rapporto wp (finale) 01.07.2014 - Federazione Acli Internazionali
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rapporto wp (finale) 01.07.2014 - Federazione Acli Internazionali
Commissione istruttoria per le politiche del lavoro e dei sistemi produttivi (II) _____________________________ 1 luglio 2014 Seminario “Working poor: un’analisi sui lavoratori a bassa remunerazione dopo la crisi” ___________________________ CNEL - Sala Gialla, ore 9.00 I dati riportati nel presente rapporto sono stati curati per il CNEL dal Centro di Ricerca sui problemi di Economia del Lavoro e dell'Impresa (CRELI) dell'Università Cattolica di Milano. Il gruppo di lavoro coordinato dal prof. Claudio Lucifora con la collaborazione di Valentina Ferraris Indice Capitolo 1 - Crisi, impoverimento ed effetti sui salari 5 Redditi sotto pressione Riquadro - L'indagine sulle condizioni di vita Riquadro - La caduta delle ore lavorate come conseguenza della crisi Riquadro - Le diseguaglianze promuovono o rallentano la crescita? Capitolo 2 - I working poor 28 Il lavoro è ancora un’assicurazione contro la povertà? Chi sono e quanti sono i working poor Riquadro - working poor e sommerso Evoluzione temporale: prima e dopo la crisi Bassi salari e caratteristiche socio-economiche Mobilità salariale e bassi salari: gradino di ingresso o trappola della povertà? Riquadro: bassi salari e qualità del lavoro Capitolo 3 - Famiglie, lavoro e povertà 70 Cresce la povertà tra le famiglie italiane Lavoro e povertà: In-work poverty In-work poverty e working poor Capitolo 4 – Le politiche di contrasto 85 Le principali conclusioni Le politiche di contrasto alla povertà degli individui Riquadro: I minimi contrattuali sono davvero minimi? Le politiche di contrasto alla povertà delle famiglie Bibliografia 102 3 Capitolo 1 - Crisi, impoverimento ed effetti sui salari Redditi sotto pressione La crisi che l'economia italiana sta sperimentando ormai da parecchi anni non ha precedenti, per intensità e durata, nella storia recente. La recessione è infatti in atto dal 2008, con la sola eccezione del 2010, e si è tradotta in una perdita complessiva di circa nove punti percentuali di prodotto tra il 2007 e il 2013. La perdita è molto ampia, e per alcuni importanti settori (industria e costruzioni) è stata ancora più rilevante. Ne sono derivati effetti notevoli anche sul mercato del lavoro. La contrazione nei livelli produttivi si è tradotta nella caduta della domanda di lavoro, sebbene nello stesso tempo di sia osservata una riduzione della produttività che ha assorbito parte degli effetti sull'occupazione. Il labour hoarding, ovvero il fenomeno di trattenere presso le imprese parte dell'occupazione in eccesso rispetto ai fabbisogni produttivi al fine di minimizzare i costi di recruitment una volta svoltato il ciclo, si è tradotto in una riduzione della produttività oraria. Inoltre, sono diminuite le ore lavorate, grazie al ricorso alla Cassa Integrazione, alle ferie arretrate, al taglio degli straordinari e alla diffusione del part time, limitando la flessione nel numero di occupati1. Ciò nonostante, gli occupati negli ultimi cinque anni si sono ridotti complessivamente di oltre 4 punti percentuali: nel 2013 risultavano persi quasi 967mila posti di lavoro rispetto al 2008. Gli effetti sono stati devastanti anche dal punto di vista sociale. Se nella prima fase della crisi l'incremento della disoccupazione è stato contenuto (dalla flessione nell'offerta, legata anche al fenomeno dello scoraggiamento, e dal labour hoarding), nel corso dell'ultimo triennio il tasso di disoccupazione è invece rapidamente aumentato. Nel 2013 il tasso di disoccupazione è salito al 12.2 per cento, un livello mai toccato negli ultimi 36 anni, superiore ai massimi precedenti di metà anni novanta, e a gennaio 2014 il suo livello è stato record, pari al 12.9 per cento. Al contempo è cresciuta anche la diffusione della condizione di sottoccupazione, ovvero di persone che lavorano meno di quanto sarebbero disposte a fare o che svolgono lavori per i quali sono sovraqualificate. 1 La riduzione delle ore lavorate è stata notevole e, come si vedrà più avanti nel capitolo, ha colpito soprattutto i lavoratori a bassa retribuzione e quelli più deboli: la Cassa Integrazione, ad esempio, non è prevista per le posizioni apicali (es. dirigenti) e anche il ricorso al part time involontario è stato maggiormente diffuso tra chi entra nel mercato del lavoro. 4 Ad essere stati particolarmente colpiti sono i più giovani, che scontano ormai tempi di attesa molto lunghi, superiori a quelli della media europea, per entrare nel mercato del lavoro: il tasso di disoccupazione giovanile (tra i 15 e i 24 anni) a inizio 2014 risulta essere del 42.4 per cento; i disoccupati rappresentano ormai l'11.3 per cento della popolazione nella fascia d'età 15-24 anni. La situazione di debolezza in cui si trova il mercato del lavoro riflette la condizione di intensa difficoltà che tutto il sistema economico sta attraversando. A farne le spese sono anche i livelli retributivi. Sui rinnovi contrattuali ha pesato la congiuntura negativa e l’elevata disoccupazione, che hanno frenato la dinamica contrattuale: nel privato (industria e servizi privati) la crescita tendenziale delle retribuzioni contrattuali orarie nell’ultimo triennio ha oscillato attorno al 2 per cento, a fronte di tassi medi prossimi al 3 per cento nel quinquennio precedente. Un altro aspetto rilevante che ha influito sulla dinamica complessiva delle retribuzioni è il blocco salariale nel settore pubblico: tale misura, introdotta per limitare la crescita della spesa pubblica e riportare sotto controllo i conti nella fase più acuta della crisi del debito sovrano, ha avuto come effetto una crescita nulla delle retribuzioni contrattuali nominali per i dipendenti pubblici. Tanto che negli ultimi anni i salari dei dipendenti pubblici hanno perso terreno rispetto a quelli dei dipendenti del privato. Dato il peso non trascurabile del settore pubblico sull’occupazione (circa il 23 per cento), il blocco salariale nel pubblico si è riflesso in una crescita modesta delle retribuzioni pro capite complessive, che si è pressoché dimezzata nell’ultimo triennio rispetto ai tassi osservati mediamente nel quinquennio precedente. La crisi ha comportato anche un indebolimento delle componenti retributive di secondo livello (come straordinari, premi di produttività, bonus), legate all’andamento del ciclo. In una fase di debolezza del ciclo è normale che queste componenti vengano parzialmente meno; lo slittamento salariale, dato dalla differenza di crescita tra le retribuzioni di fatto – che includono le componenti di secondo livello – e quelle contrattuali è rimasto negativo nell’ultimo triennio. Il wage drift negativo da tre anni e la dinamica contenuta delle retribuzioni contrattuali si riflettono in un’evoluzione modesta delle retribuzioni pro capite di fatto. In termini nominali, queste sono cresciute mediamente di circa un punto percentuale su base tendenziale nel corso dell’ultimo triennio. 5 Grafico 1 Retribuzioni contrattuali - industria e servizi privati 4.5 4.0 3.5 3.0 2.5 2.0 1.5 1.0 06 07 08 09 10 11 12 13 14 var % a/a indice delle retribuzioni contrattuali orarie, totale dipendenti al netto dei dirigenti. Fonte Istat Grafico 2 Retribuzioni contrattuali - PA 6.0 5.0 4.0 3.0 2.0 1.0 0.0 06 07 08 09 10 11 12 13 14 var % a/a indice delle retribuzioni contrattuali orarie, totale dipendenti al netto dei dirigenti. Fonte Istat 6 Grafico 3 Retribuzioni di fatto pro capite 6.0 5.0 4.0 3.0 2.0 1.0 0.0 06 07 08 09 10 11 12 13 var % a/a indice delle retribuzioni di fatto per ULA. Fonte Istat Grafico 4 Wage drift - industria e servizi privati 2.0 1.0 0.0 -1.0 -2.0 -3.0 -4.0 06 07 08 09 10 11 12 13 differenza tra var % retribuzioni di fatto procapite e retribuzioni contrattuali orarie. Elaborazioni su dati Istat Se in termini nominali la dinamica salariale è risultata al più modesta, in termini reali si sono osservate variazioni negative. Benché l'inflazione abbia evidenziato una marcata 7 decelerazione nel corso del 2013, i tassi di crescita dei prezzi sono stati prossimi al 3 per cento nel biennio 2011-2012, comprimendo l’andamento dei salari reali tanto da registrare tassi di variazione negativi. La caduta nei livelli occupazionali e la stagnazione dei salari reali si è riflessa sull'andamento sui redditi disponibili familiari, dei quali i redditi da lavoro rappresentano una componente prevalente. I dati Istat circa il reddito disponibile evidenziano come questo sia, in termini reali, in calo ininterrotto dal 2008. Nel corso degli ultimi sei anni la perdita complessiva è stata di oltre dieci punti percentuali. Considerando inoltre che nello stesso periodo la popolazione residente in Italia ha continuato a crescere, grazie all'apporto del saldo migratorio netto, il reddito pro capite ha registrato un crollo, tornando sui livelli della seconda metà degli anni ottanta. Il deterioramento delle condizioni economiche si è tradotto in un generale impoverimento delle famiglie italiane. È aumentata la diffusione della povertà, anche presso sottogruppi della popolazione che tradizionalmente presentano una incidenza del fenomeno molto contenuta (Rapporto di Coesione sociale 2013). Dai dati macro a quelli elementari I dati finora analizzati sono dati macroeconomici, di fonte prevalentemente di contabilità nazionale, che consentono di delineare un quadro macro delle evoluzioni del reddito e delle retribuzioni nel tempo. I dati pro capite di retribuzioni e reddito sono sostanzialmente una media (tra i residenti, tra gli occupati dipendenti, o tra le unità di lavoro equivalenti a tempo pieno, in modo da tenere da conto delle differenze nelle ore lavorate). Per la loro natura, questi dati non consentono però di fare analisi approfondite sugli aspetti distributivi o sulle caratteristiche dei lavoratori2. Per far ciò è necessario ricorrere a dati elementari, ricavati da indagini campionarie. Utilizzando questi dati è quindi possibile inferire alcune informazioni circa le retribuzioni e i redditi individuali, e osservarne la distribuzione. Riquadro - L'indagine sulle condizioni di vita (IT-SILC) 2 Com’è noto, la media è un indicatore che descrive sinteticamente un insieme di dati ma, oltre a risentire notevolmente degli outlier, non fornisce informazioni sulla distribuzione dei dati in questione. 