Articolazioni tipologiche e fortuna critica del “poliziesco”in Italia nel
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Articolazioni tipologiche e fortuna critica del “poliziesco”in Italia nel
ACCADEMIA PICENO APRUTINA DEI VELATI – TERAMO MONOGRAFIE DI APAV VALENTINA CATANIA Articolazioni tipologiche e fortuna critica del “poliziesco”in Italia nel primo trentennio del Novecento Monografia APAV 2 0 0 6 Introduzione La letteratura poliziesca nasce negli anni Quaranta dell’Ottocento ad opera dello scrittore americano Edgar Allan Poe con la pubblicazione dei suoi tales of ratiocination. L’invenzione poeiana destò interesse e cominciò ad avere cultori in Europa nei decenni che contrassegnarono il trionfo dello scientismo positivista. La metodologia positivista era caratterizzata dallo sperimentalismo che subordinava l’immaginazione all’esperienza e implicava il rifiuto di ogni proposizione che non fosse riducibile alla descrizione di fatti. Inoltre la filosofia positiva si articolava in cinque scienze fondamentali, tra cui la fisica sociale o sociologia. Il romanzo poliziesco attecchisce proprio in questo clima culturale perché, traduce sul piano 1 narrativo l’interesse scientifico nei confronti del problema delle devianze psichiche e comportamentali, e della delinquenza sociale. Il genere poliziesco nasceva dunque da un’esigenza comune a tutta la società di quell’epoca: affermare, anche sul fronte della narrativa d’evasione, la fiducia in procedimenti logici atti a risolvere le falle derivate dai comportamenti devianti di una fetta marcia della società. Così, all’interno di quest’ottica, il crime novel si configurava come una forma letteraria capace di offrire al lettore una sorta di risarcimento ideale, per il quale qualsiasi elemento disgregatore dell’ordine vigente potesse essere neutralizzato dall’intervento della ragione. Il capostipite di questa narrativa in ambito europeo è il diretto discendente di Poe, Arthur Conan Doyle . La forza modellizzante esercitata dalla sua opera fu tale che egli è ormai considerato un “classico”. 2 In Italia questa nuova tipologia letteraria destinata ad assurgere successivamente a vero e proprio genere codificato - calamitò già nello scorcio dell’Ottocento il vasto pubblico e attrasse l’attenzione di affermati esponenti del mondo accademico. Scesero in campo per analizzare il “poliziesco”, infatti, due criminalisti allievi di Lombroso (autore, tra l’altro, di un celebre saggio su L’uomo delinquente , del 1875) : Ferri e Niceforo. Questi studiosi furono attratti dal successo che il romanzo poliziesco o, come allora si diceva, “giudiziario”, riscuoteva presso fasce di lettori molto ampie e culturalmente variegate. Il romanzo giudiziario che Niceforo definì “rosso” per la presenza centrale del sangue nella vicenda, si imperniava sugli snodi di un’istruttoria processuale. Il criminalista Enrico Ferri, nel suo volume del 3 1896 I delinquenti nell’arte , esponeva le ragioni per le quali, a suo avviso, il romanzo giudiziario godeva di una straordinaria fortuna, osservando che “è tutta la trama indiziaria di una laboriosa istruttoria in un grave processo che tiene sospesa e trepidante l’attenzione del lettore”. Alfredo Niceforo, insigne studioso lombrosiano, è avvinto profondamente dallo spunto sociologico offertogli dal riscontro che il romanzo giudiziario aveva presso il vasto pubblico; egli, in un suo saggio del 1911 intitolato Parigi. Una città rinnovata , scrive che “il popolo si è innamorato della letteratura rossa e, per contraccolpo, anche le classi superiori ne hanno subito la suggestione”. Il criminalista siciliano rimarca inoltre l’importanza del ruolo svolto dal medico-scrittore britannico Conan Doyle che prende in esame e cita anche in altri suoi scritti. 4 Ancora nel saggio del 1911, Niceforo rileva che Conan Doyle é uno degli inventori della detectivefiction : “gli esempi dati dai creatori di questo genere, quali il Gaboriau e il Conan Doyle, sono, in se stessi, originali e interessanti”, egli scrive; e ancora: “Il Gaboriau aveva creato con la figura leggendaria di Monsieur Lecoq, il romanzo giudiziario. Più tardi, resuscitando Monsieur Lecoq che sembrava essere morto, Conan Doyle creò un genere di romanzo giudiziario più moderno e più sorprendente”. Era forte, quindi, l’interesse che anche la cultura accademica, in area italiana, rivolgeva al “poliziesco” straniero, che iniziava d’altro canto a imprimere nuovi orientamenti al mercato editoriale. Ciò è attestato dalle traduzioni dei romanzi e dei racconti di Sherlock Holmes che cominciano a circolare già dal 1895 tramite la casa editrice Verri di Milano. 5 Il “Corriere della Sera” e “La Domenica del Corriere” dal 1899 si aggiudicarono le uscite a puntate delle appassionanti avventure poliziesche di Sherlock Holmes. Perché in Italia si profili nitidamente la fisionomia di un “poliziesco” autoctono, affrancato dalla soggezione epigonica ai modelli d’oltralpe, bisogna attendere il 1929, anno in cui Arnoldo Mondadori vara la collana dei “Libri Gialli”. Mentre proliferavano i tentativi (talora apprezzabili sul piano della resa stilistica) di creare un giallo nazionale, i crime novel prodotti all’estero continuavano comunque ad incontrare il gradimento dei lettori; infatti “il periodo fra le due guerre vede la fama di Sherlock Holmes continuare inalterata”, come ha affermato di recente Roberto Pirani, autorevole bibliografo del genere giallo in Italia. Negli anni Trenta, però, il “poliziesco”, che aveva 6 conseguito una sua dignità letteraria, dovette fare i conti con il regime fascista, che lo avrebbe bandito ufficialmente nel 1941 con un provvedimento emanato dal Minculpop. Il primo rotocalco poliziesco italiano, il mondadoriano “Il Cerchio Verde”, pubblicò tra il 1935 e il 1937 racconti firmati, tra gli altri, da Varaldo, De Angelis, Spagnol. Quest’ultimo, in una significativa testimonianza del 1970, descrive il suo osteggiato accostamento al giallo negli anni compresi tra il 1934 e il 1942 ricordando che la sua narrativa poliziesca era considerata dal pubblico colto come un’opera letteraria poco importante: “lavori di penna meno impegnativi […] mi avevano procurato tanti lettori da procacciarmi il pane: il che può far meraviglia oggi, pensando che allora il mestiere di penna fruttava solo a chi era impegnato con il fascismo, mentre io n’ero stato fuori, anzi tenuto a vista”. 7 Il duce guardò inizialmente con diffidenza e colpì poi con provvedimenti censori il poliziesco, perché preoccupato dall’interesse che i modelli stranieri avrebbero potuto riscuotere presso il pubblico italiano. Nonostante ciò, l’attenzione del mondo culturale italiano nei confronti del giallo restò vivissima anche sotto il fascismo. Esempi significativi sono offerti dai contributi critici di Alberto Savinio, Guido Piovene, Corrado Pavolini, Luigi Chiarini, Aldo Sorani. Questi intellettuali ammiravano molto i maestri della narrativa d’investigazione straniera, quali Georges Simenon, Agatha Christie, Edgar Wallace, G.K. Chesterton. Nel primo capitolo del presente lavoro si enucleeranno le motivazioni culturali dell’interesse 8 suscitato dal romanzo “giudiziario” e da quello “poliziesco” negli studiosi della scuola antropologica positiva. Si passeranno in rassegna le traduzioni italiane dei testi conandoyliani incentrati sulle inchieste condotte da Sherlock Holmes, dalla fine dell’Ottocento fino agli anni Quaranta del Novecento. Nel secondo capitolo si prenderà in esame la graduale costituzione di un poliziesco nazionale, si ricostruirà il contesto situazionale, ideologico e culturale, in cui essa si realizzò, si analizzeranno i giudizi più significativi espressi da critici, letterati e giornalisti che negli anni del fascismo scrissero sul giallo. All’interno di questa sezione della tesi, verranno utilizzati testi rari, reperiti nel corso di accurate ricerche presso archivi privati e biblioteche pubbliche in varie città italiane. 9 Capitolo 1 Conan Doyle e la scuola antropologica italiana La letteratura poliziesca, la cui nascita per convenzione si fa risalire agli anni Quaranta dell’Ottocento, quando Edgar Allan Poe pubblicò i tales of ratiocination, ha i suoi primi cultori in Europa nei decenni che segnano il trionfo dello scientismo positivista. Per caratterizzare, per quanto sia possibile, un filone narrativo così diffuso e popolare, vista la molteplicità degli elementi che lo compongono, si può dire che ad esso afferiscono racconti incentrati sulle gesta criminose di un individuo , o di una banda di malfattori, e sui tentativi compiuti da altri individui per contrastarle. 10 Questi ultimi fanno parte di organizzazioni poliziesche o appartengono alla categoria degli investigatori privati. All’interno della produzione poliziesca distingueremo due correnti principali; nella prima l’elemento essenziale è costituito dall’inchiesta, dall’investigazione, condotta con rigorosamente logici e scientifici, metodi che ha dato origine a quello che è l’autentico crime novel; la seconda, invece, darà origine ai cosiddetti thrillers o racconti del brivido; in quest’ultima corrente, fondata soprattutto sulla suspense, l’elemento dell’inchiesta e dell’identificazione del colpevole avranno minore rilievo. Il romanzo poliziesco europeo, nella sua prima stagione, si innesta nel tronco del romanzo d’appendice o feuilleton; quest’ultimo, che aveva carattere popolare e a forti tinte, veniva inserito a puntate nelle ultime pagine dei giornali. 11 Il romanzo d’appendice , a sua volta, aveva il suo antecedente nel romanzo cosiddetto “nero” e più precisamente nei romanzi gotici inglesi della fine del secolo XVIII con le loro terrificanti storie di personaggi malefici, di innocenti vittime delle loro macchinazioni,di castelli immensi e antichissimi popolati da fantasmi. Fra i più noti , The mysteries of Udolpho di Ann Radcliffe e The castle of Otranto di Horace Walpole. Leo Marchetti introducendo alcuni testi di scrittori anonimi gotici riuniti sotto il titolo Danza macabra, sostiene che il gotico è “un fenomeno seducente e inesplicabile le cui radici affondano nel mutamento del gusto che si verifica in Inghilterra nella prima metà del Settecento”1 e ancora che “il reading public risulta essere in larga misura piccolo borghese e femminile”2. 1 L. Marchetti, Introduzione a Anonimi gotici, Danza macabra, Chieti, Solfanelli, 1991, p. 5. 2 Ibidem. 12 Patrizia Nerozzi nel suo L’altra faccia del romanzo, edito presso la Cisalpino Goliardica a Milano nel 1984, aggiunge che il gotico soggiace alle “richieste di un pubblico sensibile al fascino mercantile del caso letterario”3. Inoltre Marchetti asserisce che “Molto prima che Edgar Allan Poe in America inventasse il tale of effect in funzione giornalistica […], su alcune riviste inglesi erano apparsi numerosi racconti gotici spesso anonimi”4. Ora , se vogliamo accostarci maggiormente all’origine reale del romanzo poliziesco , è doveroso sottolineare che il creatore del genere in questione fu Edgar Allan Poe; lo scrittore americano ideò in alcuni suoi racconti, come Murders in the rue Morgue, la figura dell’investigatore dilettante, il cavaliere Dupin, e coniò il modello del “poliziesco scientifico”, 3 4 che avrebbe trionfato nei Paesi Cfr. L. Marchetti, Danza macabra, cit. p. 6. Ibidem. 13 anglosassoni prima e successivamente nel mondo intero . Le regole che Poe stabilì per la stesura del racconto poliziesco furono rigorosamente rispettate per circa un secolo: richiamare l’attenzione e la curiosità del lettore proponendogli un enigma; comporre un intreccio ridotto all’essenziale; descrivere con minuzia le ricerche compiute dall’investigatore; porre infine il problema per eccellenza, quello dell’ “ambiente chiuso”, cioè della stanza dove il criminale ha compiuto il delitto. Nella seconda metà dell’Ottocento si verificarono alcune circostanze culturali e storiche che furono determinanti per il successo del poliziesco: l’affermarsi del realismo in letteratura, il trionfo del razionalismo e del metodo scientifico, l’avvento della filosofia positivista e la instaurazione di una organizzazione di polizia statale efficiente, che gradualmente sarebbe entrata in possesso dei 14 mezzi scientifici più aggiornati per arrivare a scoprire la verità sul colpevole. La metodologia positivista è caratterizzata dallo sperimentalismo che subordina l’immaginazione all’esperienza, e implica il rifiuto di ogni proposizione che non sia riducibile alla descrizione di fatti . Sicché le leggi naturali, fisse ed invariabili ,sono poste a fondamento di ogni ricerca scientifica. L’intelligenza umana, prima di giungere alla consapevolezza delle sue possibilità attraversa uno stato astratto o metafisico. Quando conquista la maturità dello stato positivo, essa rinuncia a ricercare l’origine, l’essenza ed il perché delle cose e si preoccupa soltanto di conoscere il come del divenire dei fenomeni, ossia le leggi che ne regolano lo svolgimento. Poiché l’ordine del sapere si svolge come l’ordine dei fenomeni naturali, la filosofia positiva si 15 articola in cinque scienze fondamentali: l’astronomia, la fisica, la chimica, la biologia e la fisica sociale o sociologia. Le teorie scientifiche relative alle scienze naturali fungevano da guida per diverse discipline a cui si applicavano i metodi scientifici. La sociologia, che è uno dei cinque assiomi della filosofia positiva, prende in esame i fenomeni della società e le fratture e le contraddizioni interne ad essa. La sociologia fu il perno dell’interesse relativo ad una nuova disciplina che nasceva proprio in quel fecondo periodo storico, l’antropologia criminale. L’antropologia criminale era volta a studiare e quindi a comprendere il comportamento del delinquente ed i meccanismi psicologici che lo portano a compiere il delitto. In Italia gli studi di antropologia criminale fanno capo alla scuola antropologica positiva costituita da studiosi prestigiosi come Cesare Lombroso (1835- 16 1909) , Enrico Ferri (1856-1929) , Raffaele Garofalo (1852-1934) , Alfredo Niceforo (1876-1960). La scuola positiva di diritto penale ruotava attorno a un perno basilare: la nuova sociologia criminale teorizzata da Enrico Ferri. Secondo le formulazioni di questi studiosi il delinquente è un individuo “anormale”; il crimine è prodotto da fattori di ordine antropologico, psichico e sociale, e quindi l’atto criminale deriva da tali matrici e non da una scelta individuale da parte del criminale; di conseguenza la sanzione penale non deve avere finalità punitive, ma deve essere volta alla rieducazione del delinquente in base alla sua personalità. Quindi gli studiosi della scuola antropologica si resero conto del fatto che il delitto è correlato a comportamenti sociali devianti e che l’analisi scientifica (e quindi positiva) dei fenomeni criminali avrebbe potuto portare ad una più valida difesa della società. 17 Enrico Ferri tenne a Pisa nel marzo del 1892 un’interessante ed innovativa conferenza (poi pubblicata nel 1896), intitolata I delinquenti nell’arte, che riscosse un grande successo. Nel suo discorso egli elaborava il parallelismo tra “l’attività sperimentale e positiva della Scienza e l’intuizione precorritrice dell’Arte”5. L’arte ha sempre avuto la capacità, tramite la sensibilità e lo spirito d’osservazione di chi la coltiva, di fare balzare agli occhi il malessere dell’animo umano e cioè gli sbandamenti improvvisi e immotivati della psiche, di osservare “i fuochi e i bagliori e i grigiori improvvisi dell’uomo”6. Ferri prosegue notando che già all’interno delle tragedie greche, per esempio in quelle di Eschilo, il delitto compiuto per mano dell’eroe non è semplicemente un atto criminoso ma deriva da una 5 B. Cassinelli, Introduzione a E. Ferri, I delinquenti nell’arte, Milano, Dall’Oglio, 1954, p. 13. 6 Ibidem. 