prima lingua - Del Vecchio Editore

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prima lingua - Del Vecchio Editore
Ciaran Carson
PRIMA LINGUA
a cura di
Marco Federici Solari e
Lorenzo Flabbi
Ciaran Carson, Prima lingua
Titolo originale: First Language
First published by The Gallery Press, Loughcrew, Oldcastel,
County Meath, Ireland, November 1993
Copyright © Ciaran Carson, 1993
Copyright © Del Vecchio Editore, 2011
Editing: Paola Del Zoppo, Vittoria Rosati Tarulli
Redazione: Vittoria Rosati Tarulli
Grafica e impaginazione: Dario Lucarini
www.delvecchioeditore.it
www.myspace.com/delvecchioeditore
ISBN: 978–88–6110–018–3
c o l l a n a > p o e s i a
INTRODUZIONE
BELFAST/BABELE
Forse è la distanza di una lingua imposta da secoli, nei secoli della
storia moderna e non in quelli indefiniti e preistorici di un’origine
mitica, lo scollamento dai paesaggi, dalle espressioni intime, dai
toponimi che dicono di un altro parlare antico e mai estinto ad
avere fatto dell’Irlanda un paese di giocolieri di parole, rimasticatori di parlate, artigiani di ecolalie che riverberano significati
in ogni direzione (una tradizione che va dai nonsense jingles delle
ballate all’oralità di un Roddy Doyle passando per Joyce e Flann
O’Brien). Una libertà che nasce dalla cattività, da una storia violentemente divenuta dominio e storiografia straniera, in cui l’inglese, soprattutto dalla nascita della Repubblica d’Irlanda e dalla
dolorosa e definitiva separazione dell’Ulster, è sempre, consapevolmente, anche una lingua non propria, impropria, potenzialmente dimentica (o addirittura strumento di oblio) di una cultura
nazionale che, fino a un passato relativamente recente, si è espressa unicamente in altre lingue: il gaelico della tradizione celtica e
il latino di quella ecclesiastica.
È da questa consapevolezza che sembrano muovere le ragioni
più intime della poesia di Ciaran Carson, nato a Belfast nel 1948
in una famiglia cattolica, cresciuto nell’alveo del Belfast Group,
laboratorio di scrittura e discussione di poesia fondato nel 1962 da
Philip Hobsbaum, cui parteciparono le maggiori voci poetiche
nordirlandesi del dopoguerra (Seamus Heaney, Michael Longley,
Derek Mahon, Paul Muldoon, James Simmons e altri), esecutore e
studioso di musica tradizionale, autore di testi in lingua inglese,
ma madrelingua gaelico.
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Nel presente libro, vincitore del T.S. Eliot Poetry Prize nel 1993,
Carson compone uno spartito per suoni e visioni, trascrivendo il
formarsi di un linguaggio poetico che diventi “prima lingua”. Il
suo inglese è dunque “eseguito”, lasciato intravedere e ascoltare
nello stato meravigliato e infantile di una lingua appresa, naturale
solo nei tecnicismi del gergo marinaro, a tratti paludosa e ribollente (i blop, blub, blah e bobbled che costellano il testo per comporsi in una ballad). Non solo tra il poeta e la sua lingua, ma anche tra il poeta e il suo complesso caleidoscopio di riferimenti
dotti (ibridati e trivializzati attingendo a una gamma ironica a intensità variabile), c’è come un’interferenza: lo sfarfallante ronzio
di altre lingue, parlate, lette, suonate e cantate. Il gaelico, certo,
ma anche il latino di Ovidio e quello della Vulgata, con l’irresistibile forza attrattiva di una traduzione che è riuscita ad assumere
lo statuto di testo sacro, e soprattutto l’hiberno–english, ossia l’inglese spurio, canagliesco e ritmato delle ballate irlandesi che Carson ha utilizzato per cimentarsi in una personalissima versione
dell’Inferno di Dante. Questo inglese con le interferenze, sfarfallante, sminuzzato in monosillabi e fonemi che si rincorrono, che
sciamano da un’immagine a un’altra, dalla Frigia a Babilonia, incontrando ai posti di blocco della frontiera nordirlandese soldati
che si profilano come mummie egiziane dal volto pitturato, è la
“prima lingua” che dà il titolo alla raccolta.