8 L’Indagine sulle condizioni di vita condotta per l'Italia dall’Istat in collaborazione con Eurostat nasce all’interno di un più ampio progetto denominato “Statistics on Income and Living Conditions” (SILC) deliberato dal Parlamento Europeo e coordinato a livello europeo da Eurostat. Il progetto consente di avere un’informazione statistica dettagliata su argomenti come redditi, povertà, esclusione sociale, deprivazione, qualità della vita, con indicatori armonizzati a livello comunitario. L’indagine contiene informazioni su redditi e spese familiari, ma anche informazioni individuali sui componenti della famiglia, riguardanti status occupazionale, istruzione, redditi percepiti, per gli anni compresi tra il 2004 e il 2011. Retribuzioni in flessione Le retribuzioni mensili lorde medie calcolate a partire dai dati elementari evidenziano una tendenza moderatamente crescente almeno fino al 2010, interrottasi poi nel 2011. I dati sono espressi in termini nominali, ovvero non corretti per l’inflazione, e differiscono dai dati derivati dalla contabilità perché basati sulle dichiarazioni dei soggetti interpellati nell’indagine. In media, le retribuzioni mensili lorde sono passate da 1734 euro nel 2004 a 1813 nel 2011. Correggendo però per l'inflazione si osserva, con una conferma del quadro delineato dai dati macro, che il trend dei salari reali medi si appiattisce tra il 2006 e il 2010, per poi registrare una contrazione nel 2011. Come è stato sottolineato, le medie risentono degli outlier, e nelle distribuzioni non simmetriche, come sono tipicamente quelle del reddito, in cui c’è un addensamento verso i valori più bassi e la coda inferiore, mentre nella coda superiore ci sono meno osservazioni, ma con valori più alti che influiscono sulla media, i valori medi sono superiori alla mediana, che invece rappresenta la posizione centrale nella distribuzione. I trend descritti dalle mediane delle retribuzioni lorde mensili, sia in termini nominali che reali, non sono molto diversi da quelli delineati dalle medie, ma i valori sono ovviamente inferiori. Sulla base dei dati IT SILC si passa, in termini nominali, da 1514 euro lordi al mese nel 2004 a 1650 nel 20113. 3 Secondo i dati dell'indagine SES (Structural Earnings Survey), condotta da Eurostat, nel 2010 la retribuzione mensile media in Italia era di 2286 euro, che però includeva anche le mensilità non standard; inoltre la survey è condotta presso le imprese - e non i lavoratori, come invece l'IT SILC, e solo presso 9 Grafico 5 Retribuzioni lorde mensili - medie nominali reali 110 105 100 95 90 85 80 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 indice base 2004=100, elaborazioni su dati IT-SICL Istat Grafico 6 Retribuzioni lorde mensili - mediane nominali reali 115 110 105 100 95 90 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 indice base 2004=100, elaborazioni su dati IT-SICL Istat imprese con più di 10 addetti, escludendo così molte imprese in Italia, data la dimensione media ridotta, oltretutto imprese le cui retribuzioni tendono ad essere più basse. Sono inoltre esclusi molti settori. 10 Naturalmente, il fatto di lavorare a tempo pieno o parziale comporta livelli retributivi piuttosto diversi: poiché con la crisi il numero di lavoratori part time è aumentato, non è da escludere un effetto composizione che spieghi almeno in parte l'andamento stagnante delle retribuzioni reali osservato in termini reali. L'effetto composizione è più importante per le retribuzioni mediane: i lavoratori part time sono difatti pagati complessivamente meno, lavorando meno ore, e tendono a concentrarsi nella parte bassa della distribuzione. Distinguendo tra lavoratori dipendenti a tempo pieno e quelli a tempo parziale si osservano due andamenti pressoché speculari delle retribuzioni (considerando i valori mediani). Per i lavoratori full time le retribuzioni mediane si sono ridotte in termini reali nella prima parte del periodo di osservazione (tra il 2004 e il 2007), riflettendo probabilmente anche composizioni meno favorevoli con un aumento della presenza di lavoratori a termine, a fronte di un lieve incremento invece delle retribuzioni mediane per i part time. La situazione si è invertita invece nel periodo post crisi; le retribuzioni per i lavoratori a tempo pieno sono rimaste pressoché stabili, mentre quelle dei lavoratori a tempo parziale, al di là di oscillazioni da un anno all'altro, hanno evidenziato dal 2010 una decisa riduzione. Sulla base di queste osservazioni preliminari, si rileva come il deterioramento recente si sia concentrato soprattutto sui lavoratori a tempo parziale, riflettendo probabilmente anche una composizione meno favorevole, con un incremento dell'incidenza di lavoratori in professioni meno qualificate o con contratti meno vantaggiosi. 11 Grafico 7 Retribuzioni lorde mensili reali - val.mediani dip.full time dip.part time 106 104 102 100 98 96 94 92 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 indice base 2004=100. Elaborazioni su dati IT-SILC Istat Gli autonomi non sono stati risparmiati In Italia i lavoratori autonomi rappresentano una quota importante dell'occupazione complessiva: il lavoro autonomo, soprattutto durante le fasi di ristrutturazione industriale del passato, è stato spesso una maniera per assorbire occupazione dipendente in eccesso. Negli ultimi anni, però, l'occupazione autonoma ha anche incluso forme occupazionali che nei fatti sono poco autonome; è fiorito l'utilizzo delle partite Iva individuali per impiegare professionisti, soprattutto giovani, in forme di parasubordinazione. Benché inquadrati, ai fini della normativa fiscale e previdenziale, come autonomi, questi lavoratori sono di fatto impiegati in posizioni lavorative assimilabili per condizioni e prospettive a quelle dei dipendenti a termine. Un'analisi dei redditi da lavoro autonomo evidenzia come anche questi abbiano risentito della crisi. La crescita dei redditi si è interamente concentrata nel periodo pre-crisi, ma tra il 2007 e il 2011 i redditi medi da lavoro autonomo4 si sono ridotti complessivamente dell'1,4 per cento. La contrazione è stata più intensa (-2,3 per cento) 4 Dall'analisi sono stati esclusi i redditi negativi, riducendo così il campione e "sottostimando" così la riduzione totale. 12 per i redditi mediani, evidenziando come è stata soprattutto la prima metà della distribuzione a subire le maggiori riduzioni. In termini reali, la riduzione del reddito mediano da lavoro autonomo tra il 2007 e il 2011 è stata di oltre 10 punti percentuali. D'altra parte con la crisi molte imprese, soprattutto piccole, hanno sperimentato grosse difficoltà (e molte hanno dovuto chiudere), e anche i lavoratori in proprio e i parasubordinati sono stati pesantemente colpiti. I cambiamenti nella distribuzione Nel complesso, le retribuzioni medie si sono deteriorate, in termini reali: ma all'interno della distribuzione, gli effetti non sono stati uguali per tutti. Se si guardano le variazioni delle retribuzioni reali tra il 2007 e il 2011, si osserva che la contrazione registrata per la retribuzione mediana è più ampia di quella registrata per la media5. Scendendo nel dettaglio della distribuzione, si rileva come le contrazioni di entità maggiore si siano registrate in corrispondenza dei percentili inferiori della distribuzione, ovvero per quei lavoratori che ricevono retribuzioni più basse. Il primo decile ha sperimentato una riduzione delle retribuzioni reali di oltre il 10 per cento in un quadriennio, mentre per l’ultimo decile la variazione è pressoché nulla. L’impressione è che quindi la crisi, nei suoi effetti sui livelli retributivi, sia stata asimmetrica. Ad essere maggiormente colpiti sono stati i decili più bassi, con un conseguente aumento delle disuguaglianze. Inoltre, la concentrazione degli effetti sui decili più bassi (anche se quelli più elevati non sono stati esenti dalle perdite) si è tradotta in un aumento dei rischi di povertà: anche chi si trovava poco sopra le soglie di povertà ha sperimentato uno scivolamento verso il basso. 5 Che risente maggiormente dei valori elevati della distribuzione. 13 Grafico 8 La perdita complessiva delle retribuzioni lorde durante la crisi p95 p90 p75 p25 p10 p5 -12% -10% -8% -6% -4% -2% 0% var % 2007-2011 retribuzioni lorde mensili reali, per diversi percentili della distribuzione del reddito. Elaborazioni su dati IT-SILC Istat In termini di salario orario6, invece, il quadro che si delinea appare contrastante con quello osservato in riferimento alle retribuzioni pro capite. I salari reali, infatti, mostrano un peggioramento abbastanza generalizzato, ma più marcato nella parte alta della distribuzione. Sembrerebbe esserci stata una sorta di compressione verso il basso dei salari nel corso del periodo 2004-2011, ovvero anche prima della crisi. Il confronto dell'evoluzione della distribuzione delle retribuzioni lorde e di quella dei salari orari, evidenzia due andamenti contrastanti: la prima suggerisce un ampliamento delle divergenze mentre la seconda, al contrario, una compressione verso il basso dei salari. Riquadro - La caduta delle ore lavorate come conseguenza della crisi Il puzzle dell'apparente contraddizione tra l'andamento delle retribuzioni e quello dei salari orari è risolto se si tiene in considerazione l'altro fattore, non meno importante - soprattutto durante le fasi di recessione o di espansione - che influisce sui livelli retributivi, ovvero il numero di ore lavorate. Il livello delle retribuzioni dall'andamento dei salari orari 6 I salari orari lordi rappresentano il prezzo del lavoro rilevante per le imprese. 