confessioni di una giocatrice d`azzardo

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confessioni di una giocatrice d`azzardo
CONFESSIONI DI UNA GIOCATRICE D'AZZARDO
Traduzione di Filippo Nasuti
Rayda Jacobs, Confessioni di una giocatrice d'azzardo
Titolo originale: Confessions of a Gambler
First published in 2003 by Kwela Books, a division of NB Publishers (Pty) Limited
Copyright © Rayda Jacobs, 2003
Copyright © Del Vecchio Editore, 2007
Grafica ed impaginazione: Dario Lucarini
Redazione: Paola Del Zoppo, Cecilia Ballacci, Vincenzo Quacquarella
www.delvecchioeditore.it
ISBN: 978–88–6110–015–2
c o l l a n a > n a r r a t i v a
L
a prima cosa che devo confessare è che sono musulmana. Ho 49 anni e
indosso ben due veli e un hijab, un fazzoletto per raccogliere i capelli.
Ho cresciuto i miei figli secondo la Parola di Dio. Se m’incrociaste per strada, non mi notereste nemmeno, sono una di quelle donne avvolte nel velo che
sembrano non avere meta.
La seconda cosa che devo confessare è che amo il rischio. Non so a quando
risalga questo amore, potrebbe essere nato a scuola quando, sia alla mia amica
cristiana Merle che a me, piaceva lo stesso ragazzo. Lui mi aveva già scritto
un bigliettino dove mi invitava ad andare un pomeriggio a teatro, ma poi
Merle gli ha fatto dare una sbirciata nella camicetta e allora ci ha portato lei.
Da quel momento cerco di riprendermi le cose che ho perso, come dice il mio
consulente psicologico. Non so se abbia ragione, non so neppure se i soldi
c’entrino qualcosa, non mi manca nulla, pensano a tutto i miei figli. Una delle
cose belle della mia religione è che le madri non devono giocare sul senso di
colpa, come spesso viene rimproverato a molte mamme ebree. Nel nostro
Libro, Dio dice chiaramente che il Paradiso giace sotto i piedi di una madre.
Si può pregare una buca nel terreno, digiunare fino allo sfinimento, ma chi
disonora la madre sa bene cosa aspettarsi. I miei figli lo sanno, sono cresciuti senza un padre, ma non senza il Corano. Ora hanno tutti un buon lavoro; uno
dà più degli altri, ma comunque quello che dà meno mi capisce meglio e quindi è il mio preferito. Nonostante quello che dicono gli esperti, una madre può
avere un preferito, soltanto che non può ammetterlo. Comunque, ho dei bravi
figli. Il maggiore ha scoperto il mio segreto mentre il più piccolo mi ha protetto dai gemelli, nati per secondi. Con i gemelli devi essere pronta a fare il
doppio di tutto. Prima di parlare del nome dei miei figli, vorrei spiegare com’è
iniziata la storia.
Era il gennaio del 2002; la mia amica Garaatie, che ha un bastardo di marito, era venuta da me a raccontarmi l’ultima angheria. Perché mai sua madre le
abbia dato un nome simile non lo so; i nomi sono molto importanti. Il suo lo
storpiavano sempre in Garaatonna. In effetti, era abbondante, come il nomignolo suggeriva, ma certamente non un pesce!
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Comunque sia, Garaatie aveva trovato nella tasca del marito un numero di
telefono con a fianco un nome: Moena. Facendo finta di essere del Comune,
aveva chiamato quel numero, aveva preso l’indirizzo, era salita sulla sua utilitaria blu ed era andata fino a Woodstock.
La creatività di Garaatie a volte mi soprendeva. Rimase scioccata quando,
arrivata, si trovò di fronte una ventenne. Pensava di aver fatto un errore colossale e stava quasi per andarsene, ma l’espressione di quella ragazza la frenò:
era come se le avesse fatto capire di averla già vista.
– Sei Moena? – chiese allora.
– Senta, – rispose la ragazza – parli con suo marito.
Garaatie era come indemoniata e proprio lì, sullo zerbino, afferrò Moena per
il collo e le diede un ceffone. Essendo una donna robusta, immagino i segni
sulla faccia di quella ragazza. La madre di Moena si precipitò fuori non appena sentì le grida, guardò le due donne e incominciò a sospettare il perché
Garaatie fosse lì, quindi ordinò alla figlia di rientrare.
– Le dica di stare lontano da mio marito! – urlò Garaatie.
Quella sera, tornato a casa, Mahmood chiese subito alla moglie perché era
andata a casa di quella ragazza. Non era uno di quei mariti che sceglieva una
seconda o terza moglie per motivi sbagliati, lui tradiva tranquillamente alla
luce del sole. Quindi, quando Garaatie non rispose alla domanda, le diede un
colpo in testa con le nocche. A quel punto Garaatie commise un grave errore:
citò le parole di Dio, cosa che amava fare.
– Sai cosa dice Dio sullo sposare più di una donna? – chiese.
– Se non sai essere equo, devi averne soltanto una. Ti credi forse un profeta tu?
– Non venirmi a dire certe sciocchezze! – urlò il marito. – Io posso averne anche quattro di mogli. Non ho voluto sposarne un’altra prima, ma adesso
ne ho trovata una che mi soddisfa pienamente e forse è ora che me la sposi.
Anziché scagliargli un baule addosso, Garaatie corse fuori dalla stanza in
lacrime. Se c’è una cosa che non puoi permettere ad un uomo di vedere è proprio questa. Piangi in bagno, chiama un’amica, sputagli nel tè, ma non crollare davanti a lui. Il figlio maggiore di Garaatie, Sulaiman, viveva poco distante. Lei gli fece una telefonata e lui andò. Padre e figlio rimasero seduti in cucina a discutere a lungo e, quando Sulaiman andò a parlare a sua madre in camera da letto, le diede la cattiva notizia.
– Papà ne ha il diritto, mamma. Non ne sono felice, ma è così.
Garaatie rimase a letto per due giorni interi; non si lavava i denti, non rassettava, non cucinava né si lavava. Si alzava solo per fare pipì.
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Il terzo giorno, venne a trovarmi, non sapevo nulla dell’accaduto e mi disse
soltanto: – Perché non andiamo al casinò?
La guardai con aria incerta.
– Al casinò – ripeté, come se avessi dovuto capire al volo. – Lo sai che
ce n’è uno qui a Città del Capo, vero?
Non lo sapevo, invece. I libri li leggevo, ma i giornali no, non ero mai stata
alle corse dei cavalli, non avevo mai partecipato ad una riffa, né comprato un
biglietto della lotteria in tutta la mia vita. Non avrei saputo del casinò a meno
che non me lo fossi trovata davanti o me ne avessero parlato i miei conoscenti.
– Dai, andiamo – disse. – Non dobbiamo starci a lungo.
– Ci sei già stata prima? – chiesi.
– Sì, con Shariefa.
– Davvero? – Shariefa era una gran fitnah. Chi voleva che le cattive notizie raggiungessero Port Elizabeth più veloci di un tornado, bastava lo dicesse
a lei, chiedendole di non dirlo a nessuno.
– Shariefa non è un problema – rispose Garaatie, percependo il mio scetticismo.
– Anche lei ha avuto una delusione.
– Solo che la sua è dovuta alla bocca larga che si ritrova. Hai giocato?
– Soltanto cinquanta rand, che poi ho perso, ma ti distoglie la mente dai problemi, sul serio. E poi è proprio divertente.
Sentire Garaatie pronunciare la parola “divertente” fu un’altra sorpresa.
Lei era una donna vecchio stile: lavorava per la comunità, per il dinh e per il
marito. Era quella la sua vita.
Quella parola non faceva parte del suo vocabolario, non sapeva come concedersi un’ora di piacere personale. Quante volte l’ho invitata a passeggiare con
me e Nabeweya di domenica mattina sulla spiaggia di Muizenberg o a venire
alle “serate film” che organizzavamo io e Rhoda. Diceva sempre di avere da
fare e le sue faccende consistevano nel rovistare nelle tasche del marito in
cerca di prove. Mahmood non ce lo vedevo con Garaatie, ma non perché fosse
indiano, anche se esisteva la vecchia faida tra malesi e indiani: i malesi non
avrebbero mai accettato del tutto che le loro figlie sposassero degli indiani e,
a loro volta, gli indiani avrebbero sempre creduto di essere migliori dei malesi. Certamente il termine “malese” è un’altra nota dolente, ma questa è una
storia diversa. Dirò solo questo: i miei avi saranno anche originari delle isole
attorno all’Oceano Indiano, ma io non sono certo malese. Lo Stato ha fatto
una cosa davvero orribile negli anni Quaranta decidendo che i malesi erano
carne e gli indiani pesce; da allora sono sempre stati due cose ben distinte.
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C’è una spaccatura, non enorme, ma ogni tanto si sentono storie di “scontri”,
come quella che mi raccontò Garaatie quando tutte le cognate dovevano preparare dei piatti e un dolce in occasione della riunione di tutti e cinquanta i
parenti per il pranzo di fine Ramadan, l’Eid. Garaatie preparò gamberetti al
curry e del tiramisù seguendo una ricetta che aveva testato per tre volte sulla
sua famiglia. Prima di tutto mangiavano gli uomini e, secondo le usanze, le
donne dovevano aspettare che finissero. Quando finalmente toccò a loro,
Garaatie le guardò con disappunto passarsi tra loro il pollo breyani e il sosaatie e ignorare i suoi gamberetti. Mi dispiaceva per lei e una volta le consigliai
di porre fine al matrimonio se si sentiva così infelice. Me ne disse talmente
tante che non glielo ripetei mai più.
