storia di un grande uomo
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storia di un grande uomo
UNA VITA DAI TONI FORTI: la storia di Vittorio Jano A quarant’anni dalla morte, ritratto di uno dei più grandi progettisti automobilistici italiani “Noto progettista di auto da corsa si uccide con un colpo di pistola” titolava “La Stampa” di Torino il 14 marzo 1965, accanto alla notizia che un muratore licenziato si era impiccato in cantina. “Il comm. Vittorio Jano, uno dei più noti progettisti di auto da corsa, si è ucciso ieri mattina nella sua abitazione, in via Fratelli Carle 12, con un colpo di pistola”. Non lasciò né biglietti, né spiegazione alcuna. Il suicidio è un gesto quasi sempre difficile da capire, talvolta visto come un atto di coraggio, talvolta di vigliaccheria: un gettare la spugna, o un riaffermare il predominio della propria vita, al punto da deciderne la fine. “Ha vissuto da forte e da forte ci ha lasciato – scrisse di lui Enzo Ferrari – Non fui stupito della ferrea coerenza con la quale concluse la sua esistenza, e gli ho ammirato anche quel gesto, che considero di supremo coraggio”. Ma coerenza con cosa? Aveva lavorato per le più grandi case automobilistiche italiane, nessuna esclusa: la Fiat, l’Alfa Romeo, la Lancia, la Ferrari. In ognuna aveva progettato vetture straordinarie, la sua era stata una carriera inarrestabile. Non aveva certamente preoccupazioni finanziarie. Poteva godersi una vecchiaia serena (aveva 74 anni), accanto alla moglie Rosina, e lo stesso lancinante dolore della perdita dell’unico figlio Francesco, più di venti anni prima, si era stemperato nella dolcezza del ricordo. Forse fu un gesto dettato dalla paura di una morte incombente. O dal terrore della sofferenza, dopo aver visto un fratello spegnersi in una dolorosa e lunga malattia. Eppure, rimane qualcosa di sospeso, com’è ovvio di fronte ad una decisione tanto (apparentemente) repentina, irrimediabile, spietata verso se stessi e verso chi ci circonda. La coerenza di cui parla Ferrari suppone un gesto con una sua logica interna, direttamente correlato alla sua vita, agli infiniti gesti che avevano composto i suoi anni precedenti. Egli parla a ragion veduta, tra lui e Jano si era stabilito un legame lungo quarant’anni. E’ storia nota che fu proprio Ferrari a causare il passaggio di Jano dalla Fiat all’Alfa Romeo nel 1923, fu per la Scuderia Ferrari che Jano progettò le sue migliori vetture, la P2 e la P3 tanto per citare, e con Ferrari Jano si ritrovò ancora, come consulente, dopo essere uscito dalla Lancia. Li accomunavano molte cose: l’aver assistito entrambi alla morte di un figlio, una scontrosità istintiva, la coscienza del proprio valore, una vita fatta di dissidi e polemiche anche profonde. 1 Ecco, in questi scontri, che lo videro di volta in volta interagire o contrapporsi con i maggiori protagonisti della progettazione automobilistica del primo novecento (Giulio Cesare Cappa, Luigi Bazzi, Gioachino Colombo, Enzo Ferrari, Guido Fornaca, Luigi Fusi, Alberto Massimino, Giuseppe Merosi, Wilfredo Ricart, Ettore Zaccone Mina ed altri) forse sta il segreto della sua vita, e di come si concluse. Il primo periodo della vita professionale di Jano si svolse a Torino, dov’era nato nel 1891. Dopo essersi diplomato all’Istituto Professionale Operaio (non arrivò mai alla laurea, neanche honoris causa) era entrato nel 1909 alla Rapid (vedi Auto d’Epoca luglio/agosto 2001) e nel 1911 fu assunto dalla Fiat come “disegnatore medio”, poi disegnatore progettista ed infine progettista capogruppo, con cinque o sei disegnatori sotto di lui. Aveva un bel talento, tanto da fare un’ottima impressione all’ing. Fornaca, allora direttore tecnico Fiat, che lo notò fin dal primo colloquio. D’altronde proveniva da una famiglia che aveva la meccanica nel sangue, essendo suo padre capotecnico all’Arsenale di Torino. A diciott’anni aveva già una motocicletta, “che allora era cosa rara…avevo già la passione, si nasce con la passione”, dirà di sé molti anni dopo Jano stesso. Fornaca lo inserì nell’Ufficio Tecnico diretto da Cavalli, dove partecipò ai progetti di tutte le vetture da turismo dell’epoca, la 501, la 505, la 510. In un secondo tempo prese anche parte alla progettazione delle vetture da corsa. Carlo Cavalli, avvocato, di tredici anni più anziano di Jano, rimase indelebilmente nel ricordo del progettista. In una celebre intervista rilasciata nell’estate del 1964 al giornalista e storico dell’automobile californiano Griffith Borgeson, Jano definisce Cavalli come la persona da cui aveva più imparato, i cui insegnamenti gli erano restati dentro per tutta la vita. Effettivamente quella di Cavalli è una figura bizzarra e poco conosciuta. Laureatosi