14 - che riflettono la contrattazione e l'evoluzioni delle componenti di secondo livello - e da quello del numero di ore lavorate pro capite. Mediamente, le ore lavorate pro capite si sono ridotte tra il 2004 e il 2011: rimaste sostanzialmente stabili nella prima parte del periodo preso in esame, la contrazione si è concentrata soprattutto nella seconda parte (ed in particolare nel 2009). Per far fronte alla caduta della domanda e, di conseguenza, dei livelli produttivi, molte imprese hanno difatti ridotto le ore per lavoratore, ad esempio riducendo gli straordinari, utilizzando le ferie arretrate e quando possibile facendo ricorso alla Cassa Integrazione Guadagni. Questo fenomeno, segnalato anche dai dati macro e noto anche come labour hoarding, è piuttosto comune nelle fasi iniziali di recessione, quando le imprese, non sapendo se l'episodio recessivo è temporaneo o di natura più persistente, preferiscono incorrere nei costi legati alla minore produttività (via compressione dei margini) piuttosto che trovarsi a dover affrontare i costi derivanti dalla riduzione del personale, legati alla necessità di operare di nuovo i processi di selezione e formazione qualora ci fosse una ripresa a breve. Nel 2010, in coincidenza con il miglioramento del ciclo, le ore lavorate pro capite sono lievemente cresciute, ma nel periodo post crisi si resta su livelli ben distanti da quelli osservati in precedenza. Il ricorso alla Cassa Integrazione Guadagni ha raggiunto livelli massimi negli anni della crisi. Un altro fenomeno che ha cominciato a manifestarsi negli anni della crisi è stato l'incremento della diffusione del part time. Il lavoro a tempo parziale sta diventando via via più comune, perché spesso utilizzato per facilitare la conciliazione tra impegni familiari e lavoro, soprattutto per la componente femminile dell'occupazione. Nel periodo di crisi però si è osservato un aumento della diffusione dell'occupazione a tempo parziale anche per lavoratori disponibili a lavorare un numero maggiore di ore, mentre si è ridotta l'occupazione a tempo pieno; in altre parole, è cresciuto il part time involontario, che è una forma di sottoccupazione. 15 Grafico 9 Part time involontario 70 60 50 40 30 20 10 0 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 % di involontari tra occupati part time >15 anni. Dati Istat La diffusione del part time involontario, che interessa soprattutto chi entra nel mercato del lavoro, contribuisce a spiegare la riduzione delle ore lavorate pro capite. Se oltretutto si guarda come si sono ridotte le ore lavorate nei diversi decili della distribuzione dei salari è possibile rilevare come la caduta delle ore lavorate sia stata particolarmente marcata in corrispondenza dei primi decili, ovvero per quei lavoratori che percepiscono le retribuzioni più basse. La riduzione delle ore lavorate si è osservata anche nel periodo precedente la crisi, ma si è molto intensificata negli anni della crisi. Per i lavoratori dell'ultimo decile, invece, l'andamento delle ore lavorate non si è molto discostato da quello medio. In parte, la maggior tenuta delle ore per chi è nel decile più elevato è dovuta anche al fatto che in questo decile si concentrano i dirigenti, che non hanno diritto alla Cassa Integrazione. In conclusione, chi già lavora tendenzialmente meno ore (nel primo decile si trovano soprattutto lavoratori con retribuzioni molto basse e che lavorano meno di 30 ore settimanali nell'occupazione principale, dove già incide molto il lavoro a tempo parziale) è stato interessato da una riduzione più marcata degli orari lavorativi, soprattutto per effetto della crescente importanza di fattori istituzionali, come l'incremento della diffusione del part time involontario, di contratti a poche ore e del ricorso alla Cassa Integrazione. 16 Grafico 10 Ore lavorate in media a settimana totale lav.dipendenti primo decile ultimo decile 102 100 98 96 94 92 90 88 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 ore lavorate nell'occupazione principale, media lavoratori dipendenti, indice base 2004=100. Elaborazioni su dati IT SILC Istat La diversa evoluzione delle ore lavorate, con una contrazione molto più marcata per i lavoratori del primo decile, contribuisce a spiegare perché, nonostante una riduzione delle distanze in termini di salari orari, si sia osservata una crescente divergenza nelle retribuzioni mensili all'interno della distribuzione, con perdite concentrate soprattutto sui decili più bassi. Una crescente divergenza anche tra i redditi netti Per verificare l'ipotesi di una crisi asimmetrica nei sui effetti, sono stati analizzati anche i redditi netti per lavoro dipendente e come è cambiata la loro distribuzione nel tempo. I redditi da lavoro dipendente riflettono non solo le retribuzioni monetarie, ma anche quelle non monetarie, in natura, come i benefits (che in alcuni casi possono avere un valore non trascurabile); inoltre essendo valori netti, tengono conto dell’impatto del sistema fiscale, che ha anche la funzione di garantire una redistribuzione dei redditi. In questo caso si osserva una polarizzazione nell’entità delle contrazioni dei redditi reali: le contrazioni maggiori si osservano in corrispondenza dei percentili più bassi (-17 per cento la riduzione del reddito netto per il primo decile), ma anche per quelli più elevati, mentre sono risultate più contenute le perdite in termini percentuali per le 17 posizioni centrali. In termini assoluti, tra il 2007 e il 2011 gli occupati del primo decile (quelli che guadagnano il 10 per cento dei redditi più bassi) hanno perso 1450 euro netti all’anno in termini reali, un valore superiore alla perdita assoluta osservata per la media (1419 euro). Grafico 11 La perdita complessiva di redditi individuali netti da lavoro dipendente durante la crisi p95 p90 p75 p25 p10 p5 -30% -25% -20% -15% -10% -5% 0% var % 2007-2011 redditi reali netti, per diversi percentili della distribuzione del reddito. Elaborazioni su dati IT-SILC Istat Questi numeri suggeriscono come la distribuzione dei redditi da lavoro dipendente sia cambiata, andando verso una maggiore sperequazione. Un'ulteriore conferma viene dagli indicatori che generalmente sono utilizzati per valutare le disuguaglianze. Tra questi, i rapporti tra percentili e l’indice di Gini7. Il rapporto tra i percentili segnala se la distanza all'interno della distribuzione aumenta o si riduce nel tempo; un incremento dei rapporti tra percentili estremi indica una maggior diseguaglianza nella distribuzione dei redditi. 7 L'indice di Gini è un indicatore che offre una misura sintetica del grado di concentrazione nella distribuzione di una variabile: quanto più il valore è prossimo a 1 tanto più la distribuzione risulterà concentrata (la variabile, ad esempio il reddito, sarà interamente concentrata nell'ultimo percentile), mentre quando il valore è prossimo a 0 la distribuzione risulta equa (ogni percentile ha una quota uguale della variabile di cui si sta osservando la distribuzione). 18 Come segnalano le elaborazioni effettuate sulla base dei microdati da indagine IT SILC, l'indice di Gini per le retribuzioni lorde è sceso in misura statisticamente significativa8 tra il 2004 e il 2008. Tra il 2008 e il 2010 l'indice è rimasto pressoché stabile, ma dal 2011 si osserva un'inversione di tendenza significativa, con un deciso incremento dell'indice, segnale che la crisi prolungata ha cominciato ad avere effetti sulla distribuzione delle retribuzioni, con un aumento della disuguaglianza. Più smussati gli andamenti dell'indice di Gini calcolato per i redditi netti da lavoro dipendente (che tengono conto dei trasferimenti), ma che confermano sostanzialmente l'aumento della concentrazione nell'ultima fase. Tra il 2004 e il 2007 l'indice è rimasto stabile (le variazioni non risultano statisticamente significative); dopo una riduzione temporanea nel 2008 e una sostanziale stabilità nel biennio successivo, dal 2011 l'indice ha registrato un incremento, ovvero un aumento della sperequazione e un deterioramento della posizione relativa dei decili più bassi. Grafico 12 Indice di Gini per redditi netti da lavoro dipendente 0.29 0.28 0.27 0.26 0.25 0.24 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 i punti indicano gli estremi degli intervalli di confidenza. Elaborazioni su dati IT-SILC Istat 8 Ovvero quelle variazioni più ampie dell'intervallo di confidenza: quando sono variazioni all'interno di tale intervallo, si ritiene l'indice sostanzialmente stabile. 19 Ad ogni modo, l'evoluzione dell'indice di Gini suggerisce che la disuguaglianza nella distribuzione delle retribuzioni lorde e dei redditi netti è aumentata nell'ultima fase del periodo di osservazione, quando gli effetti della crisi hanno cominciato a manifestarsi in misura più marcata. Indicazioni non dissimili provengono dall'analisi dei rapporti inter-percentili. Esaminando i rapporti tra percentili dei redditi netti da lavoro dipendente, si osserva come in generale questi siano cresciuti tra il 2004 e il 2011 (periodo per il quale sono disponibili i microdati): se nel 2004 il reddito dell'ultimo decile era pari a 3,6 volte quello del primo decile, a fine periodo risulta essere pari a 4 volte, segno di un allargamento delle distanze tra gli estremi della distribuzione. Va sottolineato come il rapporto è rimasto sostanzialmente stabile nella prima parte del periodo, mentre è aumentato solo nell'ultimo triennio, quando hanno cominciato progressivamente a manifestarsi gli effetti della crisi. Guardando più nel dettaglio della distribuzione dei redditi netti, si osserva che la divergenza è stata prevalentemente nella metà inferiore della distribuzione: il rapporto tra la mediana e il primo decile, rimasto pressoché stabile nella prima parte del periodo, è aumentato nell'ultimo triennio di osservazione, raggiungendo quota 2,4. La distanza tra la mediana e l'ultimo decile è invece inferiore (l'ultimo decile è pari a 1,7 volte la media), e tale rapporto non ha sperimentato grossi mutamenti nel corso del periodo di osservazione. Considerando che nella seconda parte del periodo in esame i redditi mediani in termini reali sono rimasti stagnanti, per poi contrarsi nel 2011, l'aumento della distanza con i redditi più bassi suggerisce come per questi ultimi le difficoltà siano state ancora più intense. In altre parole, chi già percepisce redditi modesti da lavoro dipendente si è ulteriormente impoverito, sia in termini assoluti (come si è visto, per il primo decile i redditi reali si sono ridotti di 1450 euro nel periodo di crisi) che in termini relativi, ossia rispetto al resto della distribuzione. In conclusione, la crisi si è tradotta non solo in un arretramento delle retribuzioni e dei redditi, ma anche in un peggioramento della distribuzione delle stesse, con un ampliamento delle differenze e con un deterioramento soprattutto delle posizioni di chi già si trova a guadagnare redditi modesti. 