconi, superare il quorum del 4% alle
europee era vitale. Ma dalla chiusura delle urne sono iniziate le montagne russe, con exit
poll e proiezioni che davano il partito a cavallo del numeretto fatidico, un balletto tra il 3,9%
e qualche decimale sopra il quattro, una manciata di voti che cambiavano completamente
le prospettive dell’Ncd. E pensare che per centrare l’obiettivo gli alfaniani si sono alleati
con l’Udc di Cesa, sperando nella residua capacità attrattiva dello Scudocrociato per
mettersi al riparo da brutte sorprese. «Le premesse - spiegava in serata un dirigente
dell’Ncd - non erano delle migliori, siamo nati da poco, senza un euro, abbiamo subito la
campagna dei partiti più grandi e negli ultimi giorni siamo stati colpiti da scandali
giudiziari».
Strappare un commento politico a un dirigente dell’Ncd nella lunga notte dello spoglio è
una missione quasi impossibile. «Vorremmo commentare risultati definitivi», spiegava la
portavoce Barbara Saltamartini. Eppure un barlume di speranza ha continuato a illuminare
la sede di Via in Arcione, dove i dirigenti si dicevano sicuri che alla fine il risultato sarebbe
stato quello giusto: «Lo spoglio al Sud, dove abbiamo più consensi, è indietro, alla fine
probabilmente saremo al 4,1-4,3%». Aggiungeva in piena notte il coordinatore
Quagliariello: «Siamo convinti di avere superato il quorum, se i dati saranno quelli che
pensiamo possiamo dire abbiamo passato l’esame con il minimo della sufficienza, ma non
nascondiamo che con quello che abbiamo studiato pensavamo di prendere un po’ di più».
Alla vigilia del voto uno dei leader Ncd tracciava questo scenario: «Se non superiamo il
quorum siamo nei guai», e con il partito di Alfano al tappeto al primo test elettorale anche il
governo di Renzi avrebbe traballato. Uno scenario che a caldo Sacconi respingeva:
«L’area di governo ne esce consolidata». Questione di decimali. Ma a dire il vero quelli del
Nuovo Centrodestra partivano da sondaggi che in alleanza con l’Udc gli davano al 6,5%.
Appena visti i dati che davano l’Ncd sulle montagne russe, il Gasparri provocava: «Devono
tornare nel centrodestra se non vogliono stare in bilico sul 4%». Risposta della
Saltamartini: «Gasparri riesce sempre a provocare, noi guardiamo avanti». Cosa rischia
ora l’Ncd? Posto che per il partito tra il 3,9 e il 4% cambia tutto, consolava il risultato
negativo di Forza Italia, grazie al quale il rischio dissolvimento dell’Ncd sembrava
comunque evitato. «Un controesodo non lo rischiamo - assicurava Quagliariello - gli altri
non sono andati bene, c’è semmai un problema nel centrodestra che dovremo
affrontare con calma, a risultati certi, ma che sopravviveremo lo do per scontato». Anche
un ritorno verso Berlusconi, complice il crollo degli azzurri, sembra scongiurato, con
sollievo di Alfano e Quagliariello. Ci sarà invece da decidere sul percorso comune con
l’Udc, con cui l’alleanza dovrebbe andare comunque avanti, con la formazione di gruppi
comuni in Parlamento, seppur senza grandi entusiasmi.
del 26/05/14, pag. 10
Il Carroccio spinto da Le Pen
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Salvini esulta: “Siamo risorti”
RODOLFO SALA
MILANO .
La Lega veleggia sopra il 6 per cento, è il quarto partito. E Matteo Salvini, poco dopo la
mezzanotte, abbandona ogni cautela: «Se solo sei mesi fa avessi detto che saremmo
arrivati quarti, mi avrebbero fatto ricoverare d’urgenza: tutti i gufi sono stati smentiti, la
Lega è viva e vegeta; è un miracolo». Nel Nordovest il risultato migliore: oltre il 12 per
cento, stando almeno alle proiezioni, mentre nel Nordest è un po’ sopra il 9.
Ma c’è stato un prezzo da pagare, in questa gara per la sopravvivenza che i leghisti sono
riusciti a vincere: l’alleanza con Marine Le Pen e gli altri partiti ultranazionalisti e xenofobi
europei. Alleanza un po’ contronatura, come aveva lasciato intendere Umberto Bossi sei
mesi fa, al congresso di Torino che incoronò il nuovo segretario: «Avere obiettivi comuni
con questi movimenti non significa condividere un destino». E invece alla fine il vecchio
leader si è adeguato (ieri ha scritto il nome di Salvini sulla scheda) e la Lega si è salvata
proprio così, aggrappandosi alla Le Pen, facendo la voce grossa contro l’euro e
cavalcando come e più di prima paure vecchie e nuove.
Infatti la prima dichiarazione di Salvini, abbottonatissimo fino alla seconda proiezione, è
tutta un peana a Marine: «È l’inizio della fine di questa Europa, ne costruiremo un’altra;
sono molto contento di avere cominciato a collaborare con la Lepen da mesi, martedì ci
incontreremo per definire l’alleanza». Poi, nella grande sala di via Bellerio zeppa di
militanti entusiasti, sono venuti gli sfottò ai «gufi che ci davano per morti». Tanto che
adesso, esagera Salvini, «puntiamo a diventare il punto di riferimento del centrodestra
anche al Sud». Mentre a livello europeo «siamo già una bella truppa d’assalto, perché se i
dati sono questi l’euro è una moneta del passato».