Così, mi avviai al casinò con Garaatie e, per proteggermi da tutto quel divertimento in vista, mi portai dietro solo cinquanta rand. Avevo dei soldi da parte
in un conto, ma di sicuro non li avrei toccati.
Arrivate al maestoso ingresso, rimasi sorpresa dalle dimensioni dell’edificio
e dall’area enorme che occupava; il parcheggio era grande quanto un campo
da golf e tutti sembravano essere in vacanza, con indosso camicette floreali e
bermuda. Anche i controlli di sicurezza che dovemmo attraversare mi stupirono, ma nel momento in cui varcammo la grande porta di vetro e ci ritrovammo in una hall tutta di marmo fui completamente rapita. Era come quando io
e Rhoda eravamo a Istanbul e l’autobus turistico passò davanti a un iper– centro commerciale. C’erano centinaia di negozi, tutti sotto un solo tetto e abbiamo detto all’autista di non aspettarci. Ecco, entrare nel casinò fu esattamente
come quella volta. Ero completamente sopraffatta dalle luci, dal mormorio e
dall’atmosfera.
Garaatie e io gironzolammo per un po’ e rimasi affascinata dal numero di
persone che si aggiravano lì dentro, c’erano perfino donne col velo e uomini
col fez.
– Perbacco, Garaatie, ci sono dei musulmani qui.
– Lo so, ma non giochiamo d’azzardo – mi disse. – Ci divertiamo solo un
pochino.
– Va bene. – Questo lato di Garaatie non lo conoscevo affatto.
Trovammo due macchinette nella stessa fila ma non una a fianco all’altra,
Garaatie si scelse quella con le scritte wonder, mentre io presi quella lucky
seven e la osservai inserire una banconota da cinquanta rand e iniziare il gioco.
Con esitazione feci lo stesso e mi successe la cosa peggiore che può capitare a chi va al casinò per la prima volta: giocare con una macchinetta scelta
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semplicemente per l’aspetto, di cui non si conosce il funzionamento, né quanto possa far vincere. Mi erano rimasti solo dodici rand, quando d’improvviso
sentii uno zing, zing, zing in rapida successione e vidi tre sette bianchi allinearsi perfettamente.
– Ha fatto jackpot! – gridò qualcuno dietro di me. – Quattromila!
– Beeda! – Garaatie si alzò dalla sua postazione per venire a vedere.
– Perbacco, che fortuna!
Tutto accadde in un momento: le luci si accesero, i campanelli suonarono
impazziti e la gente cominciò a radunarsi attorno a me.
– Con quanto ha iniziato? – mi chiese una signora.
– Sono venuta con cinquanta rand – risposi.
Rivolta ad un signore accanto a lei, disse: – È venuta con cinquanta.
Ci credi? Sono rimasta a quella macchinetta per mezz’ora, ma niente. Lei ha
vinto i miei soldi, signora, ci ho buttato cento rand lì dentro.
– Sono sempre quelli con venti rand a vincere – disse qualcun altro.
Una ragazza con una divisa a righe mi si avvicinò e mi chiese se volessi i
quattromila rand sulla mia tessera o su assegno. Guardai Garaatie che, invece, i soldi li aveva persi. Aveva detto che avrebbe giocato solo cinquanta
rand, ma alla fine ce ne aveva messi il doppio. Notai anche qualcos’altro: il
suo sorriso amaro.
– È una bella somma – disse. – Puoi usarla per farci la spesa.
– L’assegno va bene – dissi alla ragazza. Sapevo di dover dare qualcosa a
Garaatie, ma il perché lo ignoro. Se lo sapessi, saprei anche perché ho un
debole per mio figlio più piccolo.
Si chiama Reza. Gli ho dato un nome alquanto ricercato: avevo letto da qualche parte che lo Scià di Persia aveva un figlio che si chiamava così. Suonava
principesco e avevo bisogno di qualcosa, qualunque cosa, che portasse un po’
di luce nella mia vita dopo essermi ritrovata sola al nono mese di gravidanza.
Quando mio marito se ne andò, lasciandomi con tre bambini e il quarto in
grembo, piansi fino a farmi scoppiare la testa. Ero talmente disperata che il
primogenito Zane, che aveva solo 7 anni all’epoca, andò a chiamare la vicina.
La signora Petersen si mise a sedere con me sul bordo del letto e chiese a Gesù
di togliermi il dolore. Il giorno dopo non riuscivo a guardare quella donna
negli occhi. Comunque, feci sedere i miei figli al tavolo per cena e dissi:
– Avete ancora un padre, soltanto che non vivrà più qui e adesso la mamma
deve trovarsi un lavoro.
Zane non la prese bene, era un ragazzino che rifletteva molto, era serio.
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I gemelli di quattro anni, Munier e Marwaan, corsero nella loro cameretta.
Pensavano fosse una qualche specie di gioco.
Garaatie e io ritirammo l’assegno alla cassa e le diedi duecentocinquanta
rand. – Puoi giocare un altro po’ – le dissi. – Anch’io ho duecentocinquanta rand, il resto lo metto in banca.
– Grazie – mi rispose sorridendo. – Non dovevi.
– Sei tu che mi hai portato qui, non avrei vinto se non fosse stato per te.
– Oh, Allah! – esclamò Garaatie. – Spero che Dio non ci stia ascoltando!
Portarti in un casinò… non è bene.
– E Mahmood questo non lo deve sapere – aggiunsi. C’era una cosa che non
mi piaceva di Garaatie: a prescindere da qualunque crudeltà la sottoponesse il
marito, non appena lui le diceva qualche parola dolce o le faceva qualche
moina, lei spifferava ogni genere di cose.
Questo mi porta a parlare della mia amicizia con lei; Garaatie non è una cattiva persona, è solo debole con gli uomini. Conosce i suoi diritti, ma non li
esercita, è come se si guardasse allo specchio chiedendosi come sia riuscita ad
accalappiare un uomo.
Vi spiego che intendo: quando era diciottenne, Garaatie frequentava un
ragazzo che la andava a trovare ogni venerdì sera. Un giorno suo padre gli
chiese di dichiarare le sue intenzioni. I padri le fanno certe cose. Durò tre settimane, al terzo venerdì disse al ragazzo che non doveva tenersi il posto caldo
senza intenzioni serie. Il poverino, seppure a mezza bocca, riuscì a biascicare
che le intenzioni le aveva. “Ma quando?”, pretendeva di sapere il padre di
Garaatie. Il ragazzo disse qualcosa riguardo ad un lungo fidanzamento e il
venerdì successivo non si fece vivo. Garaatie gli telefonò, lasciò messaggi alla
sorella, ma lui non c’era mai, così si presentò sul suo posto di lavoro a Paarden
Eiland dove faceva il falegname. Alla fine venne fuori che aveva un’altra
ragazza e l’avrebbe sposata l’anno seguente. Proprio lì nella bottega, di fronte a tutti, Garaatie lo supplicò di darle un’altra opportunità. Dignità zero.
Nessuna vergogna. Poco dopo quell’incidente, incontrò Mahmood ad una grigliata di famiglia. Quello era il periodo delle sbaciucchiatine al Rhodes
Memorial o a Signal Hill sul sedile posteriore della macchina. Garaatie rimase incinta e non aveva nessuna storia strappalacrime da raccontare ai suoi
genitori dopo il fatto: Mahmood doveva riparare al danno.
Garaatie, comunque, è di buon cuore: una volta mi ha prestato duemila rand, una
gran somma per una donna che deve rendere conto di ogni centesimo che spende.
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Reza non era l’unico a darmi dei grattacapi, anche i gemelli, più o meno dall’inizio delle scuole superiori, finivano spesso nei guai. Garaatie mi aveva aiutato con le parcelle dell’avvocato, dato che i problemi dei gemelli erano stati
proprio con la legge. Quelli di Reza, invece, erano con l’Onnipotente. Ma non
parlerò di Reza adesso, perché devo essere di umore particolare per parlarne,
un umore strano: mi viene da piangere. Me la prendo con Dio. Ma sono diventata una di quelle madri comprensive che si vedono in TV, che si tengono
informate e consultano degli psicologi. La verità è che non capisco affatto.
A volte riesco ad accettarlo, altre volte no.
Sono una donna dai molti segreti e dai grandi peccati. Alcuni dei miei segreti moriranno con me. Al peccato ci arriverò. Prima, però, vorrei parlare delle
mie due amiche: una gioca a fare la vittima e l’altra gioca a fare il carnefice.
Oltre a Garaatie, Rhoda è l’altra mia grande amica, ha più o meno la stessa età
di Garaatie, 45 anni, è più giovane di me ed è l’unica delle tre ad aver preso
il diploma. Io mi sono fermata a metà degli studi, ma poi mi sono laureata a
pieni voti in “vita vera”. Mio padre mi insegnò a leggere fin da piccolissima.
Non so dirvi quale sia l’edificio più alto del mondo o il fiume più lungo, né
quanti presidenti abbiano avuto gli Stati Uniti, ma mi basta vedere qualcuno
una volta, per capire esattamente con chi ho a che fare.