18 “disfunzione”7 del modo di percepire il mondo e l’arte è in grado di individuare tale malessere. Lo studioso parla anche di Shakespeare che inserisce nelle sue opere teatrali lo stesso schema delle tragedie greche ma aggiunge che la vera sostanza del delitto è la motivazione vissuta e sofferta dal criminale e quindi del motivo l’arte può fare una sublimazione,e lo può porre in contrasto con il diritto giuridico e con quello morale. Amleto ed Otello sono assolti, così come si salveranno entrambi Cesare e Bruto8. L’arte, quindi, può arrivare a sublimare il movente del delitto, sottolineando che nel conflitto esiste sempre un motivo; l’autore sostiene che l’individuo è un crogiuolo di contraddizioni tra “la realtà e la finzione, la veglia e il sogno, la ragione e la follia, il bene e il male, [che] risuonano , spesso contemporaneamente, nella voragine della mente 7 8 Ivi, p. 14. Ivi, p. 15. 19 umana”9 e che “non si può né assolvere né condannare”10 . Ferri istituisce ancora un interessante accostamento tra le tragedie greche e le opere di Pirandello, affermando che i personaggi pirandelliani sono vittime della crudeltà del mondo tanto quanto lo sono i personaggi delle tragedie greche. In un altro punto del suo scritto, pubblicato nel 1896 a Genova presso la Libreria Editrice Ligure, Ferri osserva che “è tutta la trama indiziaria di una laboriosa istruttoria in un grave processo che tiene sospesa e trepidante l’attenzione del lettore”11 interpretando così le ragioni del successo dei romanzi e dei drammi giudiziari in Italia. Possiamo quindi affermare con certezza che la nuova sociologia criminale volgeva la propria attenzione anche alla narrativa poliziesca. Ma 9 Ibidem. Ivi, p. 17. 11 E. Ferri, I delinquenti nell’arte, cit., p. 151. 10 20 comunque , nonostante il fatto che gli studiosi della scuola antropologica positiva registrassero una crescente diffusione del genere poliziesco in Italia e anche una sua forte presa emozionale sul pubblico, nel nostro Paese fra la fine dell’Ottocento e la seconda decade del Novecento, non si poteva ancora affermare che il filone avesse una sua precisa connotazione letteraria . Infatti in Italia “non si era consapevoli delle differenze di forma e di contenuto che dividono il romanzo poliziesco dalla numerosa e promiscua prole della letteratura feuilleton”12 e chiaramente i codici culturali sottesi all’intelaiatura tematica del romanzo vanno rapportati sia al sistema dottrinale edificato da Lombroso, Ferri, Niceforo, Garofalo […] sia a un modello narrativo che solo in Inghilterra, in Francia e in America poteva già contare sui consensi di un pubblico 12 L. Rambelli, Storia del “giallo” italiano, Milano, Garzanti, 1979, p. 20. 21 specifico, su solidi appoggi editoriali, su di un articolato e duraturo sistema di attese13. Questa considerazione si riferisce in maniera specifica al romanzo giudiziario ma è applicabile anche al romanzo poliziesco. L’interesse per il crime novel coltivato dagli studiosi della scuola antropologica positiva è testimoniato da vari saggi ed articoli recanti le loro prestigiose firme. E’ significativo l’esempio di Alfredo Niceforo, che nel suo saggio Il detective scientifico nella letteratura romanzesca (in “ Il Piccolo della Sera”, Trieste, 3 giugno 1906) caldeggiava la diffusione del romanzo poliziesco in Italia. Qui Niceforo, coniugando la scientificità dell’analisi sociologica e l’immediatezza e la leggerezza del reportage giornalistico, richiamava l’attenzione dei lettori sullo straordinario rilievo assunto dalla suggestione che il delitto esercitava 13 G. Padovani, Le trame dell’ossessione da Tarchetti a Pirandello, Enna, Papiro, 1997, p. 85. 22 sull’immaginario collettivo , mediante le forme della stampa quotidiana e della narrativa di consumo. In un altro saggio del 1911 intitolato Parigi.Una città rinnovata. (Torino, Bocca, 1911), Niceforo tornava a rilevare della letteratura la fortuna strepitosa poliziesca che definiva “rossa” perché caratterizzata dalla presenza del sangue. La letteratura rossa, impiantata sull’istruttoria processuale, a giudizio dello studioso afferiva all’area della narrativa popolare. Niceforo osservava la progressiva diffusione di questo filone e il grande successo che esso riscuoteva presso il vasto pubblico. Ad infiammare gli italiani di sdegno e di orrore, e a metterli in guardia contro gli effetti nefasti degli sconvolgimenti passionali, provvedeva un profluvio di pubblicazioni golosamente fruite : periodici specifici a larghissima diffusione invasi dai notiziari giudiziari e dai resoconti processuali , come 23 “La corte d’assise. Rivista popolare giudiziaria”, milanese , settimanalmente nelle edicole a partire dal gennaio del 1879, e “I grandi processi illustrati”, quindicinale varato anch’esso a Milano , nell’ottobre del 1896 ; così fiumi di carta stampata facevano balzare prepotentemente alla ribalta clamorosi episodi di cronaca nera. Il romanzo giudiziario, cioè quello imperniato sull’istruttoria processuale, aveva dunque anche il merito di stimolare la massa alla lettura. Così, l’aver creato il nuovo bisogno della lettura nell’anima primitiva del basso popolo è il frutto della nostra civiltà moderna, che porterà seco indubbiamente, con il sapiente aiuto del tempo, una elevazione nel livello intellettuale del popolo14; e ancora: “il popolo si è innamorato della letteratura rossa, e per contraccolpo anche le classi superiori hanno subito la suggestione”15, scrive Niceforo. 14 15 A. Niceforo, Parigi. Una città rinnovata, Torino, Bocca, 1911, p. 235. Ivi, p. 237. 24 Infatti la diffusione della letteratura “rossa” si estese successivamente anche agli strati più alti della società, a quei ceti colti che da principio la consideravano una produzione di infimo ordine. Niceforo, registrando tale iniziale dissenso, evidenzia la divergenza tra i gusti del popolo e quelli del pubblico “istruito”, per il quale “[il poliziesco è] letteratura d’ordine inferiore, che non può davvero soddisfare pienamente lo spirito di individui e di classi più moderne e più evolute”16. Di ben altro spessore concettuale sono i tales of ratiocination poeiani. Il nostro studioso è uno dei primi ad apprezzare gli scritti di Poe; lo possiamo osservare ancora all’interno del suo saggio: mentre una parte del popolo così soddisfa alla sua brama di meraviglioso lasciandosi sedurre dalla letteratura di sangue, i cervelli più colti e meno impulsivi si abbandonano alla gioia di una forma più 16 Ivi, p. 233. 25 elevata di meraviglioso: quella creata da Edgardo Poe17. Ma, aprendo una parentesi di ampio respiro, si può affermare che malgrado il fatto che Niceforo fosse uno dei primi estimatori del genere in questione, la cultura accademica di quel periodo snobbava il polo del nostro interesse o lo ignorava del tutto a causa di pregiudizi consolidati . Solo molto più tardi, nella seconda metà del Novecento, critici accademici della statura di Umberto Eco, Giuseppe Petronio, Mario Lavagetto, avrebbero condotto studi metodologici di alto livello sul poliziesco. Il criminalista siciliano si accostò a questo tipo di prosa notando che Il romanzo giudiziario nelle sue forme letterarie […] e nelle sue forme meno elevate, o addirittura assolutamente inferiori, ha dominato, e domina tuttora, 17 Ivi, p. 266. 26 esercitando seduzione grandissima, su larga parte di pubblico18. Niceforo dava dunque risalto al successo del crime novel e alla curiosità che esso destava nel lettore comune. Continuando nella dissertazione sugli albori del romanzo poliziesco italiano sembra interessante notare come il narratore, giornalista, drammaturgo Salvatore Farina si serva nel 1908 dell’abusato sintagma “romanzo giudiziario”, importato dalla Francia e certamente inadeguato a designare una sua opera come Il segreto del nevaio, che non si incardina esclusivamente sugli snodi di un’istruttoria giudiziaria. La prima edizione di questo romanzo che fu pubblicato a Milano nel 1908 dall’editore Arnaldo De Mohr e ristampato l’anno successivo dalla Società Tipografico-Editrice Nazionale di Torino, si apre con un’introduzione dal titolo Soliloquio di un 18 A. Niceforo, Lontani e lontanissimi precursori del romanzo giudiziario moderno, in “Il secolo XX”, Milano, 10 marzo 1917, p. 767. 27 solitario, in cui Farina si sforza di individuare e definire il filone al quale il suo romanzo è ascrivibile. Questa importante prefazione può leggersi come primo, organico tentativo italiano di teorizzare una tipologia ed elaborare una definizione connotativa del romanzo poliziesco. Malgrado la confusione terminologica, determinata dalla mancanza di un vocabolo specifico che rinvii allo specimen del “giallo”, (che, come si sa, sarà un’espressione idiomatica che verrà adottata in Italia solo nel 1929, in seguito al lancio dei mondadoriani “Libri Gialli”, contrassegnati da copertine di colore citrino; Leonardo Sinisgalli fu uno dei primi ad adottare il neologismo in una sua recensione ai primi quattro volumi della serie mondadoriana intitolata Romanzi gialli uscita su “L’Italia letteraria”, il 1° dicembre 1929) Farina, già nell’incipit della sua introduzione, enuclea con precisione i tre elementi strutturali su cui si fonda il 28 modello istituzionale del detective novel ,diventando così il primo teorizzatore italiano delle regole alle quali uno scrittore deve attenersi se vuole creare un poliziesco. Delitto, inchiesta e identificazione del colpevole costituiranno i tre cardini attorno ai quali un romanzo dovrà essere imperniato. La produzione di Edgar Allan Poe e la triade tematica individuata dal Farina ci conducono alla genesi del poliziesco. Il famoso autore americano, infatti, è stato indicato dalla critica del Novecento come il capostipite del filone. Il prototipo a cui l’autore de Il segreto del nevaio si rapporta dichiaratamente e programmaticamente è Il cuore rivelatore di Poe, inserito nel 1869 fra le dodici novelle della raccolta dal titolo Storie incredibili tradotte in lingua italiana e date alle stampe da Baccio Emanuele Maineri ( Milano, Tipografia Pirola). 29 La novelletta poeiana appare a Farina come modello archetipico di tutta una categoria di opere narrative incardinate sul binomio “delitto e rimorso”. E Niceforo giudicava “seducentissimo” il tema rappresentato dal rapporto di causalità tra la colpa e l’ossessione autopunitiva del delinquente, che catalizzava l’attenzione degli studiosi di psicopatologia criminale. Il segreto del nevaio attesta fin dall’excursus proemiale la familiarità dell’autore con le teorie elaborate dagli “psichiatri della nuova scuola”19, ben note a Farina che aveva compiuto gli studi di legge a Pavia e a Torino, dove si era laureato nel 1868. Nel suo romanzo, lo scrittore sardo descrive con meticolosa cura ogni dettaglio dell’iter giudiziario con la competenza acquisita attraverso l’esercizio dell’avvocatura e l’assidua frequentazione degli ambienti forensi. 19 S. Farina, Soliloquio di un solitario, in Il segreto del nevaio, Torino, Società Tipografico – Editrice Nazionale, 1909, p. 223. 30 Risalta quindi lo scrupolo documentario con cui viene tessuto il minuzioso resoconto processuale che si protrae per un intero capitolo. L’indagine descritta da Farina nel romanzo è volta a far luce sulla personalità dell’omicida, e da ciò si comprende come l’autore conoscesse le teorie degli studiosi della scuola antropologica. Descrivendo la divergenza dei criteri teorici e metodologici dei due periti incaricati di eseguire l’esame anatomico e psichico dell’imputato, Farina, nel suo libro, fa aperto riferimento alla polemica allora in corso tra gli esponenti della scuola classica di diritto penale e i sostenitori del nuovo indirizzo antropologico promosso dalla scuola positiva. La querelle oppose due luminari: Luigi Lucchini, capofila dei “tradizionalisti”, ed Enrico Ferri, che all’antico principio della “imputabilità” aveva sostituito la dottrina della “pericolosità”, in base alla quale le sanzioni punitive dovevano adeguarsi all’effettivo grado di pericolosità dei delinquenti. 31 I provvedimenti previsti dalle regole ideate da Ferri per umanizzare la giustizia penale e tutelare i cittadini dagli abusi dello Stato, miravano ad arginare la criminalità con opportune misure preventive piuttosto che con l’asprezza dei metodi repressivi. Comunque nonostante l’importanza delle intuizioni di Farina, ancora per tutto il primo decennio del Novecento, sebbene si moltiplicassero le traduzioni delle opere di Conan Doyle, nella nostra penisola si tendeva a confondere la fisionomia del poliziesco con quella di generi letterari simili. Dopo aver sottolineato l’interesse degli studiosi lombrosiani possiamo per romanzo tralasciare riservarono alla britannico il Arthur giudiziario, l’attenzione che non essi produzione del medico-scrittore Conan aspetti particolarmente Doyle, interprete di inquietanti della società vittoriana. 32 Alfredo Niceforo cita Conan Doyle come uno dei creatori del genere poliziesco: “gli esempi,dati dai creatori di questo genere,quali il Gaboriau e il Conan Doyle,sono,in se stessi, originali e interessanti”20. E più precisamente: Il Gaboriau aveva creato leggendaria romanzo resuscitando di con la figura Monsieur giudiziario. Monsieur Lecoq, Più Lecoq il tardi, che sembrava essere morto, Conan Doyle creò un genere di romanzo giudiziario più moderno e più sorprendente21. Niceforo cita anche il famosissimo detective nato dalla penna di Conan Doyle : Leggevo l’altro giorno uno dei romanzi più suggestivi che mai in questi ultimi tempi si siano scritti: Un delitto strano del Conan Doyle, e ammiravo con quale luminoso effetto il 20 21 signor Sherlock A. Niceforo, Parigi. Una città rinnovata, cit. p. 231. Ivi, p. 230. 33 Holmes faceva l’ispezione del luogo del delitto22. Niceforo distingue vari tipi di letteratura: rossa, gialla, azzurra, nera, bianca, in un suo saggio intitolato Che cosa si impara dalla letteratura bianca (pubblicato a Milano su “Echi e Commenti”, 5 settembre 1939). Il criminologo definisce “letteratura rossa , la vera e propria letteratura ricamata sulla trama di un’istruttoria giudiziaria, e la letteratura gialla la goffa degenerazione attuale della rossa”23 ; la letteratura azzurra è un genere che si basa sul fantastico, capace di trasportare il lettore in un mondo di sogni, d’irrealtà popolata da fantasmi, oppure addirittura di dislocarlo idealmente in un mondo lunare. Per quanto riguarda la letteratura “negra, scritta da negri e descrivente più o meno sataniche 22 Ivi, pp. 268 – 269. A. Niceforo, Che cosa si impara dalla letteratura bianca, in “Echi e commenti”, Milano, 5 settembre 1939, p. 663. 23 34 scene di negri in convulsioni di sangue e d’amore”24, si può dedurre che Niceforo ne dia una valutazione estremamente negativa. Ma nessuno,o quasi, parla di una speciale forma di letteratura a proposito della quale moltissimo è da dire e da cui può persino molto impararsi: la letteratura di chi ha perduto la ragione. chiameremo siffatta impressionanti pagine Di che colore letteratura?…Le che costoro scrivono nel loro delirare e la sonante poesia che esce dai cervelli di quei cadaveri ancor vivi, tutti vestiti di bianco, potremmo chiamare: letteratura bianca, come il camice di quei sepolti. E come il lenzuolo dei morti25. La letteratura bianca, quindi, è quella scritta dai malati ricoverati negli ospedali psichiatrici. Niceforo ebbe modo di raccogliere il materiale che fa capo alla letteratura bianca nel corso delle sue esperienze professionali, nelle quali 24 25 Ibidem. Ibidem. 35 poté avvalersi di copiose e minuziose osservazioni e misurazioni psicosomatiche, essendo cultore di discipline psicologiche ed antropologiche . Questa produzione narrativa è denominata bianca perché bianco è il colore predominante negli ospedali, bianchi sono i camici dei medici, di bianco sono vestiti i matti in quegli ospedali. Anche il linguaggio utilizzato dai “mattoidi” (vocabolo usato da Niceforo) è bianco; ciò significa che il matto, esprimendosi, crea dei neologismi (non usando, ovviamente, regole acquisite in precedenza). Ciò avviene tramite la triturazione delle parole,la sostituzione di alcune sillabe con altre e l’uso del linguaggio infantile; si può dunque parlare di travisamenti fonetici e grafici. * * * Niceforo firma ancora un saggio importante, in cui prende in esame il personaggio di Sherlock 36 Holmes ed il suo creatore, Conan Doyle, intitolato Lontani e lontanissimi precursori del romanzo giudiziario moderno (in ”Il XX secolo”, Milano, 10 marzo 1917). L’esigenza di spiegare le ragioni del successo del nuovo genere romanzesco, lo induce a cercarne gli ascendenti nel passato, risalendo molto indietro nel tempo. Egli vede addirittura come precursore di Sherlock Holmes e del suo metodo indiziario, Quintiliano,che visse a Roma nel 1°secolo d.C.: Quintiliano e la sua scuola discutevano, come si sa, a Roma nel 1°secolo d.C., su soggetti giudiziari, come si farebbe oggi nelle nostre scuole di eloquenza giudiziaria e di pratica forense26. Loris Rambelli, nel suo testo Storia del “giallo”italiano , scrive, a proposito di questo contributo del criminalista siciliano: 26 A. Niceforo, Lontani e lontanissimi precursori del romanzo giudiziario moderno, cit. p. 770. 