Sono sparate, però la Lega è andata ben oltre il 4,1 per cento raccattato alle politiche dello
scorso anno. Allora si votava anche per la Regione Lombardia, con Maroni candidato
governatore, ma già allora decisissimo ad abbandonare la guida del movimento
sprofondato negli scandali per lasciarla al giovane Matteo. Definito ieri sera da Giancarlo
Giorgetti «una ventata di aria fresca», mentre Maroni all’inizio lo chiamava «il nostro
Renzi». Dopo quel voto, cominciò la débâcle: e la rappresentazione plastica del disastro si
ebbe nella tornata amministrativa di giugno, con la bruciante sconfitta di Treviso, città culla
della Lega che crollò all’8 per cento.
La cura Salvini partì proprio in quei mesi, e una parte dei maroniani, a cominciare dal
“moderato” Flavio Tosi, non esitò a definire le mosse del nuovo leader un «mutamento di
pelle» inutile e forse dannoso, con quel richiamo a un impossibile uscita dall’euro e con
quell’alleanza siglata con i nazionalisti europei di ogni risma. «Primum vivere», rispondeva
ai leghisti più scettici Maroni, convinto che il nuovo corso impresso dal giovane e dinamico
segretario (ieri si è presentato ai seggi in Bermuda, ed è entrato in cabina con un tablet,
anche se è vietato) sarebbe servito a scongiurare la morte politica del partito più antico.
Adesso i leghisti sperano che vada bene anche alle amministrative: non certo in Piemonte,
dove l’uscente Roberto Cota neppure è stato ricandidato, ma in via Bellerio non disperano
di avere da oggi qualche sindaco in più. La gara più importante a Padova, dove si è
candidato capogruppo al Senatio Massimo Bitonci.
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del 26/05/14, pag. 11
L’intellettuale capolista: “Più forti del silenzio dei media su di noi. E ora
la lotta ad antieuropeismo e austerity”
“L’altra Europa” al 4 per cento. Vendola: un successo Spinelli: anche
per Draghi la Ue è un malato grave
Effetto Tsipras a sinistra “Noi l’alternativa
contro i nuovi fascisti”
ALBERTO CUSTODERO
ROMA .
«Quattro per cento vuol dire che il discorso molto europeo, e molto critico-europeo di
questa lista, ha avuto successo ». Barbara Spinelli, l’intellettuale capolista de “L’altra
Europa con Tsipras”, non nasconde la propria soddisfazione. «Se gli exit poll saranno
confermati — aggiunge — vuol dire che l’Europa sta messa molto male. Del resto, lo
stesso Draghi, avendo detto a urne ancora aperte che l’Ue ha bisogno di risposte, ha
ammesso che la malattia è grave».
Ottimista anche Nichi Vendola. «Bisogna essere sempre prudenti sui primi exit poll — ha
commentato a caldo, appena arrivato a Roma presso la sede di Sel — ma se si
confermasse questo dato di superamento della soglia, dimostrerebbe che la scelta della
lista Tsipras è stata giusta». «Ci sono luci di speranza come il successo di Tsipras in
Grecia — ha aggiunto il leader di Sel — ma c’è l’ombra pesante (che avanza nel
Continente) dell’antieuropeismo frutto avvelenato delle politiche fallimentari delle larghe
intese, dell’austerity. E della complicità tra partiti socialisti e centrodestra, in Grecia con il
crollo del Pasok. E in Francia con la frana del Psf».
Barbara Spinelli — che conferma, in caso di elezioni, le sue dimissioni — pensa che «ora i
toni alti che hanno infiammato la campagna elettorale scenderanno. Un eventuale
sorpasso di Grillo avrebbe accentuato molto la richiesta di un cambiamento politico forte.
Con questo successo del Pd, credo che non ci sarà».
Ma come è vissuto, dalla sinistra radicale europea in Italia, il successo della sinistra
riformista del Pd di Renzi? Per Spinelli «non è certo un successo delle politiche
governative italiane come sono state fatte fin qui, perché sono fortemente contestate sia a
desta che a sinistra. Penso che Renzi dovrà tenerne conto. Per il momento — conclude —
viviamo il nostro risultato come la vittoria di una lista che era partita con pochissimi mezzi
e scarsissima copertura mediatica. Forte solo delle critiche all’Europa, che si sono rivelate
vincenti». Per Sel, «l’affermazione in Grecia è un risultato straordinario, la conferma che
dove la sinistra ha fatto fino fondo il proprio mestiere, a fronte delle politiche di austerità, il
risultato arriva forte».
Luca Casarini, figura storica della sinistra movimentista, anch’egli in lista, è soddisfatto per
aver superato la soglia. «Ci ho sempre creduto — confessa — anche se mantengo la
sorpresa per questo sbarramento del 4 per cento. È assurdo averlo messo per le elezioni
al parlamento europeo che non sono direttamente collegate alla formazione del governo.
Sembra evidente che si sia trattato di un meccanismo ingiusto per tentare di lasciare fuori
la rappresentanza di centinaia di migliaia di persone». Per il no-global, disobbediente, ex
“tuta bianca”, «è partito un processo di formazione costituente per una nuova sinistra
europeista radicale in Europa. In Italia ho sentito l’entusiasmo degli ultimi giorni che ci ha
evitato di essere schiacciati dall’informazione mainstream Grillo contro Renzi. Mi conforta
molto ciò che sta accadendo alla sinistra radicale in giro per l’Euopa a partire dalla Grecia,
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è un buon auspicio, penso ci voglia un’alternativa europeista che cominci dal tema
dell’alternativa, e che parta dai più deboli». Dopo l’attentato antisemita di Bruxelles,
Casarini ricorda infine che «bisogna attrezzarsi per frenare l’ondata di neonazismo che
circola per l’Europa proprio nella fase di recessione, la stessa congiuntura economica
negativa che favorì l’ascesa del partito di Hitler».