Dopo il proemio della poesia d’amore in gaelico, a cui il poeta
appone ironicamente lo spiazzante titolo francese La Je–Ne–Sais–
Quoi, il sipario si apre eloquentemente su un tempo preciso, che
riverbererà a lungo per tutto il testo: l’incuriosito sgomento neonatale, quando l’inglese non si componeva ancora in una sequenza di parole di senso compiuto, ma piuttosto cadeva a pioggia in
una mente “sorda come un embrione”, rivelando a poco a poco le
sue preziose sonorità. La nascita della lingua sarà interrogata a
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più riprese nella raccolta, soprattutto nella declinazione di due
fondativi miti cristiani: la Natività, intesa anche come apparizione
mondana del Logos, e la Torre di Babele, parola, quest’ultima, che
Carson fa vibrare, più che rimare, con Bibbia, come se i due termini della paronomasia Babel – Bible fossero corde di un fiddle
che suonano all’unisono. Ed ecco allora, parallelo alle riflessioni
sulla condizione del DOPO Babele, emergere anche il tentativo di
soffermarsi sull’attimo DURANTE Babele, come nel quadro di Bruegel il Vecchio citato nella poesia Contratto, dove lo sconcerto per
la maledizione divina convive con lo stupore per i nuovi suoni
che si sentono nascere nella bocca.
Per questo in Carson, come nella tradizione favolistica, sembra
che tutto abbia il dono della parola, di una parola che non descrive le cose, ma le riconosce solo come altri elementi del linguaggio («Son sgorbi in tubetti, le cose; come colla o vernice
estrusa, diventata/un alfabeto geroglifico [...]»). Il poeta ha di
fronte a sé una realtà malleabile e scorrevole, in cui gli oggetti
mutano di continuo per l’omofonia dei loro nomi, le parentele lessicali, le contiguità armoniche. Questa realtà instabile, tutta fonetica e soggetta al perenne mutamento del succedersi fluido delle
parole, è, non a caso, imparentata con l’ininterrotto tessuto mitologico–letterario che compone le Metamorfosi di Ovidio, tradotte
direttamente o rievocate implicitamente in molti punti topici del
testo. È, infatti, l’attenzione alla materia sonora della parola, al
livello pre e infra–linguistico di puro ascolto musicale a spingere
Carson verso la traduzione e l’imitazione poetica. Gli albatri honteux di Baudelaire, per esempio, diventano così, per puro calco
omofonico, le ali che haunt: ossessionano l’“imperatore dell’azzurro” vessato dai marinai, ostacolandone il cammino in un atroce
tradimento. E il potere evocativo dei morfemi si può addirittura
amplificare quando essi, non compresi, si riducono a puro suono,
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spogliandosi dell’unicità coatta di un significato esclusivo. Ecco
allora che anche un’espressione straniera, come il polacco tak tak,
può produrre un deragliamento associativo d’immagini che toccherà
al soggetto lirico plasmare e incanalare in una forma poetica.
La costitutiva ambiguità del linguaggio si arricchisce qui di
un’ambizione sonora, quale quella di un significante che copra ed
esprima contemporaneamente tutti i significati di un termine, stipandoli in una compressione in cui, grazie a un sapiente utilizzo
della sintassi, convivano sensi propri, usi idiomatici, riferimenti
letterari e accezioni gergali. Con divertita spregiudicatezza, cultura
alta e immaginario pop si intersecano in un figurativismo in fibrillazione, un cromatismo di colori sfumanti l’uno nell’altro come
cieli di un’alba perenne. Ma Carson non è semplicemente un raffinato poeta alessandrino, metaletterario e metalinguistico, cristallizzato in una tradizione poetica ignara del proprio tempo. Egli
non dimentica mai di essere un autore nordirlandese, nato e cresciuto a Belfast, che conosce la difficile e tormentata storia del
suo paese. L’instabilità – ludica, tragica o mitica – del suo mondo
è anche quella politica della guerra civile, è sintomo e testimonianza della violenza quotidiana della sua città natale. Si legga
la poesia Sonetto, i suoi quattordici frammenti di vita quotidiana:
in quella lista di annotazioni casuali, di attimi di tempo qualunque, ecco che al tredicesimo verso, poco prima della conclusione
e quasi di sfuggita, si compie il dramma di un’esplosione, inatteso
e shockante, ma anche, nel modo tutto paradossale di chi vive
sotto un perenne stato d’assedio, con una naturalezza estrema e
tanto più inquietante.