Rhoda, invece, faceva la cassiera in banca prima di sposare Rudwaan e aveva
un’istruzione superiore, come ci ricordava. Non come i ragazzi di oggi che
devono frequentare l’università e non solo, prima di poter anche solo pensare
di cercare un lavoro. Shafiq, il figlio di Rhoda, al momento vive in Australia
e ha un contratto biennale come risultato della sua grande istruzione.
Poi c’è il marito di Rhoda, Rudwaan, un uomo non molto forte. A volte il
modo in cui lei lo maltratta è imbarazzante, ma io lo so perché fa così: è frustrata e non cambierà nulla. È come quando si ha un sassolino nella scarpa, fa
male, è fastidioso, ma non ci si ferma per toglierlo, si continua a camminare.
Così è il matrimonio di Rhoda, taglia di qua, rincolla di là e si tengono su i
pezzi. Il suo vero amore, un ragazzo di nome Sadick, lo ha avuto a 19 anni. Il
problema era che Sadick era un centauro e alle ragazze piacciono le moto,
quindi aveva un folto sciame di pretendenti che se lo litigavano. Rhoda lo
lasciava, poi lo riprendeva, poi lo rilasciava; andò avanti per un po’ di anni
quando, alla fine, si venne a sapere che Sadick aveva messo incinta una ragazza e si sarebbe sposato. Due mesi dopo, Rhoda sposò il ragazzo gentile della
banca dove lavorava.
La mia amicizia con queste donne è di vecchia data, una la conosco dalle
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superiori, l’altra da quando si è sposata ed è venuta a vivere accanto a casa di
mia madre. Eppure ancora fanno a gara per aggiudicarsi la posizione di amica
numero uno. Quando siamo sole, Garaatie mi dice: – Quella Rhoda non sa
davvero come si tratta un uomo – mentre Rhoda mi dice: – Non so come mai
Garaatie non sbatte fuori a calci in culo quell’indiano.
E così via. Sono d’accordo con Rhoda che non bisogna accettare soprusi dagli
uomini, ma a volte esagera davvero. So il motivo per il quale ha sposato
Rudwaan. Waanie, lo chiama lei, un omone così! È perché lui asseconda tutti i
suoi piani. Una volta è riuscito a coinvolgerlo in un acquisto in multiproprietà
e ci hanno rimesso dei soldi. Da non crederci: sono due che non vanno mai in
vacanza e si buttano su un centro-vacanze a Eastern Cape, a due passi da qui.
Ma chi vorrebbe mai andarci? Uno preferirebbe la Thailandia, Gerusalemme o
la Terra Santa, ma Rhoda è fatta così. È come un piranha, non appena afferra
qualcosa non la molla fino alla fine. Poi, se non ha voglia di cucinare o stirargli le camice o altre sciocchezzuole che agli uomini piace far fare alle donne,
gli chiede se ha una qualche paralisi che gli impedisca di farsi le cose da solo,
anche con me presente! In più odia il sesso. Quel poveretto deve lottare per riuscire a metterle una mano in mezzo alle gambe. Parole testuali di Rhoda.
Mi dispiace per Rudwaan, non è una cattiva persona, è di indole buona e di bell’aspetto, ma ha solo una stranezza: non ha un dente in bocca.
Una domenica sera andai a trovarli e me ne accorsi, così chiesi a Rhoda il
perché. Mi rispose che Rudwaan metteva la dentiera solo durante la settimana. Il sabato e la domenica preferiva far riposare le gengive. Beh, vi dirò,
sarebbe abbastanza per farmi rimanere dal mio lato del letto.
I denti sono ritenuti molto importanti, a Città del Capo, e quasi tutti i miei
coetanei hanno la dentiera. Perfino mia sorella maggiore, Toeghieda, ha due
piccole lamine d’oro tra i denti. Io e mia sorella minore Zulpha, però, non
abbiamo la dentiera, anche se entrambe volevamo essere come nostra sorella
maggiore quando venne a trovarci, sposata ormai da un anno, con un buco tra
i denti. Mia madre non ci diede il permesso: quello che il marito di Toeghieda
le permetteva erano affari suoi, lei non voleva mica due figlie senza i quattro
denti davanti. Oggi sono contenta di non averlo fatto, non ci sarebbe verso,
allora come adesso, di farmi infilare la lingua nella bocca di qualcuno con del
cibo rimasto attaccato a una protesi di plastica.
Comunque mi diverto con le mie amiche, andiamo alle funzioni religiose, al
cinema e parliamo delle nostre vite, anche se io non racconto tutto. Non nomino quasi mai mio figlio minore.
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– Forse dopo dovremmo provare la ruota della fortuna – disse Garaatie.
Notai un cambiamento nel suo umore, aveva un bel gruzzolo da giocare e
sembrava più sicura di sé, e anch’io. Era la mia prima esperienza al casinò, ma
me ne andavo in giro come se fossi una possidente.
Seguii Garaatie alle ruote della fortuna.
– Dovrebbe prendere una tessera prepagata – mi aveva detto il cassiere
quando avevo ritirato l’assegno, così sia io che Garaatie riempimmo i moduli
per prenderne una. Successivamente, la inserimmo nella macchinetta e quello
che successe non fu piacevole. Povera Garaatie, non era la sua serata, la macchinetta che aveva scelto le inghiottì tutti i crediti in pochi minuti, mentre la
mia mi fece vincere trecentocinquanta rand. Quando Garaatie finì i soldi, mi
guardò e disse: – Sei fortunata. Non solo hai vinto il jackpot, ma sei su di trecento rand. Hai recuperato i soldi che mi hai dato.
Il modo in cui me lo disse mi fece stare male e stavo appena per rimettere
mano alla borsa per darle altri cento rand, quando Garaatie si accasciò sulla
sua sedia e tirò fuori la storia pietosa del bigliettino nei pantaloni e dello
schiaffo in faccia. Fine della mia partita. Finimmo a parlare nel retro del
ristorante di pesce, bevendo caffè mentre Garaatie mi raccontava ancora una
volta che razza di bastardo avesse sposato. La ascoltai come al solito, senza
dare consigli.
Quella fu la mia prima notte al casinò. Me ne andai da lì con un’amica molto
depressa e moltissimi rand. Era dura sentirsi tristi e felici allo stesso tempo,
ma devo essere stata più felice che triste poiché rimasi distesa sul letto tutta la
notte a ricordare come tre 7 bianchi si erano allineati e a come avrei speso quei
soldi. Ma c’era un problema con quella vincita: non erano due o trecento rand
coi quali pagare un conto e non pensarci più, erano quattromila! Era un sacco
di denaro. Sporco, per giunta. Avrei dovuto tenerlo in un conto separato,
magari comprarci un aspirapolvere, un forno nuovo, oppure farci un viaggio.
Avevo sempre voluto andare in India. Una cosa che non riuscii a farci fu comprare del cibo. Prima di addormentarmi, pensai al mio amico defunto Abdul.
Abdul era stato il mio appoggio per tutti quegli argomenti trattati nel Corano
che necessitavano chiarimenti. Sarebbe stata la prima persona che avrei consultato, mi avrebbe detto cosa fare coi soldi e mi avrebbe consigliato di non
tornare più al casinò.
Ricordo quando era a casa mia, anni fa, insieme a mio figlio Zane con sua
moglie Rabia, che gli chiese chiarimenti sul velo. Rabia fece notare che il
Corano prescrive di coprire il seno e di vestirsi castamente, non prescriveva di
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coprire la testa col velo. A quei tempi aveva un senso coprirsi il capo nel
deserto, altrimenti poteva evaporarti il cervello, ma noi non abitavamo a
Makkah o a Madina, bensì in Sudafrica. E poi, perché Dio non aveva detto
anche ai cristiani e agli ebrei di indossarlo?
Una riflessione intelligente. Io stessa non avevo sempre indossato il velo.
Abdul ascoltava rispettoso. Sapeva ascoltare e rispondere nel più gentile dei
modi. Poi disse che l’ordine era chiaro: serviva a proteggere la nostra au’rah,
di cui i capelli erano parte. Ma non dovevamo avvolgerci come mummie, Dio
comprendeva la nostra appartenenza alla società occidentale.
Alcune donne, ovviamente, prendono la storia della società occidentale troppo alla lettera e le vedi con veli dai colori sgargianti e con vestiti attillati,
oppure con il solo collo coperto, usanza nata con le nuove generazioni. Perché
metterlo intorno al collo, dico io? Serve a tenerlo caldo?
Ad ogni modo, si è sviluppato un movimento a favore del velo integrale, non
saprei se è nato da quando il governo e i cittadini si sentono più liberi, ma è
diventata una moda. Velo integrale a casa, per fare la spesa o per far visita agli
amici. È diventata una benedizione per alcune donne che possono risparmiarsi la preoccupazione per quei chili di troppo che si notano troppo facilmente
con indosso un vestito o una gonna. E poi il velo è una grande protezione: nessuno mi guarda per strada.
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L
a mattina dopo la mia visita al casinò fui sorpresa nel ricevere una telefonata da Garaatie. Avevo appena finito di parlare al telefono con Rhoda
quando squillò di nuovo. Di solito, dopo un nostro incontro, non rivedevo
Garaatie per una settimana almeno. Sentendo che era lei, così presto di mattina, pensai che mi avrebbe raccontato qualche nuova tragedia e rimasi davvero stupita quando le prime parole che disse furono: – Ho due ore libere stamattina e mi sento fortunata.