del 26/05/14, pag. 13
Istrionismo, selfie e “sputi digitali” dal cupio
dissolvi alla sorpresa italiana
Per molti è stata la peggiore contesa nella storia della Repubblica
In aggiunta ai mali consueti del Paese il “turbo-tripolarismo” ha
trasformato tutto in una grottesca tragicommedia
FILIPPO CECCARELLI
MA POI ? Ma poi, tra buffonate e malinconia, fanatismi e idiozie, nasi turati e cupio dissolvi
, chiunque abbia vinto - e stavolta in Italia non sarà un problema capirlo - dovrà in ogni
caso tener conto di aver vinto in un paese che sembrava davvero «corso, guasto, arso e
depredato», per dirla con Machiavelli, principe dei gufi di tutti i tempi, ma anche fondatore
della moderna politica.
Una paese visto in Europa come un laboratorio avanzato di esperimenti sociali per lo più
perniciosi, l’altroieri il fascismo e ieri il berlusconismo, magari domani un grillismo
d’esportazione; e comunque un paese paralizzato nelle sue più che durevoli magagne, dal
che, secondo Ceronetti, «l’irriformabilità italiana ormai calco statuario».
Ecco, da oggi tutto è destinato a cambiare. Eppure, anche al netto dei risultati, gli ultimi
due mesi rischiano di riviversi lo stesso come un sogno conturbante, troppe visioni per non
riconoscerne la natura incubatica, sputi digitali, banane anti-razziste addentate davanti alle
telecamere, e scherzi radiofonici, il finto Vendola, il finto Papa, i professoroni, la Pascale
che si tocca la pancia nel negozio per bambini, il cappelletto e l’impermeabile nero di
Casaleggio, i selfie di Vespa, i comizi con i cani di Berlusconi, la cantina extralusso di
Daccò, la tribuna d’onore sgomenta dinanzi alle gesta di «Genny ‘a carogna», la tintura
per capelli acquistata a spese del contribuente dal consigliere regionale calvo...
«La peggiore campagna elettorale della storia della Repubblica» l’ha definita Occhetto,
redivivo. Impossibile fare graduatorie. Ma certo ai mali consueti il turbo-tripolarismo pareva
essersi aggiunto il sentimento di malanni supplementari, per esempio quella comune,
brutale e adesso anche ripartita semplificazione del discorso pubblico, «noi» e «loro»,
«buoni» e «cattivi», pillole, caramelle, tormentoni e paure da fissare nell’inconscio
collettivo; tutti e tre i leader che parlavano alla «pancia» dell’elettorato; tutti e tre che
garantivano la rivoluzione; tutti e tre che denunciano misteriose forze nell’ombra, i poteri
forti, i banchieri malvagi, i mandarini sabotatori, quattro colpi di Stato...
La vittoria, certo, rende innocenti; e la sconfitta equivale a una colpa. La «svolta buona» di
Renzi è passata; la «rabbia buona» di Grillo è invece apparsa cattiva. Berlusconi resta
immobile, in camice bianco, come nell’istantanea presa con il teleobiettivo dietro le mura
della «Sacra Famiglia» di Cesano Boscone. Si raffreddano le profezie di Lele Mora: «I
vecchietti li farà divertire cantando, portando musicisti. E per renderli felici farà i trenini alla
carnevalesca» - là dove la tentazione era di trovar riparo dietro l’astruso pensiero di
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Baudrillard: «Il carnevale dell’immagine è anche l’auto-cannibalizzazione tramite
l’immagine».
Un terzetto di tribuni ad alto impatto comunicativo, quale è emerso dall’interminabile clip
preelettorale. Chi si è fatto prendere in braccio sui palchi forzando l’ecclesiologia
berlingueriana; chi pateticamente ha recitato la parodia del «5 maggio »; chi si è messo
pantaloncini corti e una maglietta giallo canarino per meglio esibirsi in palestra mentre si
esercitava con gli estensori: « Move on to make the world better ». Come se l’istrionismo
nazionale si fosse ormai definitivamente intrecciato con le virtù del comando.
Due mesi di illusioni ottiche, miraggi, fantasmi. Franco Cordero: «La storia d’Italia è in
larga misura teatro, dove l’immaginario eclissa i fatti. L’atto politico par exellence consiste
nell’iniettare immagini nei cervelli». E allora per forza tornava il ricordo dell’ Economist
dopo le ultime politiche, Grillo e Berlusconi e la strillo di copertina: « Send in the clowns »,
dentro i pagliacci. Presagio fra i presagi, a Modena, durante uno spettacolo elettorale con i
circensi l’ex ministro Giovanardi, in fase di sempre più accentuata folklorizzazione, si è
lasciato abbracciare da un clown ed è rovinato in terra.
Si capirà meglio ciò che è accaduto. Cadrà nell’irrilevanza ciò che tanto ha impressionato.
Il leghista Buonanno che sventola una spigola in aula e si soffia il naso con la bandiera
europea; Alfano che stringe i pugni sui poster e Luxuria che lo trova molto simile al
pupazzo di «Profondo rosso»; Fassino che fa il dito medio agli ultrà; Casaleggio che mette
in vendita un e-book che raccoglie gli insulti rivoltigli, non a caso s’intitola « Insultatemi » e
un grazioso cartone animato lo pubblicizza con tanto di musichette e rumori, tòctòc,
bòingbòing.
Si perdoni l’altezza del richiamo leopardiano: «Gli italiani ridono della vita: ne ridono assai
più, e con più verità e persuasione intima di disprezzo e freddezza che non fa niun’altra
nazione». Fatto sta che Renzi ha trovato 20 euro per strada; Berlusconi si è fatto murare
ad Arcore una riproduzione della Bocca della Verità; il manager dell’Expo, Rognoni, che
confidava: «Questi fanno la patrimoniale entro Natale».