In Carson il verde d’Irlanda è un verde militare e il black and
tan non è un comune cocktail di birre chiare e scure, ma piuttosto
il repressivo corpo speciale britannico. Così anche il mare, pur tipicamente irlandese, fatto di porti, baie e insenature, oppure aper-
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to e insondabile come quello dei libri di versi e d’avventura (Rimbaud e Ventimila leghe sotto i mari su tutti), è sempre solcato da
navi galera (dromoni, quinqueremi o la HMS Belfast che chiude la
raccolta). Il conflitto nordirlandese è raramente affrontato in maniera esplicita, ma funge da sottofondo costante al testo, imponendosi ed emergendo nella sua forma più inesplicabile e rumorosa (le esplosioni, appunto) o nel suo aspetto di gioco quasi infantile: i congegni, i meccanismi delle bombe, gli “aggeggi” da
costruire per demolire. Gli intrichi di fili di trame mitologiche, di
orditi di tappeti e tessuti che attirano Carson per la vicinanza con
l’inestricabile groviglio di lingua e di lingue del suo dettato poetico, sono spesso anche fili di detonatori, di ordigni da innescare
o disinnescare (vedi le poesie 58 e Apparat).
O forse il poeta ha solo cercato, trovato e raccolto la lingua che
riecheggiava sospesa nell’aria di polveri e parlate della sua Belfast,
città di porto che, nella poesia onirica che fa da epilogo, diviene
città/nave su cui salpare per una fantasmagoria di viaggi meravigliosi, “battello ebbro” che poi torna a essere quella città/prigione
in cui, scioltisi tutti i colori del sogno nella luce di un’alba grigia,
inevitabilmente ci si risveglia.
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NOTA TRADUTTOLOGICA
Per ciò che concerne l’alternanza tra rime, rime ricche, rime rare,
assonanze e consonanze, ci si è concentrati su una resa ritmica
prendendo come unità di misura ogni singolo componimento e
cercando di rispettarne gli equilibri interni. Un esempio, in Opus
Operandi, nel primo distico della poesia, alla consonanza Belly/Billy corrisponde nel testo italiano la rima kit/Smith, compensata simmetricamente al distico successivo, dove l’assonanza
alcuni/agrumi fa fronte alla rima inglese kith/pith.
Si è cercato di rendere sempre conto degli elementi strutturali,
fossero essi di carattere puramente fonetico o relativi a determinate collocazioni forti dei termini, per esempio mantenendo in
identica posizione le parole di apertura e di chiusura del testo inglese della raccolta, rispettivamente English e Belfast.
Il poeta fa un uso spesso ironico e a volte spiazzante dell’enjambement che, più che altro per le differenti sintassi tra le due
lingue, in alcuni casi rischiava di essere apprezzato in italiano
solo a tratti. Si è dunque cercato di trasporre questa caratteristica
poematica disseminando il testo di inarcature inconsuete, anche
laddove il distico corrispondente proponeva un’uscita pur forte,
ma più normativa. Esempio: i vv. 21–22 de La ballata dell’HMS
Belfast si chiudono in inglese con la coppia flesh, but/halibut e in
italiano con “il loglio le” in rima con “sogliole”.
Infine, laddove i riferimenti culturali avrebbero perso in incisività ed efficacia nel mutato contesto linguistico, ci si è talvolta
avvalsi di equivalenze dinamiche. Per esempio, in Musica di cornamuse il sintagma upstairs in a tent è scelto dal poeta in quanto
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titolo di un reel irlandese tradizionale. Per la resa italiana a testo,
“al piano aprico di lassù”, si è optato per un sintagma dall’analogo
significato, estrapolandolo però dalla Canzone del Piave.
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PRIMA LINGUA
per Deirdre
LA JE–NE–SAIS–QUOI
I bhfaiteadh na súl
I ndorchadas an lae
Bhrúigh do bhéal go tobann
Ar mo bhéalsa
Agus slogadh mé go glan
I gclapsholas domhain do phóige.
I bhfaiteadh na mbéal
I bhfriotal na súl
Fáscadh agus teannadh
Go dtí nach raibh ann
Ach scáth an scátháin eadrainn,
Tocht i do chluais istigh.