Avevo appena detto a Rhoda delle mie vincite e avevamo deciso cosa fare
del denaro: li avrei depositati in un conto vincolato per sei mesi usandoli insieme ai miei risparmi e al ricavato dalla vendita della mia Toyota rossa, per
comprare da Ali Gamielden quella Mercedes color castagna che avevo sempre desiderato. Avevo provato a guidarla, quella macchina. Era ben tenuta e
aveva pochi chilometri. Quando Rhoda mi suggerì che potevo usare i soldi per
quello, mi stupii di non averci pensato da sola.
– Ti va di andare al casinò? – mi chiese Garaatie.
– Ma ci siamo già state ieri sera.
– E che fa? Chi lo viene a sapere? Possiamo fare colazione lì, tu l’hai già fatta?
Mi lasciò di stucco, la sera prima annegava in un lago di lacrime e fazzoletti promettendo di votare la vita a Dio, adesso voleva tornare dalle macchinette.
– A che ora?
– Vengo a prenderti tra mezz’ora.
– Devo fare un salto in banca, voglio versare dei soldi.
– Ci fermiamo mentre andiamo...
Non ci fermammo mai. Il mio errore più grande fu dire, salendo in macchina,
che avevo parlato con Rhoda.
– Che voleva? – mi chiese Garaatie.
– Dovevamo andare al centro commerciale Waterfall, ieri, ma me ne sono
dimenticata.
– Non ti ha detto che Gafsa e Muhaimin si sono lasciati?
Sapevo delle difficoltà della figlia di Rhoda, ma non parlavo mai dei segreti
di una mia amica con l’altra.
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– Non si sono proprio lasciati, devono rivedere un po’ le cose. Sai come sono
i giovani.
– Muhaimin è tornato da sua madre.
– Come lo sai? – Io lo sapevo, ma volevo sentire come era arrivata a saperlo lei.
– L’ho sentito dire in moschea, me l’ha detto un’amica – disse scalando la
marcia dalla quarta alla terza. – Mi sorprende che tu non me l’abbia detto.
– D’altra parte non racconto neanche a Rhoda i tuoi fatti privati. Dài, lo sai
che certi argomenti sono off limits.
Garaatie mi tenne il broncio fino a Klipfontein Road, dove svoltammo a sinistra su Vanguard Drive.
– Cavolo, – disse – mi sono dimenticata di fermarmi in banca!
– Non fa niente, ci andrò domani, tanto ho un assegno e non lo spendo.
– E gli altri trecentocinquanta rand in contanti? Ne ho lasciati duecento a
casa.
– Quindi te ne sei portati solo centocinquanta? Saggia – disse sorridendo.
– E tu? Quanto pensi di spendere?
Stavamo rallentando per un altro semaforo rosso e Garaatie, sfondando
quasi la frizione, mi rispose: – Ho preso cinquecento rand dalla cassaforte.
– Hai preso i soldi del negozio? – Mi stupiva sia la somma, sia l’intenzione. Ero anche curiosa di sapere cosa fosse successo dopo che Mahmood
aveva dichiarato di voler prendere un’altra moglie, ma non chiesi nulla, poiché bisogna essere dell’umore giusto per ascoltare un episodio della serie
Garaatie-Mahmood e io non lo ero proprio.
– Che conti le sue ricchezze e veda pure quanto manca – rispose lei.
– Se perdo, domani sera ne avrà ancora di meno, ma se vinco, forse li
rimetto a posto.
Garaatie divenne così dispettosa dopo che lui le aveva tirato un pugno nello
stomaco. L’ultima volta che Mahmood era finito nei guai per un preservativo
che lei gli aveva trovato nei jeans, Garaatie gli aveva tagliato le gambe di tutti
i pantaloni nuovi. A Mahmood non gliene importava un fico secco, si limitò
ad andarsene per cinque giorni a Sun City. Ecco come gliela faceva pagare:
con lo sciopero del silenzio. Al ritorno del marito, Garaatie era diventata un
docile agnellino. Non la capisco, a volte credo abbia un desiderio segreto di
farsi picchiare a sangue. Lui non l’ha mai fatto, ma credo che lei lo voglia.
E poi bisogna dire che succede quando Mahmood si arrabbia. Lei lo raccontò
una volta a me e a Rhoda: diventa “super-sessato”. Non avevo mai sentito
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quell’espressione finché lei stessa non ce la spiegò. Il “cobra” usciva dalla
cesta e faceva scintille, dopodiché Garaatie si sentiva di nuovo tranquilla e
soddisfatta. La guardammo con occhi diversi dopo quel vivido racconto.
Non avevamo mai considerato Garaatie un animale da sesso. Le conosco le
donne della mia età e si dividono in due categorie: quelle a cui piace il sesso e
quelle a cui non piace. Ho sempre messo Garaatie in una terza categoria, quella
delle donne “in bianco”. E non aveva bisogno di nessun tipo di cura ormonale.
Entrammo nel casinò alle dieci e mezza di mattina. La sala era già in fermento con le tipiche attività mattutine, gli addetti alla sicurezza andavano
avanti e indietro con alle orecchie auricolari penzolanti e le cameriere erano
affaccendate a prendere le ordinazioni e a servire bibite; in alcuni punti c’era
un tale movimento che bisognava fare la fila per sedersi ad una macchinetta.
Non c’erano finestre né orologi, niente mattino o notte, ogni giorno era uguale al successivo.
– Voglio giocare alla stessa macchinetta dove ho vinto – dissi a Garaatie.
– Va bene – rispose, e venne a sedersi accanto a me. Iniziammo con cinquanta rand e dopo averli visti sparire, ne usammo altri cento. Non avevo più
niente nel borsellino, ma Garaatie aveva ancora trecentocinquanta rand. Io
feci combinazioni da dieci e venti rand, ma lei nulla.
– Fammi giocare un po’ alla tua macchinetta – mi chiese.
Mi sembrava alquanto audace da parte mia lasciargliela, ma le cedetti comunque
il mio posto. Questo stato d’animo sarebbe diventato la regola, per me. Pur sapendo quale macchinetta fosse la vincente, ci avrei lasciato giocare gli altri. Loro
avrebbero vinto il jackpot e io sarei rimasta lì a sorridere con amarezza. L’amarezza
è una cosa difficile da sopportare negli altri se sei tu a vincere, specialmente se loro
non hanno più soldi per giocare. Tuttavia è ancora più difficile essere quello che si
rode. Ma non quella mattina. Quella mattina gli dèi mi sorridevano ancora.
Incominciai a giocare alla macchinetta di Garaatie e, piano ma inesorabilmente, i miei soldi diminuirono, nemmeno una combinazione da dieci.
Rimasta solo con quattro rand, proprio quando pensavo che il mio gioco stesse per finire, la macchinetta sussultò d’improvviso e due simboli “sbanca la
cassa” e un cinque giallo si allinearono perfettamente.
– Oh, Dio! – esclamò Garaatie – E pensare che mi sono appena alzata da
lì! Quanto hai vinto?
– Non lo so. – Come cavolo facevo a sapere la vincita? Comunque mi sentii infinitamente sollevata di aver vinto qualcosa e di poter continuare a giocare. Mi accesi una sigaretta aspirando a fondo.
17
Arrivò una ragazza del personale e disse: – Congratulazioni, ha vinto duemila rand!
Guardai Garaatie e questa volta non c’erano dubbi su quello che notai: mi sorrise e mi disse quanto ero fortunata, ma con la mano diede un forte colpo al pulsante della macchinetta che mi aveva chiesto di cederle. Il tempo di farmi dare
l’assegno dalla ragazza, e Garaatie era già rimasta con soli venti rand.
– Qui non ho vinto nulla, – disse – mentre tu hai vinto duemila rand…
Proprio in quel momento decisi che non sarei mai più tornata con lei, non era
certo stata mia l’idea di scambiarci di posto.
– Ti va un caffè? – chiesi.
– Hai finito di giocare?
– Tu no?
– No. Mi sento di giocare un altro po’.
Sapevo cosa volesse dire; le avevo dato dei soldi il giorno prima e sapeva che
avevo l’assegno in borsa, oltre a quello appena vinto.
– Non credo che questo casinò sia una cosa buona, Garaatie. Andiamo a
mangiare qualcosa, offro io.
– Non ho fame – rispose. – Andiamocene a casa.
Ce ne andammo senza discutere, senza nemmeno mangiare o bere niente.
Eravamo rimaste lì dentro per meno di un’ora.
– Non devi fermarti in banca per me – le dissi. – Ho altre cose da fare.
Prendo la mia macchina.
– Non sei arrabbiata, vero? – mi chiese.
– No, è solo che forse non saremmo dovute venire oggi.
– Perché no? Hai anche vinto. Ad ogni modo, il Ramadan si avvicina e tra
due mesi inizia il digiuno. Non voglio tornare più qui.
All’epoca Garaatie non lo sapeva, e nemmeno io, ma perdere per due giorni
di fila era stata in realtà un’ottima cosa.
Appena mi lasciò a casa, mi precipitai in bagno e poi andai in cucina a prepararmi una tazza di tè prima di recarmi in banca. La segreteria telefonica era
poggiata su di un tavolino a fianco alla credenza e la luce intermittente mi
segnalò che c’erano due messaggi. Misi il bollitore sul fuoco e ascoltai il
primo, era di mio figlio maggiore Zane che mi ricordava del trentesimo compleanno di Rabia e mi invitava a casa sua per un tè dopo le otto. Il secondo
messaggio era di mio figlio minore, Reza, che mi chiedeva se fossi libera
quella sera per poter andare da lui a Sea Point.