Si vince, si perde, ma la commedia è sempre in agguato. così Scajola inseguiva Chiara; la
Boschi su Vanity fair «come una dama del Pollaiolo»; la Daddario si prende a capelli con
Barbara Montereale; il candidato governatore del Pd in Abruzzo evoca gli Ufo; il deputato
grillino Fraccaro, sfiorato da Civati durante un talk-show, si spolvera la manica; e Primo
Greganti si giustifica: «Volevo solo creare posti di lavoro per i giovani».
A venti giorni dal voto un signore ha depositato il marchio Dudù, valido per alimenti
dietetici, pappe per neonati, erbicidi, occhi e denti artificiali. L’Europa ci guarda. Il vincitore
dovrà comunque vedersela con un paese molto più enigmatico e sfuggente di quanto i
risultati lo rappresentano. Ma intanto qualcosa è successo, e per una volta si può perfino
accogliere con ottimismo il nero giudizio di Cioran: «Come ogni altra cosa umana la
politica non si compie che sulle proprie rovine».
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SOCIETA’
del 26/05/14, pag. 12
Medici, contro il codice la rivolta degli
obiettori
A neanche una settimana dall’approvazione si annunciano ricorsi
contro il nuovo regolamento ● Sotto tiro le modifiche all’articolo che
regola e riscrive la clausola di coscienza
Il nodo della questione, quello che ha fatto esplodere la reazione dei medici obiettori,
sempre di più nei nostri ospedali, sta in poche righe. Quelle che hanno allungato e
modificato l’articolo 22 del Codice deontologico dei medici, rinnovato in toto da circa una
settimana. Nell’articolo in questione si disciplina la clausola di coscienza. Nella vecchia
versione, che risale al 2006, vi si legge che il medico «al quale vengano richieste
prestazioni che contrastino con la sua coscienza o con il suo convincimento clinico, può
rifiutare la propria opera, a meno che questo comportamento non sia di grave e immediato
nocumento per la salute della persona assistita e deve fornire al cittadino ogni utile
informazione e chiarimento». La nuova, invece, è stata integrata nella parte finale
prevedendo l’obbligo di fornire informazioni «per consentire la fruizione della prestazione».
In pratica se una donna si rivolge a un medico obiettore con l’intenzione di abortire questo
potrà rifiutarsi di farlo ma dovrà indicare la struttura più idonea o vicina dove poter
accedere al servizio di interruzione di gravidanza (tutelata dalla legge 194). Che cosa c’è
di sbagliato in questa piccola aggiunta? Secondo i medici obiettori, con questa nuova
formulazione, si diventa di fatto complici di un’azione che disapprovano per motivi di
coscienza. «Siamo contrari a questo documento e sto pensando di fare un ricorso per
bloccarlo. Comunque da noi potremmo non applicarlo », fa sapere Roberto Rossi,
presidente dell’Ordine di Milano, il secondo più grande d’Italia. Sulla scia dei medici
milanesi si sono posizionati gli Ordini di Bologna, Lucca e Massa Carrara, pronti anche
loro a ricorrere al Tar pur di non applicare il nuovo Codice. Insofferenze si rilevano anche
a Ferrara, Piacenza, Latina e Potenza. «Ho già parlato con gli avvocati di un eventuale
ricorso contro il testo approvato alla fine della scorsa settimana - spiega Rossi - . Devo
sentire il nostro consiglio in proposito. C'è anche l'idea di non applicare il nuovo codice
deontologico ma restare con quello del 2006, o di emendarlo senza considerare gli articoli
che ci convincono di meno. La legge ci permette di farlo ed è la stessa idea che hanno i
colleghi di Bologna». Che ci fosse una piccola, o grande a seconda delle angolazioni da
cui lo si osserva, frattura lo si era capito si dal momento della votazione, lo scorso 18
maggio, all’interno del Consiglio nazionale. Dei 106 ordini votanti, infatti, si sono registrati
10 voti contrari e 2 astenuti. Non era mai successo che il Codice deontologico non venisse
votato all’unanimità.
Ma sotto osservazione c’è anche l’articolo 3 dove si sostituisce il termine «eutanasia» con
«pratiche per la buona morte». Anche in questo caso il cambiamento lessicale
sembrerebbe tarato sul buon senso. Non per Giancarlo Pizza, presidente dell’Ordine di
Bologna, che ha paventato (perché mai poi...) il rischio di un’assimilazione alle cure
palliative, «mentre dev’essere ben chiaro che l’eutanasia è un’altra cosa»,ha detto.
L’attacco è stato respinto però dal presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei
medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo), Amedeo Bianco, che assicura «azioni di
risposta » affermando che «le decisioni prese vanno rispettate». Bianco ha inoltre rilevato
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come la «fattispecie del ricorso al Tar sia alquanto curiosa» e «non so se ve ne siano i
presupposti». Ad ogni modo, ha concluso, «c’è un filo di amarezza, perché non mi pare
che il dibattito portato avanti sul Codice in questi ultimi due anni possa ridursi ai
ragionamenti fatti e alle considerazioni imbarazzanti che sono state avanzate». Va detto
che qualche rimostranza è stata avanzata anche su altre nuove regole. Come il rispetto
delle modifiche organizzative decise dai Servizi sanitari regionali o dalle aziende: in questo
caso come dovrebbe comportarsi un medico se una Asl o un servizio sanitario
introducesse una cura che non ha alcun fondamento scientifico ma è sostenuto da una
fortissima campagna stampa, come nel caso di Stamina? E poi anche l’obbligo di avere
un’assicurazione professionale sta creando più di un malumore. Perché ci sono poche
compagnie che ti assicurano e se lo fanno i prezzi non sono proprio modici. Dunque, si sta
preparando una battaglia, politica più che altro, della quale non se ne sentiva necessità. E
dagli esiti incerti.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 26/05/14, pag. 13
Un parco dopo l’alluvione
Sardegna, svolta ambientale
In quattro dei comuni colpiti dal disastro di novembre sorgerà un parco
fluviale di 8000 ettari per favorire la ripresa economica ecosostenibile
Succede di rado, ma a volte l’uomo impara la lezione e non ripete i propri sbagli. A volte,
addirittura, capisce che non è il caso di sfidare la natura e cercare di tenerle testa. E che
conviene, anzi, cercare di sfruttare al meglio i doni che ci vengono dati.