20 Grafico 13 Rapporti interpercentili tra i redditi netti da lavoro dipendente ultimo/primo decile - scala sin mediana/primo decile ultimo decile/mediana 4.2 2.6 2.4 4 2.2 3.8 2 3.6 1.8 1.6 3.4 1.4 3.2 1.2 3 1 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 Elaborazioni su dati IT-SILC Istat Un generale impoverimento La crisi ha avuto origini finanziarie ed internazionali, ma si è sovrapposta a una situazione di grave debolezza strutturale dell'economia italiana, dovuta all'incapacità di reagire ai notevoli cambiamenti geopolitici, tecnologici e demografici degli ultimi decenni (come è stato ricordato nelle Considerazioni finali del Governatore della Banca d'Italia, a maggio 2013). Nelle pagine precedenti si è sottolineato come tale crisi stia cominciando sempre più a ripercuotersi sulla coesione sociale, a causa dell'aumento della disoccupazione, della sottoccupazione (ad esempio, per effetto del crescente ricorso al part time involontario), della riduzione dell'occupazione per le forme contrattuali più stabili. (Rapporto sulla Coesione sociale, 2013). La debolezza del mercato del lavoro si è tradotta anche in una dinamica sostanzialmente stagnante delle retribuzioni, tale da avere un arretramento in termini reali. In buona misura questo è l'esito della riduzione delle ore lavorate, ma anche per i salari orari reali si è registrata una diminuzione. La flessione delle retribuzioni reali e quella dell'occupazione hanno determinato una crescente pressione 21 sui redditi delle famiglie italiane. Inoltre, come hanno rilevato le elaborazioni sui microdati, la disuguaglianza è aumentata, con un ampliamento delle differenze e un arretramento soprattutto di chi già si trovava nei decili inferiori. È cresciuta la diffusione della povertà; i dati più recenti dell'Istat, relativi al 2012, evidenziano un'incidenza della povertà che non si era vista negli ultimi quindici anni. Le famiglie in povertà relativa erano il 12,7 per cento del totale: l'aumento dell'incidenza è stato notevole (in media, nel decennio precedente aveva sempre oscillato attorno all'11 per cento), soprattutto se si considera che il generale impoverimento ha determinato uno scivolamento verso il basso della distribuzione, e quindi una riduzione della soglia di povertà9. Sebbene il lavoro sia tradizionalmente ritenuto una buona assicurazione contro la povertà, l'avere un'occupazione non è una condizione sufficiente per essere al riparo dal rischio di essere povero. Nelle pagine che seguono si approfondirà il tema della povertà nell'occupazione secondo due approcci differenti. Il primo è quello che sceglie come punto di vista quello dei lavoratori a basso reddito da lavoro: si è evidenziato come retribuzioni e redditi da lavoro (dipendente e autonomo) si siano deteriorati nel corso della crisi e come l'arretramento sia stato marcato soprattutto nella parte bassa della distribuzione. Si concentra l'attenzione su quel gruppo di lavoratori che, pur regolarmente occupati, percepiscono una remunerazione del loro lavoro non adeguata a garantire livelli di sussistenza, e che sono stati particolarmente colpiti dalla crisi in atto. Il rischio di essere un working poor è cresciuto, confermando così il generale deterioramento, e per alcune categorie (lavoratori con bassi profili professionali, bassa istruzione o che lavorano in settori dove i livelli remunerativi sono più bassi) è molto elevato. Ma anche quei sottogruppi che tradizionalmente presentano una diffusione del fenomeno molto più contenuta sono stati interessati dal generale impoverimento, e anche per questi è aumentato il rischio di essere un working poor. Se la bassa remunerazione del lavoro (dipendente o autonomo) risulta inadeguata a raggiungere livelli minimi di benessere, non è però detto che necessariamente un 9 La condizione di povertà relativa è calcolata con riferimento ad una soglia di povertà relativa, che individua il livello di spesa o di reddito sotto il quale una famiglia è definita povera. Tale livello è individuato in relazione alla spesa o al reddito mediano di un dato anno, e quindi risente dei movimenti della distribuzione. Come è stato evidenziato, il reddito mediano, in termini reali, si è ridotto con la crisi. 22 working poor sia in condizioni di disagio economico (anche se è piuttosto probabile). La famiglia di cui il lavoratore a bassa remunerazione fa parte costituisce un rilevante ammortizzatore sociale, consentendo di contenere le disuguaglianze dei redditi che si formano sul mercato del lavoro grazie a varie forme di redistribuzione tra i componenti del nucleo familiare. Il secondo approccio alla questione della povertà nell'occupazione è appunto quello che privilegia invece la prospettiva della famiglia, esaminando il caso di quei nuclei familiari che risultano poveri, ovvero hanno un reddito disponibile equivalente inferiore alla soglia di povertà relativa, nonostante almeno uno dei componenti sia occupato. In questo caso assume importanza la condizione familiare, la sua composizione e l'intensità di lavoro al suo interno, oltre ai trasferimenti pubblici che possono riequilibrare in parte le sperequazioni e concorrono alla definizione del reddito disponibile. Anche il rischio di povertà nell'occupazione (la cosiddetta in-work poverty) è aumentato con la crisi. Il legame con il fenomeno dei working poor è comunque molto forte: a essere maggiormente esposti al rischio di povertà sono quei nuclei familiari dove il lavoratore a bassa remunerazione è il principale se non addirittura l'unico percettore di reddito, mentre il rischio si riduce con l'aumentare dell'intensità dell'occupazione all'interno del nucleo, che consente di compensare la bassa retribuzione di uno dei componenti. Pertanto, le politiche di contrasto a queste forme di povertà devono essere sì specifiche, ma in una certa misura coordinate, dato il legame forte esistente. Riquadro - Le diseguaglianze promuovono o rallentano la crescita? La relazione che lega le diseguaglianze nei redditi alla crescita economica è molto dibattuta tra gli economisti, sia dal punto di vista teorico, sia per ciò che concerne l’evidenza empirica. Alcuni economisti ritengono che le diseguaglianze (nelle remunerazioni dei lavoratori e nel rendimento del capitale) costituiscano un elemento essenziale della struttura degli incentivi per garantire la crescita. In questo contesto, elevati rendimenti dell’investimento in istruzione e formazione contribuiscono all’accumulazione del capitale umano e della conoscenza (il “motore” della crescita, si veda Roemer, 1994). Allo stesso modo differenze nel rendimento del capitale consentono un’adeguata allocazione dello stesso alle attività più produttive e 23 determinano l’uscita dal mercato delle imprese meno efficienti. Infine, l’esistenza di significative differenze nei livelli retributivi serve a garantire che gli individui esercitino il massimo sforzo sul lavoro contribuendo alla crescita della produttività (Aghion et al. 1999). Altri economisti, invece, pongono l’accento sulle imperfezioni e i fallimenti dei mercati e sottolineano come in presenza di asimmetrie informative e vincoli di liquidità (nel mercato del capitale e del lavoro) la presenza di forti diseguaglianze impedisca ai meno abbienti di compiere scelte ottimali, riducendo sia la mobilità sociale, sia il potenziale di crescita. In tali contesti, la crescita risulta polarizzata tra i ricchi e i poveri e le diseguaglianze aumentano (Galor and Zeira, 1993). Altri elementi di impedimento alla crescita, in contesti di ampie diseguaglianze, sono: la presenza di tasse elevate (e distorsive) e l’instabilità socio-politica. Dal punto di vista empirico, l’evidenza suggerisce che forti diseguaglianze nella distribuzione della terra o della ricchezza sono frequentemente associate a una minor crescita, mentre l’evidenza relativa alle diseguaglianze nei redditi e crescita sembra inconclusiva. Alcuni gli studi trovano conferma che forti diseguaglianze nei redditi, in presenza di imperfezioni e fallimenti del mercato, sono un freno alla crescita, mentre sembra statisticamente più debole il legame tra tassazione, instabilità socio-politica e crescita. Nella Grafico 14, la correlazione tra diseguaglianza nei redditi (delle famiglie) e crescita del PIL pro-capite (1994-2009), per i paesi Ocse, mostra l’assenza di una relazione statisticamente significativa tra diseguaglianze e crescita (OCSE, 2012). Grafico 14 Diseguaglianze nei redditi e crescita economica (Paesi Ocse, 1994-2009) Diseguaglianza nei redditi familiari Crescita del PIL pro-capite: 1994-2009 media Fonte: OCSE (2012) "Going for Growth" - Figura 5.9. pag. 194 24 La crisi e il conseguente aumento delle diseguaglianze e della povertà hanno riportato la controversia tra diseguaglianza e crescita al centro del dibattito economico e politico. Se da un lato è chiaro a tutti quanto la crescita sia necessaria per creare occupazione e ridurre la povertà, dall’altro molti sono convinti che l’eccessiva disuguaglianza nei redditi e nella ricchezza accumulata nel corso degli ultimi decenni – anche a seguito di politiche di deregolamentazione dei mercati finanziari e riduzione della progressività della tassazione (soprattutto al top della distribuzione) - possa essere all’origine della crisi economica e dell’ulteriore impoverimento dei gruppi sociali più deboli. Questa linea ha raccolto un forte consenso tra diverse organizzazioni internazionali chiamate a fornire assistenza ai governi per promuovere politiche orientate alla crescita. In particolare, l’Ocse nel Rapporto “Economic Policy Reforms: Going for Growth” del 2012 e l’International Monetary Fund nel Rapporto “Redistribution, Inequality, and Growth” del 2014 hanno riportato una serie di evidenze empiriche a favore di interventi per ridurre le diseguaglianze e favorire la crescita ed hanno elencato una serie di riforme che potrebbero contribuire al dibattito in corso sulle politiche10 da attuare per rilanciare la crescita: • Migliorare la qualità e la diffusione dell’istruzione secondaria e terziaria (migliorare il reclutamento e la formazione degli insegnanti, misure di sostegno agli studenti a rischio di abbandono) • Promuovere l’uguaglianza delle opportunità nell’istruzione (ridurre la stratificazione sociale e posticipare il tracking degli studenti nei percorsi scolastici) • Ridurre il divario nella protezione dell’impiego (tra lavoratori con contratti a tempo indeterminato e a tempo determinato) • Aumentare la spesa in politiche attive del mercato del lavoro (migliore orientamento, accompagnamento nella ricerca e formazione) • Promuovere l’integrazione degli immigrati (attivazione di corsi di lingua per stranieri e sistemi trasparenti di riconoscimento dei titoli di studio stranieri) • Migliorare gli esiti occupazionali delle donne (incremento dei servizi di cura dei bambini e degli anziani per facilitare la conciliazione lavoro-famiglia) • Combattere la discriminazione (sia con strumenti legali, sia con azioni positive) 10 Per un approfondimento delle misure di policy per contrastare la povertà si rimanda all'ultimo capitolo (Le politiche di contrasto). 