Mé i mo thost anois,
Dlaoithe chasta do chainte
Ina luí go dlúth ar urlár snasta,
Mé á scuabadh, mé á scaipeadh
Go béal an dorais,
Séideán beag amuigh.
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SECOND LANGUAGE
English not being yet a language, I wrapped my lubber–
lips around my thumb;
Brain–deaf as an embryo, I was snuggled in my comfort–
blanket dumb.
Growling figures campaniled above me, and twanged their
carillons of bronze
Sienna consonants embedded with the vowels alexandrite,
emerald and topaz.
The topos of their discourse seemed to do with me and convoluted genealogy;
Wordy whorls and braids and skeins and spiral helices,
unskeletoned from laminate geology —
How this one’s slate–blue gaze is correspondent to another’s new–born eyes;
Gentians, forget–me–nots, and cornflowers, diurnal in a
heliotrope surmise.
Alexandrine tropes came gowling out like beagles, loped
and and unroped
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SECONDA LINGUA
L’inglese ancora non era una lingua, così mi sono arrotolato i labbroni attorno al pollice;
dalla mente sorda come un embrione, me ne stavo rannicchiato nella mia muta copertina soffice.
Dall’alto pendeva a campanile un torreggiante borbottio,
vibrava un carillon di bronzee
e terrose consonanti incastonate nelle vocali di alessandriti,
smeraldi e topazi.
Il topos di quel discorso sembrava avere a che fare con me
e con contorte genealogie;
nastrini e spirali e giostrine ed eliche di parole, descheletrate da una laminata geologia —
oh, quanto questo azzurro sguardo d’ardesia concorda con
altri occhi di bebè;
in una congettura di eliotropio, diurni fiordalisi, genziane,
nontiscordardimé.
Si sguinzagliarono tropi alessandrini a frignare ringhiando
come una muta
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On a snuffly Autumn. Nimrod followed after with his bold
Arapahoes,
Who whooped and hollered in their unforked tongue. The
trail was starred with
Myrrh and frankincense of Anno Domini; the Wise Men
wisely paid their tariff.
A single star blazed at my window. Crepuscular, its acoustic
perfume dims
And swells like flowers on the stanzaic–papered wall. Shipyard hymns
Then echoed from the East: gantry–clank and rivet–ranks,
Six–County hexametric
Brackets, bulkheads, girders, beams, and stanchions; convocated and Titanic.
Leviathans of rope snarled out from ropeworks: disgorged
hawsers, unkinkable lay,
Ratlines, S–twists, plaited halyards, Z–twists, catlines; all
had their say.
Tobacco–scent and snuff breathed out in gouts of factory
smoke like aromatic camomile;
Sheaves of brick–built mill–stacks glowered in the sulphur–
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di cani lungo un autunno dal naso chiuso. A seguire, Nimrod con una schiera risoluta
di Arapaho ululanti in grida di lingua non biforcuta. Il sentiero era costellato
di mirra e incenso dell’Anno del Signore; i Re Magi pagarono regalmente il loro tributo.
Una stella solitaria brillava alla mia finestra. Il suo profumo
acustico, crepuscolare
si smorza e si accende come fiori sul muro tappezzato di
strofe. Inni da cantiere navale
allora echeggiarono da est: sferragliare di gru e file di ribattini, beccatelli esametrici
delle Sei–Contee, paratie, travature, stanghe e puntelli; convocati e titanici.
Leviatani di corda ringhiavano da grovigli di reti: scaricati
gherlini, inestricabili commettiture,
griselle, cordoni a S e a Z, drizze intrecciate, rande metalliche: tutti con qualcosa da dire.
Gocce di fumo dall’odore di tabacchi sbuffavano come camomilla aromatica dalla fabbrica;
pulegge delle ciminiere in mattoni scintillavano come cam21
mustard fog like campaniles.
The dim bronze noise of midnight–noon and Angelus then
boomed and clinked in Latin
Conjugations; statues wore their shrouds of amaranth; the
thurible chinked out its smoky patina.
I inhaled amo, amas, amat in quids of pros and versus and
Introibos
Ad altare Dei; incomprehensibly to others, spoke in Irish. I
slept through the Introit.