Sei mesi fa, tra il 18 e il 19 novembre 2013, un terribile alluvione innescato dal ciclone
Cleopatra, ha provocato morte e distruzione in diverse zone della Sardegna. Una
precipitazione torrenziale, 440 millimetri (o se preferite, 44 centimetri) in 24 ore,
l’equivalente di sei mesi di pioggia, hanno fatto tracimare fiumi e canali, una gigantesca
bomba di acqua che si è abbattuta soprattutto su Olbia, Oristano e Nuoro, una sessantina
di comuni e 18 vittime. Quattro di loro, nel nuorese, messi in ginocchio dal fiume Posada
che ha tracimato, arrivando ai camini delle case e ai tetti dei capannoni. Bitti e Lodè, più a
monte, Posada (che prende il nome dal corso d’acqua) e Torpè a valle, uniti dal disastro.
Ma anche da un progetto che si trascinava ormai da una decina d’anni, un parco fluviale
che concili finalmente le caratteristiche del territorio con la possibilità di ricavarne una
risorsa economica. La giunta Regionale nei giorni scorsi ha approvato il disegno di legge
istitutivo dell’oasi, riprendendo l’iter istitutivo che si era interrotto nel dicembre scorso dopo
un iter lungo ormai nove anni. Era stato il veto posto in consiglio regionale dal capogruppo
di “Sardegna è già domani”, Nanni Campus, a stoppare l’istituzione dell’area protetta
rimandando il tutto al nuovo consiglio regionale che ha portato il provvedimento
all’attenzione della giunta.
Una grande oasi naturale, 7.877,81 ettari, includendo due osai naturalistiche quali Littos e
Tepilora e a valle, il delta del fiume Posada. Oltre ai quattro comuni come volano e la
provincia di Nuoro, l’Ente foreste e la Regione Sardegna. Un’ecosistema completo e
perfetto, dove si possono trovare rare specie, come rapaci,che può dare al territorio così
gravemente colpito, e dove evidentemente l’impronta dell’uomo è stata troppo spesso fuori
posto, l’opportunità di avviare un’economia rispettosa e un turismo ecosostenibile. Il Parco
Tepilora, Sant’Anna e rio Posada, ormai in dirittura d’arrivo dopo qualche intoppo legato al
percorso legislativo intrapreso e arenatosi nei mesi scorsi in consiglio
regionale,comprenderà al suo interno anche luoghi unici come la foresta Sos Littos-Sas
Tumbas, una delle foreste storiche della Sardegna, acquisita del demanio fin dal 1914.
Nella zona è possibile vedere daini, cinghiali, volpi, gatti selvatici, martore, lepri, donnole.
Inoltre è presente un recinto per il ripopolamento dei mufloni. La regina del cielo è l’aquila
reale, il cui sito di nidificazione è localizzato nei pressi del Monte Tepilora. Ma si possono
avvistare anche il falco pellegrino, lo sparviero e la poiana.
«L’evento calamitoso ha fatto prendere coscienza, nelle aree colpite dalle esondazioni del
fiume Posada, che non era più possibile realizzare insediamenti abitativi o industriali»
spiega Davide Boneddu, presidente dell’Ordine dei geologi della Sardegna. «Si è creato
invece, con la creazione di questo parco e la conclusione di un progetto datato ormai da
tempo, un circuito virtuoso che unificherà l’ecosistema, con la sua flora e la fauna, con un
turismo sostenibile». Nel progetto i comuni a monte hanno avuto un’azione di stimolo nei
confronti di quelli a valle, conciliando le reciproche disponibilità, e per dirla con Boneddu,
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«il fiume alla fine deve riprendersi i suoi spazi». Nell’ambito di una convention sul dissesto
idrogeologico, nella quale si è parlato anche del parco fluviale di Tepilora, il presidente del
Consiglio nazionale dei geologi, Gian Vito Graziano, ha lanciato l’allarme sul tema
riproposto con la creazione dell’oasi faunistica in Sardegna: «I finanziamenti per la ricerca
di base sono quasi azzerati, la metà delle scuole di dottorato dovranno chiudere e i
docenti di Scienze della terra si stanno riducendo drasticamente, con proiezioni al 2018
che indicano un calo sino a circa 900 unità. In Italia si tagliano i finanziamenti utili alla
sopravvivenza, lasciando tra le tante incompiute quella cartografia geologica del territorio
nazionale ancora ferma al 40% di copertura. Come se avessimo un atlante d'Italia che
dalle Alpi si ferma alla Toscana o dalla Sicilia raggiunga appena la Campania».