37 Alfredo Niceforo rintracciava gli antenati del romanzo giudiziario nelle Declamationes pseudoquintilianee del 2° secolo d.C., cioè quegli esempi di eloquenza con cui i giovani latini, che abbracciavano la carriera forense, si esercitavano nelle parti dell’accusa e della difesa dopo avere inventato, come canovaccio, il “tema”di un processo27. Niceforo indica inoltre in Zadig, personaggio nato dalla fantasia di Voltaire, un altro precursore del romanzo giudiziario moderno. Zadig (1756) è il primo dei racconti filosofici di Voltaire. L’illuminista francese nel suo scritto sostiene che la fantasia e la realtà per l’uomo dotato di ragione, dedicatosi alla scienza, sono intimamente legate. Il giovane protagonista possiede bellezza, ricchezze e virtù e si aspetta di conseguenza una grande felicità, ma è coinvolto da un destino 27 L. Rambelli, Storia del “giallo” italiano, cit. p. 72. 38 imperscrutabile in situazioni sfortunate e pericolose che lo costringono ad affrontare una dura realtà. Ambientato a Babilonia e in vari paesi del medio oriente per assecondare il gusto dell’esotico allora dominante in Francia, il racconto segue le alterne vicende del giovane Zadig. Il famoso criminalista nota che lo Zadig di Voltaire esamina le tracce, deduce e induce, piuttosto in grazia alle proprie eccezionali qualità che ricorrendo a tecniche speciali. Si senta in che modo procede la narrazione di Voltaire e si converrà che sembra di udire la narrazione delle gesta di Sherlock Holmes stesso28. Osservazioni analoghe saranno formulate, circa mezzo secolo più tardi, da Carlo Ginzburg, che accosterà il metodo indiziario di Sherlock Holmes a quello del celebre critico d’arte italiano Giovanni Morelli, e rintraccerà l’embrione del procedimento 28 A. Niceforo, Lontani e lontanissimi precursori del romanzo giudiziario moderno, cit. p. 768. 39 “congetturale” che governa la scrittura poliziesca in un passo del terzo capitolo di Zadig . Si tratta, precisamente, della pagina in cui Zadig riusciva a descrivere minutamente, decifrandole, tracce sul terreno. Accusato di furto e condotto dinanzi ai giudici, Zadig si discolpava rifacendo ad alta voce il lavorio mentale che gli aveva permesso di tracciare il ritratto di due animali che non aveva mai visto29. A giudizio di Ginzburg, tanto Poe quanto, successivamente Gaboriau e Conan Doyle furono ispirati dal testo di Voltaire. Sherlock Holmes, nelle sue indagini, utilizza un procedimento di tipo indiziario che si fonda sulla deduzione. Ciò ci riconduce al positivismo perché il metodo holmesiano anziché partire dal generale, muove dal particolare che rivelerà, inseriti poi i vari dettagli 29 C. Ginzburg, Miti emblemi spie. Morfologia e storia, Torino, Einaudi, 2002, pp. 182 – 183. 40 all’interno di uno stesso sistema di corrispondenze, la soluzione finale. Sherlock Holmes ha avuto il merito di codificare per primo in sede letteraria i metodi della scienza criminologica fondati sull’osservazione e la deduzione. Quindi c’è una stretta corrispondenza tra la narrativa poliziesca e il contesto socio-culturale di fine Ottocento. Il romanzo poliziesco attecchisce proprio nel periodo dello scientismo positivista perché traduce sul piano narrativo l’interesse scientifico nei confronti del problema della delinquenza sociale. Questo significa che il genere poliziesco nasceva da un’esigenza comune a tutta la società di quel periodo: affermare, anche sul fronte della narrativa d’evasione, la fiducia in procedimenti logico-scientifici atti a risolvere le falle derivate dai comportamenti devianti di una fetta marcia della società. 41 Pertanto la letteratura incentrata su intrighi delittuosi rispecchiava le esigenze della società borghese di fine Ottocento e nasceva da stati d’animo e di cultura comuni allo scrittore e al lettore; ed è impregnata della cultura del tempo e contemporaneamente la traduce in storie piacevoli mentre intanto, ovviamente, la svuota del suo rigore scientifico30. La prosa poliziesca offre al lettore lo spunto per il “suo bisogno di identificazione con eroi congeniali al mondo in cui lui, il lettore, vive”31 presentandogli “invenzioni e personaggi che lo interesseranno perché nelle loro pieghe nascondono i problemi e gli affetti, le inquietudini e le speranze di tutti”32 . Niceforo sottolinea il in questo suo saggio del 1917 successo ottenuto dal romanzo giudiziario sui lettori con questa affermazione: 30 G. Petronio, Il punto sul romanzo poliziesco, Roma – Bari, Laterza, 1985, p. 28. Ibidem. 32 Ibidem. 31 42 Il romanzo giudiziario nelle sue forme letterarie e nelle sue forme meno elevate, o addirittura, assolutamente inferiori, ha dominato, e domina tuttora, esercitando seduzione grandissima , su larga parte di pubblico33. Conan Doyle propose il personaggio del detective come un poliziotto superdotato che da sparsi indizi, inesistenti per gli altri, risale, con processi logici e analisi proprie della “scienza” , alla scoperta del delinquente, e lo denunzia e arresta, e risarcisce il tessuto sociale lacerato34. Così, all’interno di quest’ottica, il crime novel si configurava come una forma letteraria adeguata ad offrire al lettore una sorta di risarcimento ideale, una ideale garanzia che qualsiasi elemento disgregatore dell’ordine vigente potesse essere neutralizzato 33 A. Niceforo, Lontani e lontanissimi precursori del romanzo giudiziario moderno, cit. p. 767. 34 G. Petronio, Il punto sul romanzo poliziesco, cit. p. 29. 43 dall’intervento della ragione, gratificando, per così dire, il pubblico tramite uno sguardo ai mali propri di quella società, l’esaltazione della scienza e della ragione, l’identificazione con un uomo superiore, la rassicurazione finale sulla forza vittoriosa del bene35. La superiorità intellettiva di Sherlock Holmes era perfettamente confacente ai canoni di superiorità dell’Inghilterra vittoriana. L’Inghilterra di fine Ottocento si imponeva sulle altre nazioni per un prestigio dovuto alle conoscenze scientifiche, al progresso industriale e tecnologico. Il Regno Unito, all’inizio della seconda metà dell’Ottocento, sarebbe votata all’imperialismo decollato come potenza e quindi doveva necessariamente offrire un’immagine compatta di sé; il dilagare della criminalità avrebbe generato un diffuso senso di paura che avrebbe potuto intaccare 35 Ibidem. 44 l’unità e la compattezza proprie di una nazione salda ed incorruttibile. L’Inghilterra voleva dare un’immagine di sé non frammentata dall’angoscia delle aggressioni delinquenziali ma connotata dalla limpidezza dei meccanismi del vivere e delle istituzioni. Come è noto, l’età del positivismo era tesa alla conoscenza del reale e della verità. E Sherlock Holmes, degno rappresentante di quell’epoca, cerca la verità («…dopo aver eliminato l’impossibile, ciò che rimane, per quanto improbabile, deve essere la verità?»)36 mediante le sue capacità intellettive con l’intento di arrivare a chiarire il movente dell’assassino o le motivazioni per le quali è stato compiuto il delitto. Con l’avvento del romanzo poliziesco, si delinea l’antagonismo tra il delinquente professionista (raffigurato, in questo caso specifico, dal personaggio negativo principale creato da Conan 36 A. Conan Doyle, Il segno dei quattro, trad. di M. Gallone, Milano, Mondadori, 1958, p. 48. 45 Doyle cioè il professor Moriarty37 ) e la legge che viene fatta applicare nella società dalle forze dell’ordine pubbliche e private (rispettivamente rappresentate dalla polizia di Scotland Yard e da Sherlock Holmes). Nel definire Moriarty un criminale, Conan Doyle lo descrive così: il più grande imbroglione di tutti i tempi, l’organizzatore di ogni ribalderia, il cervello controllatore (sic) del mondo sotterraneo, un cervello che potrebbe foggiare o distruggere il destino di intere nazioni!38 E ancora Sherlock Holmes nell’epilogo de La Valle della Paura dice di Moriarty: «Questo è il colpo di una mano maestra. Non è il caso di parlare qui di moschettieri a canna corta o di pistole a sei colpi che fanno chiasso. Si capisce un artista dal suo 37 Il lettore può leggere, tra le letture messe in rete, l’articolo di F.Eugeni, A study in … Moriarty Binomial Theorem, in: A Week Later, Atti Sesto Fiorentino, Settembre, 2000, con le unite slides di una conferenza dell’auitore sull’argomento. Il personaggio di Moriarty è tratteggiato in questo lavoro tra il critico e l’apocrifo. 38 A. Conan Doyle, La valle della paura, trad. di M. Gallone, Milano, Mondadori, 1960, p. 14. 46 colpo di pennello. Io ho immediatamente intuito che qui c’è sotto lo zampino di Moriarty. Questo delitto è stato macchinato a Londra»39. Londra era cresciuta a dismisura ai tempi dell’industrializzazione ottocentesca e si era sviluppata in un dedalo di viuzze e anche in quartieri malsani dove era facile che proliferasse la delinquenza . Conan Doyle ne dà una definizione negativa: “Londra, quel grande immondezzaio dove tutti gli sfaccendati e i fannulloni dell’Impero si riversano irresistibilmente”40 . L’autore descrive il frenetico aggirarsi di questi tipi umani “nell’immensa selva londinese” mentre correvano “per le vie affollate di Londra”41. Ma la rappresentazione della città con i suoi chiaroscuri è anche metafora di una caratteristica propria dell’Inghilterra vittoriana e cioè il 39 Ivi, p. 212. A. Conan Doyle, Uno studio in rosso, trad. di A. Tedeschi, Milano, Mondadori, 1958, p. 16. 41 Ivi, p. 17. 40 47 nascondere, o anche occultare, scandali e pecche della borghesia perbenista. Ciò ci porta a comprendere perché il vizioso modus vivendi di Sherlock Holmes (quest’ultimo ricorreva a sostanze stupefacenti che lo aiutavano a concentrarsi sui suoi casi più difficili e quindi ad arrivare alla soluzione) era accettato tacitamente dalla società vittoriana che sfoggiava atteggiamenti ipocritamente perbenistici. Ne Il segno dei quattro si legge chiaramente che Sherlock Holmes faceva uso “di cocaina in una soluzione al sette per cento”42. Conan Doyle svela questa abitudine segreta del suo eroe già all’inizio di questo romanzo: Con le lunghe dita, bianche e nervose, avvitò all’estremità della siringa l’ago sottile e si rimboccò la manica sinistra della camicia. I suoi occhi si posarono per qualche attimo pensierosi sull’avambraccio e sul polso solcati di 42 A. Conan Doyle, Il segno dei quattro, cit. p. 4. 48 tendini e tutti punteggiati e segnati da innumerevoli tracce di iniezioni. Infine si conficcò nella carne la punta acuminata, premette sul minuscolo stantuffo, poi, con un profondo sospiro di soddisfazione, ricadde a sedere nella poltrona di velluto. Da molti mesi, per tre volte al giorno…43 Sherlock Holmes ammetteva di temere “che, fisicamente parlando, l’influenza della cocaina sia perniciosa” ma la trovava “così stimolatrice e chiarificatrice dell’intelletto” ed aveva bisogno di sentirsi “in uno stato di esaltazione mentale costante”44 per risolvere i suoi casi. Lo sherlockiano impiego di droghe sarebbe stato un fattore di scandalo nell’ottica vittoriana puritana ma quella debolezza era “perdonata” al celebre detective perché egli recava un servizio importante alla società, cioè quello di liberarla dai criminali. 43 44 Ivi, p. 3. Ivi, pp. 4 – 5. 49 Il successo del romanzo poliziesco è dovuto alla coniugazione, da parte di Conan Doyle -che ne è uno dei padri fondatori-, dell’elemento logicodeduttivo in chiave narrativa e dell’originalità degli strumenti espressivi che lo scrittore impiega. Per quanto riguarda la strutturazione della materia romanzesca “gialla”, Conan Doyle utilizza una tecnica dilatoria che tiene accesa l’attenzione del lettore e intensifica la sua curiosità di conoscere la soluzione del mistero: la suspense. Conan Doyle ha sapientemente elaborato questo metodo che diverrà una delle cifre qualificanti del mystery inglese (“giallo classico”). Nuova e suggestiva è anche la funzione che lo scrittore britannico assegna alle descrizioni paesaggistiche, spesso finalizzate a dimostrare che le condizioni climatiche londinesi favoriscono l’espandersi della malavita; pensiamo, per esempio, alla “famosa” nebbia che è utilizzata da Conan Doyle al fine di confondere i contorni di ambienti e 50 persone ma anche per creare una certa suggestione nella mente del lettore: Era una sera di settembre, e mancavano ancora parecchi minuti alle sette; ma il giorno era stato fosco, e una fitta nebbia gocciolante si stendeva bassa sopra la grande città. Grosse nubi color fango pendevano lugubremente sulle strade piene di mota. Giù per lo Strand i lampioni altro non erano che caliginose chiazze di luce evanescente che gettavano sul marciapiede sdruccioloso un debole alone circolare. Il chiarore giallo delle vetrine fluiva nell’aria greve, satura di vapori, e gettava una luminosità incerta, quasi minacciosa, sulla grande arteria brulicante di folla. Si aveva la sensazione che ci fosse qualcosa di inafferrabile, di spettrale nell’interminabile processione di facce che volteggiavano in quelle anguste spere di luce, facce allegre e facce tristi, volti lieti e volti smarriti. Al pari di tutto il genere umano passavano per 51 un attimo dalle tenebre alla luce, per ricadere subito nell’oscurità45. Tutte le vicende sherlockiane sono costruite in modo da far sorgere dei dubbi al lettore; questa tecnica di matrice conandoyliana ha la funzione di far convergere l’interesse del lettore verso le prodezze del detective e verso il ruolo criticodialettico della sua “spalla”, il dottor Watson. Quest’ultimo pone a Sherlock Holmes interrogativi simili a quelli che il reading public stesso porrebbe all’investigatore. Si determina pertanto una valente interazione tra il lettore ed il detective tramite il personaggio trait d’union impersonato appunto da Watson. * 45 * * Ivi, p. 22. 52 In Italia, il romanzo poliziesco autoctono ha impiegato molto tempo per attecchire perché inizialmente si registrava un esclusivo interesse verso i prototipi stranieri. Già all’altezza degli anni Novanta dell’Ottocento , incontriamo alcune traduzioni di racconti di Sherlock Holmes; infatti editorialmente parlando, il 1895 è la data dell’ingresso di Sherlock Holmes in Italia. In quell’anno, la casa editrice Verri di Milano pubblica due racconti da Le avventure di Sherlock Holmes , Uno scandalo in Boemia e La lega dei Roquins (da The adventures of Sherlock Holmes, apparso in Inghilterra nel 1892), e Il cavallo da corsa, tratto da The memoirs of Sherlock Holmes (edito in territorio britannico nel 1894). Come sappiamo, si registrò un successo strepitoso intorno alla figura di Sherlock Holmes, che presto fu innalzata a mito. 53 Fu nel 1899 che il “Corriere della Sera” cominciò a pubblicare sistematicamente i testi del canone sherlockiano. Il promotore di questa iniziativa fu Luigi Albertini, che successivamente diresse il prestigioso quotidiano milanese. Albertini era vissuto a Londra ed aveva potuto constatare personalmente l’enorme successo letterario del detective Sherlock Holmes. Cogliamo la traccia dell’interesse per quel personaggio anche su “La Domenica del Corriere”; a puntate vennero pubblicate Le avventure di Sherlock Holmes nel 1899, Le ultime avventure di Sherlock Holmes nel 1900/’01, La maledizione dei Baskervilles nel 1902/’03, Il ritorno di Sherlock Holmes nel 1904/’05, La valle della paura nel 1915. Testi che furono in seguito raccolti nelle pubblicazioni periodiche del “Romanzo Mensile” (nel 1903, 1904, 1907,1907/’08, 1918). 