in giurisprudenza, più per compiacere la famiglia che per reale propensione, già nell’aprile del 1900, a ventidue anni, depositò un brevetto per un cambio di velocità destinato a vetturette e tricicli automobili, e cinque anni più tardi entrò in Fiat, come “allievo disegnatore”, ossia con la mansione di lucidare i disegni. Avendo come maestri tecnici eccellenti come gli ingegneri Enrico, Vinçon e Momo, il suo tirocinio fu breve, e nel 1906 era già disegnatore progettista (come si vede, le stesse tappe che seguì il suo allievo qualche anno più tardi). Gli fu affidato il compito di sviluppare il progetto del motore della vettura da corsa che, nel 1907, andò a vincere la Coppa dell’Imperatore, in Germania, sul circuito del Taunus. Un successo straordinario, dovuto in gran parte ad un errore che Cavalli si guardò bene dal far rilevare ai suoi superiori. Ecco le sue parole: “Allora si considerava come limite insuperabile il grado 5 2 (ossia il rapporto, nda) di compressione; nel calcolo dimenticai di aggiungere al volume della cilindrata quello della camera di scoppio, ciò che fece salire a sei il grado di compressione con il risultato pratico che il motore girò senza danni alla velocità pazzesca, per quei tempi, di 2700 giri, sviluppando 150 cavalli pur con l’accensione a bassa tensione e con candele a martelletti”. Nel 1910 passò capo ufficio e divenne responsabile della Zero, che rappresentò una svolta produttiva ed un successo commerciale di portata internazionale. Nel 1911, l’anno di assunzione di Jano, alla Fiat si progettava di tutto: dai sommergibili ai tram, dai motori d’aeroplani alle mitragliatrici, dai camion alle vetture da turismo, come la 501, che uscì sul mercato nel 1919 e che fu definita da Cavalli “il mio miglior lavoro”. Come premio per la 501 fu spedito in America, a studiare i sistemi di produzione Ford, e quando tornò, sono le sue parole “diventato direttore tecnico studi, mi trovai alla testa di un ufficio che cominciava a soffrire di elefantiasi, zeppo di ingegneri, di capi e vice capi ufficio con reparti A, B, C, con rapporti di sezione, rapporti di direzione ecc.” Tra questi c’era anche Jano, che cominciava ad accumulare esperienze e conoscenze. Tanto più che l’Ufficio Tecnico di Cavalli, sottoposto unicamente a Fornaca e ad Agnelli, si lanciava in sperimentazioni coraggiose, come il motore della vettura per il I Gran Premio d’Italia del 1921 che “servì di banco di prova ai cuscinetti a rulli che osai applicare per la prima volta ai cuscinetti dell’albero motore e delle bielle di un motore da corsa”. (sono ancora le parole di Cavalli). Arrivò quindi una vittoria straordinaria: quella del Grand Prix di Francia a Strasburgo nel 1922, pilota Nazzaro, con la 804/404, che consacra la Fiat come “il” costruttore dell’anno. Eppure, proprio a partire da quella magnifica prestazione l’Ufficio Tecnico che l’aveva prodotta cominciò a sfaldarsi. Ne facevano parte, oltre a Jano, molti altri tecnici di grande valore, come Tranquillo Zerbi, Giulio Cesare Cappa, Luigi Bazzi, Walter Becchia, Vincenzo Bertarione. Indicativa la storia di quest’ultimo, che in virtù del suo contributo alla vittoria a Strasburgo osò chiedere un aumento. Gli fu risposto che quello no, non era possibile: ma una medaglia, sì. A Bertarione le medaglie al valore non interessavano ancora, e non perse tempo ad accettare una ottima proposta giuntagli dalla Sunbeam-Talbot-Darracq di Suresnes, in Francia, per tramite del suo ex collega Edmondo Moglia, che aveva lasciato la Fiat già cinque anni prima. La proposta consisteva in uno stipendio semplicemente raddoppiato, e un premio d’entrata pari a un anno del suo nuovo salario. E prima di andarsene convinse un altro collega, Walter Becchia, a seguirlo. La vicenda di Bertarione, come vedremo, ebbe molti punti simili a quella di Jano, di un anno dopo, anche nei suoi risvolti più spiacevoli. Vincenzo Bertarione e Walter Becchia si 3 misero alacremente al lavoro e nel giro di sei mesi ecco pronta la nuova Sunbeam Grand Prix, che esordì il 2 luglio 1923 al Grand Prix dell’Automobile Club de France in gara a Tours. Una gara combattutissima da 16 concorrenti, tra cui tre Fiat 805. A tre giri dalla fine il colpo di scena: la vettura in testa, la Fiat di Salamano, rimase senza benzina (l’applicazione del compressore, novità mondiale, aveva aumentato i consumi a dismisura) e la corsa terminò con tre vetture della marca inglese tra le prime quattro arrivate, piloti Segrave, Divo e Guinness. Un trionfo, per Bertarione! Uno smacco intollerabile, per l’Italia, i cui giornali sportivi arrivarono ad insinuare che Bertarione era uscito dalla Fiat con i progetti sotto il braccio, che le Sunbeam non erano altro che Fiat