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INFORMAZIONE
del 26/05/14, pag. 23
Andy, Andryj e gli altri
I Freelance coraggiosi che sfidano la morte per mostrare la guerra
ADRIANO SOFRI
L’italiano era un fotografo di 30 anni, il russo Mironov che è morto con lui in una buca nei
dintorni di Sloviansk era un dissidente e attivista dei diritti umani di 60. «Se sei
nel posto giusto le cose succedono», dicevano. Ma il loro non è solo un lavoro. Quando
vanno in Ucraina, Daghestan, in Inguscezia, nell’Ossezia di Beslan o in Afghanistan o
nelle primavere arabe, la voglia di emergere o di mettersi alla prova che all’inizio li muove
cede presto alla passione per gli altri. Fino a diventare una seconda vita. Perché per fare il
reporter dei conflitti che insanguinano il pianeta bisogna soprattutto avere fiducia nel
valore di ciò che si dice al mondo. Sapendo che il mondo non ne ha voglia.
HO GUARDATO , l’avrete fatto anche voi, tutto quello che trovavo in rete sui due uomini
trucidati in una terra di nessuno a Sloviansk: un fotografo free-lance italiano e il suo
traduttore, avevano detto le prime notizie. Poi erano arrivati i nomi — si chiamavano
Andrea tutti due, Andrea Andy Rocchelli e Andryj Mironov — e infine la conferma che
erano morti. Di Rocchelli, che a 30 anni era uno dei migliori fotoreporter italiani, avevo già
visto le fotografie in bianco e nero da Kiev, non abbastanza da impararne il nome. Per noi
spettatori comuni le fotografie memorabili sono come certe canzoni, che riconosciamo
anche se non sappiamo chi fosse l’autore. Di Mironov, 60 anni, il doppio dell’altro Andrea,
sapevo molte cose, perché era un personaggio di primo piano per chi si fosse occupato di
opposizione in Russia e di Caucaso.
Imparare a fotografare, filmare, scrivere, è importante: ma la cosa più importante è trovarsi
nel posto giusto. «Put yourself in the situation and things will happen »: l’ho trovato nel sito
dell’agenzia di Rocchelli e dei suoi compagni, Cesura, fa da titolo a una mostra. Se vai nel
posto giusto, le cose succedono: uno scatto essenziale, un video incomparabile. Succede
anche di morire, nel posto giusto. La probabilità (la fatalità, la chiamano poi quelli rimasti a
casa) è in proporzione diretta con il valore della testimonianza. Si mette su un piatto la
verità da vedere e mostrare, sull’altro il rischio. In rete ho letto il consiglio di un fotografo
professionista agli aspiranti free-lance: «Concentrati sulle foto che possano trovare un
compratore. Soprattutto sport, matrimoni, eventi in generale». Eventi in generale è un
modo educato di tacere l’esuberante offerta mondiale di guerre, catastrofi, crimini,
naufragi, epidemie che si apre davanti alla domanda dei freelance che ormai siamo
pressoché tutti, ognuno con la sua misura di allontanamento da casa. C’è un video girato
da Rocchelli nella guerra civile kirghiza del 2010: occorre stomaco forte per guardarlo, dà
la misura del suo coraggio, e anche della fiducia che bisogna avere nel valore di ciò che si
mostra al mondo, sapendo che il mondo non ne ha voglia.
Rocchelli e i suoi amici spiegano che i loro lavori commerciali servono a pagare i
reportage dai luoghi delle guerre e dei dolori senza voce. Amano la fotografia, si sono
formati alla scuola dei migliori, considerano essenziale la stampa. Quando si va, come
aveva fatto Rocchelli, in Daghestan, o in Inguscezia, o nell’Ossezia di Beslan, o in
Afghanistan e nelle primavere arabe e nella piazza Maidan, qualunque ragione vi abbia
spinti, la voglia di emergere, o di mettervi alla prova, cede presto, nei migliori, alla
passione per gli altri. Si guadagna una doppia vita: si conserva la propria, il paese, la
casa, la famiglia — il figlio di tre anni — cui ogni volta si torna, e se ne conquista una
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dentro un altro paese, un altro popolo, senza più casa, con le famiglie squartate, i bambini
orfani. Che Rocchelli e Mironov fossero insieme in quella terra di nessuno degli sparatori
non è un caso, e nemmeno una fatalità. Se non sbaglio, erano stati compagni di quella
missione civile già nel Caucaso. Mironov, figura di rilievo di Memorial, amico di Anna
Politkovskaja, dissidente nella vecchia Urss e nella “sbirrocrazia” putiniana (così la
chiama, ricordando si compone al 75 per cento di ex dipendenti del KGB), fu prigioniero
ancora in epoca gorbacioviana per diffusione di samizdat («ricopiai a mano migliaia di
libri»), subì una pesante aggressione fisica, si batté tenacemente per la nonviolenza
contro la guerra cecena. In Italia era assiduo, da ultimo era venuto a sostenere che la lotta
per la democrazia in Russia coincideva con la lotta per la democrazia in Ucraina e per
l’Europa dei diritti. Radio Radicale (era stato iscritto) ha ritrasmesso un’intervista del 2004
in cui spiegava nel suo italiano limpidissimo che la storia era sempre quella del “piccolo
Cappuccio Rosso”, e che c’era sempre bisogno di una guerra, oggi in Cecenia, domani in
Georgia — dopodomani in Ucraina — per rispondere alla domanda: «Perché hai i denti
così grandi?» Secondo il Cremlino, diceva, «non c’è nessuno a cui parlare, in Cecenia, c’è
solo a cui sparare».
Delle tante fotografie che abbiamo guardato ieri, dopo la notizia dal Donetsk, due
specialmente vorrei ritenerne: una fatta da Rocchelli, e una no. La prima, che era
comprensibilmente in cima a tanti siti, è quella dei bambini seduti in uno scantinato, uno
sgabuzzino sotto una botola, per ripararsi dalle bombe: dieci bambini «adottati dalla
famiglia Kushov», a colori questa volta, stretti su panchetti di fortuna sotto vasi di conserve
e sottaceti, che guardano in su verso il loro giovane visitatore italiano diventato padre.
