storia di un grande uomo

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storia di un grande uomo
UNA VITA DAI TONI FORTI: la storia di Vittorio Jano
A quarant’anni dalla morte, ritratto di uno dei più grandi
progettisti automobilistici italiani
“Noto progettista di auto da corsa si uccide con un colpo di pistola”
titolava “La Stampa” di Torino il 14 marzo 1965, accanto alla notizia
che un muratore licenziato si era impiccato in cantina. “Il comm.
Vittorio Jano, uno dei più noti progettisti di auto da corsa, si è ucciso
ieri mattina nella sua abitazione, in via Fratelli Carle 12, con un colpo
di pistola”. Non lasciò né biglietti, né spiegazione alcuna. Il suicidio è
un gesto quasi sempre difficile da capire, talvolta visto come un atto
di coraggio, talvolta di vigliaccheria: un gettare la spugna, o un
riaffermare il predominio della propria vita, al punto da deciderne la
fine. “Ha vissuto da forte e da forte ci ha lasciato – scrisse di lui Enzo
Ferrari – Non fui stupito della ferrea coerenza con la quale concluse la
sua esistenza, e gli ho ammirato anche quel gesto, che considero di
supremo coraggio”.
Ma coerenza con cosa? Aveva lavorato per le più grandi case
automobilistiche italiane, nessuna esclusa: la Fiat, l’Alfa Romeo, la
Lancia, la Ferrari. In ognuna aveva progettato vetture straordinarie, la
sua era stata una carriera inarrestabile. Non aveva certamente
preoccupazioni finanziarie. Poteva godersi una vecchiaia serena (aveva
74 anni), accanto alla moglie Rosina, e lo stesso lancinante dolore
della perdita dell’unico figlio Francesco, più di venti anni prima, si era
stemperato nella dolcezza del ricordo.
Forse fu un gesto dettato dalla paura di una morte incombente. O dal
terrore della sofferenza, dopo aver visto un fratello spegnersi in una
dolorosa e lunga malattia.
Eppure, rimane qualcosa di sospeso, com’è ovvio di fronte ad una
decisione tanto (apparentemente) repentina, irrimediabile, spietata
verso se stessi e verso chi ci circonda.
La coerenza di cui parla Ferrari suppone un gesto con una sua logica
interna, direttamente correlato alla sua vita, agli infiniti gesti che
avevano composto i suoi anni precedenti. Egli parla a ragion veduta,
tra lui e Jano si era stabilito un legame lungo quarant’anni. E’ storia
nota che fu proprio Ferrari a causare il passaggio di Jano dalla Fiat
all’Alfa Romeo nel 1923, fu per la Scuderia Ferrari che Jano progettò
le sue migliori vetture, la P2 e la P3 tanto per citare, e con Ferrari
Jano si ritrovò ancora, come consulente, dopo essere uscito dalla
Lancia. Li accomunavano molte cose: l’aver assistito entrambi alla
morte di un figlio, una scontrosità istintiva, la coscienza del proprio
valore, una vita fatta di dissidi e polemiche anche profonde.
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Ecco, in questi scontri, che lo videro di volta in volta interagire o
contrapporsi con i maggiori protagonisti della progettazione
automobilistica del primo novecento (Giulio Cesare Cappa, Luigi
Bazzi, Gioachino Colombo, Enzo Ferrari, Guido Fornaca, Luigi Fusi,
Alberto Massimino, Giuseppe Merosi, Wilfredo Ricart, Ettore Zaccone
Mina ed altri) forse sta il segreto della sua vita, e di come si concluse.
Il primo periodo della vita professionale di Jano si svolse a Torino,
dov’era nato nel 1891. Dopo essersi diplomato all’Istituto
Professionale Operaio (non arrivò mai alla laurea, neanche honoris
causa) era entrato nel 1909 alla Rapid (vedi Auto d’Epoca
luglio/agosto 2001) e nel 1911 fu assunto dalla Fiat come
“disegnatore medio”, poi disegnatore progettista ed infine progettista
capogruppo, con cinque o sei disegnatori sotto di lui. Aveva un bel
talento, tanto da fare un’ottima impressione all’ing. Fornaca, allora
direttore tecnico Fiat, che lo notò fin dal primo colloquio. D’altronde
proveniva da una famiglia che aveva la meccanica nel sangue,
essendo suo padre capotecnico all’Arsenale di Torino. A diciott’anni
aveva già una motocicletta, “che allora era cosa rara…avevo già la
passione, si nasce con la passione”, dirà di sé molti anni dopo Jano
stesso. Fornaca lo inserì nell’Ufficio Tecnico diretto da Cavalli, dove
partecipò ai progetti di tutte le vetture da turismo dell’epoca, la 501,
la 505, la 510. In un secondo tempo prese anche parte alla
progettazione delle vetture da corsa. Carlo Cavalli, avvocato, di tredici
anni più anziano di Jano, rimase indelebilmente nel ricordo del
progettista. In una celebre intervista rilasciata nell’estate del 1964 al
giornalista e storico dell’automobile californiano Griffith Borgeson,
Jano definisce Cavalli come la persona da cui aveva più imparato, i
cui insegnamenti gli erano restati dentro per tutta la vita.