18
Mi misi a sedere per alcuni minuti, la mattinata mi aveva lasciato affamata e
un po’ depressa. L’episodio al casinò mi aveva dato fastidio, poi, quelle telefonate… Rabia non era la mia nuora preferita, ma certo non potevo mancare
per il tè, avrebbe ferito Zane nonché dato a Rabia altro su cui sparlare. Inoltre
andare da loro sarebbe stata un’occasione per vedere i gemelli con le mogli e
i figli. Reza, però, non ci sarebbe stato, non sarebbe stato invitato. Ma anche
lui voleva vedermi.
L’acqua bollì e la versai su una bustina di rooibos, aspettando che l’infuso
prendesse colore. Come al solito, al solo pensiero di mio figlio Reza, provai
un grande senso di oppressione. Ogni volta vedevo l’immagine di un freddo
pomeriggio di molto tempo fa quando Reza aveva solo undici anni e tornai a
casa dal lavoro prima del solito. Zane aveva cominciato a lavorare come
commesso in un negozio e non sarebbe tornato prima delle sette, mentre i
gemelli erano andati all’allenamento di calcetto. Lo ricordo come fosse ieri.
Arrivata al cancelletto, mi resi conto di essere senza chiavi. A chiunque fosse
successo, sapeva che poteva trovarne una copia sotto il secondo sasso nel
giardino. Costeggiai le mura di casa e superai le due finestre, ma prima di
oltrepassare completamente la seconda, sentii una risata. Pensai che i gemelli
fossero tornati prima, ma quella voce era diversa dalla loro, quindi mi fermai.
Non so se me lo abbia comandato il cuore o la testa, ma rimasi immobile.
Non riconobbi la risata, ma certamente capii cosa stava succedendo. Sbirciai
dalla finestra e, sul letto, insieme a un altro ragazzino, vidi mio figlio nudo
come il giorno in cui nacque.
Mi scostai dalla finestra e sentii l’urgenza di fare pipì, tuttavia non andai in
giardino, né in casa, rimasi lì ferma a guardarmi intorno come se mi trovassi in
un posto estraneo. Successivamente, così come ero venuta, me ne andai in silenzio, uscii dal cancelletto e poi giù in strada. Ancora oggi non ricordo dove andai,
ma tornai a casa alle sei e mezza, come fossi stata al lavoro tutto il giorno.
Non dissi nulla per cinque anni. Guardavo i ragazzi che venivano in casa
pettinati alla Marilyn Monroe o alla Lana Turner e facevo finta che fossero solo amici parrucchieri. “Finocchi” li definì una volta mio figlio Zane,
ma erano bravi ragazzi dopo tutto, mi piacevano. Erano divertenti e di
talento e ridevo molto in loro compagnia. Di notte, però, quando mi ritrovavo sola, facevo lunghi discorsi con Dio, gli chiedevo di cambiarlo, di
renderlo come i suoi fratelli. Condividevo molte cose con le mie amiche,
ma non questa. Una volta Rhoda mi parlò, prendendola alla lontana, di un
uomo che riusciva a curare ogni male. Entrambe facemmo finta di ignora19
re a cosa si riferisse; comunque andai da quell’uomo, ma la sua bottiglietta di acqua santa non sortì alcun effetto.
Poco dopo il sedicesimo compleanno di Reza, suo padre Braima mi telefonò.
– Beeda, come stai?
– Bene – risposi. – E tu?
– Non mi lamento. Volevo solo parlarti di una cosa…
– È una cosa seria? – Ero sorpresa che mi telefonasse.
– Non saprei… beh, io… Reza è venuto qui giorni fa. Non so come mai,
io… comunque, avevo gente a casa e si è presentato qui con un amico in una
macchina sportiva verde. Era molto più vecchio di lui. Si comportavano in
modo strano…
Secondo lui avrei dovuto capire cosa cercava di dirmi. Tuttavia, ero felice
che avesse chiamato. In tutti gli anni passati dal divorzio avevamo parlato
della retta scolastica, dei vestiti, dell’assegno di sostentamento, ma mai di sentimenti o supposizioni su suo figlio.
– Che intendi? Hai notato solo ora che è diverso? – gli chiesi.
– No. È sempre stato… speciale.
– Non dissi nulla.
– Che gli succede, Beeda? È lì con te tutti i giorni.
– Lo sai.
– Cosa so?
– Lo sai. Come lo so io.
– Cosa so? – chiese di nuovo.
– C’è una parola per definirlo.
– Smettila con gli indovinelli! Parla! – esclamò.
– È dell’altra sponda. – Era la prima volta che lo dicevo a voce alta.
– Gli piacciono i ragazzi, non le ragazze.
Silenzio. Quando parlò di nuovo, la sua voce era diversa. – Ho sentito bene?
Mi stai dicendo che Reza è… Dio, non riesco nemmeno a dirlo.
Non lo aiutai a farlo. Venne da me quel pomeriggio stesso. I bambini erano
sempre quelli che si rivolgevano al padre in caso di bisogno, ma stavolta ci
voleva una chiacchierata faccia a faccia tra lui e me. Ci accomodammo in
cucina, io preparai del tè e dei toast al burro con delle fettine di pomodoro,
poi gli dissi cosa avevo visto dalla finestra quando Reza aveva undici anni.
Sprofondò sempre più nella sedia ad ogni parola, poi si poggiò coi gomiti
sul tavolo.
– Non me l’hai mai detto.
20
– Non abbiamo mai parlato. E poi che c’era da dirsi? Io stessa non ci volevo credere.
Si prese la testa tra le mani e io lo osservai. Aveva capelli neri lucenti tenuti
insieme da un elastico, tipici tratti giavanesi, tutti i denti e un bell’aspetto.
Ero seduta di fronte a lui e mi domandai se provasse ancora dei sentimenti
per me. Quello che mi feriva ancora era come mai mi avesse lasciato per
un’altra donna.
– Che abbiamo fatto per meritarcelo?
– Non è colpa di nessuno.
– Forse ne dovremmo parlare ad un imam – suggerì.
– Gli imam hanno delle mogli e di notte si stendono l’uno accanto all’altra
e parlano. Non voglio che tutto il mondo sappia i fatti miei. E poi, che ci
potrebbe mai dire un imam se non che è male?
– Forse c’è qualche regola…
– Nient’affatto. Non è permesso e basta. Non c’è regola che un imam possa
dare per rendere la cosa buona. Sono stata da un consulente psicologico, però.
Un ebreo.
Mi guardò. Non era il tipo da andare da uno sconosciuto coi propri problemi a farsi fare domande sulla sua infanzia e sul suo rapporto con la madre o
il padre.
– Che ti ha detto?
– Non si può prendere una pillola e mettere tutto a posto. Lui può solo aiutarci ad accettarlo. La nostra gente non parla di cose così, ma quando sono in
seduta con lui posso parlargli di come mi sento.
– Quando ci sei stata?
– Circa due anni fa, quando Reza aveva quattordici anni.
– I fratelli lo sanno?
– Come non potrebbero? I suoi amici vengono qui a casa, si siedono in salotto a sentire la musica e preparano insalate e altri piatti in cucina. Si ride sempre molto. Munier e Marwaan non hanno problemi, ma Zane sì. Non li sopporta. Fa venire la sua ragazza in casa solo di domenica sera, perché non
vuole che lei sappia, ma come si può tenere nascosta una cosa del genere,
come si può cambiarla?
Abbassò la testa. Mi dispiaceva per lui, si stava confrontando con la vera
natura del figlio per la prima volta, mentre io ci convivevo fin da quel fatidico pomeriggio in cui guardai dalla finestra.
– Devi accettarlo, non è come i fratelli.
21
– Non lo accetto, invece. Non l’accetterò mai. Uno dei miei figli così. Mai!
Finito il tè, si alzò e tirò un profondo respiro. Lo accompagnai fino al cancelletto e, lì, rimase fermo per un momento prima di aprire la portiera della
macchina.
– Mi dispiace che tu abbia dovuto pensarci da sola, Beeda. E mi dispiace di
noi due.
Non riuscivo a crederci: gli dispiaceva. Non so dire ciò che significò per
me, non l’aveva mai detto prima. Nessuno mi aveva mai chiesto scusa.
Non Toeghieda, che da bambine mi faceva prendere le sue colpe quando
rubava i soldi dal borsellino della mamma, che me le dava di santa ragione
dicendomi che non si sarebbe più fidata di me. Non mia madre, che ha sempre preferito a me la figlia maggiore e quella minore. Toeghieda era la primogenita e la figlia “bianca”, mentre Zulpha era il suo dolce angioletto che
doveva piacere a tutti.
Sono stata una bambina sola. Toeghieda era amica dei bambini della casa
accanto e non mi faceva mai giocare insieme a loro, poi, quando lei aveva otto
anni è nata Zulpha, che è diventata subito il suo nuovo giocattolo. Mi hanno
sempre lasciata per conto mio ad aspettare sull’uscio ed ho imparato fin da
piccola ad occupare da sola il mio tempo. Mio padre, l’unico che mi prestasse attenzione, mi comprava regali di compleanno che pensava mi piacessero:
libri, puzzle e una bambola che diceva “mamma” se le tiravi la cordicella dietro la schiena. Faceva anche altro per me, come allacciarmi le scarpe la mattina prima di andare a scuola o farmi le trecce. Erano piccole cose soltanto
nostre. Poi mio padre morì e mi ritrovai di nuovo sola. Sei mesi dopo aver
lasciato la scuola, quando incontrai Braima, senza saperlo cercavo qualcosa
che appartenesse soltanto a me, da poter amare.