25 • Promuovere una tassazione equa e compatibile con la crescita (revisione della tassazione che favorisce i gruppi ad alto reddito a favore di quelli a basso reddito, riduzione delle distorsioni nella tassazione delle rendite finanziarie) • Proteggere i lavoratori a basso salario (salario minimo, misure di sostegno dei bassi redditi e politiche di attivazione, come ad esempio il “making work pay tax credit”. 26 Capitolo 2 - I working poor Il lavoro è ancora un’assicurazione contro la povertà? La crisi, come è stato evidenziato nelle pagine precedenti, si è tradotta non solo in un generale arretramento dei salari e dei redditi, ma anche in un peggioramento delle disuguaglianze. È aumentata la povertà: la crescente diffusione di questo fenomeno emerge sia ricorrendo a indicatori di povertà assoluta, ovvero calcolati con riferimento ad un paniere di spesa per consumi minima o di reddito minimo di sussistenza, che relativa, che sono calcolati invece utilizzando soglie definite con riferimento al reddito o ai consumi mediani di un dato anno. L’incidenza della povertà assoluta tra le famiglie è cresciuta, indipendentemente dalla loro numerosità (ma è cresciuta soprattutto tra le famiglie più numerose). Dal 2010 anche l’incidenza della povertà relativa, sia tra le famiglie sia tra gli individui, ha ripreso a crescere, registrando un deciso incremento nel 2012 che ha portato il tasso di incidenza su livelli massimi degli ultimi 15 anni, pari al 15,8 per cento. Grafico 1 Povertà relativa individuale 17 16 15 14 13 12 11 10 9 8 97 98 99 00 01 02 03 04 05 06 07 08 09 10 11 12 % di persone che risultano povere. Dati Istat 27 Il lavoro è generalmente considerato una buona assicurazione contro la povertà: essere occupato riduce la probabilità di essere povero, ma non è condizione sufficiente per annullare il rischio. Tradizionalmente, la povertà è stata associata alla mancanza di lavoro, ovvero a condizioni di disoccupazione o inattività; più recentemente questi confini sono diventati più sfumati e anche categorie di lavoratori regolarmente occupati si trovano di fatto in condizioni di povertà. Le dimensioni del fenomeno e le diverse modalità con cui si manifesta nel mercato del lavoro sono complesse e non riguardano solo la povertà intesa come mancanza di potere di acquisto o incapacità a svolgere determinate funzioni, ma anche aspetti più strettamente legati alle prospettive occupazionali, alla precarietà delle carriere, e alla inclusione sociale dei lavoratori. La crisi ha inciso profondamente sulla povertà degli individui, sia riducendo l’intensità di lavoro (a livello individuale, via riduzione degli orari, ma anche a livello familiare, con una crescente diffusione della disoccupazione e dell’inattività tra i membri), sia aumentando il rischio di povertà per gli occupati, a rischio dei bassi salari e della ridotta azione delle politiche di sostegno. L'ampliarsi dei differenziali salariali ha portato difatti un nuovo evento avverso nel mercato del lavoro, i bassi salariali. La categoria dei working poor è così a rischio di povertà, nonostante la condizione di occupazione, proprio per il basso livello di reddito da lavoro che non garantisce loro di sfuggire a tale rischio. Chi sono e quanti sono i working poor Questioni definitorie Con l'espressione working poor si intendono quelle persone che, occupate, hanno una bassa remunerazione del lavoro, il che le espone a rischi di povertà. La definizione del basso salario è ovviamente il punto cruciale per l'identificazione dei working poor: è necessario a tal fine individuare un livello salariale "soglia", sotto il quale un lavoratore si possa considerare povero. La scelta può ricadere su una soglia assoluta, ad esempio definita su un salario minimo che potrebbe essere fissato in base a standard di decenza (come quando la soglia di povertà assoluta è fissata sulla base di un reddito minimo di sussistenza). In tal caso, l'idea fondante è che il lavoro dovrebbe consentire di 28 raggiungere livelli minimi di benessere. In alternativa si sceglie una soglia relativa, ovvero in riferimento alla distribuzione dei salari; in questo caso si dà importanza alle relatività salariali. I lavoratori a bassa remunerazione sono quelli che si posizionano nella coda inferiore della distribuzione. Di norma, nella letteratura che si è occupata di working poor, l'approccio che si è seguito è quello della soglia relativa, che può essere scelta come un quintile fisso (ad esempio, il primo quintile, o il primo 30 per cento della distribuzione) oppure, più frequentemente, una quota fissa rispetto alla media o alla mediana della distribuzione. La definizione più frequente della soglia di basso salario è quella che fa riferimento ai due terzi della mediana, utilizzata anche dalla Commissione Europea e dall'Ocse, il che la rende la più adatta ai confronti internazionali. Naturalmente, tale definizione deve essere declinata anche in senso operativo: occorre scegliere la variabile "remunerazione" la cui distribuzione si utilizzerà (redditi da lavoro o retribuzioni? valori netti o lordi?), l'aggregato di occupati tra i quali analizzare l'esistenza di working poor (tutti gli occupati? solo i dipendenti o gli autonomi?). Inoltre, un elemento di non trascurabile rilevanza è quello legato all'intensità di lavoro: come è stato evidenziato nel capitolo precedente, il numero di ore lavorate ha un impatto notevole sul livello della retribuzione complessiva. In particolare l'occupazione part time e la bassa remunerazione sono spesso legate. Le quantificazioni dei working poor Tenendo in considerazione le osservazioni avanzate poco sopra, si sono elaborate definizioni operative per l'identificazione dei working poor e, di conseguenza, per la loro quantificazione. Innanzi tutto sono stati considerati, separatamente, sia i lavoratori dipendenti che gli autonomi; tra questi ultimi, però, sono stati considerati solo quelli senza dipendenti, in modo da cogliere anche quelle forme di parasubordinazione (come le partite Iva parasubordinate, la cui diffusione è aumentata molto negli ultimi anni). In entrambi i casi sono state considerate misure orarie della remunerazione, in modo da avere risultati al netto delle differenze di intensità di lavoro (non sempre volontarie). I dati utilizzati sono quelli dell'Indagine sulle condizioni di vita condotta dall'Istat in collaborazione con Eurostat ("Statistics on Income and Living Conditions", IT SILC). I dati IT SILC forniscono informazioni sia a livello familiare che individuale (solo per le 29 persone con più di 15 anni). A livello individuale sono fornite informazioni sui redditi individuali annui, sia per il lavoro dipendente sia per il lavoro autonomo, e sulle retribuzioni mensili dei lavoratori dipendenti percepiti nell'occupazione principale. I dati IT SILC sono disponibili per gli anni compresi tra il 2004 e il 2011 (inclusi). Per i dipendenti, le retribuzioni e i redditi da lavoro differiscono non solo per l'arco temporale a cui fanno riferimento (il mese le prime, l'anno i secondi), ma anche perché le retribuzioni sono lorde mentre i redditi, che includono anche le componenti non monetarie (es. benefit aziendali), sono espressi al netto delle imposte. In letteratura sono stati prevalentemente utilizzati i redditi, anche perché più frequentemente disponibili nelle banche dati a cui si è fatto ricorso. In queste analisi si è provato a utilizzare entrambe le misure, che portano risultati simili, seppur con alcune differenze. Secondo le elaborazioni effettuate per i lavoratori dipendenti sulla base del reddito orario netto11, il reddito mediano, in base al quale viene calcolata la soglia di povertà, risulta pari a 9,5 euro all'ora nel 2011, ultimo anno disponibile dai microdati. In tal modo, il reddito orario netto sotto il quale i lavoratori sono considerati working poor (soglia di povertà) è pari a 6,2 euro: oltre 2 milioni 640 mila occupati dipendenti risultavano percepire un reddito orario inferiore nel 2011, secondo quanto dichiarato dagli stessi12, pari al 14,9 per cento degli occupati dipendenti. Con la definizione alternativa, ovvero utilizzando come misura della remunerazione oraria, il salario orario lordo, la mediana risulta più alta, pari a 10.5 euro all'ora nel 2011, e di conseguenza anche la soglia di povertà, pari a 6.9 euro all'ora nel 2011. In base a tale soglia e a una distribuzione delle retribuzioni lievemente diversa da quella dei redditi, il numero di lavoratori dipendenti a basso salario (working poor) risulta pari a 2 milioni 75mila persone, pari all'11,7 per cento degli occupati dipendenti. Tra gli autonomi senza dipendenti, invece, la misura della remunerazione che si è utilizzata è 11 Il reddito orario netto è stato ottenuto considerando le ore lavorate settimanalmente nell'occupazione principale dal lavoratore e il numero di mesi di lavoro (considerando solo quelli come lavoratore dipendente per i redditi da lavoro dipendente, e viceversa solo quelli come autonomo per i redditi da lavoro autonomo). Per tutti i lavoratori, infine, è stato considerato un numero medio di settimane al mese di 4,3 (pari a 52/12), non essendoci informazioni sul numero di settimane lavorate. Per il calcolo del salario orario dalle retribuzioni mensili sono state fatte le stesse considerazioni circa ore lavorate e settimane. 12 Il problema della sottodichiarazione dei redditi è di entità non trascurabile, soprattutto in certi contesti (aree, settori), dove l'incidenza dell'economia sommersa è più elevata. A tal proposito, si veda il riquadro Working poor e sommerso nelle pagine seguenti. 