verniciate di verde. All’Ufficio Tecnico della Fiat la diaspora continuava: nell’estate del 1923 se ne era andato anche Luigi Bazzi, specialista di motori, su “istigazione” di Ferrari, all’epoca pilota e collaboratore all’Alfa dal 1920. Deus ex machina dell’azienda milanese era Giorgio Rimini, responsabile commerciale e sportivo, che aveva dato al giovane Ferrari, che per l’Alfa Romeo correva…e trafficava, un incarico a suo modo preciso: “Ferrari, dove c’è della gente competente, portala via con tutti i mezzi tollerabilmente leciti…”. Ferrari aveva iniziato con Bazzi, che durante la gara di Tours aveva avuto uno screzio con Fornaca (sembra che Fornaca gli avesse intimato, forte della propria autorità, di infrangere il regolamento aiutando Bordino a far rifornimento fuori dai box). Fu proprio Bazzi ad indicare a Ferrari la possibilità di “soffiare” alla Fiat anche Jano. Questi aveva contribuito alla rivincita Fiat allo smacco di Tours nel successivo Gran Premio d’Europa a Monza, vinto da Salamano e Nazzaro su vetture che montavano, su sua proposta, il turbocompressore volumetrico Roots anziché il Wittig. All’indomani di questa vittoria, nel settembre del 1923 Ferrari andò a trovare Jano a casa sua, con in mano una proposta molto interessante, non solo economicamente. Parlò dapprima con la moglie, signora Rosina, che si disse convinta che mai e poi mai Vittorio avrebbe accettato di trasferirsi a Milano, e di lasciare la sua amata Torino. Sbagliava: Jano ci pensò su sì e no qualche giorno; poi, quando si rese conto che la proposta era seria, che lo stipendio gli sarebbe stato raddoppiato (tecnica già usata, come abbiamo visto), ossia sarebbe passato dalle 1800 lire che riceveva in Fiat a 3500 lire al mese, più l’alloggio, più le gratifiche…accettò. Come non capirlo? Aveva trentadue anni, gli era nato da poco un figlio, e dunque i soldi non guastavano. Soprattutto però intravide la possibilità di diventare titolare dell’Ufficio di progettazione (Ufficio Studi Speciali), anziché sgomitare all’interno di una folla di valenti progettisti, come aveva fatto fino a quel momento. Andò a parlare con 4 Giorgio Rimini ed in ultimo con Nicola Romeo, che gli disse: “Senta, io non pretendo che lei mi faccia la vettura che batte tutti, ma ne vorrei una da far bella figura, per creare un cartellino anagrafico a questa fabbrica”. Nell’abbandonare la Fiat anche Jano, come già Bertarione, si portò via un giovane disegnatore di talento: nel suo caso si trattava di Secondo Molino. La Fiat stavolta reagì male al supposto doppio “tradimento”. Due mesi dopo, un Ufficiale del Corpo dei Carabinieri di Torino, accompagnato dall’Ispettore delle guardie della fabbrica, si presentò in Alfa per ispezionare l’Ufficio Tecnico diretto da Jano, ispezione che fu estesa persino alla sua abitazione privata. Era stata una denuncia della Fiat a provocare questo incidente, evidentemente convinta che la P2 fosse una Fiat mascherata, una Fiat verniciata di rosso (tanto per cambiare), e che Jano avesse trafugato dei disegni della 805. Interrogato in proposito da Borgeson, Ferrari rispose che “su questo episodio c’è stato, diciamo così, un aggiustamento. Insomma, ritengo che sia meglio conservare il silenzio che calò allora”. Il che potrebbe far adombrare il sospetto che la Fiat avesse visto giusto…In realtà, non pochi dettagli differenziano il progetto della P2 da quello della 805. Si può partire dalla ovvia considerazione che Jano conoscesse molto bene i punti deboli della 805, e ne abbia tenuto conto nella progettazione della P2. Partì dall’impostazione (motore due litri a otto cilindri in linea) già sperimentata con successo, questo è vero, dalla casa torinese, che a sua volta si era ispirata alla Peugeot Grand Prix del 1914 e alla Mercedes Grand Prix dello stesso anno. Pose però una speciale attenzione all’uso del compressore, che aveva determinato, in Fiat, sia la sconfitta sia la rivincita. Progettò un compressore collegato ai carburatori tramite un “polmone” alettato, dunque non più attaccato direttamente al motore. Il rapporto di compressione arrivava così a 6,5:1, anziché 5,5:1. Le molle, tre per valvola come sulla Fiat, avevano il vantaggio di lavorare molto meno, e di rompersi molto più raramente (in una normale corsa di Grand Prix, le molle rotte sulla 805 potevano anche essere venti, sulla P2 una). Altre differenze dal lato distribuzione: la Fiat aveva la distribuzione comandata da un albero verticale con ruote coniche, sulla P2 era ad ingranaggi e comando del magnete. Il primo collaudo della vettura fu alla prova delle 200 miglia sul circuito di Cremona nel giugno 1924. La nuova vettura fu iscritta quasi in sordina, e sbalordì tutti ottenendo sui cinque