Poco dopo la visita del mio ex marito, io e Rhoda ci incontrammo a
Cavendish Square per un caffè. Entrambe avevamo figli adolescenti.
Suo figlio Shafiq, di 19 anni, le stava dando un sacco di preoccupazioni.
Era al secondo anno di università e si era messo con una ragazza bianca.
– Sta cambiando sotto i miei occhi – disse. – Non torna a casa il venerdì
sera, non la porta a conoscere la famiglia, così magari potremmo capire che
ha di speciale. Ha anche ottenuto scarsi risultati lo scorso semestre. Crede
forse che i soldi che sborsiamo per la retta universitaria crescano sull’albero?
Non gli abbiamo permesso di chiedere un prestito per pagare l’università, perché non avesse debiti dopo la laurea. Ecco come ci ringrazia!
22
Il vero timore, tuttavia, era che Shafiq si fosse fatto fare il lavaggio del cervello dalla ragazza e avrebbe rinnegato la sua fede. Rhoda, però, aveva un
piano: sua sorella maggiore, Malia, viveva a Houston, così organizzò a Shafiq
una vacanza dalla zia. Quello che sperava si avverò, ma non proprio come
voleva lei. Shafiq si innamorò dell’America e chiese di poter completare i suoi
studi lì. Rhoda gli inviò il denaro per gli avvocati e i visti e il figlio si fermò
per quattro anni. Shafiq aveva già da tempo dimenticato la ragazza che tanto
dava da pensare a sua madre e a quel punto disse che a Città del Capo avrebbe fatto solo una puntatina prima di ripartire alla volta del Canada. Ma questo
era tutto un altro problema.
Poi, c’era la figlia di Rhoda, Zaitoon, che era rimasta incinta durante il liceo
l’anno prima. Io sono stata l’unica a sapere dove la portò sua madre, nemmeno Rudwaan seppe di una donna con la siringa a Hope Street. Col senno di
poi, posso dire che fu una cosa orribile, perché oggi Zaitoon è sposata, ma non
può avere figli.
Le madri fanno ciò che devono e si avventurano là dove i padri non osano.
Per i figli faremmo tutto. È più facile affrontare Dio in persona, piuttosto che
far sapere alla comunità gli affari propri. Dio perdona, la comunità non dimentica.
Dissi a Rhoda della visita di Braima.
– Non è una mela marcia, – mi disse – una coscienza ce l’ha. Ha sempre
sostenuto i suoi figli.
Garaatie mi diede un responso diverso quando glielo dissi. – È un po’ tardi
per dire che gli dispiace. Dov’era il suo dispiacere quando ti ha lasciato incinta e con tre bambini?
Avevano ragione tutte e due.
Quella sera andai a casa di Zane per il tè. Indossavo due bellissimi veli di
seta che avevo comprato quell’anno al centro commerciale. Ne avevo preso
anche uno color prugna con le decorazioni dorate, pensando che potesse star
bene a Rabia, vista la sua carnagione scura. Il velo si sarebbe intonato ai suoi
occhi e alla pelle. Lo avvolsi nella carta rosa, chiusi il pacchetto con del nastro
argentato e mi fermai in cartoleria per prendere un biglietto d’auguri.
Arrivata a casa loro, Rabia stava ancora mettendo in tavola noccioline ricoperte di cioccolato e frutta secca. Ero andata lì prima di proposito, così da
potermene andare ad un orario decente e incontrare mio figlio Reza.
– Auguri per i tuoi trent’anni – le augurai non appena aprì la porta, dando23
le un bacio sulla guancia ed un abbraccio. – Possa Allah regalarti molti anni
felici, Inscha Allah, buona salute e prosperità. Le porsi il pacchetto e dissi:
– È solo un pensierino.
– Grazie – rispose. – Non dovevi scomodarti.
Non mi chiamava mai mamma o ma’, come facevano le mie altre nuore.
Munier e Marwaan avevano sposato due gemelle, Sawdah e Sadia, e facevano sempre tutto in quattro. Vivevano addirittura nella stessa strada.
– Siediti – disse Rabia. – Vado a chiamare Zane. È impegnato in giardino
con un lavoretto.
Sparì lungo il vialetto e io mi misi a sedere come fossi un’estranea in casa del
mio stesso figlio. Non mi fu chiesto di aiutare in cucina, né mi fu permesso di
andare liberamente in giro per casa. Da Munier o Marwaan la storia era totalmente diversa: Sawdah e Sadia cucinavano spesso insieme a me per le funzioni religiose e qualche volta sono stata da loro la domenica sera a guardare un film, mentre gli uomini seguivano le partite di cricket o di rugby nella stanza accanto.
Qui non era possibile. Non si poteva toccare nulla, non si davano consigli
su divani o tende e non ci si presentava senza essere invitati. Rabia riceveva la famiglia una volta all’anno per il tè in occasione del compleanno di
Zane e chiedeva di non portare regali, dato che lei non li faceva mai a nessuno. Noi li portavamo lo stesso; certo non sarebbe stata lei a cambiare i
modi che avevamo da sempre. E poi è anche tirchia, considerati i soldi che
guadagna come assistente amministrativa e per le comodità che le permette
mio figlio. Quelle rare volte che porta un dolce ad una festa o anniversario,
è sicuramente un pacchetto di Bakers Tennis col caramello e gocce di cioccolato. In occasione della gravidanza di Sawdah, un paio di anni fa, portò un
tubetto di crema da pannolini anti arrossamento. Disse che il regalo importante l’avrebbe portato alla nascita del bambino. E così fece: si presentò con
un pacco di Pampers da dodici.
Bisogna sempre fidarsi delle prime impressioni, non so perché le ignoriamo.
Vediamo le cose per quello che sono, eppure continuiamo a sbatterci la testa.
La mia prima impressione su Rabia me la feci quando Zane la portò a casa per
il suo ventunesimo compleanno. Aveva invitato degli amici e organizzato una
festicciola. Una “riunioncina” la chiamavamo all’epoca, dove c’erano musica
e balli e le madri permettevano di spegnere le luci su un blues. C’erano molte
ragazze e Zane era molto bello. Non erano nemmeno le dieci e mezza, quando Rabia, con la schiena rivolta allo stereo, disse a mio figlio:
– Basta con questa festa. Voglio tornare a casa.
24
Era la festa di Zane, lei doveva solo fare la fidanzata! Stavamo ancora aspettando mezzanotte per il discorso e la presentazione della chiave. Lei sapeva
dei ventun anni, e di quanto sia speciale l’evento. Zane dovette abbandonare
la festa e accompagnarla fino a Salt River. Lei non pensò minimamente che lo
stava ferendo. Quando, qualche mese dopo, Zane mi disse che voleva sposarla, gli dissi tutte le cose giuste che una madre deve dire al figlio, ma ero delusa dalla sua scelta. Poco dopo il matrimonio, Sawdah mi raccontò di una
discussione a casa loro. Aveva sentito Rabia dire a Zane che tutte le cose che
faceva per la famiglia dovevano finire. Non so se si riferisse anche a me, e non
lo chiesi mai a mio figlio.
Mentre me ne stavo seduta in salotto ad aspettare Zane, diedi uno sguardo al rinfresco sul tavolo: quel grande evento si riduceva ad un picnic di serie B con una
torta al cioccolato, noccioline e dolcetti. Niente prelibatezze o samoosa. Rabia se
li mangiava se veniva da te, ma per i suoi ospiti non li preparava. Erano Sawdah
e Sadia quelle che preparavano pizze, torte salate, stuzzichini alla crema e bigné.
Mio nipote di sette anni, Shaheed, entrò in salotto. Sapevo che mia nuora
l’aveva mandato a salutarmi.
– ’laikum, nonna – disse dandomi un bacio.
Gli diedi un abbraccio forte ed un bacione e gli risposi: – Non è ’laikum, ma
Salaam alaikum.
– Salaam alaikum, nonna. – Mi guardò con i suoi occhioni e disse: – La nonna
mi ha portato quel videogioco che aveva detto mi avrebbe comprato? Eh, nonna?
Lo abbracciai di nuovo. Era il mio primo nipotino, ed era prezioso. – Papà
ti ha dato il permesso di usare il suo computer?
– Sì, nonna, per due ore al giorno. Il sabato e la domenica quattro.
– Però! È un sacco di tempo per giocare al computer per uno piccolino come te!
– Non sono piccolo, nonna – mi disse con sguardo serio. – Faccio otto anni
tra un mese.
– Un mese? Caspita! – Presi la mia borsa. Shaheed mi stava vicino osservandomi mentre prendevo il gioco ancora incartato nel cellophane.
– Nonna! Grazie nonna! – esclamò abbracciandomi. – Grazie!
– Mamma, lo stai viziando – disse Zane, entrando calmo in salotto.
Mi alzai e ci abbracciammo. – Ti trovo bene – gli dissi. Indossava una camicia verde, dei pantaloni beige e delle scarpe scamosciate. Rabia gli aveva stravolto il look, però stava bene. Anche i capelli non erano tagliati male, a spazzola e con il gel per tenerli su.