Effettivamente quella di Cavalli è una figura bizzarra e poco
conosciuta. Laureatosi in giurisprudenza, più per compiacere la
famiglia che per reale propensione, già nell’aprile del 1900, a ventidue
anni, depositò un brevetto per un cambio di velocità destinato a
vetturette e tricicli automobili, e cinque anni più tardi entrò in Fiat,
come “allievo disegnatore”, ossia con la mansione di lucidare i disegni.
Avendo come maestri tecnici eccellenti come gli ingegneri Enrico,
Vinçon e Momo, il suo tirocinio fu breve, e nel 1906 era già
disegnatore progettista (come si vede, le stesse tappe che seguì il suo
allievo qualche anno più tardi). Gli fu affidato il compito di sviluppare
il progetto del motore della vettura da corsa che, nel 1907, andò a
vincere la Coppa dell’Imperatore, in Germania, sul circuito del
Taunus. Un successo straordinario, dovuto in gran parte ad un errore
che Cavalli si guardò bene dal far rilevare ai suoi superiori. Ecco le
sue parole: “Allora si considerava come limite insuperabile il grado 5
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(ossia il rapporto, nda) di compressione; nel calcolo dimenticai di
aggiungere al volume della cilindrata quello della camera di scoppio, ciò
che fece salire a sei il grado di compressione con il risultato pratico che
il motore girò senza danni alla velocità pazzesca, per quei tempi, di
2700 giri, sviluppando 150 cavalli pur con l’accensione a bassa
tensione e con candele a martelletti”. Nel 1910 passò capo ufficio e
divenne responsabile della Zero, che rappresentò una svolta
produttiva ed un successo commerciale di portata internazionale. Nel
1911, l’anno di assunzione di Jano, alla Fiat si progettava di tutto: dai
sommergibili ai tram, dai motori d’aeroplani alle mitragliatrici, dai
camion alle vetture da turismo, come la 501, che uscì sul mercato nel
1919 e che fu definita da Cavalli “il mio miglior lavoro”. Come premio
per la 501 fu spedito in America, a studiare i sistemi di produzione
Ford, e quando tornò, sono le sue parole “diventato direttore tecnico
studi, mi trovai alla testa di un ufficio che cominciava a soffrire di
elefantiasi, zeppo di ingegneri, di capi e vice capi ufficio con reparti A,
B, C, con rapporti di sezione, rapporti di direzione ecc.” Tra questi c’era
anche Jano, che cominciava ad accumulare esperienze e conoscenze.
Tanto più che l’Ufficio Tecnico di Cavalli, sottoposto unicamente a
Fornaca e ad Agnelli, si lanciava in sperimentazioni coraggiose, come
il motore della vettura per il I Gran Premio d’Italia del 1921 che “servì
di banco di prova ai cuscinetti a rulli che osai applicare per la prima
volta ai cuscinetti dell’albero motore e delle bielle di un motore da
corsa”. (sono ancora le parole di Cavalli). Arrivò quindi una vittoria
straordinaria: quella del Grand Prix di Francia a Strasburgo nel 1922,
pilota Nazzaro, con la 804/404, che consacra la Fiat come “il”
costruttore dell’anno. Eppure, proprio a partire da quella magnifica
prestazione l’Ufficio Tecnico che l’aveva prodotta cominciò a sfaldarsi.
Ne facevano parte, oltre a Jano, molti altri tecnici di grande valore,
come Tranquillo Zerbi, Giulio Cesare Cappa, Luigi Bazzi, Walter
Becchia, Vincenzo Bertarione. Indicativa la storia di quest’ultimo, che
in virtù del suo contributo alla vittoria a Strasburgo osò chiedere un
aumento. Gli fu risposto che quello no, non era possibile: ma una
medaglia, sì. A Bertarione le medaglie al valore non interessavano
ancora, e non perse tempo ad accettare una ottima proposta giuntagli
dalla Sunbeam-Talbot-Darracq di Suresnes, in Francia, per tramite
del suo ex collega Edmondo Moglia, che aveva lasciato la Fiat già
cinque anni prima. La proposta consisteva in uno stipendio
semplicemente raddoppiato, e un premio d’entrata pari a un anno del
suo nuovo salario. E prima di andarsene convinse un altro collega,
Walter Becchia, a seguirlo. La vicenda di Bertarione, come vedremo,
ebbe molti punti simili a quella di Jano, di un anno dopo, anche nei
suoi risvolti più spiacevoli. Vincenzo Bertarione e Walter Becchia si
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misero alacremente al lavoro e nel giro di sei mesi ecco pronta la
nuova Sunbeam Grand Prix, che esordì il 2 luglio 1923 al Grand Prix
dell’Automobile Club de France in gara a Tours. Una gara
combattutissima da 16 concorrenti, tra cui tre Fiat 805. A tre giri
dalla fine il colpo di scena: la vettura in testa, la Fiat di Salamano,
rimase senza benzina (l’applicazione del compressore, novità
mondiale, aveva aumentato i consumi a dismisura) e la corsa terminò
con tre vetture della marca inglese tra le prime quattro arrivate, piloti
Segrave, Divo e Guinness. Un trionfo, per Bertarione! Uno smacco
intollerabile, per l’Italia, i cui giornali sportivi arrivarono ad insinuare
che Bertarione era uscito dalla Fiat con i progetti sotto il braccio, che
le Sunbeam non erano altro che Fiat verniciate di verde.