giri una media di 158 km/h e sui 10 km lanciati quella di 195 km/h, un record. Il debutto vero e proprio avvenne al 2° Gran Premio d’Europa, in calendario il 3 agosto 1924 a Lione. Vi erano iscritte, oltre le Alfa Romeo, cinque Bugatti, tre Delage, due Schmid, tre Sunbeam, una Miller, quattro Fiat, vale a dire il meglio delle costruzioni italiane, inglesi, francesi. La gara fu combattuta, ma si 5 risolse con una splendida vittoria di Campari sulla nuova P2. Per Jano, un trionfo, confermato dalla vittoria il 19 ottobre al Gran Premio d’Italia, dove sbaragliò i (pochi) concorrenti superstiti (vedi auto d’epoca del …) . Questa corsa entrò nella storia, ma non tanto per la velocità e la regolarità di Ascari, che staccò il suo compagno di squadra Wagner di sedici minuti, e di un’ora il primo arrivato non su Alfa Romeo (Goux su Schmid), quanto per l’intervento di Arturo Mercanti, direttore dell’Autodromo di Monza. Per la prima volta in una competizione automobilistica, il direttore di corsa ordinò un contenimento della velocità, da lui giudicata troppo pericolosa. Con questa gara l’Alfa Romeo aveva sicuramente conquistato il suo “cartellino anagrafico”, e la Fiat si rese ben conto di aver perso il predominio, tanto da prevedere il proprio ritiro dalle corse. La P2 proseguì la sua carriera vincendo nel 1925 il Gran Premio del Belgio e poi di nuovo il GP d’Italia, e conquistando per l’Alfa il primo Campionato del Mondo Costruttori. Intanto Jano veniva incaricato dalla direzione dell’Alfa Romeo di iniziare il progetto di una vettura leggera di media cilindrata, dalle prestazioni brillanti, che prese successivamente il nome di 6C 1500. Jano, assistito da Luigi Fusi, Gioachino Colombo e Secondo Molino, pensò ad una vettura a sei cilindri, da un litro e mezzo, compendio delle due linee di tendenze allora in voga: la vetturetta, generalmente a quattro cilindri e un litro di cilindrata, e la vettura di lusso, a sei/otto cilindri ed almeno due litri. Ne risultò una vettura agile, veloce, maneggevole e brillante, il cui motore, soprattutto nelle versioni Sport e Super Sport, beneficiava dell’esperienza acquisita sui campi da corsa con la P2. Presentata al Salone dell’Automobile di Milano dell’aprile 1925, fu una vettura di grande successo, sia commerciale sia sportivo. Nel febbraio 1929 venne presentata al Salone dell’Automobile di Roma la 6C 1750, una vettura che portava la 6C 1500 ad uno sviluppo sensazionale, non solamente perché di cilindrata maggiorata, ma per l’insieme del progetto, riconosciuto all’unanimità come un capolavoro, forse “il” capolavoro di Vittorio Jano. Le berline di serie, le torpedo degli Stabilimenti Farina e della Castagna furono vetture splendide ed eleganti, destinate ad una clientela raffinata, che consolidarono il prestigio della casa milanese e la caratterizzarono ulteriormente come marca produttrice di vetture belle, signorili e veloci. Non si contano i progetti di Jano per quel periodo. Da notare che dirigeva al contempo anche l’Ufficio tecnico costituitosi appositamente per l’aviazione, oltre che tutta la progettazione delle vetture da turismo, gran turismo e sportive. Sue sono dunque la 6C 1500 Sport e Super Sport (1928-1929), la 6C 1750 Sport e Gran Turismo (1929-1932), la Super Sport 3° serie (1929), la Gran Sport (1930-1933), la Gran Turismo Compressore (1931-1932), la 8C 2300 (1931-1934), quest’ultima a otto cilindri con alesaggio e corsa identici a quelli della 1750. Innumerevoli le partecipazioni a competizioni sportive di ogni genere, dalle grandi corse alle gare locali, i piazzamenti, le vittorie, i trionfi: per tutte, la Mille Miglia del 1929 ( 1750 SS), la Mille Miglia del 1930 6 (quattro 1750 GS ai primi quattro posti), e la Targa Florio del 1932, con la 8C 2300. Proprio l’intensificarsi delle gare di categoria sport e la ripresa delle competizioni internazionali spinse Jano a studiare una degna sostituta della P2. Per il Gran Premio d’Italia del 1931, in programma a Monza con formula libera e durata di dieci ore, presentò addirittura due nuovi modelli, la 8C 2300 Monza e la Tipo A. L’esordio della prima fu tanto esaltante da fregiarsi, da quel momento in poi, proprio del nome “Monza”. La sua linea con la coda a punta, dentro cui era collocato il serbatoio della benzina, il tubo di scarico esterno e le feritoie sulla maschera del radiatore divenne inconfondibile per le innumerevoli vittorie conseguite nel corso del 1931 e del 1932, senza contare quattro edizioni consecutive della 24 Ore di Le Mans, dal 1931 al 1934. La seconda vettura presentata al Gran Premio d’Italia del 1931 fu invece meno fortunata. Si basò sull’intuizione di Jano di provare ad accorpare su una sola vettura due motori della 