25
– Glielo avevo promesso – dissi io.
Rabia portò in sala un vassoio e mi offrì da bere. – Non deve ottenere tutto
quello che vuole, altrimenti penserà che gli sia dovuto.
Presi le sigarette, “facciamoci dire di andare a fumare fuori in piedi”, pensai.
Mi rivolsi a mio nipote: – Perché non vai a provare il tuo nuovo gioco?
– Okay, nonna, e grazie ancora. – Era felicissimo di potersene andare.
Rabia mi portò un posacenere. – Sapevo che oggi ce ne sarebbe servito uno
– disse sorridendo.
– La trovo bene la mamma – mi disse Zane.
– Grazie, ho eliminato dalla dieta carne rossa e patate e ho perso due chili.
– E la cioccolata? – chiese Rabia.
– Quella non la eliminerò mai. Né la cioccolata, né le sigarette.
– Grazie a Dio Zane ha smesso di fumare.
Feci un gran tiro di sigaretta e dissi: – Il fumo uccide.
Rabia mi fece uno dei suoi sorrisini impertinenti e disse: – Quando lo dici ad
un fumatore risponde che si deve comunque morire di qualcosa. È da sfacciati.
E neanche puoi dire a un musulmano che è un tossicomane, e perché? Perché
non è droga, sono solo sigarette. Ho portato l’auto dal carrozziere giorni fa e
ho dovuto prendere un autobus per andare a Mowbray. Ero seduta davanti a
due donne con un lungo velo che fumavano come fossero ad una sagra all’aria
aperta. Al che, mi sono voltata e ho indicato il cartello “vietato fumare” e una
di loro mi ha detto in afrikaans: “Il corpo è il mio”. Il presidente Zuma dovrebbe pensare a far costruire case per i poveri e a chiudere i negozi di alcolici.
Non ho mai sentito di qualcuno che abbia provocato incidenti perché aveva
una sigaretta in mano.
Risi, era divertente, ma notai dall’espressione di Zane che aveva il timore che la nostra conversazione potesse prendere una brutta piega. Non
c’era da preoccuparsi. Non avrei permesso assolutamente che gli si rovinasse la giornata. Era il primogenito, quello che avevo aspettato con l’ansia e l’eccitazione di una neomamma. I primi nati, però, erano anche quelli che soffrivano di più. Quando suo padre se ne andò, Zane aveva 7 anni
ed ha dovuto rinunciare a molte cose per aiutarmi. Io gli comprai una bici
e lui vendeva delle confezioni di masala per me, mi aiutava col bucato e
con le faccende domestiche. Il sabato pomeriggio, quando i suoi amichetti andavano a giocare nel parco, lui doveva aiutarmi a friggere le ciambelline koeksister e la domenica le doveva consegnare ai vicini. Ogni piccola azione mi ha aiutato.
26
Oggi è un uomo d’affari di successo e ha due negozi. Rabia non lo sa, ma
ogni primo del mese Zane mi dà seicento rand.
– Guarda, sono venuta prima perché devo andare via presto. Reza vuole che
vada da lui, quindi me ne andrò verso le otto. Spero non ti dispiaccia – dissi
a Rabia.
– Certo che no. Anche lui è tuo figlio – rispose.
A quel punto avrei voluto chiedere perché non era stato invitato anche lui,
ma lo sapevo il motivo: una volta avevano avuto una discussione e Reza l’aveva chiamata troia. Parola bruttissima, lo ammetto, ma ormai l’aveva detta,
l’aveva anche chiamata “femmina senza cervello”. Dovevamo accettare quindi la sua messa al bando, benché tutti sapessimo che c’era ben altro dietro:
non era il benvenuto perché era gay.
– Quand’è l’ultima volta che la mamma l’ha visto? – chiese Zane. – Mi ha
detto Munier che non stava bene.
– L’ho visto la settimana scorsa, ha una specie di febbre. Sai com’è fatto,
mangia a malapena.
– Diciamo così.
Guardai mio figlio e lui ricambiò il mio sguardo senza batter ciglio.
– Quindi è malato. Tutti ci ammaliamo, la prossima settimana si rimetterà.
Non roviniamo il compleanno di Rabia parlando di malattie.
– Non mi rovinate mica il compleanno. Penso sia importante parlare di queste cose. Anche Munier e Marwaan l’hanno visto la settimana scorsa e dicono
che abbia l’Aids – disse Rabia.
Mi alzai, andai verso la mensola sul caminetto e mi rimisi in ordine il velo.
Dovevo fare qualcosa o l’avrei sicuramente colpita. Tornai al mio posto e
dissi: – Senti un po’, Rabia, non voglio sentirmi dire da te che mio figlio ha
l’Aids. Ti è chiaro?
Arrossì e disse: – Era così per dire. Alcune persone non sopportano che…
– No, zitta e ascoltami, non voglio sentire un bel niente da te. L’hai invitato
alla festa? Ti senti con lui? Tu sei l’ultima persona dalla quale voglio sentire
qualcosa su di lui. Presi la borsa e mi diressi alla porta.
– Dove va la mamma? – chiese Zane.
– Dall’altro mio figlio. Quello che indossa i pantaloni.
– Non sono io a portare i pantaloni in casa! – esclamò Rabia risentita.
Mi fermai e, voltandomi appena verso di lei, dissi: – Adesso ti dico qualcosa che ti farà andare storta la giornata – avvicinai il viso al suo. – Non mi
piaci e non mi piacerai mai. Contenta ora?
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Montai in macchina e me ne andai senza nemmeno notare il fuoristrada di
Munier che mi incrociò lungo il tragitto. Tuttavia, non andai dritta da mio
figlio, feci una deviazione. Ero arrabbiata e nervosa. Come si permetteva
quella troia di dirmi che mio figlio aveva l’Aids?
Andai al casinò, non so quanti soldi avessi dietro quella sera, né quante sigarette fumai, so solo che persi. Erano le dieci quando me ne andai.
Salita in macchina, guidai senza soste. Mentre sfrecciavo lungo la strada, mi
chiedevo come sarebbe stato volar giù dalla collina e schiantarsi sulla corsia
opposta.
Arrivai a destinazione e suonai il campanello. Patrick venne alla porta.
Patrick era il suo ragazzo.
– Ciao, come stai?
– Bene, e lei, signora A? – Mi chiamava sempre signora A.
– Sto bene, grazie. Beh, non proprio bene, ma che senso ha lamentarsi?
Alle sue spalle apparve Reza già in pigiama. Mi baciò, mi diede un abbraccio e mi fece entrare in casa. – La mamma è in ritardo.
– Lo so, ma avevo altri impegni.
Patrick sparì in cucina a preparare del tè. Guardai mio figlio, era magro e
aveva delle occhiaie profonde.
– Ti ho portato delle noccioline ricoperte di cioccolato, c’è anche l’uvetta
nell’impasto, come piace a te – dissi.
– Grazie – rispose sedendosi accanto a me sul divano e cingendomi le spalle con il braccio destro. Percepivo che mi aveva fatto venire per dirmi qualcosa.
– Stai bene? – All’improvviso, capii che Rabia diceva la verità, non c’era
altra spiegazione per quell’aspetto smunto. Mi sorrise, ma gli occhi erano
sgranati e con la pupilla dilatata. Era anche spaventosamente magro. Perché
non l’avevo capito pur avendolo di fronte?
– Ho l’Aids, mamma.
Quelle parole mi fecero raggelare. L’aveva detto, confermando così i miei
timori. Percepii i rumori del traffico provenienti dalla finestra, il tintinnio
delle stoviglie in cucina dove Patrick stava preparando il tè. Non riuscivo a
parlare.
Reza si voltò a guardarmi: – Hai sentito che ho detto, mamma?
– Sì.
– Non volevo che lo sapessi da qualcun altro. Pensavo fosse ora che parlassimo, mi dispiace di non avertelo mai detto prima e mi dispiace se ti ho
messo in imbarazzo.
28
– Non mi hai mai messo in imbarazzo, non pensarlo nemmeno.
Mi sorrise: – Non sono mai riuscito a parlarne. Posso dirti come mi sento?
– Dimmi. Non volevo parlare troppo per paura di scoppiare in lacrime.
Reza chiuse gli occhi e dopo una pausa, incominciò a parlare: – So che Dio
mi ama.
– Ma certo che ti ama, sei una persona buona.
– Ma so anche che ho sbagliato. Fin da piccolo sapevo di non essere come i
miei fratelli. Mi divertivo a giocare con Hafsa e Koelie, le vicine. Te le ricordi?
Non mi interessava correre dietro ad un pallone coi miei fratelli e pensavo non
ci fosse niente di male, almeno fino a che i bambini non incominciarono a
prendermi in giro. Mi piacevano le lezioni di cucina, il cucito e ho sempre
sognato di diventare uno stilista. Poi, a nove o dieci anni, venne a scuola un
nuovo insegnante, il signor Hartzenberg, che ci portò a Kirstenbosch. Alla fine
di novembre, alcuni studenti ebbero l’occasione di andare con lui a Boulders
Beach – fece una pausa. – Cambiò tutto dopo quello.
Sentii uno spasmo nel petto.