30 quella del reddito da lavoro autonomo orario, ovvero rapportato al numero di ore lavorate nell'occupazione principale. Molti autonomi però dichiarano redditi talvolta negativi (quando ad esempio hanno chiuso l'anno in perdita), o nulli; inoltre il problema della sottodichiarazione è più diffuso tra gli autonomi. Per evitare un'eccessiva influenza di questi fattori, il campione è stato ristretto solo a coloro che dichiarano un reddito non nullo. Gli autonomi senza dipendenti con un reddito orario inferiore alla soglia (pari a 4,8 euro all'ora, con una mediana di 7,2 euro all'ora) sono circa 756mila nel 2011, pari al 15,9 per cento. Tavola 1 Confronto tra le quantificazioni dei working poor 2011 soglia di povertà (€ all'ora) n. working poor dipendenti - reddito netto orario - salario orario lordo autonomi 6.2 6.9 4.8 2 640 664 2 075 121 756 335 incidenza % 14.9 11.7 15.9 Elaborazioni su dati IT SILC Istat Nel confronto con gli altri paesi europei si osserva come in Italia la quota di working poor tra i lavoratori dipendenti risulta tutto sommato contenuta rispetto alla media europea. Secondo i dati elaborati da Eurostat sulla base dell'indagine Structure of Earnings Survey (SES) e relativi al 2010, il salario orario mediano lordo pagato nei paesi dell'Unione Europea è di 11,9 euro, e per i paesi aderenti all'area euro 13,2 euro. Rispetto a questi livelli, il salario orario mediano in Italia, pur allineato a quello dell'Unione europea, risulta inferiore di circa il 10 per cento se confrontato con quello dell'area euro (e del 23 per cento rispetto alla Germania). Per mettere nel giusto contesto queste statistiche è necessario tenere presente che la distribuzione dei salari orari e la soglia di basso salario influenzano la proporzione di lavoratori a basso salario: tanto maggiore è il salario mediano e la dispersione dei salari, tanto più elevata è la quota di working poor. Tale proporzione in Italia, nel 2010, era pari al 12,4 per cento sul totale dei dipendenti, inferiore sia alla media dell'Ue (17 per cento), sia alla media dei paesi dell'eurozona (14,8 per cento). 31 Tavola 2 Livelli retributivi e occupazione a basso salario in Europa 2010 Quota di Basso lavoratori salario Salario orario a basso (soglia, € lordo mediano (€ salario all'ora) all'ora) (%) EU-27 EA-17 BE BG CZ DK DE EE IE ES FR IT CY LV LT LU HU MT NL AT PL PT RO SI SK FI SE UK IS NO CH HR MK TR 10.9 1.0 3.0 16.6 10.2 2.7 12.2 6.3 9.2 7.9 6.2 1.9 1.8 11.9 2.3 5.0 10.2 8.6 2.6 3.4 1.3 4.8 2.6 10.6 9.9 8.4 6.7 16.6 14.9 3.2 1.7 1.4 11.9 13.2 16.4 1.5 4.4 25.0 15.4 4.1 18.3 9.4 13.7 11.9 9.4 2.9 2.7 17.8 3.4 7.5 15.3 13.0 4.0 5.1 2.0 7.2 3.9 16.0 14.9 12.6 10.0 25.0 22.4 4.8 2.5 2.1 17.0 14.8 6.4 22.0 18.2 7.7 22.2 23.8 20.7 14.7 6.1 12.4 22.7 27.8 27.2 13.1 19.8 18.3 18.1 15.0 24.2 16.1 25.6 17.1 19.0 5.9 2.5 22.1 9.1 7.3 11.0 18.2 28.3 0.2 Dati Eurostat, SES 2010 Si nota anche come i dati elaborati da Eurostat indichino per l'Italia livelli più elevati sia del salario mediano lordo (11,9 euro invece di 10,5 euro all'ora), sia della quota di working poor (12,4 per cento, invece di 11,7), anche se quest'ultima è ovviamente una conseguenza della maggior soglia di povertà. Le differenze sono in buona misura spiegate dal fatto che l'indagine SES tende a sovrastimare le retribuzioni dal momento 32 che è ristretta alle imprese con almeno 10 dipendenti e che esclude alcuni settori, come l'agricoltura e i servizi presso le famiglie, dove si concentrano i salari più bassi13. Riquadro - Working poor e sommerso Le quantificazioni dei lavoratori a basso salario effettuate sulla base di informazioni tratte da indagini presso le famiglie e gli individui, ai quali viene richiesto di dichiarare il livello della propria retribuzione e del proprio reddito, risentono di non trascurabili problemi di sottodichiarazione. Gli intervistati tendono generalmente a dichiarare livelli retributivi e reddituali in certa misura inferiori a quelli reali14. Seppure la metodologia d'indagine preveda la possibilità di effettuare verifiche, ad esempio della coerenza tra dati netti e lordi utilizzando modelli di microsimulazione e integrazione con dati campionari e amministrativi, il problema della sottodichiarazione non è mai interamente eliminabile. Sebbene tipicamente il problema tenda a pesare di più sulla parte superiore della distribuzione, non è trascurabile l'impatto nemmeno sulla prima metà della distribuzione; tale considerazione è legata alla diffusione dell'economia sommersa nel nostro paese (secondo l'Istat, il fatturato sommerso rappresenterebbe tra il 16 e il 17 per cento dell'economia italiana, altre fonti, come Schneider 2012, fissano tale livello anche al 25 per cento). Anche tra i lavoratori solo parzialmente irregolari, molti tenderanno a sottodichiarare i propri livelli retributivi, nel timore di sanzioni o verifiche, e questo si rifletterà sull'incidenza di working poor. Naturalmente è molto difficile trovare numeri che corroborino queste ipotesi, date le difficoltà di stima dell'economia sommersa. Esistono però degli indicatori della diffusione del sommerso; da qualche tempo, infatti, l'Istat diffonde le stime di occupazione irregolare. Come evidenzia il grafico 2 allegato, ci sono settori - come l'agricoltura, i servizi alle famiglie, ma anche i servizi di informazione e comunicazioni - dove il tasso di irregolarità è superiore alla media dell'economia, ovvero dove più di un occupato su dieci risulta non regolare. I settori a maggior incidenza di irregolarità, dove c'è maggior sommerso, sono anche quelli dove è più alta la quota di lavoratori a basso salario, ovvero sembra esistere una correlazione positiva tra irregolarità e 13 Inoltre, l'indagine SES è condotta presso le imprese (e quindi senza parte dei problemi di sottodichiarazione delle retribuzioni da parte degli individui che si riscontrano nell'indagine SILC). 14 Benché le informazioni raccolte per fini statistici siano coperte da confidenzialità (il segreto statistico), ovvero dall'impegno a non diffonderle se non in forma aggregata o in forma tale che non sia possibile risalire alla singola persona che ha fornito l'informazione e a non utilizzarle per fini che non siano statistici (ad esempio, per accertamenti fiscali). 33 diffusione dei working poor, che riflette la maggior probabilità di sottostima per i redditi e le retribuzioni dei lavoratori occupati in quei settori15. Grafico 2 Basso salario e sommerso 50 agricoltura 45 % di working poor 40 35 alloggio e ristorazione 30 att.artistiche, servizi famiglie 25 20 15 10 5 0 0 10 20 30 40 tasso di irregolarità (% di occupati irregolari) Fattori che spiegano l'esistenza di working poor L’insorgere del fenomeno dei working poor è imputabile a diverse cause, legate all’evoluzione del mercato del lavoro oppure a cambiamenti istituzionali. Tra i fattori di mercato c’è il progresso tecnico asimmetrico, ovvero quei cambiamenti tecnologici della struttura produttiva che hanno favorito la domanda di lavoratori qualificati rispetto a quelli meno qualificati (il cosiddetto Skill biased technological change); i processi delocalizzazione produttiva, che spostando le fasi della produzione a maggiore intensità di lavoro nei paesi emergenti, caratterizzati da bassi costi del lavoro, intensificano gli effetti sulla domanda relativa dei fattori produttivi, e in particolare della domanda di lavoro meno qualificato, comprimendone la crescita salariale; i cambiamenti nella struttura produttiva, ad esempio con la progressiva terziarizzazione dell’economia; i 15 Non è da escludere nemmeno un minor potere contrattuale per lavoratori occupati in maniera non regolare, che quindi si trovano a percepire salari molto bassi. 34 cambiamenti demografici, come l’invecchiamento della popolazione e i flussi migratori, che esercitano una pressione crescente sulle retribuzioni dei lavoratori meno qualificati. Questi fattori si sono tradotti in una progressiva polarizzazione della distribuzione dell’occupazione tra “buoni” lavori e “cattivi” posti di lavoro, e di conseguenza della distribuzione dei salari. Studi di confronto internazionale evidenziano come l’incidenza dei bassi salari è più elevata tra i lavoratori meno qualificati, e gli occupati in professioni manuali. Tra gli aspetti istituzionali rientrano le riforme di flessibilizzazione del mercato del lavoro, che spesso hanno determinato una riduzione delle tutele dei lavoratori, soprattutto per alcune tipologie contrattuali (rapporti di lavoro a tempo determinato, collaborazioni e forme di parasubordinazione), e in alcuni casi anche un peggioramento della qualità delle posizioni lavorative; la progressiva erosione del potere contrattuale dei sindacati e la maggior difficoltà del sindacato nel coprire i lavoratori meno stabili, che ha portato ad una minor copertura dei contratti collettivi nazionali; questi fattori possono aver avuto ripercussioni negative sulle retribuzioni soprattutto sulla coda sinistra della distribuzione dei salari. Nei paesi dove il tasso di sindacalizzazione è più elevato e maggiore è la copertura della contrattazione collettiva, si osservano minimi salariali (es. minimi contrattuali) e una minore dispersione delle retribuzioni, in particolare nella metà inferiore della distribuzione. Ai fattori che tradizionalmente vengono presi in considerazione per spiegare l’esistenza e la persistenza dei working poor, negli ultimi anni si sono aggiunti gli effetti negativi della recente crisi su crescita e occupazione. Evoluzione temporale: prima e dopo la crisi Working poor sempre più diffusi La crisi ha inciso profondamente sulla povertà degli individui, portando ad un generale arretramento dei salari e dei redditi, innalzando il rischio di disoccupazione e di inattività ma anche il rischio di povertà per gli occupati, a causa dei bassi salari. Finora si è discusso di definizioni di working poor e della loro quantificazione nel contesto italiano: ora si proverà a definire un quadro di evoluzione temporale, per capire se e come la crisi ha avuto effetto su questa dimensione di povertà. 