All’Ufficio Tecnico della Fiat la diaspora continuava: nell’estate del
1923 se ne era andato anche Luigi Bazzi, specialista di motori, su
“istigazione” di Ferrari, all’epoca pilota e collaboratore all’Alfa dal
1920. Deus ex machina dell’azienda milanese era Giorgio Rimini,
responsabile commerciale e sportivo, che aveva dato al giovane
Ferrari, che per l’Alfa Romeo correva…e trafficava, un incarico a suo
modo preciso: “Ferrari, dove c’è della gente competente, portala via
con tutti i mezzi tollerabilmente leciti…”. Ferrari aveva iniziato con
Bazzi, che durante la gara di Tours aveva avuto uno screzio con
Fornaca (sembra che Fornaca gli avesse intimato, forte della propria
autorità, di infrangere il regolamento aiutando Bordino a far
rifornimento fuori dai box). Fu proprio Bazzi ad indicare a Ferrari la
possibilità di “soffiare” alla Fiat anche Jano. Questi aveva contribuito
alla rivincita Fiat allo smacco di Tours nel successivo Gran Premio
d’Europa a Monza, vinto da Salamano e Nazzaro su vetture che
montavano, su sua proposta, il turbocompressore volumetrico Roots
anziché il Wittig. All’indomani di questa vittoria, nel settembre del
1923 Ferrari andò a trovare Jano a casa sua, con in mano una
proposta molto interessante, non solo economicamente. Parlò
dapprima con la moglie, signora Rosina, che si disse convinta che mai
e poi mai Vittorio avrebbe accettato di trasferirsi a Milano, e di
lasciare la sua amata Torino. Sbagliava: Jano ci pensò su sì e no
qualche giorno; poi, quando si rese conto che la proposta era seria,
che lo stipendio gli sarebbe stato raddoppiato (tecnica già usata, come
abbiamo visto), ossia sarebbe passato dalle 1800 lire che riceveva in
Fiat a 3500 lire al mese, più l’alloggio, più le gratifiche…accettò. Come
non capirlo? Aveva trentadue anni, gli era nato da poco un figlio, e
dunque i soldi non guastavano. Soprattutto però intravide la
possibilità di diventare titolare dell’Ufficio di progettazione (Ufficio
Studi Speciali), anziché sgomitare all’interno di una folla di valenti
progettisti, come aveva fatto fino a quel momento. Andò a parlare con
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Giorgio Rimini ed in ultimo con Nicola Romeo, che gli disse: “Senta, io
non pretendo che lei mi faccia la vettura che batte tutti, ma ne vorrei
una da far bella figura, per creare un cartellino anagrafico a questa
fabbrica”. Nell’abbandonare la Fiat anche Jano, come già Bertarione,
si portò via un giovane disegnatore di talento: nel suo caso si trattava
di Secondo Molino.
La Fiat stavolta reagì male al supposto doppio “tradimento”. Due mesi dopo,
un Ufficiale del Corpo dei Carabinieri di Torino, accompagnato dall’Ispettore
delle guardie della fabbrica, si presentò in Alfa per ispezionare l’Ufficio
Tecnico diretto da Jano, ispezione che fu estesa persino alla sua abitazione
privata. Era stata una denuncia della Fiat a provocare questo incidente,
evidentemente convinta che la P2 fosse una Fiat mascherata, una Fiat
verniciata di rosso (tanto per cambiare), e che Jano avesse trafugato dei
disegni della 805. Interrogato in proposito da Borgeson, Ferrari rispose che
“su questo episodio c’è stato, diciamo così, un aggiustamento. Insomma,
ritengo che sia meglio conservare il silenzio che calò allora”. Il che potrebbe
far adombrare il sospetto che la Fiat avesse visto giusto…In realtà, non pochi
dettagli differenziano il progetto della P2 da quello della 805. Si può partire
dalla ovvia considerazione che Jano conoscesse molto bene i punti
deboli della 805, e ne abbia tenuto conto nella progettazione della P2.