54 Altre case editrici, accorgendosi del successo, si inserirono nel circuito proponendo titoli sherlockiani che mancavano al “Corriere della Sera”. E’ il caso della Società Editrice Milanese che pubblicò A study in scarlet (che è il primo testo del canone sherlockiano) in sette diverse versioni tra il 1901 e il 1911 e The sign of four in sei versioni tra il 1903 e il 1912. Nel 1913 tre racconti appartenenti a His last bow estratti dallo “Strand Magazine” cioè The adventure of devil’s foot, The disappearance of lady Frances Carfax, The adventure of the red circle vennero ospitati su “La Domenica del Corriere”. Ecco una dell’avvicendarsi ricostruzione delle traduzioni cronologica italiane dei romanzi di Sherlock Holmes: 1) A study in scarlet che come titolo della prima edizione italiana nel 1901 ebbe Un dramma 55 misterioso,con traduzione di Irma Rios ( Milano, Società Editrice La Poligrafica). La seconda edizione è del 1907 e si intitola Uno strano delitto ,la traduzione è di Romeo Lusini, ( Milano, Società Editrice Milanese, Il Libro Popolare 6). La terza edizione, dal titolo Sherlock Holmes, il poliziotto dilettante.Lo scritto rosso, è senza indicazione di traduttore e figura nella Biblioteca Salani Illustrata ,347, di Firenze, Salani. E’ del 1908. La quarta edizione è intitolata Uno strano delitto, traduzione di Cino Liviah in: Doyle, Sherlock Holmes il poliziotto dilettante.Uno strano delitto.Il segno dei quattro., Milano, Società Editrice Milanese. E’ del 1909. La quinta edizione si intitola Sherlock Holmes ed è senza indicazione di traduttore. E’ stata pubblicata a Firenze per la Casa Editrice Italiana, Il Romanzo, I, 23, il 4 maggio del 1911. La sesta edizione recante il titolo Le avventure di Sherlock Holmes. Lo scritto rosso è stata tradotta da Filippo Mastriani e pubblicata a Napoli presso 56 Salvatore Romano , nel 1911. La settima edizione porta il titolo Il segreto di Hope ed è senza indicazione di traduttore; è stata pubblicata con “Il Romanzo della Domenica” a Roma presso la Società Editrice Romana, I, 24, il 10 dicembre 1911. L’ottava edizione si intitola Due uomini da uccidere, traduzione di Graziuse D’Africa, è apparsa nella collana “I Gialli del Gufo Nero” 1, Milano, Attualità, nel 1937. La nona edizione porta il titolo Il colpo di Sherlock Holmes , è senza indicazione di traduttore, pubblicata nella serie “ Un Capolavoro Poliziesco/Capolavori Polizieschi”, Milano, Attualità, il 22 aprile 1940. La decima edizione porta finalmente il titolo tradotto fedelmente dall’inglese: Uno studio in rosso ; la traduzione è di Alberto Tedeschi; edita a Milano dalla Rizzoli nel 1949. 2) The sign of four è il secondo romanzo conandoyliano. Anch’esso ebbe varie traduzioni 57 italiane. La prima edizione italiana prenderà subito il titolo Il segno dei quattro, è senza indicazione di traduttore; è stata pubblicata su “Il Romanzo Mensile”a Milano presso Ed. del ”Corriere della Sera”, I, 8, nel novembre-dicembre del 1903. Nella seconda edizione è stato cambiato il titolo. Il romanzo si intitolò infatti Il dramma di Pondichery Lodge, è senza indicazione di traduttore, è stato pubblicato su “La Biblioteca Amena”, 671, a Milano presso Treves nel 1904. La terza edizione si intitola nuovamente Il segno dei quattro, è senza indicazione di traduttore; è stata pubblicata a Napoli presso Bideri, s.d. (1906). La quarta edizione reca il titolo Sherlock Holmes il poliziotto dilettante.Il segno dei quattro. E’ senza indicazione di traduttore. E’ stata pubblicata nella ”Biblioteca Salani Illustrata”, 346, a Firenze presso Salani nel 1908. La quinta edizione si intitola Il segno dei quattro; la traduzione è di Cino Liviah in: Doyle, Sherlock Holmes il poliziotto dilettante.Uno 58 strano delitto. Il segno dei quattro. Pubblicato a Milano presso la Società Editrice Milanese nel 1909. La sesta edizione è intitolata Le prime imprese di Sherlock Holmes; è senza indicazione di traduttore. E’ stata pubblicata a Firenze presso la Casa Editrice Italiana su “Il Romanzo”, I, 26-27,21-28 maggio del 1911. La settima edizione si intitola Il tesoro di Agra, traduttore n.i., pubblicata a Napoli presso Salvatore Romano Ed.nel 1912. L’ottava edizione reca nuovamente il titolo Il tesoro di Agra, è senza indicazione di traduttore; è stata pubblicata su ”Il Romanzo della Domenica”, II, 36, a Roma presso la Società Editrice Romana l’8 settembre del 1912. La nona edizione porta ancora il titolo Il tesoro di Agra; è senza indicazione di traduttore; pubblicata su ”Per tutti. Romanzo Mensile”, 52, il 30 maggio 1923. La decima edizione ha il titolo Il tesoro di Agra; è senza indicazione di traduttore; è stata pubblicata a Napoli per Lubrano e Ferrara, s.d. (primi anni ’30). 59 Nell’undicesima edizione ritorna il definitivo titolo Il segno dei quattro. La traduzione è di Maria Gallone. E’stata pubblicata a Milano per la Rizzoli nel 1949. 3) Il terzo famosissimo romanzo di Conan Doyle è The hound of the Baskervilles; come primo titolo italiano ha La maledizione dei Baskervilles, è senza indicazione di traduttore, fu pubblicato su “La Domenica del Corriere”, IV, 44, il 2 novembre del 1902 e il V, 8, il 22 febbraio 1903. La seconda edizione reca il titolo Il mastino dei Baskervilles, la traduzione è di Maria Gallone. Fu edito a Milano presso la Rizzoli nel 1950. 4) L’ultimo dei quattro romanzi di Conan Doyle The Valley of Fear, per quanto riguarda la prima edizione italiana, ha per titolo La valle della paura; è senza indicazione di traduttore; lo ritroviamo su ”La Domenica del Corriere”, XVII, 60 35-46, 5 settembre- 21 novembre 1915 a Milano, Ed. del ”Corriere della Sera”. La seconda edizione reca il titolo La valle della paura; la traduzione è di Maria Gallone; fu pubblicata a Milano presso la Rizzoli nel 1950. Volendoci allontanare da questa ricostruzione cronologica schematica si può illustrare a grandi linee la situazione del “fenomeno giallo” italiano ricordando che, quando l’Italia entrò in guerra nel 1915, tutti i testi sherlockiani erano ampiamente diffusi e conosciuti dai lettori italiani. Nel periodo fra le due guerre si continuò a registrare inalterata la fama del racconto poliziesco sherlockiano, con la novità importante di considerarlo inscritto in un genere letterario dalla fisionomia ben definita, il “giallo”. Nella prospettiva dell’interesse diffuso per questa nuova tipologia narrativa, il canone sherlockiano, che racchiude con sistematicità le 61 opere poliziesche conandoyliane, viene ad assumere un’importanza basilare. Il “Corriere della Sera” continuò a ristampare le proprie versioni già pubblicate: nove versioni dal 1921 al 1939. Otto racconti dei dodici di The Case-Book of Sherlock Holmes (1927) vennero pubblicati su “La Domenica del Corriere” nel 1921 e nel 1927, seguendo la pubblicazione sullo “Strand Magazine”. Nel 1928/’29 l’intero The Case-Book of Sherlock Holmes apparve in due volumi presso la casa editrice Mondadori: Novissime avventure di Sherlock Holmes e Le ultime avventure di Sherlock Holmes. Data cruciale, perché proprio in quell’anno l’editore Arnoldo Mondadori inaugurò la sua politica editoriale del giallo iniziando a diffonderlo con una fama e un successo che durano tuttora. Mondadori diede vita nel 1929 alla collana ancora denominata “I libri gialli ”. 62 Quindi già nel 1930 la fama di Conan Doyle era solidissima e il creatore di Sherlock Holmes annoverava adepti e cultori sia tra gli scrittori di professione, sia fra coloro che per hobby si davano al giallo e alla lettura del giallo. 63 Capitolo 2 Il poliziesco in Italia negli anni Trenta. Circolazione di modelli stranieri, fondazione di un “giallo”nazionale, dibattito critico. Racine ha imborghesito la tragedia. Ingres ha imborghesito la forma classica della pittura. Restava da imborghesire il romanzo poliziesco. Grace à Dieu , anche questo è fatto 1. Il 23 agosto del 1932 esce su “L’Ambrosiano” un articolo dal titolo Romanzo poliziesco da cui è tratta questa citazione. A firmarlo è il critico Alberto Savinio, alias Andrea De Chirico, fratello di Giorgio. 1 A. Savinio, Romanzo poliziesco, in “L’Ambrosiano”, 23 agosto 1932, ora in Souvenirs, Palermo, Sellerio, 1989, p. 144 64 Scrittore, pittore, musicista, collabora a “L’Ambrosiano” dal ’27, a “La Stampa” tra il ’34 e il ’40, ad “Omnibus” tra il ’37 e il ’39 sotto la direzione di Leo Longanesi. Nel ’34, scrive per il teatro il dramma Il Capitano Ulisse (Roma, Quaderni di “Novissima”). La sua produzione narrativa consta di vari romanzi tra cui Tragedia dell’infanzia del ’37 (Roma, Edd.La Cometa); fra i racconti scritti negli anni Trenta, spicca Achille innamorato, del ‘38 (Firenze, Vallecchi). Nel ’38 pubblica a Firenze Gradus ad Parnassum, successivamente rifluito in Tutta la vita. Sollecitato da innumerevoli interessi culturali, Savinio si accosta anche al romanzo poliziesco. Egli è il primo in Italia a scoprire e ad apprezzare il padre letterario di Maigret, Georges Simenon. E’opportuno porre all’inizio dell’excursus che si opererà in questa sede l’autore belga, perché egli è 65 stato il modello privilegiato del poliziesco italiano degli anni Trenta. Savinio insiste nel dire che Simenon, pari in questo a molti altri letterati francesi, dà fuori una mole tale di lavoro, di cui i romanzieri nostrani non hanno la più pallida idea. Come la luna che si rinnova di mese in mese, Georges Simenon pubblica un nuovo romanzo ogni trenta giorni. E non si creda che sieno (sic) libercoli scribacchiati alla svelta. No: sono trecento pagine tirate a pulimento, trame intricatissime e risolte con maestria, figure e caratteri disegnati con evidenza e precisione, documentazione impeccabile di città e paesi, e di tanto in tanto, un tono, un accento che denotano lo scrittore di razza. Ma la caratteristica maggiore di questi libri, è che essi creano un tipo nuovo di romanzo poliziesco: il romanzo poliziesco borghese 2 2 . Ivi, p. 143. 66 Mirella Serri, nel suo saggio Il teatro e il giallo: Savinio e Simenon , sostiene che Il rapporto Savinio-Simenon si può leggere come una testimonianza della difficile collocazione del “giallo”nella storia della letteratura italiana. Savinio rappresenta un esempio di intelligente accettazione ed apprezzamento del romanzo poliziesco da parte di uno dei nostri scrittori più geniali e contemporaneamente impersona un aspetto di esclusione nei confronti del giallo, destinato ad essere preso in considerazione, nel migliore dei casi, come interessante esempio di letteratura “minore”, rispetto a quella considerata “alta” e maggiore 3. Simenon fa muovere il suo bonario commissario, Maigret appunto, tra la provinciale borghesia francese, riuscendo ad essere innovativo rispetto ai modelli anglosassoni, Conan Doyle in testa. 3 M. Serri, Il teatro e il giallo: Savinio e Simenon, in AAVV, Il giallo italiano degli anni Trenta, Trieste, Lint, 1988, p. 317. 67 I giallisti italiani si ispirarono al nuovo prototipo poliziesco coniato da Simenon e accantonarono, per così dire, i precedenti paradigmi poeiani o conandoyliani; uno dei motivi di questo passaggio fu il fascino esercitato dalla rappresentazione del personaggio del commissario come un poliziotto “umano”, più reale e più vicino alla gente, decisamente lontano dal superomismo sherlockiano. Infatti, osserva ancora Savinio, “Maigret -lo Sherlock Holmes della circostanza- è un borghese grasso e bonario, una specie di papà senza figli, un moralista pagnottone” 4 . Un’altra caratteristica importante dei gialli simenoniani è il realismo, che fu caro anche agli scrittori del giallo italiano. Savinio in un suo successivo articolo dal titolo Elogio di Simenon (in “L’Italia letteraria”, 10 dicembre 1933) affermò che gli scrittori italiani prediligevano in quel momento i romanzi brevi di 4 A. Savinio, Romanzo poliziesco , cit. , p. 143 68 Simenon, nei quali campeggiava un’ambientazione realistica. Realismo e gusto borghese in quella stagione del Novecento andavano a braccetto. Nello scritto già citato del 1932 dal titolo Romanzo poliziesco, Savinio notava che il giallo soddisfaceva le esigenze dell’imagerie borghese, e in particolare il bisogno di sensazioni violente, di letture stimolanti che potessero allontanarla dalla noia quotidiana; il giornalismo non riusciva più a soddisfare questa necessità. Il compito di appagarla passava al romanzo poliziesco, capace di far distrarre il lettore con le sue peculiarità: piaceva ai borghesi perché i suoi aspetti non sono specificamente borghesi; il protagonista è un criminale che nel suo agire è lontano dai moduli comportamentali del perbenismo borghese; sfidando il pericolo e trasgredendo la legge il malfattore diveniva come un eroe agli occhi del fruitore che, nella sua condizione sedentaria, sotto sotto cercava 69 di vivere quelle trasgressioni che non gli erano concesse dall’etica perbenista. E tutto ciò avveniva mediante la lettura, entrando nel personaggio del criminale. Come si diceva precedentemente, Simenon ha un doppio merito: avere creato con l’innovativo personaggio di Maigret il romanzo poliziesco borghese (dove non c’è eccesso di terrore come nei gialli anglosassoni in cui prevale il sensazionalismo; il delitto compiuto, è quasi sempre banale e non spettacolare) nel quale il commissario in questione non ha niente di eroico; e avere coniato il romanzo poliziesco nazionale francese. Savinio però riconosce anche “l’elemento di facciata” di Simenon e conseguentemente di Maigret, considerandoli dei “borghesi mascherati”; con ciò egli intende dire che i tratti quietamente borghesi di Maigret mascherano un temperamento incline, anche se cautamente, ad atteggiamenti critici e polemici nei confronti dell’ordine costituito. 70 La superficie di moralismo tout court salva l’opera di Simenon dagli attacchi della censura ed è questo il motivo per cui, in età fascista, vediamo circolare in Italia le opere del giallista belga, che con il suo rigorismo etico fustiga il falso perbenismo borghese. In Italia, la fortuna di Georges Simenon ha inizio nel 1932, anno in cui l’editore Mondadori pubblica le prime traduzioni delle opere dello scrittore belga e precisamente Il viaggiatore di terza classe , Il cane giallo, Il carrettiere della “Provvidenza” e L’osteria da due soldi. Il pubblico accetta subito con grande interesse la narrativa simenoniana e Mondadori aumenta il numero delle traduzioni da immettere sul mercato nazionale. Si tratta di una trentina di romanzi, pubblicati nel 1934. 71 Così si potenzia in Italia il successo editoriale del poliziesco , inaugurato con la diffusione dei romanzi di Conan Doyle. Uno dei motivi della fortuna di Simenon è un elemento innovativo all’interno del genere poliziesco: l’analisi del carattere dei personaggi, l’attenzione prestata dall’autore alla loro psicologia e specialmente alle delicate espressioni e ai più misteriosi recessi dell’animo femminile, un oggetto narrativo trascurato o mortificato prima di Simenon (in Conan Doyle , per esempio, l’indagine della psicologia femminile occupa poco spazio). E ciò non è poco: “Maigret è un poliziotto che sa ascoltare e guardare; scopre più verità con la psicologia di quanto non avvenga con le perizie balistiche” 5. Simenon opera anche un’analisi fine ed accurata del tessuto sociale, non esitando a far notare, per esempio, le pecche degli istituti religiosi per 5 G. Benelli, La fortuna italiana di Georges Simenon ,in AAVV, Critica e società di massa,Trieste, Lint, 1983, p. 306. 72 l’educazione dei giovani, pur essendo Maigret un cattolico. Leonardo Sciascia in un suo articolo intitolato La carriera di Maigret apparso su “Letteratura”, numero 10, del 1954, osserva acutamente, a proposito del commissario simenoniano, che “ la sua presenza di cattolico è come un reagente chimico che suscita rivelazioni, precipitazioni improvvise, nascoste sostanze psicologiche” 6. Quello di Maigret è un cattolicesimo provinciale tollerante e bonario che lo porta ad essere saggio nei suoi arguti giudizi, “non a caso assomiglia più a Padre Brown che non a Sherlock Holmes”7; se si vuole essere più precisi , si potrà dire che Maigret è un personaggio “antieroico e umano, pieno di silenziosa pietà , che lo induce a non giudicare”8; tattica, quest’ultima, propria degli psicologi e Maigret , come abbiamo detto, è particolarmente 6 L. Sciascia, La carriera di Maigret , in “Letteratura”, n. 10, 1954. G. Benelli, La fortuna italiana di Georges Simenon , cit., p. 306. 