1750, montati in parallelo e controrotanti. Il risultato fu un bolide a dodici cilindri, di 3500 cc di cilindrata, doppio sistema di raffreddamento e di lubrificazione, doppia frizione e doppio cambio. Il dettaglio costruttivo più originale era la trasmissione, realizzata mediante due distinti alberi paralleli, uno per ogni motore. Il debutto però fu macchiato da una tragedia: il pilota Arcangeli, durante le prove, ne perse il controllo e si uccise. La Tipo A si riabilitò vincendo nell’agosto dell’anno successivo la Coppa Acerbo a Pescara con Campari. Ma secondo Ferrari, un’ombra rimase sempre su questa vettura e sull’effettivo sincronismo dei due motori, tanto che si disse anche che la causa dello sbandamento improvviso della vettura di Arcangeli fu il calo di potenza di uno dei motori. La vera erede della P2 fu la monoposto tipo B del 1932, denominata P3. Jano poteva ormai utilizzare una straordinaria esperienza, frutto di anni di corse (e di vittorie) sui campi di gara di tutta Europa. Il motore otto cilindri in linea ricalcava lo schema della 8C 2300; il telaio, e tutta l’impostazione del progetto, presentava soluzioni geniali, come il differenziale posto all’uscita del cambio e gli alberi di trasmissione inclinati a triangolo e collegati all’asse posteriore. Non uno ma due compressori permettevano di raggiungere i 180 CV a 5600 giri al minuto. Il debutto avvenne al 10° Gran Premio d’Italia a Monza, del 5 giugno 1932, un altro degli esordi subito vincenti dell’Alfa. Nel restante scorcio di stagione la P3 vinse altri cinque gran Premi, e continuò la serie di vittorie anche nell’anno successivo. Tanto che sulle sfolgoranti prestazioni di questa vettura si basò il comunicato con cui nel 1933 l’Alfa motivò il ritiro dalle corse (“abbiamo dimostrato al mondo quello che volevamo, di essere invincibili”), in realtà causato da una seria crisi economica. L’Alfa Romeo era infatti entrata a far parte del gruppo di fabbriche controllate finanziariamente dall’I.R.I., Istituto di Ricostruzione Industriale, e parve logico ai dirigenti della casa concentrarsi sulle produzioni di serie piuttosto che sui modelli da competizione. 7 Nel 1934, e più segnatamente nel 1935, cominciò a farsi pesante la superiorità dei modelli tedeschi della Mercedes e della Auto Union. L’unica eccezione alla loro marcia trionfale fu costituita dalla leggendaria prova che Nuvolari diede, complice una tipo B con cilindrata maggiorata a 3800 cc, al Gran Premio del Nurburgring del 1935, rimasto una pietra miliare nella storia dell’automobilismo sportivo. Per l’Alfa Romeo fu l’ultima gara in cui ribadì la sua la supremazia sportiva. Ancora una volta chiamato a progettare l’erede delle sue vetture più di successo, Jano presentò al Salone dell’Automobile di Milano del 1934 la 6C 2300 Turismo, che nelle intenzioni della casa doveva sostituire la gloriosa 1750. In quel periodo il progettista cominciava a trovarsi in una curiosa situazione: per decisione di Ugo Gobbato, direttore generale dell’Alfa Romeo, nominato dall’IRI, aveva dovuto lasciare la direzione tecnica dei motori d’aviazione e dei veicoli industriali. Manteneva invece la responsabilità del programma di corse (a lui furono infatti affidati i rapporti con la Scuderia Ferrari) e della produzione di serie. Proprio per la Scuderia Ferrari Jano mise in cantiere il progetto della Tipo C, ma per la prima volta la costruzione della nuova vettura subì dei ritardi e l’esordio avvenne solamente nel settembre 1935 al Gran Premio d’Italia a Monza. Anche per la versione successiva, la 12C 1936, si registrarono dei ritardi: il motore, progettato nel 1934, fu messo al banco solo nel gennaio 1936. Stava succedendo qualcosa, che forse Jano non aveva previsto, più difficile da affrontare della supremazia tecnica tedesca. Stava succedendo che in azienda non aveva più l’ascendente di sempre. Personalità monolitica, accentratrice e ingombrante, non era certamente un gioviale, o un simpatico: e questa sua incapacità a tessere rapporti anche “politici” lo penalizzò non poco. Gobbato, che ne aveva già sostanzialmente ridotto le funzioni, non l’aveva in gran simpatia; ed era portato a ritenere che il suo ingegno fosse esaurito. Altri progettisti, intanto, come Gioachino Colombo, che nel 1937 verrà “ceduto” alla Scuderia Ferrari dove progettò la splendida 158, cominciavano a sentirsi un po’ sacrificati a lavorare alle sue dipendenze. Lentamente, ma neanche troppo, Jano divenne una persona tollerata, anziché tenuta in pregio come egli riteneva gli fosse dovuto. Non erano più le condizioni migliori per lavorare bene. Quando Guidotti si ritirò dal Gran Premio d'Italia nel settembre 1937 con l’assale posteriore della 12C danneggiato, qualcuno