Partì dall’impostazione (motore due litri a otto cilindri in linea) già
sperimentata con successo, questo è vero, dalla casa torinese, che a
sua volta si era ispirata alla Peugeot Grand Prix del 1914 e alla
Mercedes Grand Prix dello stesso anno. Pose però una speciale
attenzione all’uso del compressore, che aveva determinato, in Fiat, sia
la sconfitta sia la rivincita. Progettò un compressore collegato ai
carburatori tramite un “polmone” alettato, dunque non più attaccato
direttamente al motore. Il rapporto di compressione arrivava così a
6,5:1, anziché 5,5:1. Le molle, tre per valvola come sulla Fiat, avevano
il vantaggio di lavorare molto meno,
e di rompersi molto più
raramente (in una normale corsa di Grand Prix, le molle rotte sulla
805 potevano anche essere venti, sulla P2 una). Altre differenze dal
lato distribuzione: la Fiat aveva la distribuzione comandata da un
albero verticale con ruote coniche, sulla P2 era ad ingranaggi e
comando del magnete. Il primo collaudo della vettura fu alla prova
delle 200 miglia sul circuito di Cremona nel giugno 1924. La nuova
vettura fu iscritta quasi in sordina, e sbalordì tutti ottenendo sui
cinque giri una media di 158 km/h e sui 10 km lanciati quella di 195
km/h, un record. Il debutto vero e proprio avvenne al 2° Gran Premio
d’Europa, in calendario il 3 agosto 1924 a Lione. Vi erano iscritte,
oltre le Alfa Romeo, cinque Bugatti, tre Delage, due Schmid, tre
Sunbeam, una Miller, quattro Fiat, vale a dire il meglio delle
costruzioni italiane, inglesi, francesi. La gara fu combattuta, ma si
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risolse con una splendida vittoria di Campari sulla nuova P2. Per
Jano, un trionfo, confermato dalla vittoria il 19 ottobre al Gran
Premio d’Italia, dove sbaragliò i (pochi) concorrenti superstiti (vedi
auto d’epoca del …) . Questa corsa entrò nella storia, ma non tanto per la
velocità e la regolarità di Ascari, che staccò il suo compagno di squadra
Wagner di sedici minuti, e di un’ora il primo arrivato non su Alfa Romeo
(Goux su Schmid), quanto per l’intervento di Arturo Mercanti, direttore
dell’Autodromo di Monza. Per la prima volta in una competizione
automobilistica, il direttore di corsa ordinò un contenimento della velocità, da
lui giudicata troppo pericolosa. Con questa gara l’Alfa Romeo aveva
sicuramente conquistato il suo “cartellino anagrafico”, e la Fiat si rese ben
conto di aver perso il predominio, tanto da prevedere il proprio ritiro dalle
corse. La P2 proseguì la sua carriera vincendo nel 1925 il Gran Premio del
Belgio e poi di nuovo il GP d’Italia, e conquistando per l’Alfa il primo
Campionato del Mondo Costruttori.
Intanto Jano veniva incaricato dalla direzione dell’Alfa Romeo di iniziare il
progetto di una vettura leggera di media cilindrata, dalle prestazioni brillanti,
che prese successivamente il nome di 6C 1500. Jano, assistito da Luigi Fusi,
Gioachino Colombo e Secondo Molino, pensò ad una vettura a sei cilindri, da
un litro e mezzo, compendio delle due linee di tendenze allora in voga: la
vetturetta, generalmente a quattro cilindri e un litro di cilindrata, e la vettura
di lusso, a sei/otto cilindri ed almeno due litri. Ne risultò una vettura agile,
veloce, maneggevole e brillante, il cui motore, soprattutto nelle versioni Sport
e Super Sport, beneficiava dell’esperienza acquisita sui campi da corsa con la
P2. Presentata al Salone dell’Automobile di Milano dell’aprile 1925, fu una
vettura di grande successo, sia commerciale sia sportivo. Nel febbraio 1929
venne presentata al Salone dell’Automobile di Roma la 6C 1750, una vettura
che portava la 6C 1500 ad uno sviluppo sensazionale, non solamente perché
di cilindrata maggiorata, ma per l’insieme del progetto, riconosciuto
all’unanimità come un capolavoro, forse “il” capolavoro di Vittorio Jano. Le
berline di serie, le torpedo degli Stabilimenti Farina e della Castagna furono
vetture splendide ed eleganti, destinate ad una clientela raffinata, che
consolidarono il prestigio della casa milanese e la caratterizzarono
ulteriormente come marca produttrice di vetture belle, signorili e veloci.
Non si contano i progetti di Jano per quel periodo. Da notare che dirigeva al
contempo anche l’Ufficio tecnico costituitosi appositamente per l’aviazione,
oltre che tutta la progettazione delle vetture da turismo, gran turismo e
sportive. Sue sono dunque la 6C 1500 Sport e Super Sport (1928-1929), la 6C
1750 Sport e Gran Turismo (1929-1932), la Super Sport 3° serie (1929), la
Gran Sport (1930-1933), la Gran Turismo Compressore (1931-1932), la 8C
2300 (1931-1934), quest’ultima a otto cilindri con alesaggio e corsa identici a
quelli della 1750. Innumerevoli le partecipazioni a competizioni sportive di
ogni genere, dalle grandi corse alle gare locali, i piazzamenti, le vittorie, i
trionfi: per tutte, la Mille Miglia del 1929 ( 1750 SS), la Mille Miglia del 1930
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(quattro 1750 GS ai primi quattro posti), e la Targa Florio del 1932, con la 8C
2300.
Proprio l’intensificarsi delle gare di categoria sport e la ripresa delle
competizioni internazionali spinse Jano a studiare una degna sostituta della
P2. Per il Gran Premio d’Italia del 1931, in programma a Monza con formula
libera e durata di dieci ore, presentò addirittura due nuovi modelli, la 8C
2300 Monza e la Tipo A. L’esordio della prima fu tanto esaltante da fregiarsi,
da quel momento in poi, proprio del nome “Monza”. La sua linea con la coda a
punta, dentro cui era collocato il serbatoio della benzina, il tubo di scarico
esterno e le feritoie sulla maschera del radiatore divenne inconfondibile per le
innumerevoli vittorie conseguite nel corso del 1931 e del 1932, senza contare
quattro edizioni consecutive della 24 Ore di Le Mans, dal 1931 al 1934.