The enormous Monastery surrounded me with nave and architrave. Its ornate pulpit
Spoke to me in fleurs–de–lys of Purgatory. Its sacerdotal
gaze became my pupil.
My pupil’s nose was bathed in Pharaonic unguents of dope
and glue.
Flimsy tissue–paper plans of aeroplanes unfolded whimsical ideas of the blue,
Where, unwound, the prop’s elastic is unpropped and balsa–
wood extends its wings
Into the hazardous azure of April. It whirrs into the realm
of things.
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panili nella senape sulfurea della nebbia.
Allora tuonò e tintinnò in coniugazioni latine il fosco frastuono dell’Angelus e della mezza notte–giorno;
le statue erano ammantate di sudari amaranto; l’incensiere
scampanellò il suo fumoso contorno.
Inalavo cantilene di amo, amas, amat in spiccioli di pro e
versus e Introibo
ad altare Dei; incomprensibilmente per gli altri, parlavo irlandese. Dormivo
durante l’introito. L’enorme monastero mi circondava con
navate e architravi. L’adorno pulpito
mi parlava in gigli di purgatorio. Il suo sguardo sacerdotale
divenne la mia pupilla.
In un lavacro di faraonici unguenti di droga e colla s’immergeva il mio naso di studente.
Aeroplani di fragili piani in carta velina dispiegavano del
cielo idee stravaganti,
dove si sdipana l’elastico dell’elica spuntellata e del legno
di balsa, sono estese
le ali nel periglioso azzurro d’aprile, frullando nel reame
delle cose.
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Things are kinks that came in tubes; like glue or paint extruded, that became
A hieroglyphic alphabet. Incestuous in pyramids, Egyptians
were becalmed.
I climbed into it, delved its passageways, its sepulchral interior, its things of kings
Embalmed; sarcophagi, whose perfume I exhumed in chancy versions of the I–Ching.
A chink of dawn was revelated by the window. Far–off
cocks crowed crowingly
And I woke up, verbed and tensed with speaking English;
I lisped the words so knowingly.
I love the as–yet morning, when no one’s abroad, and I am
like a postman on his walk,
Distributing strange messages and bills, and arbitrations
with the world of talk:
I foot the snow and almost–dark. My shoes are crisp, and
bite into the blue–
White firmament of pavement. My father holds my hand
and goes blah–
Blah with me into the ceremonial dawn. I’m wearing tweed.
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Son sgorbi in tubetti, le cose; come colla o vernice estrusa,
diventata
un alfabeto geroglifico. Incestuosi nelle piramidi, gli egiziani furono placati.
Mi ci arrampicai, ne rovistai i corridoi, gli interni sepolcrali,
i ghingheri
di re imbalsamati; sarcofagi, di cui riesumai il profumo in
incerte versioni dell’I Ching.
La finestra rivelò uno spiraglio d’aurora. Mi svegliai al
canto di galli in lontananza,
verbato e coniugato nell’inglese, parole pronunciate con
blesa padronanza.
Amo quando ancora non è ancora mattina, non c’è nessuno
in giro, e io vado come un postino,
in un mondo di conversazioni a distribuire bollette, arbitrati
e strane cartoline.
Cammino sulla neve nella quasi oscurità. Le scarpe scricchiolano, mordono nel bianco–
celeste firmamento del marciapiede. Mio padre mi tiene la
mano e prosegue il suo bla–
bla con me nell’aurora rituale. Ho un abito di tweed. L’uni25
The universe is Lent
And Easter is an unspun cerement, the gritty, knitty, tickly
cloth of unspent
Time. I feel its warp and weft. Bobbins pirn and shuttle in
Imperial
Typewriterspeak. I hit the keys. The ribbon–black clunks
out the words in serial.
What comes next is next, and no one knows the che sera
of it, but must allow
The Tipp–Ex present at the fingertips. Listen now: an angel
whispers of the here–and–now.
The future looms into the mouth incessantly, gulped–at and
unspoken;
Its guardian is intangible, but gives you hints and winks
and nudges as its broken token.
I woke up blabbering and dumb with too much sleep. I
rubbed my eyes and ears.
I closed my eyes again and flittingly, forgetfully, I glimpsed
the noise of years.