8 Ivi, p. 310 7 73 attento alla psicologia degli individui essendone un fine conoscitore ; infatti “il suo mestiere è una vocazione più di medico o di confessore che non d’inquisitore”9 sostiene Alberto Del Monte. La psicologia di cui si sta parlando è quella dei piccoli borghesi , di figure anonime schiacciate dalla loro pena e dalla loro colpa . Graziano Benelli in un suo saggio intitolato La fortuna italiana di Georges Simenon nota che “Anche gli assassini spesso sono privi di personalità a tal punto che in più d’una occasione sembrano aspettare il commissario così come si aspetta il redentore”10. Ciò ci porta a comprendere la piattezza della vita di questi personaggi piccolo-borghesi il cui “ritmo di vita che segue sempre lo stesso andamento modesto e raccolto , privo di grandi drammi”11, non può essere turbato neanche da un delitto. 9 Ibidem. Ibidem. 11 Ivi, p. 311. 10 74 Elvio Guagnini afferma che “la produzione simenoniana [è] incentrata su una visione cordiale e su un’ analisi psicologica corposa dei meccanismi del dramma umano ricondotto alla sua quotidianità”12. Un altro intellettuale di alto profilo che si interessa a Simenon negli anni Trenta è Guido Piovene . Egli ne mette in luce pregi e difetti e lo situa tra gli “scrittori artisti” e non tra gli scrittori commerciali (anche Savinio si era espresso in questi termini elevando il giallista belga al rango degli scrittori degni di essere considerati tali in un articolo dell’ottobre del 1936 uscito su “L’Italiano” dal titolo Georges Simenon : “sono stato il primo a scoprirlo come scrittore serio”13). Piovene sottolinea la fortuna commerciale e la celebrità di Simenon in Italia, apprezza le 12 E. Guagnini, L’ “importazione”di un genere: il “giallo” italiano tra gli anni Trenta e gli inizi degli anni Quaranta – appunti e problemi – , in Note novecentesche, Pordenone, Ed. Studio Tesi, 1979 , p. 449. 13 A. Savinio, Georges Simenon, in “L’Italiano”, ottobre 1936. 75 descrizioni d’ambiente e lo scandaglio della psicologia dei personaggi operati dal belga . I personaggi risultano credibili perché sono bene inseriti nello specifico contesto sociale e situazionale in cui si muovono. Nel caso di Simenon, egli, attento osservatore della realtà circostante, registra o meglio documenta, dopo avere attentamente osservato, una caratteristica marcatamente francese : il patriottismo. Ed egli, un po’ come tutti gli intellettuali che prendono una propria posizione verso qualcosa, si serve della produzione scritta per esprimere il proprio giudizio. Benelli, nel suo saggio già citato su Simenon, aggiunge che “il romanzo [simenoniano] altro non è se non un’appassionata denuncia di un certo esasperato nazionalismo presente nella cultura della provincia francese”14. 14 Ivi, p. 312. 76 Il romanzo poliziesco, basato sulla infrazione dell’ordine e sul suo ripristino, presuppone l’esistenza di un’autorità portatrice d’un principio di giustizia, però “non sempre la detective fiction è un prodotto della democrazia ma le convenzioni su cui si basa risentono del contesto politico, al punto che il poliziesco può prestarsi a veicolo di contenuti eversivi”15. Questa fu proprio una delle preoccupazioni di Mussolini che culminarono nell’agosto del 1941 con una disposizione, varata dal Ministero della Cultura Popolare. Il Minculpop ha disposto, per ragioni di carattere morale, che la pubblicazione dei libri gialli ,sia sotto forma di periodici, sia di dispense, venga sottoposta alla sua preventiva autorizzazione. Il Ministero ha disposto inoltre che vengano ritirati dalla circolazione non pochi romanzi gialli già pubblicati e che giudica nocivi per la 15 M. Ascari, La leggibilità del male. Genealogia del romanzo poliziesco e del romanzo anarchico inglese, Bologna, Patron, 1998, p. 30. 77 gioventù. L’incarico di ritirare tali libri è stato affidato agli editori stessi. Il provvedimento è saggio e intelligente commentava “L’Assalto”di Bologna- . Era ora di finirla con questo genere di bassa letteratura improntata sull’apologia del delitto16. Tutto ciò segnò la fine del romanzo poliziesco nell’Italia fascista. Ma andiamo a ritroso. Durante gli anni Trenta il fascismo colse la portata sociologica del fenomeno rappresentato dal consenso del pubblico verso il poliziesco, e la censura limitò la produzione e la circolazione dei gialli. Il fascismo perse così l’occasione di magnificare la propria polizia e la propria “giustizia”, ma anche di porre l’accento sulla rappresentazione pacificatrice della ricerca della verità (ricordiamo 16 “L’Assalto”, 30 agosto 1941. 78 che quest’ultima è uno degli elementi preminenti del personaggio Sherlock Holmes) nella letteratura. Le regole che il regime dettò per coloro che si fossero ostinati a scrivere gialli sono a dir poco ridicole . Eccole: l’assassino doveva obbligatoriamente essere straniero, mai italiano; il detective non poteva mai suicidarsi, era “autorizzato” a farlo solo l’assassino che però, come è stato appena detto, non doveva essere italiano; l’assassino non poteva sfuggire alla giustizia (ma questa, come si sa, è una delle regole fisse del giallo soggetta a infrazioni solo in tempi recenti), il caso criminoso poteva essere risolto solo tramite l’indagine ufficiale. Queste norme limitavano enormemente la libertà dello scrittore che, per creare opere interessanti ed originali, deve poter ideare e concatenare gli eventi narrativi a suo piacimento. L’indulgenza con cui Mussolini guardò, nell’arco degli anni Trenta, alla produzione di gialli italiani, si 79 giustificava con le direttive di una politica culturale autarchica, volta ad estromettere dal mercato nazionale i “polizieschi” importati dall’estero. E’ significativo a tal proposito un giudizio espresso da Emilio Radius: Il problema del romanzo giallo è un problema autarchico ed è un problema morale; se è destino che[romanzi gialli]si debba scrivere importarne anche noi, per non troppi e per non importare, con la carta stampata, costumi, usi e vezzi17. * * * Ma veniamo ora a documentare, dopo aver tracciato la fisionomia del modello a cui prevalentemente attinsero gli scrittori del periodo, cioè Simenon, la presenza di un giallo italiano negli anni Trenta, riferendoci a scrittori-giallisti come 17 E. Radius, Autarchia ed etica del romanzo giallo , in “Corriere della Sera”, 29 aprile 1939. 80 Varaldo, De Angelis, Spagnol, e critici che osservarono e fiancheggiarono l’evoluzione del filone, come Aldo Sorani, Corrado Pavolini, Luigi Chiarini, e ancora Guido Piovene e Alberto Savinio. Ma procediamo con ordine . Alessandro Varaldo, narratore, drammaturgo, poeta ligure, esordisce nel 1897 con sonetti di gusto simbolista e decadente. Nei primi anni del Novecento, produce commedie caratterizzate dai classici clichés della letteratura mediocri popolare, ideali sentimentalismo. dalla borghesi, In tematizzazione da un’intervista un di mieloso concessa ad Augusto De Angelis nel 1925, apparsa con il titolo Ritratti a lapis:“I due Varaldo” su “Comoedia” il 15 luglio di quell’anno, lo scrittore ligure dichiara di rifarsi alla letteratura popolare appendicistica : Adesso sto per finire Il cavaliere errante. E’ un al Mille. romanzo cavalleresco anteriore Lo scrivo pacatamente, continuamente, riprendendolo il giorno 81 dopo, laddove prima, l’ho sospeso il giorno proprio come se …leggessi un’appendice che non fosse scritta da me. - Ma l’ispirazione? [chiedeva De Angelis] - Ah!L’ispirazione! Ma io l’ho prima…prima di mettermi a scrivere. Sai come scrivo i miei romanzi io? Tutti di seguito, senza un pentimento.Una volta una signorina mi chiese che cosa stessi preparando per la stampa. Le dissi un titolo qualsiasi, tanto per dire, di un romanzo al quale avevo pensato vagamente[…]. La signorina insistè per conoscere la trama e io… le raccontai tutta la vicenda del romanzo, inventandola man mano che parlavo. E l’indomani cominciai a scrivere quel romanzo che in un paio di mesi fu terminato18. E’ direttore generale della Società Italiana degli Autori dal 1920 al ’28 e nel 1943 dirige l’Accademia d’Arte Drammatica a Roma. 18 A. De Angelis, Ritratti a lapis: “I due Varaldo”, in “Comoedia”, 15 luglio 1925. 82 Ma il nome di Varaldo è legato soprattutto alla nascita del giallo nazionale: Il sette bello , del ’31, inaugura la serie italiana della collana mondadoriana “Libri Gialli”, che in precedenza era destinata solo ad autori stranieri. Il successo è strepitoso, addirittura 23.000 copie. Varaldo opera un mixage tra il giallo classico e l’intrigo spionistico d’ambientazione regionale, calamitando i lettori anche grazie ad una sottile ironia e a un certo buonsenso. Nel luglio del ’32, sulla rivista “Comoedia” il nostro giallista scrive un articolo che funge da premessa ai suoi primi romanzi, intitolato Dramma e romanzo poliziesco ; qui, l’autore precisa che la letteratura gialla, nelle sue forme di dramma e romanzo, è una novità assoluta e una pratica di scrittura moderna. In questo suo pezzo giornalistico, Varaldo pone alla base del genere poliziesco un postulato da 83 formularsi in questi termini : “impostato il problema, bisogna fuorviare o distrarre le supposizioni ”19. Varaldo continua ancora su questa linea : C’è, ad esempio, un personaggio misterioso? Il lettore si chiederà perché l’autore lo ha messo lì. Deve avere una ragione. Ma l’autore spesse volte ha usato il personaggio misterioso appunto per distrarre20. Tornando alla produzione narrativa gialla dello scrittore ligure, al Sette bello seguono Le scarpette rosse e Tre catene d’argento, La gatta persiana e La scomparsa di Rigel del ’33, Circolo chiuso del ’35, Casco d’oro e Il segreto della statua del ’36, La trentunesima perla (raccolta di racconti che in parte erano già usciti sul periodico mondadoriano “Il Cerchio Verde”), e Il tesoro dei Borboni del ’38, Le avventure di Gino Arrighi del ’39, Il signor ladro del ’44, Alla ricerca di un tesoro scritto all’inizio degli anni Quaranta e rimasto inedito fino al 1989. 19 20 A. Varaldo, Dramma e romanzo poliziesco , in “Comoedia”, luglio 1932. Ibidem. 84 Nel ruolo del detective, Varaldo fa alternare due personaggi nati dalla sua penna: il commissario Ascanio Bonichi e l’investigatore privato Gino Arrighi. L’inchiesta giudiziaria ha un ruolo centrale nella sua narrativa. Egli più che sulla logica analitica sherlockiana, punta sull’intuito maigretiano, attestando così il passaggio dal modello conandoyliano al modello simenoniano. Un’altra caratteristica varaldiana è l’originalità della scrittura e dello stile: l’autore inserisce nei suoi gialli locuzioni dialettali, citazioni, aforismi che intercalano un dialogo vivace e brillante. Sul piano ideologico, Varaldo si dichiara neutrale nei confronti del fascismo (forse è proprio questa la ragione per la quale può scrivere nell’anteguerra), e assume un atteggiamento apparentemente disimpegnato sul piano politico; 85 atteggiamento che lo accosta a Simenon, o meglio a Maigret. Il tappeto verde e Scacco matto del ’33, Partita in quattro del ’40 sono tre drammi gialli che contengono gli elementi a cui si è fatto riferimento. Il commissario Bonichi applica il metodo deduttivo appreso “soprattutto dal suo dichiarato modello di indagine poliziesca: Sherlock Holmes”21 ma sul piano della prassi investigativa egli rifiutava ogni procedimento di tipo sia pur vagamente scientifico, ironizzava sulle statistiche e sulla psicologia, concordava sull’opportunità di non far conoscere alle masse le notizie sui delitti, era ciecamente ossequioso alle gerarchie e, insomma, proponeva un modello di comportamento tanto rassicurante quanto culturalmente piuttosto immobile, […], e [era] diffidente nei riguardi di nuove e differenti forme di civiltà; di qui le frequenti polemiche nei confronti dei costumi americani, con 21 F. De Nicola, Varaldo,, il giallo e i manoscritti d’archivio, in AAVV, Il giallo degli anni Trenta , cit., p. 167. 86 qualche frecciata un po’ acida soprattutto riguardo al divorzio e a certo anticonformismo femminile22. I gialli di Varaldo, seppur appartenenti ad un genere sgradito al duce, circolarono fino al ’38 , anche se il nostro scrittore non esaltava i fasti del regime e alludeva anzi, sia pure velatamente, alle sue disfunzioni. Varaldo voleva essere un intrattenitore della borghesia. E allora quali furono le cause del suo progressivo declino ? Eccole: nelle sue storie poliziesche, soprattutto le ultime, egli si era reso interprete di una società inquieta e di uno Stato debole e corrotto. Questi furono i motivi del suo tramonto come giallista. Nell’ultima stagione della sua carriera, Varaldo si era aperto alle prospettive di quel giallo “problematico” che nell’epoca fascista 22 ha forse Ivi, p. 168. 87 l’esponente più significativo in Augusto De Angelis, scrittore romano molto attivo tra la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni Quaranta. Egli difese anche in sede teorica quello che era uno dei generi letterari più discussi e criticati nell’Italia del tempo. Nella prefazione al suo libro Le sette picche doppiate che reca il titolo Il romanzo giallo. Confessioni e meditazioni (Milano, Sonzogno,1940), De Angelis ironizzava sull’ottuso e ipocrita moralismo della società benpensante fascista : C’è da tempo, sott’acqua, la questione grossa se il “giallo” letterario sia morale o immorale, se esso inquini le menti e le coscienze e, soprattutto, finora s’è detto soltanto che occorre proteggerne la gioventù come dalla varicella o dal morbillo. Ma può questo genere di letteratura influire in senso malsano sui lettori? Lo può, certo; ma non più d’ogni altro genere letterario. Il romanzo giallo può indurre al delitto? Oh, io non credo. 88 Ma, ad ogni modo, per la stessa ragione e con la medesima forza, i romanzi di Bourget possono spingere le mogli all’adulterio; quelli di Prévost le fanciulle alla perversione; quelli di Zola gli uomini all’abbrutimento. E perché non dire che le commedie dolcemente, di Pirandello insensibilmente, potrebbero per un vialetto di rose e di anemoni, condurre qualcuno alla follia?23. De Angelis cercò in ogni modo di riabilitare, affrancandolo dalle ipoteche moralistiche, il genere letterario per cui divenne famoso, e si adoperò a sollecitare il pubblico alla “degustazione” e all’apprezzamento dei testi polizieschi. Infatti un problema che De Angelis riteneva fondamentale è il rapporto che ogni opera letteraria instaura con i propri lettori. La validità del giallo per il nostro autore sta nella capacità del genere poliziesco di appagare le richieste e i desideri dei lettori. 23 A. De Angelis, Il romanzo giallo. Confessioni e meditazioni , Milano, Sonzogno, 1940, p. 19 89 De Angelis sostiene che il giallo ha “un’impostazione funzionalista”24, che esso cioè possiede una funzione sociale correlata alle esigenze a cui viene incontro, ai bisogni e ai gusti che può soddisfare. Quindi è ai lettori che De Angelis si rivolge, e non alle accademie dei critici, perché a suo avviso è il pubblico il motore delle produzioni editoriali e conseguentemente del successo o dell’insuccesso di un’opera. E’ veramente significativo che simili giudizi siano formulati nell’Italia degli anni Trenta; De Angelis conosce il mercato, le sue strutture e le sue leggi quindi il suo tentativo di collegare la nascita e la diffusione del poliziesco nel nostro Paese all’esistenza di un sistema di attese già consolidato nel pubblico dei lettori delinea una genealogia del giallo italiano25 24 G. Canova, Il giallo italiano negli anni Trenta , in AAVV, Il giallo italiano degli anni Trenta, cit. , p. 24. 25 Ibidem. 90 che a partire dal 1929 si diffonde in Italia come genere destinato ad un largo consumo. “Forse mai come in questa occasione il pubblico è davvero [così spiccatamente] il committente dell’attività letteraria”26 afferma a ragione Gianni Canova. Ma anche se si ebbe un grande riscontro di pubblico, la genesi del giallo nazionale risentì pesantemente dei dettami imposti dal regime a causa dei quali gli scrittori non poterono trarre nessuno spunto da modelli stranieri. In base a questi presupposti, si può affermare che il giallo italiano, viste le sue caratteristiche di artificiosità derivate dal fatto che non si poteva attingere dai prototipi esteri più autorevoli per poi operare quel processo osmotico che avviene normalmente nell’arte, è un “caso da laboratorio”27. Ovviamente è da comprendere la difficoltà dei letterati costretti a fronteggiare una pressante 26 27 Ivi, p. 25. Ibidem. 