La seconda vettura presentata al Gran Premio d’Italia del 1931 fu invece meno
fortunata. Si basò sull’intuizione di Jano di provare ad accorpare su una sola
vettura due motori della 1750, montati in parallelo e controrotanti. Il risultato
fu un bolide a dodici cilindri, di 3500 cc di cilindrata, doppio sistema di
raffreddamento e di lubrificazione, doppia frizione e doppio cambio. Il
dettaglio costruttivo più originale era la trasmissione, realizzata mediante due
distinti alberi paralleli, uno per ogni motore. Il debutto però fu macchiato da
una tragedia: il pilota Arcangeli, durante le prove, ne perse il controllo e si
uccise. La Tipo A si riabilitò vincendo nell’agosto dell’anno successivo la
Coppa Acerbo a Pescara con Campari. Ma secondo Ferrari, un’ombra rimase
sempre su questa vettura e sull’effettivo sincronismo dei due motori, tanto
che si disse anche che la causa dello sbandamento improvviso della vettura di
Arcangeli fu il calo di potenza di uno dei motori.
La vera erede della P2 fu la monoposto tipo B del 1932, denominata P3. Jano
poteva ormai utilizzare una straordinaria esperienza, frutto di anni di corse (e
di vittorie) sui campi di gara di tutta Europa. Il motore otto cilindri in linea
ricalcava lo schema della 8C 2300; il telaio, e tutta l’impostazione del
progetto, presentava soluzioni geniali, come il differenziale posto all’uscita del
cambio e gli alberi di trasmissione inclinati a triangolo e collegati all’asse
posteriore. Non uno ma due compressori permettevano di raggiungere i 180
CV a 5600 giri al minuto. Il debutto avvenne al 10° Gran Premio d’Italia a
Monza, del 5 giugno 1932, un altro degli esordi subito vincenti dell’Alfa. Nel
restante scorcio di stagione la P3 vinse altri cinque gran Premi, e continuò la
serie di vittorie anche nell’anno successivo. Tanto che sulle sfolgoranti
prestazioni di questa vettura si basò il comunicato con cui nel 1933 l’Alfa
motivò il ritiro dalle corse (“abbiamo dimostrato al mondo quello che
volevamo, di essere invincibili”), in realtà causato da una seria crisi
economica. L’Alfa Romeo era infatti entrata a far parte del gruppo di
fabbriche controllate finanziariamente dall’I.R.I., Istituto di Ricostruzione
Industriale, e parve logico ai dirigenti della casa concentrarsi sulle produzioni
di serie piuttosto che sui modelli da competizione.
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Nel 1934, e più segnatamente nel 1935, cominciò a farsi pesante la superiorità
dei modelli tedeschi della Mercedes e della Auto Union. L’unica eccezione alla
loro marcia trionfale fu costituita dalla leggendaria prova che Nuvolari diede,
complice una tipo B con cilindrata maggiorata a 3800 cc, al Gran Premio del
Nurburgring del 1935, rimasto una pietra miliare nella storia
dell’automobilismo sportivo. Per l’Alfa Romeo fu l’ultima gara in cui ribadì la
sua la supremazia sportiva.
Ancora una volta chiamato a progettare l’erede delle sue vetture più di
successo, Jano presentò al Salone dell’Automobile di Milano del 1934 la 6C
2300 Turismo, che nelle intenzioni della casa doveva sostituire la gloriosa
1750. In quel periodo il progettista cominciava a trovarsi in una curiosa
situazione: per decisione di Ugo Gobbato, direttore generale dell’Alfa Romeo,
nominato dall’IRI, aveva dovuto lasciare la direzione tecnica dei motori
d’aviazione e dei veicoli industriali. Manteneva invece la responsabilità del
programma di corse (a lui furono infatti affidati i rapporti con la Scuderia
Ferrari) e della produzione di serie. Proprio per la Scuderia Ferrari Jano mise
in cantiere il progetto della Tipo C, ma per la prima volta la costruzione della
nuova vettura subì dei ritardi e l’esordio avvenne solamente nel settembre
1935 al Gran Premio d’Italia a Monza. Anche per la versione successiva, la 12C
1936, si registrarono dei ritardi: il motore, progettato nel 1934, fu messo al
banco solo nel gennaio 1936.
Stava succedendo qualcosa, che forse Jano non aveva previsto, più difficile da
affrontare della supremazia tecnica tedesca. Stava succedendo che in azienda
non aveva più l’ascendente di sempre. Personalità monolitica, accentratrice e
ingombrante, non era certamente un gioviale, o un simpatico: e questa sua
incapacità a tessere rapporti anche “politici” lo penalizzò non poco. Gobbato,
che ne aveva già sostanzialmente ridotto le funzioni, non l’aveva in gran
simpatia; ed era portato a ritenere che il suo ingegno fosse esaurito. Altri
progettisti, intanto, come Gioachino Colombo, che nel 1937 verrà “ceduto”
alla Scuderia Ferrari dove progettò la splendida 158, cominciavano a sentirsi
un po’ sacrificati a lavorare alle sue dipendenze. Lentamente, ma neanche
troppo, Jano divenne una persona tollerata, anziché tenuta in pregio come
egli riteneva gli fosse dovuto. Non erano più le condizioni migliori per
lavorare bene. Quando Guidotti si ritirò dal Gran Premio d'Italia nel
settembre 1937 con l’assale posteriore della 12C danneggiato, qualcuno disse
“Questo segnerà la fine di Jano”
Gobbato, se da una parte non riteneva più Jano un uomo d’avanguardia, e
sicuramente non in grado di sostenere l’offensiva tedesca, subiva invece,
proporzionalmente, l’influenza di Wilfredo Ricart, che puntava palesemente a
prenderne il posto. Aumentava anche l’insofferenza di Colombo, che pure era
stato fidato allievo di Jano. Se si è in gamba non si rimane allievi tutta la vita,
e Colombo era ansioso di dimostrare finalmente il suo valore, senza più tutele.