– Fu il periodo più brutto della mia vita. Sapevo di aver fatto una cosa terribile, ma allo stesso tempo sapevo anche di non potermi fermare e di non
poterlo dire a nessuno, nemmeno ai ragazzi come me. Loro avevano già i loro
demoni da combattere. È stato allora che ho iniziato a parlare a Dio, lo supplicavo, lo pregavo. Avevo la testa sempre poggiata sul tappetino per pregare
e quando la sollevavo cominciava a girarmi. Ogni giorno mi svegliavo e pensavo che sarebbe stato il giorno della svolta, ma rimaneva tutto invariato.
I miei sentimenti non sono mai cambiati. È stato Dio a darmeli, mamma, sono
nati con me.
Ecco, era tutto chiaro ed evidente adesso: non era stata una sua scelta, era
stato Dio a crearlo così. Se Dio era il Creatore, il Pianificatore, l’Onniscente,
che poteva farci mio figlio? Era con questo che avevo combattuto durante le
mie sedute dal consulente psicologico, con la mia zona sconosciuta, con la
mia rabbia. Si può parlare di geni e genetica o di qualche vecchio zio ormai
morto al quale piacevano i ragazzi, ma alla fine si riduce tutto a Dio.
– La preghiera è l’unica cosa che può aiutarti – gli dissi.
– Aiutarmi a vivere o a morire?
Fu l’unico indizio della sua rabbia. Dopotutto, era credente e non sarebbe
mai stato incostante con Dio come lo ero io.
– So che è dura per la mamma. Gli amici. La famiglia. Cose del genere non
rimangono un segreto. Un’altra cosa che volevo dirti è che ho stipulato una
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polizza assicurativa di ventimila rand sulla vita due anni fa, non molto.
Tu e Patrick siete i beneficiari.
– Una polizza? Perché? Non succederà niente. Ero sorpresa che avesse fatto
una cosa simile. Di denaro non ne avevano mai avuto molto. Ero stata lì abbastanza volte a vedere i loro documentari per capire dove finivano i soldi.
– Dobbiamo parlare di queste cose. Lo dico alla mamma solo adesso, ma
convivo con l’Aids da un po’ di tempo ormai.
Lasciai cadere la mano che gli avevo poggiato sulla spalla.
– Da quanto tempo?
– Quasi un anno – fece una pausa. – Non l’ho mai detto ai gemelli se non
recentemente. Non volevo credere di essere ammalato e non volevo coinvolgere nessuno. Ma ora l’accetto, so che peggiorerò. Mi guardò negli occhi e
aggiunse: – La mamma lo sapeva che sono gay?
– Sì. Non volevo entrare nei dettagli di come lo sapessi e da quando, né volevo parlare di come mi faceva sentire, avevo piuttosto un’altra domanda da fargli, una che mi balenò in testa all’improvviso: – Ti piacerebbe tornare a casa?
Non mi rispose.
– Hai sentito che ho detto?
– Sì. Ci ho fatto un pensiero una volta, ho pensato che se mi fossi aggravato, non mi sarebbe dispiaciuto stare a casa con mia madre.
Le sue parole mi commossero. – Perché non puoi tornare?
– Non c’è un motivo. È solo che non posso farlo ora. Patrick sarebbe perso
senza di me.
– Può venire anche lui.
– Sgranò gli occhi ed esclamò: – Davvero?
– Abbiamo tre stanze, ricordi? Puoi stare nella tua vecchia cameretta e
Patrick nell’altra.
Mi abbracciò e mi disse: – Ti voglio bene, mamma.
– Ti voglio bene anch’io.
Non l’avevo mai detto a nessuno dei miei figli. Non credo che le madri della
mia generazione dicano queste cose, però le sentiamo. Nonostante tiriamo
loro le orecchie, li amiamo più di quanto le parole riescano a esprimere.
Patrick doveva aver capito che avevamo finito il nostro discorso madre-figlio,
poiché entrò dalla porta, poggiò sul tavolo un vassoio col tè e i pasticcini e porse
due pillole a Reza. Mi commosse vedere quella tenerezza tra loro. Mi ero sempre detta che Patrick era solamente un coinquilino, rendeva le cose più semplici,
ma in realtà era molto più. Mio figlio aveva trovato un sostegno molto solido.
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Me ne andai dopo mezzanotte e mi sentivo irrequieta. Patrick mi aveva detto
altro accompagnandomi alla macchina, cose che lo preoccupavano. Lo ascoltai
e, dopo averlo salutato, mi diressi dritta al casinò. Non avevo soldi con me, così
andai al bancomat a ritirare trecento rand. Il casinò era colmo di gente e nessuno
fece caso ad una donna con pantaloni larghi di cotone ed un velo nero.
Mi guardai intorno alla ricerca di una cameriera, ordinai una coca grande con
una fettina di limone e mi misi comoda davanti ad una macchinetta “doppio
forziere”. Inserii la mia tessera, la caricai con una banconota da cento e spinsi il VIA. Al terzo giro, un sette rosso e due doppi forzieri si allinearono, allora schiacciai il pulsante “ruota della fortuna” che si fermò sul tre. Sedevo di
fronte alla macchinetta e la fissavo senza un briciolo di eccitazione. Non sapevo che avrebbe solo preso, senza dare nulla in cambio?
Ero già in piedi quando qualcuno del personale tornò col mio assegno da millequattrocentoquaranta rand.
Ero rimasta lì dentro per venti minuti, avevo fatto irruzione nel casinò e me
ne ero andata con altrettanta furia.
– Quella sera, tornata a casa, non riuscii a pregare, così mi lavai i denti e me
ne andai a letto. Non mi veniva sonno e mi giravo e rigiravo da un lato all’altro. Avevo ancora in mente la mia conversazione con Patrick.
– Le medicine sono molto care, signora A.
– Ha l’assistenza sanitaria?
– No. Devo anche dirle cosa ha detto il medico. Reza non l’ha detto, ma è
ad uno stadio avanzato della malattia.
– Che intendi per “avanzato”?
A questo punto Patrick non riusciva a trovare le parole e io non lo forzai.
Il pomeriggio successivo chiamai il mio ex marito al lavoro: – Braima, puoi
venire qui? Si tratta di Reza.
La mia calma, al suo arrivo, mi meravigliò e riuscii ad andare dritta al punto:
– Sono andata a trovare Reza la sera scorsa. Ha l’Aids. Mi guardò a bocca aperta e poi disse: – Ya Allah, Beeda, che razza di modo è di iniziare un discorso.
– Lo sa da un anno, ma ha deciso di dirmelo solo adesso. È grave, è ad uno
stadio avanzato.
Camminò intorno al tavolo e mi chiese: – Sei seria? Ha l’Aids?
– Va’ a trovarlo e non avrai bisogno di farti convincere. Gli versai una tazza
di tè e gli offrii un biscotto.
Si mise a sedere e aggiunse: – Dove vive?
– Dove è sempre stato, in High Level Road, in quell’edificio color beige
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sulla sinistra, appena ti immetti da Strand Street. C’è molto parcheggio da
quelle parti.
– Vive da solo o con qualcuno?
– Vive con Patrick, girano documentari.
– Patrick?
– Il suo ragazzo.
Sollevò lo sguardo dalla tazza e mi guardò: – È disgustoso.
– Beh, fattene una ragione. Dovrai farti forza.
– Credi sia facile per me andare lì e vedere mio figlio che vive con un altro
uomo?
– Qui non si tratta di te, Braima, ma di lui.
– Si tratta di Dio, Beeda!
Volevo urlare. – Sempre Dio, vero? Beh, Non c’è tempo per giocare ai santarellini, ha l’Aids per davvero. Mi serve il tuo aiuto, non peggiorare le cose.
– Che suggerisci di fare?
– Non lo so. Prova a capire cosa sta passando. Ha bisogno di noi. Mi ha detto
un sacco di cose la sera scorsa, ha parlato di Dio e di come si è sentito.
Non ha chiesto lui di essere gay, non se la sarebbe scelta da solo questa vita.
È stato Dio a crearlo così. Mi ha parlato dei suoi sentimenti.
– Ti ha detto tutte queste cose?
– Sì. E Patrick mi ha detto altro accompagnandomi alla macchina. Ha tirato
fuori il discorso dei farmaci. Le pillole sono costose e non ha assistenza sanitaria. Sto pensando di convocare una riunione familiare.
– Chiederai aiuto ai ragazzi?
– È il fratello.
Bevve un sorso di tè e rimase in silenzio per lungo tempo, poi bofonchiò:
– Dimmi come posso essere d’aiuto. Ma, sai, in tutti questi anni non mi ha
mai invitato o chiamato.
– Tu l’hai chiamato?
– No.
Avrei potuto avere qualcosa da ridire su quell’argomento, ma decisi di non
indisporlo. – Anch’io ho avuto difficoltà all’inizio, ma non ho perso i contatti. Non aspettavo che fosse lui a chiamarmi, benché sia venuto più lui da me
che io da lui. Sai come sono i ragazzi, hanno un non so che con la madre e
magari pensano che il padre li giudichi.
Si guardò le mani e disse: – Avremmo potuto evitare tutto questo? Voglio dire,
se ne vedono talmente tanti in TV e per strada. Nostro figlio è davvero così?
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Lo lasciai provare i sentimenti che doveva senza interrompere il discorso.
Anch’io avevo provato la stessa impotenza molte volte. Lo accompagnai alla
macchina e gli feci notare: – Non è qualcosa che potevamo evitare, Braima.
Non è colpa di nessuno. È un bravo figlio.
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Finito di stampare nel Novembre 2007
presso la Tipografia Mancini s.a.s.
Tivoli (Roma)