91 domanda di pubblico desideroso di leggere un giallo autoctono e condizionati dalle regole imposte dal regime. Il disagio dei nostri giallisti derivò dal fatto che essi si videro obbligati a lavorare su un genere totalmente estraneo alla tradizione nazionale. La produzione letteraria italiana non aveva antenati illustri quali Poe o Conan Doyle. Il giallo italiano nasce indubbiamente sotto il segno di una contraddizione: alla presenza potenziale quantitativamente di un esteso pubblico e qualitativamente competente fa riscontro almeno in una primissima fase- l’assenza di una adeguata e soddisfacente capacità produttiva28. Infatti “nel giallo italiano, vecchio e nuovo convivono, modelli diversi si sovrappongono”29. Quindi, essendo il giallo italiano “ un caso da laboratorio” , non può non riflettere i difetti e i 28 29 Ivi, p. 26. Ivi, p. 27. 92 ritardi della società e della cultura di cui è espressione. Sono da considerare giustificabili pertanto l’arretratezza e l’ingenuità degli autori che ebbero da fare i conti con i cambiamenti apportati dalla “modernità” che cominciava a farsi strada negli anni del fascismo. Nei primi romanzi polizieschi italiani si predilesse un’ambientazione provinciale perché nel nostro Paese le grandi città non avevano le caratteristiche metropolitane, ad esempio americane; quindi costruire una vicenda gialla prettamente italiana ma di sapore statunitense, avrebbe dato un risultato eccessivamente artificioso. E’ significativo ciò che Savinio il 17 luglio del 1937 scriveva su “Omnibus” a questo proposito: Il giallo italiano è assurdo per ipotesi. Prima di tutto è un’imitazione e porta addosso tutte le pene di questa condizione infelicissima. Oltre a ciò, manca al giallo italiano il romanticismo criminalesco del 93 giallo anglosassone. Le nostre città tutt’altro che tentacolari e rinettate dal sole non fanno quadro al giallo né può fargli ambiente la nostra brava borghesia30. Ad esempio Tito Antonio Spagnol ambientò il suo mistero La bambola insanguinata del 1935 nella pigra e grigia provincia veneta. Gianni Canova esprime il suo parere a proposito dell’ambientazione del poliziesco autoctono : Se è vero che il giallo è costitutivamente legato alla “poesia di città” o a quella “giungla d’asfalto” urbana che costituisce il surrogato moderno della foresta in cui si aggiravano i personaggi delle fiabe e i cavalieri di ventura, in Italia bisogna attendere l’ultimo scorcio degli anni Trenta e soprattutto i romanzi di D’Errico e De Angelis, per trovare le prime timide presenze di un plausibile scenario urbano: una Parigi intrisa di echi e di atmosfere simenoniane nel caso di D’Errico; un 30 Il brano citato è riprodotto in R. Verdirame, Ogni pagina un’emozione , in G. Padovani - R. Verdirame, L’almanacco del delitto. Storia e antologia del “Cerchio Verde”, Palermo, Sellerio, 1996, p.263. 94 Milano nebbiosa, allucinata e notturna in De Angelis. Anche qui, tuttavia, la città è mantenuta sullo sfondo31. Gli autori appena citati preferivano ambientare le loro storie in luoghi interni come il salotto, la hall dell’albergo, il teatro o la sala da gioco. Lo spazio chiuso era per loro il luogo prediletto del delitto. Anche qui, il precursore si identifica con Poe. Walter Benjamin, saggista e critico letterario tedesco, notava negli anni Trenta come la filosofia del mobilio come i suoi racconti polizieschi fanno di Poe il primo fisionomista dell’intérieur. I criminali dei primi romanzi gentlemen né polizieschi apaches, non ma sono privati borghesi32. Lo spazio chiuso è emblema di interni claustrofobici, di atmosfere da incubo, di luci soffuse e di melieux ovattati che fanno da sfondo a crimini e delitti provenienti però sempre da fuori, 31 32 G. Canova, Il giallo italiano negli anni Trenta , cit. , p. 28. W. Benjamin, Angelus novus, Torino, Einaudi, 1995, p. 154. 95 dallo spazio ostile della metropoli che viene a turbare l’intimità puritana degli interni borghesi. Una delle cause dell’impopolarità del giallo italiano è proprio l’ostinata ambientazione provinciale, simbolo di un pigro concatenarsi di eventi. Procedendo dell’impopolarità all’enucleazione del giallo delle italiano, cause se ne potrebbero aggiungere almeno altre due. Una è da attribuire al carattere grottesco che spesso assume il personaggio del detective, oscillante fra il dilettantismo e un narcisismo eccessivo. Anche qui si può riscontrare quella difficoltà nel reinventare una tipologia che rientrava in canoni riusciti in passato ma che doveva comunque fare i conti con l’immagine di una polizia efficiente che strizzasse l’occhio al fascismo. 96 Stando però al regime, i criminali non esistevano più e appena gravava il sospetto su qualcuno il malcapitato finiva immediatamente in galera. Oltretutto il detective privato era una figura professionale quasi del tutto assente dall’albo delle arti e dei mestieri socialmente riconosciuti nell’Italia degli anni Trenta. Quindi, in base ai mimetismi e alle ibridazioni di cui si parlava poc’anzi, i giallisti italiani cercarono di imitare i modelli di detective già conosciuti con il risultato di produrre dei personaggi alquanto inverosimili, improbabili o addirittura ridicoli. Questi investigatori rasentano talora l’autocaricatura. Basti pensare al personaggio di Curti Bò “metà gnomo e metà clown”33, “figlio” di De Angelis. Ma il pubblico, formatosi sulla lettura dei gialli stranieri, non poté non rimanere deluso di fronte ad investigatori-macchiette. 33 G. Canova, Il giallo italiano negli anni Trenta , cit. , p. 30. 97 Una terza causa dell’impopolarità del giallo italiano è da attribuirsi alla tendenza “ad espellere dall’intreccio romanzesco ogni componente cruenta e sanguinaria”34 e nel conseguente annullamento della presenza inquietante del cadavere. Questo è un dato da non sottovalutare perché i primi giallisti italiani intaccarono così lo schema canonico del giallo di scuola anglo-americana. Insomma la morte, infranto il tabù della sua indicibilità, è il perno su cui ruota la vicenda poliziesca, e la minimizzazione della sua presenza, operata dai nostri giallisti, è quanto meno eccessiva perché assiomaticamente il giallo evoca la morte. Questa “pudica reticenza nell’affrontare la messa in scena della morte”35 è ovviamente un quid imputabile anche al perbenismo cattolico imperante in Italia in quel periodo . 34 35 Ivi, p. 31. Ibidem. 98 Nel poliziesco italiano degli anni Trenta “non c’è colpa e il giallo gira a vuoto su sé stesso”36 perché, dal momento che non si poteva violare l’ordine neanche nella narrativa, era superflua anche l’esistenza di un cadavere; nel caso di una sua blanda raffigurazione, esso veniva prontamente neutralizzato mediante svariate strategie. L’unica eccezione, per quanto concerne la tematizzazione della morte e del cadavere è compiuta dall’ outsider De Angelis. E’ necessario ribadire che quest’ultimo è un innovatore: il suo giallo è problematico e non consolatorio. Nei romanzi di De Angelis non esistono finali rassicuranti e confortanti perché in essi la morte fa da contraltare ad un mondo pullulante di perversione e di corruzione. L’autore svela l’ambiguità delle classi dirigenti fra le quali impera una criminalità latente e dissolve 36 Ivi, p. 32. 99 quell’aura di perbenismo etico e tranquillità esistenziale che avvolgeva la borghesia fascista. De Angelis opera un’estetizzazione dei cadaveri e lo fa in chiave provocatoria: “ammira” il fascino dei morti contrapposto alla repulsione suscitata dalla cattiveria dei vivi . Ne deriva una carrellata grottesca di personaggi meschini, di “mostriciattoli deformi”37 che stanno a rappresentare un mondo di vivi sgraziato, incapace di equilibrio e misura. E’ morbosa ovviamente anche la visione dei morti che risulta di “gusto tardo-decadente”38; essi vengono contemplati nella loro rigidità asettica. Si diceva prima, della svolta innovativa impressa da De Angelis al giallo italiano ormai alla soglia degli anni Quaranta. L’autore opera una “acculturazione del poliziesco”39, cercando di soddisfare fasce di 37 Ivi, p. 35. Ibidem. 39 Ivi, p. 37. 38 100 pubblico intellettualmente più elevate, mediante l’utilizzazione nella sua narrativa degli strumenti analitici freudiani. De Angelis attribuisce al suo commissario un modo d’indagare di tipo semiotico, cioè consistente nell’analizzare i segni; nella sua detection, De Vincenzi ricerca “delle impronte psicologiche”40; per “impronte psicologiche” si intendono le “intuizioni”. Questo processo, “rimanda all’attività immaginativa che Poe aveva posto alla base dell’indagine criminale”41. Si può citare ancora questa osservazione tratta dal saggio del critico Bruno Brunetti intitolato L’analista e la parola: La creatura di De Angelis reca ancora in sé i tratti aristocratici del detective di Poe circonfusi della malinconia che deriva dalla loro inattualità, ma ostinatamente 40 B. Brunetti, L’analista e la parola , in AAVV, Il giallo italiano degli anni Trenta, cit., p. 119. 41 Ibidem. 101 presenti nell’abito severo di commissario che De Vincenzi indossa42. La tecnica investigativa di De Vincenzi ricorre alla dialettica tra la verità e la sua apparenza, tra indizi dietro i quali si nascondono false risposte e modi di procedere accuratamente occultati che portano al vero. A chi avesse delle cognizioni anche parziali di psicanalisi, questo metodo sembrerebbe assimilabile a quello del procedimento indiziario freudiano, teso alla scoperta della verità. E’opportuno a questo proposito il riferimento alla premessa di una delle opere più celebri di Freud, Casi clinici (Il caso di Dora del 1905, Il piccolo Hans, del 1909, Il caso dell’uomo dei topi del 1909, Il caso di Schreber del 1911, Il caso dell’uomo dei lupi del 1918) che è costruito in una forma letteraria, quasi romanzata, con una tecnica che permette un’estrema, calcolata partecipazione al processo di 42 Ivi, p. 114. 102 scoperta, tanto che qualcuno poté paragonarla a quella dei gialli43. Freud arrivava a scoprire la verità studiando tracce che inizialmente potevano apparire banali o irrilevanti. Elvio Guagnini nel suo saggio L’ “importazione” di un genere : il “giallo” italiano tra gli anni Trenta e gli inizi degli anni Quaranta rapporta la tesaurizzazione della lezione freudiana da parte di De Angelis al contesto socio-politico opprimente dell’età fascista: Augusto De Angelis doveva non solo essere l’autore che avrebbe prestato attenzione alla lezione della psicanalisi e di Freud, a dell’inconscio cogliere e le dimensioni dell’apparente irrazionalità di certe azioni umane ma anche quello che – in un’opera del 1936, Il candeliere a sette fiamme – avrebbe prodotto una sorta di spy story di impostazione moderna, dove l’elemento “poliziesco” veniva calato in una vicenda 43 S. Freud, Casi clinici 1905 / 1918 , Roma, New Compton , 1976, p. 7. 103 di intrighi spionistici e politici internazionali, e dove, al centro del racconto, veniva posta l’osservazione dello schiacciamento dell’individuo a opera delle forze del potere e la riduzione dell’ ”eroe” a macchina condizionata da forze superiori e ineluttabili44. Per il commissario De Vincenzi come per Maigret, gli indizi sono fatti verbali “conditi” da un’attenzione particolare verso la psicologia altrui; grande importanza ha anche la concatenazione dei fatti e, alla fine, l’insieme dei dati. Nel giallo deangelisiano lo spazio del racconto è costellato di tracce e segnali in un caos che solo il cadavere, emblematicamente, può dirimere rimandando al senso smarrito, e l’indagine è il mezzo con il quale poter sanare il mistero. Ma attenzione: non si cada erroneamente nell’assimilazione del procedimento investigativo di De Angelis a quello di Conan Doyle. 44 E. Guagnini, L’”importazione” di un genere: il “giallo” italiano tra gli anni Trenta e gli inizi degli anni Quaranta , cit. , p. 454. 104 Infatti la fiducia conandoyliana nel positivismo razionalistico, nel sapere indiziario, nella capacità di un detective virtuoso di suturare gli strappi logici del mondo e di illuminarne i misteri attraverso uno studio comparato di tracce, indizi ed impronte digitali, va letteralmente a pezzi45. Simenon è ormai il modello preferito dagli autori di gialli e la superiorità intellettiva infallibile sherlockiana non suscita più interesse; con i piedi piantati nell’amara realtà si va verso la via dell’insicurezza, dell’inquietudine e della realistica problematicità anche nella narrativa. Sono queste le basi del giallo problematico di De Angelis, che lascia sempre aperti turbamenti ed inquietudini. Caratteristiche totalmente diverse ritroviamo in un giallista italiano che pubblicò alcuni dei suoi racconti sul periodico mondadoriano “Il 45 Cerchio G. Canova, Il giallo italiano degli anni Trenta, cit. , p. 43. 105 Verde”(a cui si è accennato prima e del quale si parlerà più avanti): Tito Antonio Spagnol. E’ particolarmente interessante una dichiarazione di questo autore riferita al periodo della sua attività narrativa compreso tra il ’34 e il ‘42 : lavori di penna meno impegnativi […] mi avevano procurato tanti lettori da procacciarmi un (sic) pane: il che può far meraviglia oggi , pensando che allora il mestiere di penna fruttava solo a chi era impegnato col fascismo, mentre io n’ero stato fuori, anzi tenuto a vista46. Tale nota autobiografica, che si trova nel testo del 1970 dal titolo Memoriette marziali e veneree, mostra quanto la narrativa italiana fosse condizionata dal regime. Ma quali erano le caratteristiche che impensierivano il duce nel caso di Spagnol? Certamente il suo esordio letterario poliziesco all’insegna della matrice anglosassone e statunitense 46 T.A.Spagnol , Memoriette marziali e veneree , Milano, 1970, p.307. Ora in L.Rambelli, Storia del “giallo”italiano , cit. , p.112. 106 che, come sappiamo, era sgradita a Mussolini, preoccupato del fascino che un prototipo straniero avrebbe potuto esercitare sui lettori italiani. L’esordio giallo di Spagnol fu segnato dall’ Unghia del leone, pubblicato per la prima volta a puntate in Francia sulla “Revue Française” con il titolo La griffe du lion, poi riproposto in volume dalle prestigiose edizioni Gallimard nel 1932, infine pubblicato da Mondadori nel 1934. L’investigatore è Alfred Gusman, detective privato newyorkese foggiato sul modello di Sam Spade e Philip Marlowe ma dotato anche di capacità abduttive sherlockiane. Alcune avventure di Gusman appaiono sul periodico “Il Cerchio Verde”. Spagnol inventa anche un altro personaggio di nome don Poldo, che ha caratteristiche differenti dall’investigatore americano. Gisella Padovani descrive le peculiarità del prete-detective: “Spagnol conia il personaggio di 107 don Poldo, addomesticando il padre Brown di Chesterton entro gli orizzonti di un familiare paesaggio campestre”47. E’ opportuno ricordare che l’ambientazione rurale era una caratteristica del giallo italiano degli anni Trenta. Sulla figura di don Poldo sono imperniati due gialli pubblicati da Spagnol del ’35 e del ’36, rispettivamente La bambola insanguinata e Uno, due e tre . In questa panoramica del giallo italiano degli anni Trenta, si è più volte accennato al periodico “Il Cerchio Verde”. Il settimanale fu lanciato da Mondadori il 16 maggio del 1935; vi si poteva leggere un’interessante narrativa gialla e articoli di cronaca poliziesca. Il periodico ebbe breve vita; si estinse nel giugno del ’37. 47 G.Padovani , in G.Padovani - R.Verdirame, L’almanacco del delitto.Storia e antologia del”Cerchio Verde”, cit. , p. 284. 