Niente di più ovvio che fotografare bambini dentro una guerra civile: per questo era difficile
fare una fotografia così bella. Il servizio andò sulla Novaja Gazeta , il giornale di Anna
Politkovskaja.
La seconda foto è quella in cui Rocchelli e Mironov, l’Andrea veterano e l’Andrea giovane,
sono in posa l’uno accosto all’altro. Se sorridessero, sembrerebbe che stiano inscenando
per scherzo una certa aria marziale. Ma sono seri, e Mironov, sovrastato nella statura, se
ne sta testa alta, con la fierezza che si terrebbe davanti al fotografo della matricola
carceraria. Quando lo liberarono, Mironov dichiarò: «Sono un turista che ha visitato il
gulag». Questa volta magari avrebbe detto: «Sono un turista che ha visitato l’Ucraina». Il
colpo di mortaio ha portato via la testa a Mironov.
Rocchelli, ha detto il suo amico e collega Micalizzi, voleva raccontare la storia di due amici
ucraini che si trovavano dalla parte opposta della barricata: come in tutte le guerre civili,
come in tanta storia italiana. Andrea, Andryj, sono finiti in mezzo, e hanno fatto da
bersaglio deliberato; poi lo scambio di accuse fra kievisti e filorussi. Scambio inutile: sono
stati ambedue. Naturalmente, a riguardarla ora quella fotografia sembra attraversata da un
presagio. Non è così, era una foto ricordo, che si sarebbero portati indietro, uno a Mosca,
l’altro sull’Appennino piacentino, fino alla prossima missione. Però nelle donne e negli
uomini che partono per andare agli angoli bui della terra, a vedere e raccontare, o a curare
e aiutare, o solo a capire, l’ombra di un presagio c’è, anche quando ridano forte, facciano
le smorfie e dicano alla camera: Ciao mamma.
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ECONOMIA E LAVORO
del 26/05/14, pag. 9
27 milioni di disoccupati attendono la svolta
● Dal voto europeo un giudizio sulla politica economica del rigore e dei
sacrifici che ha duramente colpito lavoratori, giovani, pensionati
● Tra un mese parte il semestre Ue di Renzi
L’esito del voto europeo avrà conseguenze probabilmente rilevanti sui mercati
internazionali. In gioco nelle urne da Dublino a Tallin non ci sono solo i quadri politici dei
24 Paesima il futuro monetario dell’Euro e la solidità economica del vecchio continente.
Non a caso questa mattina Mario Draghi parlerà da Lisbona, prima dell’apertura dei
mercati. A Francoforte si tifa neanche velatamente per la grande coalizione fra Ppe e Pse
che consentirebbe di moderare le politiche, di lasciare alla Bce quel ruolo di vera guida
continentale avuto negli ultimi anni. Ma il favore per questo risultato rischia di essere
vanificato dalla paura di un euroscetticismo che domini il Parlamento di Strasburgo.
Secondo le ultime stime nel nuovo Parlamento il variegato fronte euroscettico potrebbe
arrivare intorno a 200 seggi su 751. Non in grado di formare maggioranza o alleanze
euroscettiche, ma certamente di complicare la vita ai partiti tradizionali di destra, liberali e
sinistra. Per l’Italia il giorno decisivo sarà tra mercoledì e giovedì quando saranno collocati
sul mercato 18,5 miliardi di titoli di Stato. L’aumento di spread e rendimenti - nonostante il
ripiegamento di venerdì con differenziale tra Btp e Bund a 173 punti con un rendimento al
3,14% - nell’ultima settimana era già figlia della paura dell’instabilità politica nel nostro
Paese. Un continente che sta vivendo il picco di disoccupazione: 27 milioni i senza lavoro,
pari all’11,8 per cento nei paesi dell’area Euro e del 10,5 per cento nell’intera Unione a 28
Paesi. Si tratta però di una media che ha come estremi il 4,9 per cento austriaco e il 26,5
per cento greco, a ricordarci come il Nord e il Sud del continente continuano ad essere poli
opposti e lontanissimi. I dati sulla disoccupazione sono inversamente proporzionali a quelli
sulla crescita prevista: la Commissione europea uscente - mai tenera con l’Italia - prevede
una crescita nel 2014 dello 0,6% del prodotto interno lordo, dopo un calo dell'1,9% nel
2013. L'anno prossimo la ripresa dovrebbe mostrare un'espansione dell'economia
dell'1,2% - il governo Renzi prevede una crescita rispettivamente dello 0,8% e dell'1,3%
del Pil - contro una crescita media continentale dell’1,2 nel 2014 e dell'1,7% nel 2015.
Gli analisti si mostrano divisi tra chi lega la tensione alla campagna molto politicizzata
portata avanti Beppe Grillo in Italia e chi invece ritiene che sia una manovra speculativa,
legata ai problemi strutturali italiani: debito alto ed assenza di crescita. Resta il fatto che
l'esito delle elezioni in Italia e soprattutto la portata dell'affermazione di Beppe Grillo e del
Movimento 5 Stelle viene tenuta sotto attenta osservazione, fino a spingere il premier
Renzi a dichiarare in chiusura di campagna elettorale che la coalizione di governo resterà
la stessa, qualunque risultato elettorale si profili. Che l'Italia resti particolarmente sotto la
lente di ingrandimento dell' Europa si spiega anche con l'inizio del semestre di presidenza
europea: Renzi ha dato appuntamento al 2 luglio a Strasburgo per la presentazione del
programma del semestre di presidenza italiana. Secondo punto focale su scala elettorale
sarà la portata dell'affermazione della sinistra di Syriza in Grecia: se Tsipras chiuderà con
un successo chiaro come appariva ieri sera, la fragile maggioranza greca, coagulata
attorno a Samaras potrebbe crollare. Terzo motivo di incertezza è quello legato
all'affermazione del Front National francese di Marine Le Pen che ridurrebbe ancora di più
gli spazi di manovra per il governo socialista di Valls.La fine delle politiche di austerità 36
richiesta a gran voce dai sindacati almeno da quattro anni - dunque potrà diventare realtà
dunque solo a determinate condizioni. Condizioni che gran parte della comunità finanziaria
vede come fumo negli occhi.
del 26/05/14, pag. 16
Atipici a chi?