disse “Questo segnerà la fine di Jano” Gobbato, se da una parte non riteneva più Jano un uomo d’avanguardia, e sicuramente non in grado di sostenere l’offensiva tedesca, subiva invece, proporzionalmente, l’influenza di Wilfredo Ricart, che puntava palesemente a prenderne il posto. Aumentava anche l’insofferenza di Colombo, che pure era stato fidato allievo di Jano. Se si è in gamba non si rimane allievi tutta la vita, e Colombo era ansioso di dimostrare finalmente il suo valore, senza più tutele. “Jano era uomo che non lasciava molto spazio, aveva una personalità, direi, ingombrante”, lo definì Ferrari. Quando partiva con una sua idea, pretendeva 8 che tutti gli altri lo seguissero, era “terribilmente deciso”. Ossia, tradotto dal già trasparente tono di Ferrari, non lasciava alcuno spazio agli altri, e forse era provvisto anche di una buona dose di “narcisismo tecnico”. In una intervista del 1981, a Ferrari è chiesto un giudizio spassionato sul valore del contributo tecnico dato da Jano all’Alfa. Certo, Ferrari risponde “determinante”, ma poi aggiunge alcune considerazioni che vale la pena di rileggere per esteso: “Il giorno in cui sono uscito dall’Alfa mi sono reso conto che si facevano sì delle cose meravigliose, ma c’erano anche delle grosse lacune. Jano ha avuto il vantaggio di venirsi a trovare in un ambiente in cui c’erano degli ottimi esecutori per le sue idee e dove si adoperavano materiali e tecnologie d’avanguardia. Ad esempio nel campo della fonderia, nel settore metallurgico, l’Alfa era all’avanguardia. Se si pensa che negli anni trenta i cilindri delle nostre monoposto erano fusi in lega leggera e la sede delle valvole non era riportata: la valvola funzionava sul metallo leggero indurito…Non solo ma per la 6C 1750 erano già stati fatti alcuni esemplari dell’autotelaio in duralluminio stampato”. Una consapevolezza presente anche in Jano, che intervistato nel 1936 dalla rivista RACI, a crisi già annunciata, disse: “Il vero problema nuovo è quello dei materiali. È un problema metallurgico. Occorrono metalli che accoppino la grande leggerezza alla grande resistenza. Molti sono gli organi di una vettura da corsa che sono gravati da materiali pesanti, a tutto detrimento della vettura considerata come rendimento. La tecnica del telaio, per esempio, non è tecnica di disegni che in piccola parte. E’ tecnica metallurgica, invece, in maniera preponderante. ..Gli indiscutibili successi colti dall’industria automobilistica tedesca in questi ultimi tempi sono legati indissolubilmente ai grandi passi fatti recentemente mercé il grande studio e la encomiabile organizzazione dall’industria metallurgica teutonica. Poter fare una macchina di 4 litri che pesi, ad esempio, 7 quintali e mezzo e schierarla contro macchine che pesano 7 quintali e mezzo ma hanno una cilindrata di 3 litri significa disporre di un grande margine di velocità sugli avversari”. A fine stagione 1937, quando Jano si rese conto che l’Alfa avrebbe scommesso tutto su una vettura da corsa non sua, la 158 realizzata da Gioachino Colombo alla Scuderia Ferrari insieme a Bazzi, a Nasi e a Massimino (altro transfuga Fiat) capì, con infinita amarezza, che il suo periodo era concluso. E con coerenza (la coerenza di cui parlava Ferrari?) se ne andò. Dalle cronache dei giornali (“Jano si distacca dall’Alfa per un necessario periodo di riposo”) l’usuale ipocrisia copre a malapena la caduta del grande, a cui “tutti gli sportivi italiani gli inviano il deferente e ricordevole saluto delle armi”. Che, difatti, viene generalmente tributato ai vinti. Poche settimane dopo, alla fine del 1937, Vittorio Jano entrava in Lancia, come Direttore del Reparto Esperienze. Per lui si aprì una nuova stagione, per di più nella città natale. I disegni dell’Ardea, dell’Aurelia, del camion Esatau passarono per le sue mani. Particolarmente quest’ultimo, dal motore silenzioso e poco inquinante (per l’epoca) può considerarsi suo; come mise 9 mano anche al progetto della piccola Appia, con uno straordinario motore da 1100 cc e 83 kg di peso. Gli anni però erano passati e non avevano portato soltanto una guerra mondiale, ma un colpo ben più terribile per Jano: la morte improvvisa di Francesco, il figlio ventenne, durante il Servizio Militare, sembra per una banale quanto fatale malattia ai polmoni. Riemerse da quel periodo invecchiato di cento anni, ancora più introverso, ancora più chiuso in se stesso. La sua inflessibilità, la sua rigidità verso subordinati e superiori si accentuò. Ma non erano più gli anni venti, o gli anni trenta. Erano gli anni cinquanta, Jano era invecchiato, i suoi “avversari” erano invece nel pieno delle loro forze. A questo proposito può essere illuminante una