108 L’impronta nuova a questo tipo di intrattenimento fu data dai vari direttori che si avvicendarono: Mario Buzzichini, Gino Marchiori, Giorgio Monicelli e infine Cesare Zavattini. E’ interessante notare che all’interno del “Cerchio” si poteva anche riscontrare la presenza di scrittrici come Luciana Peverelli ed Elisa Trapani, che introducevano nelle loro crime stories l’elemento romantico con la speranza di allettare un pubblico femminile attratto dalla lettura a tinte rosa. Sulla copertina de “Il Cerchio Verde” risaltavano foto di star hollywoodiane oppure disegni raffiguranti dei “fermo-immagine” di scene violente o macabre di immediata e forte presa emotiva. Nacque così la prima rivista poliziesca italiana, l’unica per molto tempo nella nostra nazione. Nettamente differente era la situazione negli Stati Uniti, dove negli anni Trenta circolavano già una ventina di periodici polizieschi ispirati a “Black Mask”, uno dei più famosi pulp magazine, che aveva 109 avuto il merito di lanciare e di rendere noti scrittori del calibro di Dashiell Hammett e Raymond Chandler ma anche di aver dato vita all’hard boiled novel (termine che, tradotto alla lettera, significa “ romanzo stracotto” e che trovò un equivalente italiano nella testata del mensile di Longanesi “I Libri che scottano”). Ricordiamo brevemente quali sono le costanti tematiche che connotano questo filone: i problemi della società americana del tempo come la criminalità organizzata, il proibizionismo e la corruzione politica, rappresentati su uno sfondo di violenza e azione. In Italia la situazione del genere poliziesco era diversa anche dal punto di vista del consumo e delle vendite. Su “Il Cerchio Verde” si dava ampio spazio ai giallisti italiani ma anche ad autori stranieri di grande richiamo come Agatha Christie, Edgar 110 Wallace, S.S. Van Dine, Dorothy Sayers, G.K.Chesterton, Ellery Queen, Dashiell Hammett. Balza subito agli occhi l’assenza di Simenon. Se non c’è dubbio che l’ideatore di Maigret rientrasse nella rosa dei classici, tuttavia era difficile frammentarne nel ritmo della scansione appendicistica l’opera, una comédie humaine volta all’analisi minuta dei moti dell’animo, tesa alla ricostruzione di ambienti borghesi e del tutto aliena dal sensazionalismo di cui i lettori erano avidi. Non a caso, l’immaginifico era e ampiamente riproposto fantasmagorico Wallace, apprezzato per la presenza, nei suoi gialli, del mystery e dell’elemento avventuroso ambientato in una cornice esotica; queste prerogative gli assicurarono un largo consenso di pubblico, permettendogli di diventare una pietra miliare della letteratura popolare. 111 Altra punta di diamante nel panorama giallo straniero era la mistress of crime per eccellenza: Agatha Christie. Su “Il Cerchio Verde” appaiono numerosi racconti e romanzi a puntate sia di Agatha Christie sia di Edgar Wallace; è da sottolineare la misurata presenza di Conan Doyle che figura nella rivista in questione solo con un testo dal titolo I sei napoleoni, presentato dalla redazione come “novella inedita” sul numero 44 del periodico. Poc’anzi abbiamo enucleato le ragioni del successo di Wallace; ora è doveroso dare risalto alla Christie e al suo ingegno. Nell’arco di tempo che intercorre tra il 1926 e il 1940, la scrittrice visse una stagione editoriale intensissima scandita dalla pubblicazione della maggior parte dei romanzi che avrebbero consacrato la sua fama. Con l’uscita di The murder of Roger Ackroyd, prologo di questo fecondo periodo, e di Ten little 112 niggers, prese il via la notorietà della Christie, consolidatasi nel passaggio da un periodo di apprendistato conandoyliano all’appropriazione di uno stile personale all’interno della detective novel all’inglese ma anche e principalmente il progressivo evolversi della ricerca di un’ottica autonoma attraverso cui rapportarsi al genere poliziesco, […], scagionandone i prodotti migliori dalla diffamazione di certa critica accademica48. Giudizio che ben mette in luce l’importanza dell’apporto conandoyliano alla genesi della narrativa della Christie. Un esempio calzante a tal proposito, è offerto dalla prima opera della scrittrice inglese, The mysterious affair at Styles , che in traduzione italiana sarà Poirot a Styles Court ; questo testo del 1920 è un poliziesco nella più schietta tradizione sherlockiana, in cui l’appena concepito e già ultrasessantenne Poirot appare 48 S. Albertazzi, Agatha Christie anni Trenta , in AAVV, Il giallo italiano degli anni Trenta , p. 63. 113 nient’altro che una caricatura del vanitoso Holmes, mentre il suo aiutante, il fido Hastings, risulta essere un Watson se possibile ancor meno perspicace del prototipo doyliano49. Ora sarebbe interessante chiedersi perché la Christie soppianta Conan Doyle e, in un certo senso, lo oscura agli occhi del vasto pubblico. Le ragioni sono svariate : Conan Doyle appare sorpassato al lettore degli anni Trenta perché l’ambientazione dei suoi gialli è ottocentesca e il fruitore moderno vuole intrattenersi con letture di sapore contemporaneo e quindi innovative; l’ audience è stanca di soffermarsi sulle “scontate” investigazioni di sicura riuscita di Holmes, ha bisogno di leggere qualcosa di più stimolante, qualcosa che possa mettere in moto le proprie facoltà critiche e non soltanto la passiva, inerte ammirazione per le gesta sherlockiane. 49 Ibidem. 114 In più, il lettore cerca anche nelle storie poliziesche a cui si accosta, un’ambientazione attuale che rispecchi gusti, costumi, miti, mode e sogni del suo tempo e quindi , complessivamente, l’atmosfera degli anni Trenta. La borghesia è ,ancora una volta, la protagonista. I primi scritti della Christie sono spiccatamente conservatori, nel senso che “si configurano come ineccepibili esemplificazioni narrative della funzione restauratrice e reazionaria del poliziesco”50 e ciò significa che in essi “la ragione, l’ordine, il metodo prevalgono inevitabilmente sulla confusione, sul disordine, sull’irrazionalità che minano alla base la società borghese”51; quest’ultima asserzione rinvia ancora all’origine conandoyliana della narrativa della Christie, per la quale “la giustizia si identifica con il trionfo di un razionalismo positivista che non ammette deroghe o dubbi”52. 50 Ivi, p. 64. Ibidem. 52 Ibidem. 51 115 Successivamente l’autrice inglese si distacca dal prototipo conandoyliano personale ai suoi scritti dando un’impronta con il ricorso all’ironia dissacratoria. E’ particolarmente interessante notare l’uso che la Christie fa dell’ironia: se ne serve come veicolo di critica della società e delle teorie del poliziesco ortodosso coltivato dai suoi predecessori ai quali ella, nei suoi romanzi iniziali, si era allineata. La sua critica è rivolta “al marcio [che si cela] dietro la quiete del buen retiro borghese”53 e la Christie impone il suo modulo ironico al lettore, imbrigliandolo al contempo in un labirinto dal quale non potrà evadere se non preso per mano da colei che lo ha architettato54. La mistress of crime adotta “una sorta di espediente per vincere ogni volta la partita 53 54 Ivi, p. 65. Ibidem. 116 ingaggiata contro il lettore, pur seguendo formalmente le regole del gioco”55. Anche se la Christie rivitalizza i procedimenti della detection con i personaggi di Hercule Poirot e poi di Miss Marple, allontanandosi dai modi conandoyliani, non si deve dimenticare che i due investigatori appena citati sono l’emblema del trionfo della razionalità e che “al colpevole che sfugge la comunicazione come un pericolo e trova sicurezza soltanto nel proprio caos mentale, Poirot oppone l’apoteosi dell’ordine”56. Un elemento particolarmente interessante da sottolineare è che la Christie soprattutto per uno dei suoi capolavori indiscussi, Ten little niggers (in traduzione italiana Dieci piccoli indiani ), attinge dal romanzo gotico di stampo radcliffiano così come avevano fatto i suoi predecessori e particolarmente Poe. Così 55 56 Ibidem. Ivi, p. 66. 117 mentre il finale di Ten little niggers obbedisce ai dettami del “soprannaturale spiegato” radcliffiano, la scenografia dell’attesa che pesa su ogni personaggio è sostanziata dalla stessa angoscia dell’ignoto che permea le pagine di The mysteries of Udolpho o The Italian57. Ritornando al giallo italiano, balzano agli occhi, adesso le ragioni per le quali il giallo autoctono restò impopolare, invischiato in elementi poco originali, estrapolati da varie fonti e adattati in maniera posticcia. Anche Varaldo ricorse a “gli arnesi della fucina gotica58” ma con il risultato di non essere mai all’altezza dei “grandi” come Agatha Christie. La creazione di ambienti e contesti tematicosituazionali di marca gotica, è un espediente per evitare la noia mediante il “sensazionale” che accende l’attenzione del lettore. 57 Ivi, p. 71 – 72. G. Padovani, Breve storia di un rotocalco poliziesco , in G. Padovani - R. Verdirame, L’almanacco del delitto. Storia e antologia del “Cerchio Verde”, cit. , p. 19. 58 118 Il giallista scrive per vincere la noia (esattamente come Horace Walpole quando si accingeva a comporre Il castello di Otranto), e il suo libro ha lo scopo di lenire la noia del lettore e di riempire le ore vuote della sua giornata59, sostiene Loris Rambelli. * * * Nell’agosto del 1930, esce su “Pegaso” un articolo firmato da Aldo Sorani, intitolato Conan Doyle e la fortuna del romanzo poliziesco. In questo contributo, lo studioso sottolinea il successo dei romanzi di Conan Doyle che “aveva potuto vantarsi di aver rinnovato e rimesso in voga un genere letterario e di averlo, anzi, imposto ad una classe di lettori scelta più in alto di quella dei portinai e delle cameriere”60. 59 L. Rambelli, Storia delle “giallo”italiano, Milano, Garzanti, 1979, p. 29. A. Sorani, Conan Doyle e la fortuna del romanzo poliziesco , in “Pegaso”, agosto, 1930. 60 119 Al poliziesco è così attribuita una nuova, inedita dignità. E’interessante inoltre la classificazione che Sorani fa del variegato pubblico che si accosta ai gialli: Ora, come spiegare questa travolgente mania del romanzo poliziesco? Per i pessimisti , essa non è che il frutto d’una progressiva perversione del gusto e d’una decadenza della cultura; per gli ottimisti, è il segno naturale d’un bisogno di diversione (sic) e di svago. Per alcuni, è l’attrattiva del delitto che si fa sempre più pericolosa e inquietante; per altri, al contrario, è la volontà di veder punito il delitto e trionfante la giustizia che si fa sempre più diffusa e imperiosa. Ma occorre scender meglio a fondo del fenomeno letteratura e della controversia. poliziesca La risponde evidentemente ai bisogni d’un pubblico molto composito, che vi ricerca soddisfazioni e sensazioni diverse. Ad una certa classe di lettori, offre il suo mero 120 contenuto sensazionale e romanzesco, la voluttà del mistero e dell’avventura, il brivido e il raccapriccio. Ad un’altra classe di lettori, offre il semplice sfogo di curiosità ch’offrono i complicati fatti di cronaca e i resoconti dei tribunali.Ad una classe più elevata di lettori fornisce il divertimento del problema da risolvere, la gara aperta deduzioni, delle il induzioni calcolo e delle eccitante delle probabilità e delle possibilità, la gioia degli inseguitori di tracce e una specie d’igienica ginnastica mentale. Ma ogni classe di lettori trova nella letteratura poliziesca una letteratura d’evasione, di escape, come è stato detto, e il suo enorme successo si spiega col fatto che una umanità affannosa e senza riposo e insieme standardizzata e meccanicizzata (sic), sente sempre più il bisogno di uscire dalla trita e inflessibile regola che la costringe e la macina e di ritrovare nella lettura una qualche irrealtà riposante, in 121 cui distrarsi e dimenticarsi, in un’ora di sosta…61 . Sorani scagiona il genere letterario in questione con quest’ affermazione : Ma il trionfo della letteratura poliziesca non è tanto il segno d’una decadenza morale, quanto d’una rivolta contro la monotonia d’una vita che rimane sempre più vuota quanto più si riempie di frastuono62. Il critico aggiunge che il poliziesco si pone contro le letture che non offrono un diversivo, come “la letteratura soggettiva e introspettiva, che ha raggiunto i limiti più insopportabili della noia”63, ed esaltando le caratteristiche del poliziesco, egli continua dicendo che “tutte le classi di pubblico hanno trovato con sollievo nel romanzo poliziesco una letteratura oggettiva, impersonale liberata 61 Ivi, pp. 218 – 219. Ibidem. 63 Ibidem. 62 122 dall’ossessione dell’ “analisi dell’io” e delle “correnti di coscienza”64. Sorani sostiene anche che molti scrittori e scrittrici “d’ogni ceto, d’ogni cultura e d’ogni levatura”65 si dedicano alla stesura di romanzi polizieschi e che anche “le donne fanno a gara a scriverne cogli [sic] uomini e vi eccellono in America […] e in Inghilterra con Agatha Christie, con Dorothy Sayers”66. Molto rigido è però lo schema canonico del romanzo poliziesco [che], differenziato dal romanzo d’avventure, potrà variare sin che vuole il tipo dell’eroe detective, e aggrovigliare a beneplacito gli elementi dell’intreccio, ma è costretto ad obbedire a poche formule impostative [sic] e a rientrare in pochi schemi d’investigazione abusati67. 64 Ibidem. Ivi, p. 217. 66 Ibidem. 67 Ivi, p. 220. 65 123 Essendo un genere ipercodificato, “il romanzo poliziesco è condannato a ripetersi, così che, anche nel proporre il più misterioso e arruffato enigma, minaccia di essere ormai tutt’altro che enigmatico”68. Per Sorani Il vero e proprio romanzo poliziesco non deve essere confuso col romanzo d’avventure sanguinarie e terrificanti, non accentrato intorno ad un problema giudiziario o criminologico in genere, ma costituito da una serie di avventure criminali, il cui interesse è dovuto non tanto ai procedimenti investigativi misterioso usati alla colpevole, e ai metodi ricerca quanto del alla cinematografica successione di eventi sensazionali69. Sull’argomento interviene in quegli anni anche un altro critico, Corrado Pavolini. 68 69 Ibidem. Ibidem. 124 Fiorentino, poeta, saggista, dal ’31 a ’34 diresse “L’Italia letteraria”; fece parte dei giovani intellettuali che si raccolsero intorno alla “Fiera letteraria” negli anni Trenta. Partecipò avanguardie al del rinnovamento tempo imposto anche in dalle ambito cinematografico e teatrale. Tra le sue opere di quel periodo ricordiamo il testo drammatico La croce del Sud , del ’30, (Milano, Edd. Del Lunario), gli scritti saggistici F.T. Marinetti (Roma, Formiggini, 1924), Cubismo, futurismo, espressionismo (Bologna, Zanichelli,1927) . Su “L’Italia letteraria” del 18 ottobre del 1931 Pavolini scrive, in un “pezzo” dal titolo Non vi lascerà dormire, del successo del poliziesco. Egli riferisce un parere espresso da Antonio Bruers, in un articolo su L’insegnamento dei romanzi polizieschi apparso qualche giorno prima su “L’Italia che scrive”; Bruers mette in luce 125 l’ostruzionismo operato dal regime nei confronti del giallo dicendo che Non valsero a salvare il giallo dalla censura , le ragioni di chi asseriva che il racconto poliziesco non è immorale , anzi rappresenta la lotta del bene contro il male col finale trionfo dell’innocente e la cattura del colpevole70. Bruers inoltre osserva che il successo del romanzo poliziesco è considerato come una reazione da parte del pubblico, alle zeppe dell’elucubrazione [e] costituisce un richiamo per gli scrittori narrativi alla legge fondamentale e naturale del loro genere: raccontare con semplicità71, e aggiunge : Da un secolo in qua l’arte, specialmente quella teatrale e narrativa, tende al mattone; bisogna alleggerire la forma e le dimensioni. Se gli scrittori non sapranno decidersi ad affrontare questa grande 70 71 C. Pavolini, Non vi lascerà dormire , in “L’Italia letteraria”, 18 ottobre 1931. Ibidem. 126 riforma il pubblico si getterà, disperatamente, alla lettura del genere poliziesco ed affine, mandando a farsi benedire gli artisti, i quali specialmente nel secolo del velivolo e della radio non hanno il diritto di essere noiosi72. Su questo argomento, aveva già preso la parola Alessandro Varaldo nelle pagine dell’ “Almanacco letterario” (Milano, Bompiani, 1930) : Finchè scrivo sono il lettore di me stesso e quando mi annoio penso che si annoierebbe il vero lettore. Ecco perché fra i difetti che mi riconoscono, mi si ammette una qualità, quella di non annoiare73. Sorani, un anno prima, aveva esposto le stesse argomentazioni; anche per lui il ricorso al poliziesco era come una ventata di aria fresca nella letteratura che si era fatta ormai troppo greve e non vi era altra possibilità d’evasione culturale per il pubblico se non accostarsi a questo nuovo genere. 72 Ibidem. A. Varaldo, in “Almanacco letterario”, Milano, Bompiani, 1930, p.15. Ora in L.Rambelli, Storia del “giallo”italiano , cit., p.34. 