Nella nuova Europa le frontiere del lavoro
Bruno Ugolini
LA CAMPAGNA ELETTORALE APPENA CHIUSA HA POCO
DISCUSSO DI UN ENORME PROBLEMA SOCIALE CHE ATTRAVERSA IL
CONTINENTE.
Quello di un esercito di persone, donne e uomini, che ogni giorno lascia il proprio Paese
per raggiungere un'altra nazione europea e poi un’altra ancora. Uno spostamento continuo
che attraversa frontiere geografiche ma attraversa anche frontiere di tutele e diritti. Masse
in movimento che avrebbero bisogno di sicurezze e spesso sono lasciate allo sbando. Non
ci sono più barriere per le merci ma ci sono barriere per i diritti. Non é una problematica
che interessa solo i diseredati che cercano disperati approdi sulle coste italiane. C'è anche
una quantità di giovani italiani che vanno alla ricerca di un futuro nel centro Europa. Sono
tematiche affrontate in una corposa pubblicazione curata dall'Inca-Cgil: Il posto del lavoro
atipico in Europa. Protezione sociale e ostacoli alla libera circolazione dei lavoratori atipici
in Europa.
Contiene una ricca documentazione sul progetto Access, un progetto finanziato con il
sostegno della Commissione europea, realizzato dall’Inca Cgil (capofila Regno Unito), in
collaborazione con le sedi nazionali Inca Cgil, e i loro sindacati partner di Belgio, Francia,
Germania, Italia, Slovenia, Spagna, Svezia e Regno Unito, e con la partecipazione della
Ces, Confederazione europea dei sindacati. I riflettori sono stati così accesi nei confronti di
quello che Morena Piccinini, presidente dell'Inca, ha chiamato un vero e proprio esodo. Un
esodo che riguarda tanti giovani italiani (non solo i «cervelli» in fuga) mentre masse ingenti
considerano l'Italia un Paese di transito, un ponte. Sono i migranti comunitari (ad esempio
romeni) sia extra comunitari (ad esempio marocchini). La Piccinini cita il caso del giovane
che ha studiato magari a Parigi con il progetto Erasmus, lavorando nel frattempo come
cameriere, che si è poi trasferito a New York per lavoro e successivamente in Belgio dove
è rimasto senza impiego. E qui bussa alle porte dell'Inca per sapere se ha diritto o no
all'indennità di disoccupazione. Così la lavoratrice italiana che vive in Spagna per
un’azienda tedesca vorrebbe sapere sul suo diritto alla maternità. Mentre il lavoratore
marocchino o la lavoratrice ucraina che hanno regolarmente lavorato in Italia e si sono poi
trasferiti in Francia o in Austria vorrebbero indagare sul loro diritto alla pensione.
Una giungla resa più fitta negli ultimi anni perché, come ha accertato il progetto Accessor,
ogni singolo Stato ha rivendicato la propria autonomia rispetto al contesto comunitario e
ha colpito lo Stato sociale, «falciando i diritti degli strati sociali più deboli, dei lavoratori
dipendenti, dei giovani e dei pensionati». Modifiche peggiorative hanno inciso sul diritto
alla pensione e sugli strumenti di protezione sociale per malattia e disoccupazione. E si è
diffuso il fenomeno dei contratti atipici che spesso «servono per aggirare e negare ciò che
resta del welfare europeo solidale». Sono contratti destinati a coloro che Claudio Treves,
segretario del Nidil Cgil, chiama «Figli di un dio assente». Che cosa fare, dunque?
Susanna Camusso spiega, nell'introduzione al fascicolo dedicato al progetto Accessor
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come il problema non sia soltanto italiano, ma europeo. «Non c’è una politica vera di
contrasto alle forme di precarietà se ogni Paese pensa di giocarsela da solo in casa
propria». Sarebbe necessaria una qualche forma di consultazione tra Paesi. Un modo per
fornire una bussola ai lavoratori interessati, magari attraverso una «banca comune di
informazioni» atte a conoscere meglio «le regole di esportabilità dei diritti, accrescendo la
capacità di rappresentanza dei sindacati tra i lavoratori e tra le lavoratrici migranti».
Sarebbe necessario, certo, come spiega Fausto Durante (segretariato Europa Cgil)
«ribaltare l’idea di dialogo sociale che ha la Commissione europea». Per ottenere un
dialogo sociale che ottenga risultati. Ha fatto perciò bene Morena Piccini a lanciare, alla
vigilia del voto, un appello ai candidati nelle elezioni europee ricordando che esiste già una
risoluzione del Parlamento europeo intitolata Una protezione sociale per tutti e adottata a
Strasburgo il 14 gennaio scorso. «Un passo importante» ha sottolineato la Piccinini, «ma
purtroppo ancora disatteso da parte di molti Stati». Vedremo se il nuovo Parlamento sarà
in grado di corrispondere alle attese.
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