“Jano era uomo che non lasciava molto spazio, aveva una personalità, direi,
ingombrante”, lo definì Ferrari. Quando partiva con una sua idea, pretendeva
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che tutti gli altri lo seguissero, era “terribilmente deciso”. Ossia, tradotto dal
già trasparente tono di Ferrari, non lasciava alcuno spazio agli altri, e forse
era provvisto anche di una buona dose di “narcisismo tecnico”. In una
intervista del 1981, a Ferrari è chiesto un giudizio spassionato sul valore del
contributo tecnico dato da Jano all’Alfa. Certo, Ferrari risponde
“determinante”, ma poi aggiunge alcune considerazioni che vale la pena di
rileggere per esteso: “Il giorno in cui sono uscito dall’Alfa mi sono reso conto
che si facevano sì delle cose meravigliose, ma c’erano anche delle grosse
lacune. Jano ha avuto il vantaggio di venirsi a trovare in un ambiente in cui
c’erano degli ottimi esecutori per le sue idee e dove si adoperavano materiali
e tecnologie d’avanguardia. Ad esempio nel campo della fonderia, nel settore
metallurgico, l’Alfa era all’avanguardia. Se si pensa che negli anni trenta i
cilindri delle nostre monoposto erano fusi in lega leggera e la sede delle
valvole non era riportata: la valvola funzionava sul metallo leggero
indurito…Non solo ma per la 6C 1750 erano già stati fatti alcuni esemplari
dell’autotelaio in duralluminio stampato”. Una consapevolezza presente
anche in Jano, che intervistato nel 1936 dalla rivista RACI, a crisi già
annunciata, disse: “Il vero problema nuovo è quello dei materiali. È un
problema metallurgico. Occorrono metalli che accoppino la grande
leggerezza alla grande resistenza. Molti sono gli organi di una vettura da
corsa che sono gravati da materiali pesanti, a tutto detrimento della vettura
considerata come rendimento. La tecnica del telaio, per esempio, non è
tecnica di disegni che in piccola parte. E’ tecnica metallurgica, invece, in
maniera preponderante. ..Gli indiscutibili successi colti dall’industria
automobilistica tedesca in questi ultimi tempi sono legati indissolubilmente
ai grandi passi fatti recentemente mercé il grande studio e la encomiabile
organizzazione dall’industria metallurgica teutonica. Poter fare una
macchina di 4 litri che pesi, ad esempio, 7 quintali e mezzo e schierarla
contro macchine che pesano 7 quintali e mezzo ma hanno una cilindrata di 3
litri significa disporre di un grande margine di velocità sugli avversari”.
A fine stagione 1937, quando Jano si rese conto che l’Alfa avrebbe scommesso
tutto su una vettura da corsa non sua, la 158 realizzata da Gioachino Colombo
alla Scuderia Ferrari insieme a Bazzi, a Nasi e a Massimino (altro transfuga
Fiat) capì, con infinita amarezza, che il suo periodo era concluso. E con
coerenza (la coerenza di cui parlava Ferrari?) se ne andò. Dalle cronache dei
giornali (“Jano si distacca dall’Alfa per un necessario periodo di riposo”)
l’usuale ipocrisia copre a malapena la caduta del grande, a cui “tutti gli
sportivi italiani gli inviano il deferente e ricordevole saluto delle armi”. Che,
difatti, viene generalmente tributato ai vinti.
Poche settimane dopo, alla fine del 1937, Vittorio Jano entrava in Lancia,
come Direttore del Reparto Esperienze. Per lui si aprì una nuova stagione, per
di più nella città natale. I disegni dell’Ardea, dell’Aurelia, del camion Esatau
passarono per le sue mani. Particolarmente quest’ultimo, dal motore
silenzioso e poco inquinante (per l’epoca) può considerarsi suo; come mise
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mano anche al progetto della piccola Appia, con uno straordinario motore da
1100 cc e 83 kg di peso.