73 127 Pavolini, nel suo articolo Non vi lascerà dormire, continuava dicendo che nel romanzo poliziesco è enorme benché inspiegabile, la suggestione di certi nomi di personaggi o di località, metafisica la consistenza d’individui “dai capelli rossi” o “dalla mano destra con un dito tagliato”, sui quali l’alone del sospetto inevitabile getta una luce tutta speciale d’artificio, in modo che l’intiera [sic] narrazione ne risulta [sic] trasferita in un clima d’eccezione, allucinatorio, che potrebbe essere definito elementare ma come più la forma potente più del “novecentismo”74. Anche il giallista Edoardo Anton (1910-1986) disquisisce sulla centralità che il diagramma del sospetto, con tutte le sue gradazioni psicologiche, deve avere nell’intreccio, con un articolo intitolato La letteratura poliziesca. Natura e cause del suo successo apparso su “Quadrivio” il 26 novembre 1934: 74 C. Pavolini, Non vi lascerà dormire , cit. 128 Pur tollerando gli inevitabili piccoli sviluppi dell’azione, necessari alla sua impostazione tecnica, il romanzo poliziesco deve essere statico rispetto a quello che accade, in quanto l’azione è già stata cristallizzata cadavere; rappresentata la nella rigidità di un dinamica solamente è dal invece sospetto; l’interesse è rappresentato esclusivamente dal mutare continuo della posizione dei personaggi nei confronti del sospetto75. In ultima analisi è interessante notare, a sostegno di quanto si è osservato precedentemente a proposito dell’ideologia del regime, il piglio xenofobo che si coglie in quest’asserzione di Pavolini: “quella della letteratura “divertente” è una mediocre invenzione mercantile dei francesi, ai quali sarà cosa santa lasciarne senza invidia il beneficio dello sfruttamento”76. 75 E. Anton, La letteratura poliziesca. Natura e cause del suo successo , in “Quadrivio”, 26 novembre 1934. 76 C. Pavolini, Non vi lascerà dormire , cit. 129 A tal proposito è opportuno riferire un altro giudizio di Piovene che, sul numero 187 del giornale milanese “L’Ambrosiano”, il 6 agosto del ’32 firma un importante articolo dal titolo Difesa dei gialli, dichiarando che certi sdegni e certe ironie della critica teatrale maggiore di fronte agli spettacoli gialli e al favore di pubblico da essi incontrato, erano ingiusti. Non ho mai detto né scritto che lo scopo dell’arte sia la ricerca del favor popolare né che la disgrazia della nostra letteratura sia la sua scarsa popolarità, né che l’arte deve porsi per ideale massimo il divertire, né altra nessuna di queste volgarità che ancora oggi corrono per le strade. Se mai, mi pare di avere affermato la dignità dell’arte che ha radici critiche e intellettuali. Ma proprio di fronte agli spettacoli gialli, m’è venuto di precisare un sentimento che si manifestava in me come un disagio. Prima 130 di tutto, non so capire perché certa critica biasimi tanto gli spettacoli gialli77. Il disagio nasce dalla diffidenza verso il nuovo , rappresentato dal giallo; infatti egli si rammarica affermando che la dignità dell’arte deve essere un post, non un prius, un risultato, non un preconcetto. Se questo è vero, non vi dev’essere scrupolo in un artista d’abito serio e maturo se non di mettersi a contatto con contenuti vitali ed universali78. Tirando un po’ le somme, sembra interessante riportare il commento dello studioso contemporaneo Loris Rambelli riguardo allo snobismo del pubblico colto degli anni ’30 : I letterati italiani di allora, fatte pochissime eccezioni (Piovene, Savinio), trattarono il giallo con considerandolo toni come di un sufficienza, vizio, un capriccio della moda, un gioco della 77 78 G. Piovene, Difesa dei gialli, in “L’Ambrosiano”, Milano, 6 agosto 1932. Ibidem. 131 società e riservandogli gli spazi esigui e marginali, che di solito si concedono a una breve nota di costume, ma videro nella fortuna del romanzo poliziesco una risposta del pubblico alla “noia” della letteratura “accademica”, che, deformata da problematiche esistenziali e introspettive, cercava di muoversi nel solco tracciato da Proust e da Joyce79. Quanto a Piovene, nel complesso la sua posizione concorda con quelle di Sorani e di Pavolini che insistevano nel considerare necessaria l’apertura nei confronti del poliziesco. Piovene insiste nel dire che “i nostri libri sono pozzi di noia”80 e che il rifiorire del teatro sarebbe provvidenziale per noi: e soprattutto il fluire, nel teatro e nel libro, d’una materia viva da assimilare, che si mostri interessante. Il teatro giallo, il libro giallo, possono esserne un esempio81. 79 L. Rambelli, Storia del “giallo”italiano , cit. , p.213. G. Piovene, Difesa dei gialli, cit. 81 Ibidem. 80 132 Andando più nello specifico, Piovene continua chiarendo che l’assassinio, il sangue, l’indagine volta a ritrovare il colpevole, sono uno tra i molti argomenti di universale interesse, […], perciò non si può vedere senza simpatia quest’opportunità d’avvicinare l’arte ad un argomento di così diffuso interesse, che può permetterci di sentire, come suol dirsi, il polso del pubblico82 e nuovamente si rivolge ai lettori con questa esortazione: “Non rifiutiamo, ancora una volta un’occasione di rinsanguarci”83. Lo scrittore vicentino (che circa un quarantennio più tardi, nel personalmente, 1970, con Le si sarebbe stelle cimentato fredde, nella costruzione di un romanzo incentrato su un mistero “ giallo”) non esita a calcare la mano in difesa dei polizieschi: ho considerato fin qui il teatro giallo genericamente 82 83 come materia viva, Ibidem. Ibidem. 133 aggiungo che la materia, da esso fornitaci, mi sembra particolarmente preziosa. E’ un’altra volgarità che la sua fortuna dipenda da una certa tendenza al sanguinario e al morboso […]. Chiedo, di fronte a tanta predica sull’arte sana e sui sentimenti normali, in che cosa mai essi consistano per chi non è avvezzo a dir parole senza senso84. Piovene si mostra favorevole anche ai nuovi indirizzi degli studi di psichiatria: opera fondamentale moderna è la della psicologia disintossicazione del morboso e dell’eccezionale che ne è stato spogliato d’ogni aspetto diabolico e buio di cui, per così dire, s’è dimostrata la normalità85. E conclude il suo intervento con una definizione del moderno statuto culturale del poliziesco: la letteratura cosiddetta “gialla” , assimilata da un vero artista nei modi nuovi che più gli siano confacenti, dà 84 85 Ibidem. Ibidem. 134 modo di unire queste esperienze essenziali dell’arte recente, con quello studio e filosofia del morboso [ cfr. Lombroso la scuola antropologica positiva], che è il principale tra i suoi contenuti. Per queste riflessioni, […], testimoniare la ho voluto compiacenza che oggi ho provato assistendo alla fortuna del teatro “giallo” e del libro “giallo”86. In ultima analisi, è interessante notare l’attrattiva che Edgar Wallace esercita su Piovene; lo scrittore sostiene che gli spettacoli gialli […] sono spesso produzioni teatrali trattate con mano maestra. Cito per tutti L’asso di picche del Wallace , che recitato da una delle compagnie migliori e più moderne negli intendimenti che vadano oggi in Italia, senz’altro è buona commedia, per l’evidenza dei contrasti, per la graduata tensione dell’intreccio87. 86 87 Ibidem. Ibidem. 135 Apologia dell’intreccio è il titolo di un articolo di Luigi Chiarini, anch’egli critico d’anteguerra, apparso il 4 febbraio del 1934 sul settimanale romano letterario illustrato “Quadrivio”. Chiarini dirigerà negli anni Trenta sia il periodico menzionato, sia il Centro Sperimentale di Cinematografia, di cui sarà anche il fondatore nel 1935, sia la rivista “Bianco e nero”, nel 1937; sarà anche autore di sceneggiature e di studi critici sul cinema, come Cinque capitoli sul film, del 1941 (Roma, Cremonese). Il critico nel suo pezzo giornalistico sul poliziesco osserva che “nell’odierna letteratura narrativa italiana c’è la tendenza, non so se casuale o volontaria, a sottovalutare quello che comunemente si dice intreccio o trama”88. E continua constatando come l’intreccio, più o meno complesso, sia considerato roba da romanzo d’appendice o libro giallo e, insomma, fattaccio, che 88 L. Chiarini, Apologia dell’intreccio , in “Quadrivio”, Roma, 4 febbraio 1934. 136 ogni scrittore, degno di chiamarsi tale, deve scrupolosamente evitare89. Chiarini insiste invece proprio sull’importanza della trama, giacchè “l’intreccio, in un racconto o romanzo che sia, è proprio come l’ossatura del corpo umano”90 e ancora : l’intreccio costituisce così non solo il quadro, il limite entro cui il narratore deve realizzare armonicamente la propria ispirazione, ma la forza dinamica della stessa ispirazione, quella che, per intenderci, fa sì che il romanzo o il racconto si leggano tutti di un fiato91. Il critico apprezza l’intreccio canonico del poliziesco, senza il quale le opere afferenti a questo genere non avrebbero corposità. Egli lo dice con insistenza in un altro punto del suo articolo: I romanzi e i racconti che veniamo ogni giorno leggendo son quasi del tutto privi di quello scheletro centrale che costituisce 89 Ibidem. Ibidem. 91 Ibidem. 90 137 quasi la materia grezza su cui lo scrittore lavora.[…] Appaiono così, di sovente, slegati, quasi incompiuti, come abbozzi o disegni lasciati a mezzo e non offrono una guida, direi un aiuto, al lettore, stimolandone l’attenzione e l’interesse92. Sull’importanza dell’intreccio, esprime il suo parere anche lo scenografo Vinicio Paladini in un articolo dal titolo Giallo apparso anch’esso su “Quadrivio”, il 1° aprile del ’34: Nel racconto giallo, lo scrittore è chiamato ad impegnarsi nel montaggio della vicenda più che nel contenuto. In quest’ultimo, non è l’esigenza estetica, ma un fine che potremmo dire sperimentale, a muovere la scrittura93. Alla discussione sul poliziesco prende parte anche Ettore De Zuani che, con un articolo apparso su “Quadrivio” l’11 febbraio del ’40, Il lettore di gialli, attesta che il significato corrente del vocabolo 92 93 Ibidem. V. Paladini, Giallo, in “Quadrivio”, 1° aprile 1934. 138 “giallo” è “letteratura raccapricciante” o “del terrore”. Inoltre egli vede in Carolina Invernizio (18511916), autrice di storie tenebrose e macabre come Il bacio di una morta (1889) e La sepolta viva (1896), la “mamma” dei libri gialli. A tal proposito, De Zuani aveva intitolato proprio La mamma dei libri gialli un suo pezzo su “L’Italia letteraria” uscito il 28 agosto del’32. Nell’articolo Il lettore dei gialli , il giornalista scrive: Da qualche tempo in qua si vuol tingere tutto di giallo:è il colore di moda, il colore della tragedia che fa rizzare i capelli in testa, dell’incubo che non lascia dormire, dello spavento che mozza il respiro e fa venire la pelle d’oca. Una volta “giallo” voleva dire “tango”: e color tango erano le blusette delle signorine che la domenica andavano a ballare ai circoli; adesso invece “giallo” vuol dire brivido94. 94 E. De Zuani, Il lettore dei gialli , in “Quadrivio”, 11 febbraio 1940. 139 * * * Dopo avere rivisitato le fasi salienti della fortuna del giallo nell’Italia degli anni Trenta e accennato al suo temporaneo tracollo in seguito al provvedimento fascista del ‘4195, già nell’immediato dopoguerra si assiste ad una rinascita dell’interesse nei confronti del genere in questione. Infatti il 1946 è l’anno del rilancio dei “Libri Gialli” Mondadori. Cadute le remore autarchiche , però, il mercato librario è invaso da romanzi inglesi, francesi, americani, mentre si diffonde la moda dei “gialli spaghetti”, scritti da italiani che imitano i modelli 95 Curiosa appare l’iniziativa dell’editore Nerbini di Firenze che, nell’estate del ’41, accogliendo l’eredità della collezione mondadoriana, diede il via ad una nuova serie, denominata “Romanzi del Disco Giallo”, che però non fu colpita dalla censura e continuò a circolare indisturbata fin quasi al termine della guerra. La ragione di questa “discriminazione” risiede nel fatto che i racconti gialli italiani, a causa della confluenza di filoni narrativi vari – in questo caso la fiction d’investigazione e il feuilleton – potevano non essere del tutto ascrivibili alla letteratura poliziesca. Il Minculpop aborrì il giallo per le ragioni precedentemente elencate ma consentì al romanzo d’appendice di circolare in modo che il lettore potesse colmare il vuoto lasciato dal poliziesco. In altre parole, la letteratura feuilletonistica offriva al pubblico emozioni analoghe a quelle del libro giallo, ma al tempo stesso, non creava preoccupazioni al regime. 140 d’oltreoceano e firmano con pseudonimi esotici per accendere l’interesse dei lettori. A tal proposito sembra interessante riprodurre una testimonianza diretta sul successo riscosso dal poliziesco nel nostro Paese a partire dalla seconda metà degli anni Quaranta con la citazione di una parte del saggio del critico Gianni Brunoro, intitolato Guardando alle radici. Un itinerario di auto-educazione nel giallo. Lo scrittore riferisce la propria esperienza : Stante la mia età (classe 1936), i miei primi ricordi sul giallo risalgono agli anni Quaranta dell’immediato dopoguerra. Mi incuriosivano, allora, le assillanti letture delle sorelle coetaneo maggiori che dell’amico frequentavo e più assiduamente. Ricordo la meraviglia che mi coglieva ogni qualvolta la più grande delle due tornava in bici dall’aver fatto la spesa, e dal manubrio le pendeva una sporta da cui spuntavano, immancabili, due-tre libri gialli, che erano quelli 141 Mondadori. E poi rimanevo ammirato dall’ingordigia con cui le sorelle se li divoravano e guardavo quasi con timore il mucchio di quelli precedenti, via via ammonticchiati in un’ampia nicchia del muro. Devo dunque senz’altro a quelle prime osservazioni la sensibilizzazione preliminare, col susseguente interesse, per un certo tipo di letture, appunto quelle gialle. Ma benché i gialli mi incuriosissero e attraessero, tuttavia avevo difficoltà ad avvicinarmici. Il fatto è che in quel periodo la mia generazione soffriva di gravi condizionamenti culturali. Per cui quei volumetti venduti all’edicola non potevano costituire – e tanto meno per un ragazzetto- vera cultura. La quale invece non poteva passare se non attraverso dei libri veri e propri. Insomma, la faccio breve: la mia vera iniziazione al giallo avvenne attraverso Edgar Allan Poe: e mi rendo conto che, tutto sommato, migliore di così non avrebbe potuto essere. Di Poe, dunque, acquistai – in quella gloriosa e meritoria collana che era la rizzoliana 142 BUR – un titolo che mi pareva adatto alla mia età, tredici anni, Racconti del mistero. E lì, insieme a Lo scarabeo d’oro da cui rimasi ovviamente affascinato, fui tuttavia folgorato da altri tre, che erano i tre capolavori rispondenti ai titoli di I delitti della via Morgue, Il mistero di Maria Roget, La lettera rubata. Era fatta, il mio innamoramento per la letteratura del raziocinio era scoppiato inarrestabile. Ma soprattutto direi che devo a Poe la seguente importante consapevolezza: che se opere di tipo poliziesco- e così piacevoli-avevano diritto di cittadinanza in campo letterario (ciò è avallato dalla loro presenza nella BUR), allora anche i gialli delle edicole potevano in qualche modo avere i loro quarti di nobiltà. La mia ottica era cambiata. E quella vaga patina di incultura di cui i gialli mi erano sempre sembrati fino ad allora rivestiti veniva a dissolversi per sempre96. 96 G. Brunoro, Guardando alle radici. Un itinerario di auto - educazione nel giallo , in “Delitti di carta”, n. 5, ottobre 1998. 143 Ma bisognerà attendere il 1955 perché la Mondadori si decida a proporre polizieschi firmati, con il loro vero nome, da Franco Enna, Sergio Donati, Giuseppe Ciabattini. L’esperimento avrà però esito fallimentare, e i giallisti di casa nostra torneranno a impegnarsi soprattutto nelle contraffazioni dell’ hard boiled statunitense. Solo a metà degli anni Sessanta assisteremo finalmente al costituirsi di un giallo con peculiarità autoctone. Il processo di rifondazione sarà innescato da Giorgio Scerbanenco, che passando dal ruolo di “narratore per signorine” a quello di “maestro del thrilling” aprirà una via autonoma alla produzione poliziesca nazionale. 144 Bibliografia A. Niceforo , Parigi.Una città rinnovata, Torino, Bocca, 1911. A. Niceforo, Lontani e lontanissimi precursori del romanzo giudiziario moderno , in “ Il XX secolo”, 10 marzo 1917. A. 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