35 Sebbene con risultati lievemente differenti, a seconda della definizione operativa di basso salario scelta (salario orario lordo o reddito netto orario), c’è concordanza nell’indicare un incremento della proporzione di lavoratori working poor tra i lavoratori dipendenti. Cambia solo la tempistica: secondo le elaborazioni sulla base del reddito netto orario, la quota di lavoratori a basso reddito è aumentata negli anni della crisi. Nel triennio 2009-2011 la quota è rimasta sostanzialmente stabile attorno al 15 per cento, dopo essersi aggirata attorno al 13 per cento nel quinquennio precedente. In valori assoluti, si è passati dai 2 milioni 287 mila lavoratori a basso reddito del 2008 a oltre 2 milioni e 640 mila, con un incremento cumulato di 353 mila persone (a fronte di una riduzione dell’occupazione dipendente). Secondo le quantificazioni che prendono a riferimento il salario orario lordo, invece, l’incremento si sarebbe concentrato nel biennio 2010-2011, evidenziando inoltre un’inversione di tendenza nell’evoluzione dell’incidenza di working poor, che nel periodo pre crisi si era gradualmente ridotta. Grafico 3 Working poor tra i lavoratori dipendenti 16% 14% 12% 10% 8% 6% 4% 2% 0% 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 % di lavoratori dipendenti con reddito da lavoro dipendente orario netto inferiore ai 2/3 del reddito orario mediano. Elaborazioni su dati IT-SILC Istat 36 Grafico 4 Working poor tra i lavoratori dipendenti 14% 12% 10% 8% 6% 4% 2% 0% 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 % di lavoratori dipendenti con salario orario lordo inferiore ai 2/3 del salario orario mediano. Elaborazioni su dati IT-SILC Istat Le misure fino a qui utilizzate sono di incidenza, o di prevalenza della povertà: in altre parole, si conta il numero di persone che risultano povere e le si paragona con il totale della popolazione (head count ratio); si ha così un’indicazione della diffusione della sua povertà, ma non della sua gravità. Un altro indicatore è rappresentato dal poverty gap ratio, che misura la distanza media dalla soglia di povertà e segnala il grado di intensità della povertà, e che si può interpretare anche come incremento del salario o del reddito necessario per portare l'individuo sopra la soglia di povertà. Anche questo indicatore conferma il deterioramento delle condizioni e del crescente impoverimento anche per gli occupati. Come si vede dal grafico 5 allegato, non solo è aumentata la quota di lavoratori con salario al di sotto della soglia di povertà, ma le loro condizioni si sono ulteriormente deteriorate; la crisi ha comportato che in media la distanza dalla soglia di povertà è aumentata (dal 24 per cento pre crisi a quasi il 33 per cento). Se fino al 2008 era sufficiente in media un incremento di 1,3 euro del reddito orario per colmare la distanza dalla soglia, dal 2009 l’incremento necessario per consentire di uscire dalla condizione di working poor è salito a circa 2 euro all’ora netti. 37 Grafico 5 Intensità della povertà 40% 35% 30% 25% 20% 15% 10% 5% 0% 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 poverty gap ratio per i lavoratori dipendenti (distanza media dalla soglia di povertà). Elaborazioni su dati IT SILC Istat Anche tra i lavoratori autonomi (senza dipendenti) è cresciuta la diffusione di occupati a bassa remunerazione: tra il 2010 e il 2011 si è osservato un incremento di oltre due punti percentuali (dal 13,8 al 15,9 per cento) della quota di working poor, segno che le difficoltà non risparmiano nemmeno gli autonomi. La riduzione delle ore e l’evoluzione dei working poor Nelle definizioni di working poor si è fatto finora riferimento a misure orarie del reddito o della retribuzione: questo per evitare che il diverso numero di ore lavorate potesse influenzare eccessivamente le quantificazioni, ed in particolare le differenze tra lavoratori a tempo parziale e a tempo pieno. D’altra parte, si è più volte sottolineato come l’andamento delle ore lavorate abbia avuto un impatto non trascurabile sulle dinamiche e sulla distribuzione di retribuzioni e redditi, in particolare per effetto del crescente ricorso al part time involontario e altre forme di riduzione degli orari di lavoro (ad esempio, con la Cassa Integrazione). Quantificazioni alternative dell’incidenza di working poor fanno riferimento ai livelli reddituali mensili, ovvero senza correggere per il numero di ore lavorate, ma 38 distinguendo solo tra occupati a tempo pieno e part time. In tale maniera, la quantificazione dei working poor risente della diversa evoluzione osservata dalle ore lavorate lungo la distribuzione dei redditi. Secondo queste quantificazioni, nel 2011 i lavoratori a basso reddito erano il 13,9 per cento tra i dipendenti a tempo pieno, e il 14,3 per cento invece tra i part time. Apparentemente, in termini di incidenza, non sembrerebbero esserci grosse differenze: se però si osserva l’evoluzione temporale, il quadro appare un po’ più vario. Tra i lavoratori a tempo pieno, difatti, la quota di working poor è aumentata con la crisi, di circa tre punti percentuali, e da allora rimane sostanzialmente stabile. Tra i part time, invece, si è osservato un forte incremento dell’incidenza nei primi anni della crisi (nel 2009, quasi un dipendente a tempo parziale su cinque risultava essere working poor, con una soglia calcolata sull’insieme ristretto dei part time), per poi ridursi dal 2011. Grafico 6 Incidenza dei working poor tra i lavoratori dipendenti a tempo pieno 20% 18% 16% 14% 12% 10% 8% 6% 4% 2% 0% 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 % di lavoratori dipendenti full time con reddito da lavoro dipendente netto inferiore ai 2/3 del reddito mediano netto full time. Elaborazioni su dati IT SILC Istat 39 Grafico 7 Incidenza dei working poor tra i lavoratori dipendenti a tempo parziale 20% 18% 16% 14% 12% 10% 8% 6% 4% 2% 0% 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 % di lavoratori dipendenti part time con reddito da lavoro dipendente netto inferiore ai 2/3 del reddito mediano netto part time. Elaborazioni su dai IT SILC Istat Tali andamenti vanno letti alla luce dell’evoluzione delle ore lavorate. Tra chi è rimasto lavoratore a tempo pieno, la riduzione degli orari è stata effettuata prevalentemente via ricorso alla Cassa Integrazione: questo ha ridotto i redditi netti, portando ad un aumento del numero di lavoratori a basso reddito (che hanno superato i 2 milioni, quando fino al 2008 erano poco meno di 1 milione e 700 mila). Tra i lavoratori part time, invece, è progressivamente cresciuta la quota di involontari: è aumentato il numero assoluto di working poor, e si è spostata tutta la distribuzione. Sebbene nel 2011 i dipendenti a tempo parziale a basso reddito fossero il 14,3 per cento del totale dei part time, un livello non molto dissimile da quello toccato prima della crisi, il loro numero complessivo è salito oltre le 410 mila persone, con un aumento complessivo del 22 per cento rispetto al loro numero nel 2008. La povertà tra gli occupati è aumentata Finora la condizione di working poor è stata definita in riferimento ad una soglia relativa, ovvero calcolata rispetto alla mediana (e quindi, alla distribuzione) dei redditi o delle retribuzioni osservata in un dato anno. 40 Come è stato evidenziato nel capitolo precedente, però, con la crisi si è osservato un generale arretramento dei salari reali e un cambiamento nelle distribuzioni. Pertanto, se fosse valutata in termini reali, ovvero tenendo conto anche dell'inflazione, la linea di povertà come il resto dei salari reali risulterebbe anch’essa arretrata, il che porterebbe a sottostimare la dimensione del fenomeno working poor. Un approccio alternativo, che consente di tenere conto del cambiamento nei livelli assoluti dei salari, è quello che fissa la soglia di povertà nell’anno di partenza (in questo caso, nel 2004) e negli anni successivi la aggiorna per il tasso di inflazione. Con questa soglia “assoluta”16 non si considerano i cambiamenti nella distribuzione che sono invece impliciti nella soglia relativa. Grafico 8 Linea di povertà - salario orario lordo soglia assoluta (2004 rivalutato) soglia relativa 7.4 7.2 7.0 6.8 6.6 6.4 6.2 6.0 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 euro di retribuzione lorda per ora lavorata. Soglie di povertà. Elaborazioni su dati IT SILC Istat Poiché le retribuzioni lorde tra il 2004 e il 2011 sono cresciute meno dell’inflazione (sulla base dei dati elementari), la soglia “assoluta” calcolata rivalutando la soglia del 2004 risulta superiore a quella relativa, calcolata con riferimento alle mediane di 16 Va specificato che di fatto si tratta di una soglia relativa, dato che almeno nell’anno di partenza è calcolata come 2/3 della mediana della distribuzione, e non invece fissando un livello salariale di sussistenza (come per le soglie assolute in senso stretto). 41 ciascun anno. Ne consegue che il numero dei working poor è ancora maggiore se si considera la soglia “assoluta”, avvicinandosi a quota 2 milioni e 600mila (calcolati utilizzando il salario orario lordo) nel 2011, pari al 14,7 per cento degli occupati dipendenti. Grafico 9 Incidenza dei working poor tra i dipendenti con soglia assoluta (2004 rivalutata) con soglia relativa 16% 15% 14% 13% 12% 11% 10% 9% 8% 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 % di dipendenti con salario orario inferiore alla soglia di povertà Elaborazioni su dati IT SILC Istat, utilizzando le retribuzioni lorde Bassi salari e caratteristiche socio-economiche Tra i dipendenti, rischi maggiori per giovani, stranieri e meno istruiti Il rischio di essere un lavoratore a basso salario (ovvero, un working poor) non è ovviamente lo stesso per tutti. Se nel complesso, tale rischio nel 2011 risultava pari a 14,9 per cento in media per i lavoratori dipendenti (prendendo come misura di riferimento il reddito netto orario) e 15,9 per cento per gli autonomi senza dipendenti, per alcune categorie socio-economiche il rischio è decisamente più alto. In alcuni casi, il maggior rischio dipende da caratteristiche dell'individuo, che possono comportare l'essere meno produttivo o meno domandato sul mercato (ad esempio, per i più giovani o i meno istruiti). Ma il rischio di essere un lavoratore a basso salario sale anche per 42 alcuni tipi di occupazioni (professioni, settori, dimensione aziendale), le cui caratteristiche possono influire sulla produttività media e quindi sui livelli salariali pagati. Non si possono nemmeno escludere forme di discriminazione salariale17. Naturalmente, trattandosi di semplici frequenze, il rischio di povertà (non condizionato) è affetto da numerosi fattori di composizione (ad esempio, età media, livello di istruzione, settore di occupazione) che possono incidere diversamente tra le categorie considerate. Per quanto riguarda le caratteristiche individuali, il rischio di essere un lavoratore a bassa remunerazione (misurato dalla maggior incidenza di working poor all'interno delle singole categorie18) è maggiore per i lavoratori dipendenti più giovani, soprattutto per coloro che non superano i 30 anni. Questo risultato non sorprende, se si considera che i giovani alle prime esperienze sono spesso meno produttivi; i salari di ingresso sono molto bassi e lo sono soprattutto per quelle forme contrattuali che interessano prevalentemente i più giovani (come l'apprendistato, il lavoro a tempo determinato e i contratti di formazione); inoltre le occupazioni caratterizzate da remunerazioni più modeste sono spesso (ma non sempre) dei "gradini di ingresso" per poter entrare in occupazioni più stabili e meglio retribuite, ed è quindi naturale che siano più diffuse tra i più giovani. Ovviamente quando la condizione di lavoratore a bassa retribuzione diventa persistenze, la situazione diventa preoccupante, perché da gradino d'ingresso la condizione di working poor potrebbe rivelarsi invece una sorta di trappola della povertà. Sebbene valutazioni di questo genere necessitino di rilevazioni su anni differenti, l'osservare come non solo i più giovani, ma anche i giovani adulti (ovvero per la classe d'età 30-34 anni, quando ci si potrebbe attendere una graduale stabilizzazione dei percorsi professionali) siano caratterizzati da un maggior rischio di essere working poor è un elemento che desta una certa preoccupazione. La letteratura empirica ha mostrato che i bassi salari per i giovani spesso rappresentano trappole della povertà, quando posizioni precarie a basso salario si alternano a periodi di disoccupazione e a nuovi posti di lavoro precari, senza prospettive di progressione salariale (Stewart e Swaffield, 1999; Cappellari e Jenkins, 2004). 