memoria scritta da Ettore Zaccone Mina, progettista Lancia, e conservata al Museo dell’Automobile di Torino: “Nel 1951 l’ing. Gianni Lancia decide di entrare nel campo delle competizioni con le vetture D20 (in realtà le B20, nda) ed incarica il comm. Jano di formare e dirigere un gruppo di persone per la progettazione, collaudo e costruzione delle particolari vetture che avrebbero sostituito le speciali Aurelia. Jano, distogliendoli dall’Ufficio Progetti di Produzione, scelse me per i motori, Bosco per le trasmissioni e i cambi, Faleo per i telai, Gillio e Mattei per i collaudi, Gariglio e Cibrario per la costruzione. Tutte queste persone erano singolarmente e direttamente responsabili del proprio settore verso il comm. Jano, il quale a sua volta riferiva all’Ing. Lancia, che seguiva intensamente il programma da lui voluto. Dopo i successi ed insuccessi che tutti conosciamo l’ing. Lancia, a mio parere mal consigliato data la precaria situazione finanziaria dell’Azienda, decide il proseguimento del programma con la F1. A questo punto inizia il deterioramento dei rapporti, già tesi, tra me e il comm. Jano, il quale, non sentendosi tranquillo e non essendo più aggiornato, avrebbe voluto al suo fianco una persona con una lunga e collaudata esperienza specifica; a tale proposito, corse voce che avesse preso contatti con l’ing. Lampredi, allora alla Ferrari e pare desideroso di uscirne. L’ing. Lancia …diede a me tutta la sua fiducia con l’incarico della progettazione del nuovo motore, pur sapendo di dare un piccolo dispiacere al povero Jano…Con il procedere dei lavori, i rapporti con Jano si guastarono sempre più, sviluppai delle soluzioni suggeritemi e di cui ancora sono in grado di documentare, largamente superate; trovai difficoltà a proseguire, anche per il fatto che Jano, pur essendo stato un grande progettista, non era più in grado di affrontare nuovi problemi nel campo dei motori: alimentazione comandata, equilibratura dell’albero motore che non conosceva affatto, nuove camere di combustione, distribuzione ed altri ancora . Mi sono trovato perciò in una situazione assurda…I lavori procedevano lentamente e l’ing. Lancia…un giorno mi convocò nel suo ufficio ed in presenza del Comm. Jano mi diede la completa libertà di procedere nella stesura del progetto definitivo, con l’impegno di riferire a lui direttamente”. Guido Rosani, memoria storica del periodo d’oro delle Lancia da corsa, ha sostanzialmente confermato quanto 10 rivendicato, con comprensibile orgoglio, da Zaccone Mina. La “tignoseria tecnica” di Jano, la sua scarsa sportività nel rifiutarsi ad un gioco di squadra, è ulteriormente confermata, racconta Rosani, da un incidente che capitò negli anni successivi, tra il 1953 e il 1957, con protagonista un altro grande progettista, Alberto Massimino. Questi aveva sottoposto a Jano nell’ottobre del 1953, un suo brevetto per una trasmissione a ruote indipendenti (brevetto 506172 depositato il 6 ottobre 1953 per “sospensione a ruote indipendenti per autoveicoli ad assali infulcrati al veicolo al di là della sua mezzeria longitudinale”). La risposta di Jano fu sdegnosa: “La sospensione che lei ha studiato può anche andare bene, ma è più complicata, costosa e pesante di quella da noi adottata sulla vettura Aurelia…Quindi a mio parere La consiglio di non spendere tempo e denaro”. Sic. Allegato alla lettera di risposta, anche il disegno inviato da Massimino, con tanto di correzioni vistose. Passarono quattro anni, e il Massimino si rese conto che, come scrive in una lettera alla Lancia del 4 maggio 1957, “la soluzione della sospensione posteriore realizzata da questa ditta nel 1954 – 1955 per le sue vetture da corsa di F1 cade nelle rivendicazioni 1) e 2) del predetto brevetto”. La Lancia, inizialmente, non rispose nemmeno. Dopo alcuni solleciti, messo alle strette, Jano dichiarò di avere studiato e costruito a scopo sperimentale la sospensione, prima di conoscere l’esistenza del brevetto Massimino: ma l’argomentazione non resse. La Lancia aveva adottato proprio quella sospensione sulla vettura portata alla vittoria da Alberto Ascari al Gran Premio di Napoli del 1955 e la Ferrari stessa la applicò su una vettura per il pilota Collins nel 1957. “Di seguito all’amichevole intervento del Cav. del Lavoro Enzo Ferrari ed a transazione di ogni Sua eventuale ragione nei nostri confronti per la realizzazione delle sospensioni predette e per l’uso fattone, Le versiamo la somma di lire 200.000 (Lancia) + lire 100.000 (Ferrari)”, scrisse la Lancia il 2 gennaio 1958 ad Alberto Massimino. Una magra figura da parte di chi aveva consigliato Massimino di non spendervi “né soldi né denaro”. La Lancia F1, da molti ritenuta il “canto del cigno” di