Gli anni però erano passati e non avevano portato soltanto una guerra
mondiale, ma un colpo ben più terribile per Jano: la morte improvvisa di
Francesco, il figlio ventenne, durante il Servizio Militare, sembra per una
banale quanto fatale malattia ai polmoni. Riemerse da quel periodo
invecchiato di cento anni, ancora più introverso, ancora più chiuso in se
stesso. La sua inflessibilità, la sua rigidità verso subordinati e superiori si
accentuò. Ma non erano più gli anni venti, o gli anni trenta. Erano gli anni
cinquanta, Jano era invecchiato, i suoi “avversari” erano invece nel pieno
delle loro forze. A questo proposito può essere illuminante una memoria
scritta da Ettore Zaccone Mina, progettista Lancia, e conservata al Museo
dell’Automobile di Torino: “Nel 1951 l’ing. Gianni Lancia decide di entrare
nel campo delle competizioni con le vetture D20 (in realtà le B20, nda) ed
incarica il comm. Jano di formare e dirigere un gruppo di persone per la
progettazione, collaudo e costruzione delle particolari vetture che avrebbero
sostituito le speciali Aurelia. Jano, distogliendoli dall’Ufficio Progetti di
Produzione, scelse me per i motori, Bosco per le trasmissioni e i cambi, Faleo
per i telai, Gillio e Mattei per i collaudi, Gariglio e Cibrario per la
costruzione. Tutte queste persone erano singolarmente e direttamente
responsabili del proprio settore verso il comm. Jano, il quale a sua volta
riferiva all’Ing. Lancia, che seguiva intensamente il programma da lui
voluto. Dopo i successi ed insuccessi che tutti conosciamo l’ing. Lancia, a mio
parere mal consigliato data la precaria situazione finanziaria dell’Azienda,
decide il proseguimento del programma con la F1. A questo punto inizia il
deterioramento dei rapporti, già tesi, tra me e il comm. Jano, il quale, non
sentendosi tranquillo e non essendo più aggiornato, avrebbe voluto al suo
fianco una persona con una lunga e collaudata esperienza specifica; a tale
proposito, corse voce che avesse preso contatti con l’ing. Lampredi, allora
alla Ferrari e pare desideroso di uscirne. L’ing. Lancia …diede a me tutta la
sua fiducia con l’incarico della progettazione del nuovo motore, pur sapendo
di dare un piccolo dispiacere al povero Jano…Con il procedere dei lavori, i
rapporti con Jano si guastarono sempre più, sviluppai delle soluzioni
suggeritemi e di cui ancora sono in grado di documentare, largamente
superate; trovai difficoltà a proseguire, anche per il fatto che Jano, pur
essendo stato un grande progettista, non era più in grado di affrontare
nuovi problemi nel campo dei motori: alimentazione comandata,
equilibratura dell’albero motore che non conosceva affatto, nuove camere di
combustione, distribuzione ed altri ancora . Mi sono trovato perciò in una
situazione assurda…I lavori procedevano lentamente e l’ing. Lancia…un
giorno mi convocò nel suo ufficio ed in presenza del Comm. Jano mi diede la
completa libertà di procedere nella stesura del progetto definitivo, con
l’impegno di riferire a lui direttamente”. Guido Rosani, memoria storica del
periodo d’oro delle Lancia da corsa, ha sostanzialmente confermato quanto
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rivendicato, con comprensibile orgoglio, da Zaccone Mina. La “tignoseria
tecnica” di Jano, la sua scarsa sportività nel rifiutarsi ad un gioco di squadra,
è ulteriormente confermata, racconta Rosani, da un incidente che capitò negli
anni successivi, tra il 1953 e il 1957, con protagonista un altro grande
progettista, Alberto Massimino. Questi aveva sottoposto a Jano nell’ottobre
del 1953, un suo brevetto per una trasmissione a ruote indipendenti (brevetto
506172 depositato il 6 ottobre 1953 per “sospensione a ruote indipendenti per
autoveicoli ad assali infulcrati al veicolo al di là della sua mezzeria
longitudinale”). La risposta di Jano fu sdegnosa: “La sospensione che lei ha
studiato può anche andare bene, ma è più complicata, costosa e pesante di
quella da noi adottata sulla vettura Aurelia…Quindi a mio parere La
consiglio di non spendere tempo e denaro”. Sic. Allegato alla lettera di
risposta, anche il disegno inviato da Massimino, con tanto di correzioni
vistose. Passarono quattro anni, e il Massimino si rese conto che, come scrive
in una lettera alla Lancia del 4 maggio 1957, “la soluzione della sospensione
posteriore realizzata da questa ditta nel 1954 – 1955 per le sue vetture da
corsa di F1 cade nelle rivendicazioni 1) e 2) del predetto brevetto”. La Lancia,
inizialmente, non rispose nemmeno. Dopo alcuni solleciti, messo alle strette,
Jano dichiarò di avere studiato e costruito a scopo sperimentale la
sospensione, prima di conoscere l’esistenza del brevetto Massimino: ma
l’argomentazione non resse. La Lancia aveva adottato proprio quella
sospensione sulla vettura portata alla vittoria da Alberto Ascari al Gran
Premio di Napoli del 1955 e la Ferrari stessa la applicò su una vettura per il
pilota Collins nel 1957. “Di seguito all’amichevole intervento del Cav. del
Lavoro Enzo Ferrari ed a transazione di ogni Sua eventuale ragione nei
nostri confronti per la realizzazione delle sospensioni predette e per l’uso
fattone, Le versiamo la somma di lire 200.000 (Lancia) + lire 100.000
(Ferrari)”, scrisse la Lancia il 2 gennaio 1958 ad Alberto Massimino. Una
magra figura da parte di chi aveva consigliato Massimino di non spendervi
“né soldi né denaro”.