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verso è Quaresima
e Pasqua è un sudario non filato, la veste ruvida, granulosa,
pizzicante dell’ennesima
stagione non spesa. Ne sento l’ordito, la trama. Nel parlato
della macchina da scrivere
i rocchetti fanno la spola. Batto sui tasti. Il nastro dell’Imperial tamburella in serie le lettere.
Ciò che viene dopo è dopo, e nessuno ne conosce il que sera,
ma talora
avrà pur bisogno del bianchetto. Ora ascolta: un angelo
sussurra di qui–e–ora.
Senza sosta il futuro incalza nella bocca, sussultato e non
espresso; è sorvegliato
da un guardiano che non puoi toccare, ma ti dà indizi, allude e ammicca come il suo pegno frantumato.
Mi svegliai blaterando e muto per il troppo sonno. Mi stropicciai occhi e orecchie.
Richiusi gli occhi e in uno svolazzo immemore intravidi il
rumore del sapermi più vecchio.
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A DATE CALLED EAT ME
The American Fruit Company had genetically engineered a
new variety of designer apple,
Nameless as yet, which explored the various Platonic ideals
of the “apple” synapse.
Outside the greengrocer’s lighted awning it is dusky Hallowe’en. It is
Snowing on a box of green apples, crinkly falling on the
tissue paper. It is
Melting on the green, unbitten, glistening apples, attracted
by their gravity.
I yawned my teeth and bit into the dark, mnemonic cavity.
That apple–box was my first book–case. I covered it in
wood–grain Fablon —
You know that Sixties stick–on plastic stuff? I thought it
looked dead–on:
Blue Pelicans and orange Penguins, The Pocket Oxford English Dictionary;
Holmes and Poe, The Universe, the fading aura of an apple
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APPUNTAMENTO CON IL SAPORE
L’American Fruit Company aveva creato una varietà di
mela griffata in laboratorio.
Era ancora senza nome, ma delle idee platoniche della sinapsi “mela” perlustrava l’intero repertorio.
L’insegna del fruttivendolo illuminava un Halloween cupo.
C’è neve che
cade su una cassetta di mele verdi, crepitando sulla carta
velina. C’è neve che
si scioglie sulle verdi, inaddentate, luccicanti mele, attratta
dalla loro gravità.
Spalancai i denti e morsi nella mnemonica oscura cavità.
La mia prima libreria è stata quella cassetta delle mele. La
foderai con fogli Fablon color legno.
Sai quella carta adesiva degli anni Sessanta? Me ne piaceva
da pazzi il disegno:
Pelican blu e Penguin arancioni, il Pocket Oxford English
Dictionary;
Holmes e Poe, The Universe, l’aura sbiadita di una mela
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named Discovery —
I tried to extricate its itsy–bitsy tick of rind between one
tooth and another tooth,
The way you try to winkle out the “facts” between one truth
and another truth.
Try to imagine the apple talking to you, tempting you like
something out of Aesop,
Clenched about its navel like a fist or face, all pith and pips
and sap
Or millions of them, hailing from the heavens, going pom,
pom, pom, pom, pom
On the roof of the American Fruit Company, whose computer banks are going ohm and om.
They were trying to get down to the nitty–gritty, sixty–
four–thousand dollar question of whether the stalk
Is apple or branch or what. The programme was stuck.
The juice of it explodes against the roof and tongue, the
cheek of it.
I lied about the Fablon, by the way. It was really midnight
black with stars on it.
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chiamata Discovery.
Provai a districarne un minuscolo pezzo di buccia incastrato tra i denti,
così come, incastrati tra le verità, si provano a cavar fuori
gli “eventi”.
Prova a immaginare che la mela ti parli, come uscita da
Esopo ti induca alla colpa,
stretta attorno al suo ombelico come pugno o grugno, tutta
semi e linfa e polpa,
o che a milioni cadano dal cielo come grandine, e facciano
pom, pom, pom, pom, pom,
sul tetto dell’American Fruit Company, sui suoi computer
che fanno ohm e om.
Il programma si era impallato nel cercare di arrivare al
nocciolo
della questione: se sia già mela o ancora ramo o cos’altro,
il picciolo.
Il succo esplode sul palato e sulla lingua, un’impudente
sbrodolata.
Ad ogni modo, ho mentito sul Fablon. Era di un nero mezzanotte, una carta stellata.
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Finito di stampare nel Settembre 2011
presso la Tipografia Mancini s.a.s.
Tivoli (Roma)