Jano, ebbe gestazione lunga. Si trattava di una macchina con alcune soluzioni molto originali, come i serbatoi laterali (un’idea di Gianni Lancia, mutuata dall’aeronautica), ma che nel suo insieme riprendeva lo schema della Mercedes RW125. Dopo mesi di prove e collaudi riuscì finalmente a risolvere i vari problemi che l’affliggevano e ad imporsi, con Ascari, al Gran Premio del Valentino e di Napoli della primavera 1955. Proprio in primavera, in Lancia era arrivato Fessia, poco propenso a sostenere ulteriormente il programma di corse. E proprio in primavera, a marzo, Jano rassegnò le dimissioni dalla Lancia, pur rimanendo consulente tecnico. Parve strana questa decisione presa esattamente all’indomani di una vittoria (quella al Valentino). La stampa commentò stupita il fatto, ricordando sommessamente come fosse “anche probabile che qualcuno abbia guardato a Jano come ad un uomo superato, prigioniero forse di concetti tecnici 11 vecchi di trent’anni”. Egli stesso dava fisicamente di sé l’impressione di un uomo stanco, sfiduciato, e soprattutto solo. Alle prove del Valentino, “se ne stava isolato, cinquanta metri prima dei boxes, un piede appoggiato sopra una balla di paglia, il volto affilato solcato da rughe profonde e pallido più di sempre, l’immancabile bocchino di cartone serrato tra i denti e nel quale aspirava una sigaretta lentamente, da fumatore spietato”. Può aver giocato nelle sue dimissioni una rivolta istintiva, ancora prima che meditata, verso una vettura progettata da altri, come già nel caso della 158 all’Alfa Romeo? “Questo addio di Vittorio Jano all’automobilismo per così dire attivo, nel giorno in cui le vetture da lui ideate e preparate hanno dissipato i dubbi, smorzato le polemiche e magari stroncato insinuazioni, ha un significato patetico che da’ un senso di commozione. Può anche avere un sapore polemic0, ma a noi piace sottolinearne solo il lato umano”. Restò consulente alla Lancia per poco tempo. La morte di Ascari nel maggio 1955 provocò il ritiro della Lancia dalle corse, la consegna delle vetture e di tutto il materiale alla Ferrari (la quale come è noto, si aggiudicò il Campionato Mondiale l’anno successivo, il 1956). Jano seguì le vetture a Maranello, e continuò per molti anni a far il consulente per Ferrari, andando a trovare il “patron” una o due volte al mese. Nell’aprile del 1965, pochi giorni dopo la morte di Jano, Domenico Jappelli ne scrisse un lungo e approfondito ricordo su “Tuttomotori”. Pur nella commozione del momento, e cercando di tributargli l’omaggio più intenso, non poté non partire dal definire la sua personalità “ritrosa e austera, distaccata e sdegnosa”, né poté sorvolare su “gioie incompiute per incomprensioni ed invidie”, su “una vita interiore inflessibile, segnata da apparenti contrasti e paradossi”. “Maestro di tecnica e di vita…non soltanto un progettista ma un precursore ed un realizzatore, un gigante della tecnica automobilistica mondiale”. Un uomo dalla lunga vita di luci ed ombre, che forse sopravvisse a se stesso e, perso in una sconfinata solitudine, se ne rese conto. Donatella Biffignandi Centro di Documentazione del Museo Nazionale dell’Automobile di Torino (2005) BIBLIOGRAFIA Enciclopedia Treccani – Enciclopedia dello Sport – vol. Motori, Roma 2003 “Automobili Fiat” – di Angelo Tito Anselmi, edizioni della Libreria dell’Automobile, Milano, 1986 “Uomini e Motori”, di Giovanni Canestrini, Monza, 1957 “Le briglie del successo”, di Enzo Ferrari, Modena, 1970 12 “Automobile design: great designers and their work”, by R.Barker e A. Harding, Cambridge, 1970, “Vittorio Jano”, by Angela Cherrett and xxx “Alfa Romeo i creatori della leggenda”, di Griffith Borgeson, Giorgio Nada Editore, Milano, 1990 “Le Alfa Romeo di Vittorio Jano”, di Luigi Fusi, Enzo Ferrari, Griffith Borgeson, a cura di A.T.Anselmi e V.Moretti, Autocritica, 1982 “D24 e le Lancia Sport”, di Guido Rosani, 1991, Avritempore Edizioni Conferenza su Carlo Cavalli tenuta da Antonio Amadelli a Santa Maria Maggiore, luglio 1999 Conversazione di Enzo Ferrari con Gonzalo Alvarez Garcia, Angelo Tito Anselmi e Valerio Moretti del 31 marzo 1981, Maranello Tuttomotori, aprile 1965, pag. 18 “Si è spenta una luce dell’automobilismo mondiale”, di Domenico Jappelli RACI, 23 febbraio 1936, pag. 319, “Vittorio Jano nell’intimità”, di Carlo Brighenti La Stampa, 14 marzo 1965, “Tragica fine di un pioniere dei motori”, di Ferruccio Bernabò “Ricordo di Vittorio Jano”, di Domenico Jappelli, Rivista Lancia, estate 1965 La Vie de l’Auto, 91-06 e 91-07, “Vittorio Jano”, par Griffith Borgeson Si ringraziano Sébastien Faurès Fustel de Coulanges (per la documentazione Bertarione); Guido Rosani (per la documentazione Massimino) 13