La Lancia F1, da molti ritenuta il “canto del cigno” di Jano, ebbe gestazione
lunga. Si trattava di una macchina con alcune soluzioni molto originali, come
i serbatoi laterali (un’idea di Gianni Lancia, mutuata dall’aeronautica), ma
che nel suo insieme riprendeva lo schema della Mercedes RW125. Dopo mesi
di prove e collaudi riuscì finalmente a risolvere i vari problemi che
l’affliggevano e ad imporsi, con Ascari, al Gran Premio del Valentino e di
Napoli della primavera 1955. Proprio in primavera, in Lancia era arrivato
Fessia, poco propenso a sostenere ulteriormente il programma di corse. E
proprio in primavera, a marzo, Jano rassegnò le dimissioni dalla Lancia, pur
rimanendo consulente tecnico.
Parve strana questa decisione presa esattamente all’indomani di una vittoria
(quella al Valentino). La stampa commentò stupita il fatto, ricordando
sommessamente come fosse “anche probabile che qualcuno abbia guardato
a Jano come ad un uomo superato, prigioniero forse di concetti tecnici
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vecchi di trent’anni”. Egli stesso dava fisicamente di sé l’impressione di un
uomo stanco, sfiduciato, e soprattutto solo. Alle prove del Valentino, “se ne
stava isolato, cinquanta metri prima dei boxes, un piede appoggiato sopra
una balla di paglia, il volto affilato solcato da rughe profonde e pallido più
di sempre, l’immancabile bocchino di cartone serrato tra i denti e nel quale
aspirava una sigaretta lentamente, da fumatore spietato”. Può aver giocato
nelle sue dimissioni una rivolta istintiva, ancora prima che meditata, verso
una vettura progettata da altri, come già nel caso della 158 all’Alfa Romeo?
“Questo addio di Vittorio Jano all’automobilismo per così dire attivo, nel
giorno in cui le vetture da lui ideate e preparate hanno dissipato i dubbi,
smorzato le polemiche e magari stroncato insinuazioni, ha un significato
patetico che da’ un senso di commozione. Può anche avere un sapore
polemic0, ma a noi piace sottolinearne solo il lato umano”.
Restò consulente alla Lancia per poco tempo. La morte di Ascari nel maggio
1955 provocò il ritiro della Lancia dalle corse, la consegna delle vetture e di
tutto il materiale alla Ferrari (la quale come è noto, si aggiudicò il Campionato
Mondiale l’anno successivo, il 1956). Jano seguì le vetture a Maranello, e
continuò per molti anni a far il consulente per Ferrari, andando a trovare il
“patron” una o due volte al mese.
Nell’aprile del 1965, pochi giorni dopo la morte di Jano, Domenico Jappelli ne
scrisse un lungo e approfondito ricordo su “Tuttomotori”. Pur nella
commozione del momento, e cercando di tributargli l’omaggio più intenso,
non poté non partire dal definire la sua personalità “ritrosa e austera,
distaccata e sdegnosa”, né poté sorvolare su “gioie incompiute per
incomprensioni ed invidie”, su “una vita interiore inflessibile, segnata da
apparenti contrasti e paradossi”. “Maestro di tecnica e di vita…non soltanto
un progettista ma un precursore ed un realizzatore, un gigante della tecnica
automobilistica mondiale”. Un uomo dalla lunga vita di luci ed ombre, che
forse sopravvisse a se stesso e, perso in una sconfinata solitudine, se ne rese
conto.
Donatella Biffignandi
Centro di Documentazione del Museo Nazionale dell’Automobile di Torino
(2005)
BIBLIOGRAFIA
Enciclopedia Treccani – Enciclopedia dello Sport – vol. Motori, Roma
2003
“Automobili Fiat” – di Angelo Tito Anselmi, edizioni della Libreria
dell’Automobile, Milano, 1986
“Uomini e Motori”, di Giovanni Canestrini, Monza, 1957
“Le briglie del successo”, di Enzo Ferrari, Modena, 1970
12
“Automobile design: great designers and their work”, by R.Barker e
A. Harding, Cambridge, 1970, “Vittorio Jano”, by Angela Cherrett and
xxx
“Alfa Romeo i creatori della leggenda”, di Griffith Borgeson, Giorgio
Nada Editore, Milano, 1990
“Le Alfa Romeo di Vittorio Jano”, di Luigi Fusi, Enzo Ferrari,
Griffith Borgeson, a cura di A.T.Anselmi e V.Moretti, Autocritica, 1982
“D24 e le Lancia Sport”, di Guido Rosani, 1991, Avritempore
Edizioni
Conferenza su Carlo Cavalli tenuta da Antonio Amadelli a Santa
Maria Maggiore, luglio 1999
Conversazione di Enzo Ferrari con Gonzalo Alvarez Garcia, Angelo
Tito Anselmi e Valerio Moretti del 31 marzo 1981, Maranello
Tuttomotori, aprile 1965, pag. 18 “Si è spenta una luce
dell’automobilismo mondiale”, di Domenico Jappelli
RACI, 23 febbraio 1936, pag. 319, “Vittorio Jano nell’intimità”, di
Carlo Brighenti
La Stampa, 14 marzo 1965, “Tragica fine di un pioniere dei motori”, di
Ferruccio Bernabò
“Ricordo di Vittorio Jano”, di Domenico Jappelli, Rivista Lancia, estate
1965
La Vie de l’Auto, 91-06 e 91-07, “Vittorio Jano”, par Griffith Borgeson
Si ringraziano Sébastien Faurès Fustel de Coulanges (per la
documentazione
Bertarione);
Guido
Rosani
(per
la
documentazione Massimino)
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