17 Per verificare l'esistenza di eventuali forme di discriminazione salariale sarebbe necessaria un'analisi molto più approfondita, che tenga conto dell'eterogeneità individuale. Questa esula però dagli obiettivi del presente lavoro. 18 La soglia di povertà è la stessa per tutti i lavoratori, con la sola distinzione tra dipendenti e autonomi senza dipendenti utilizzata in precedenza. 43 Tavola 3 A I caratteri della working poverty 2011 Tra i dipendenti, il rischio di essere un working poor è più alto per: quota di working poor rischio medio: 14.9% classe di età 16-24 anni 25-29 anni 30-34 anni 35-39 anni 40-54 anni 55-64 anni 41.4% 25.2% 16.1% 13.8% 10.1% 9.7% cittadinanza italiano straniero UE straniero non UE 13.4% 31.8% 27.0% genere uomini donne 13.8% 16.4% titolo di studio licenza primaria o media diploma superiore laurea o superiore 20.3% 14.1% 7.2% numero di addetti che lavorano nella stessa impresa 1-10 persone 11-15 persone 16-19 persone 20-49 persone 50 persone e più non so, ma fino a 10 non so ma più di 10 26.9% 16.4% 16.0% 9.6% 6.0% 31.8% 15.3% Elaborazioni su dati IT SILC Istat Anche gli stranieri soffrono un maggior rischio di essere working poor: questo riflette le caratteristiche dell'immigrazione nel nostro paese, concentrata in occupazioni poco professionalizzate e specializzate e in settori dove prevalgono livelli retributivi più bassi della media. D'altra parte gli stranieri, soprattutto se non comunitari, tendono a evidenziare salari di riserva molto più bassi degli italiani: lunghi periodi di disoccupazione possono difatti mettere a repentaglio la regolarità della permanenza (perché il permesso di soggiorno non sia revocato è necessario iscriversi alle liste dei centri per l'impiego, e l'assenza di un'occupazione per più di 6 mesi può essere motivo 44 di mancato rinnovo di un permesso scaduto); inoltre, gli stranieri tendono ad avere minori coperture da risorse sia familiari che da risparmio individuale. Un'altra categoria caratterizzata da un rischio decisamente più elevato di essere working poor è quella dei lavoratori con un basso livello d’istruzione, misurato dal titolo di studio massimo conseguito. Lavoratori meno istruiti tendono ad avere minore produttività, anche perché spesso impiegati in professioni poco qualificate, e di conseguenza sono meno retribuiti: più di uno su cinque rientra nella categoria dei lavoratori a bassa retribuzione. Confrontando l'incidenza dei working poor tra uomini e donne si nota come, anche considerando il reddito orario che consente di controllare per l'effetto della maggior diffusione del part time tra le donne, la percentuale di donne occupate a basso salario sia più elevata; questo potrebbe risentire della tendenza a una segregazione dell'occupazione femminile in settori e in professioni meno produttivi e remunerati. Per quanto riguarda invece le caratteristiche dell'occupazione, i settori dove si osserva una maggiore incidenza di lavoratori working poor sono quei settori dove c'è maggior intensità di lavoro poco qualificato e con più modesto valore aggiunto per addetto (produttività); tra questi l'agricoltura, dove quasi un occupato dipendente su due percepisce un reddito orario inferiore alla soglia, i servizi sociali e alle persone (all'interno del quale sono classificati i servizi presso le famiglie di collaboratori domestici e badanti), e i servizi turistici, di alloggio e ristorazione. Anche l'occupazione nelle piccole imprese è spesso associata a livelli retributivi più contenuti e a una maggiore incidenza di lavoratori a bassa remunerazione, e così la posizione di operario o apprendista. Non stupisce, alla luce di quanto già evidenziato in precedenza in riferimento all'incidenza per età, che le forme contrattuali meno stabili siano caratterizzate da una maggior incidenza di lavoratori a basso reddito: la maggior precarietà non è solo in termini di durata del contratto di lavoro ma anche di livello reddituale. Nella misura in cui i contratti a tempo determinato si trasformano i contratti a durata indeterminata, i bassi salari dovrebbero rappresentare solo una fase transitoria della carriera degli individui, ma spesso questa eventualità non si osserva. Tra le professioni, non sorprende constatare come siano quelle meno qualificate a registrare incidenze elevate di working poor. 45 Tavola 3B I caratteri della working poverty 2011 Tra i dipendenti, il rischio di essere un working poor è più alto per: quota di working poor settore di occupazione agricoltura, silvicoltura, pesca 45.4% industria in s.s. 12.4% costruzioni 21.5% commercio 18.0% trasporto e magazzinaggio 13.8% alloggio e ristorazione 32.0% informazioni e comunicazioni 5.6% att.finanziarie e assicurative 4.2% att.immobiliari, professionali, noleggio 17.3% PA 5.7% istruzione 6.0% sanità e assistenza sociale 8.9% att.artistiche, sociali, altri servizi 33.0% tipo di contratto t.indeterminato a termine di cui: -formazione lavoro/ inserimento lavorativo -apprendistato -lavoro interinale o somministrazione -tempo determinato - altro tipo di contratto posizione lavorativa dirigente quadro impiegato operaio apprendista lavoratore presso il proprio domicilio Elaborazioni su dati IT SILC Istat 46 11.5% 34.8% 39.5% 33.7% 18.8% 34.2% 52.0% 1.9% 0.9% 9.1% 22.1% 39.7% 2.6% Grafico 10 Incidenza working poor Operatori ecologici e altri lavoratori non qualificati Venditori ambulanti Assistenti nella preparazione del cibo Lavoratori non qualificati nella manifattura, nell'estrazione di minerali, nei trasporti e nelle costruzioni Braccianti e lavoratori non qualificati nell'agricoltura, nella cura del verde e nella pesca Addetti alle pulizie e collaboratori familiari Conduttori di veicoli, di macchinari mobili e di sollevamento Operai specializzati nell'alimentare, lavorazione del legno, tessile e altri artigiani Elettricisti ed elettrotecnici Artigiani qualificati e tipografi Operai specializzati nelle costruzioni (eccetto elettricisti) Lavoratori commerciali specializzati nella silvicoltura, caccia e pesca Agricoltori e operai specializzati nell'agricoltura Personale di cura Commessi e venditori Personale di servizi alle persone 0 10 20 30 40 50 60 70 % di lavoratori con reddito netto orario inferiore alla soglia di povertà (2/3 del salario orario mediano). Elaborazioni su dati IT SILC Istat 47 Tra gli autonomi differenze più contenute Replicando lo stesso tipo di analisi nel gruppo degli autonomi (senza dipendenti), si osserva innanzi tutto come le differenze tra le varie categorie nei rischi di essere working poor siano più smussate rispetto a quanto osservato tra i lavoratori dipendenti: questo anche perché si sta esaminando un aggregato di dimensioni minori, e per certi versi molto meno eterogeneo. Le categorie a maggior rischio di essere a bassa remunerazione sono simili a quelle già evidenziate per i dipendenti: gli stranieri, che soffrono di un rischio più alto di quasi il 60 per cento di essere working poor rispetto agli italiani, le donne, i meno istruiti, e i più giovani. In quest'ultimo caso va rilevato come l'incidenza di lavoratori a bassa remunerazione sia elevata anche per classi di età non propriamente giovani secondo le definizioni classiche, dato che il rischio resta elevato anche per coloro che hanno tra i 30 e i 40 anni. Sono soprattutto i lavoratori in proprio ad essere a maggior rischio di povertà (quasi uno su quattro ha un reddito netto orario inferiore alla soglia, che è pari a 4,8 euro all'ora nel 2011), ma i liberi professionisti - tra i quali incidono molto le partite Iva parasubordinate - non ne sono esenti. Considerando che l'analisi è ristretta ai soli autonomi senza dipendenti, non stupisce che la maggior incidenza di working poor si osservi per chi lavora per imprese di ridotta dimensione (fino a 10 addetti): in molti casi si tratterà di ditte individuali, ma non si possono escludere casi di autonomi parasubordinati che lavorano per imprese con più un addetto (es. studi professionali). D'altra parte, le osservazioni non sono nulle, sebbene l'incidenza di working poor sia molto più contenuta, per chi lavora presso imprese di maggiori dimensioni, segno che parte di questi autonomi senza dipendenti di fatto lavora per un unico committente. La mono-committenza è uno dei criteri utilizzati per individuare le forme di parasubordinazione (insieme alla dipendenza organizzativa, ovvero i vincoli di luogo nella prestazione, e alla natura non temporanea della prestazione). In conclusione i dati segnalano che oltre ai lavoratori in proprio, molti parsubordinati sono a rischio di povertà. 48 Tavola 4 I caratteri della working poverty 2011 Tra gli autonomi, il rischio di essere un working poor è più alto per: quota di working poor rischio medio: 15.9% classe di età 16-24 anni 25-29 anni 30-34 anni 35-39 anni 40-54 anni 55-64 anni 18.8% 16.4% 17.6% 16.9% 15.1% 14.8% cittadinanza italiano straniero UE straniero non UE 15.4% 26.4% 21.8% genere uomini donne 15.0% 18.0% titolo di studio licenza primaria o media diploma superiore laurea o superiore 18.7% 14.9% 12.0% numero di addetti che lavorano nella stessa impresa 1-10 persone 11-15 persone 16-19 persone 20-49 persone 50 persone e più 50 persone e più 17.6% 4.9% 4.0% 5.4% 8.4% 8.4% Elaborazioni su dati IT SILC Istat Per chi è aumentato il rischio di essere un lavoratore a bassa remunerazione? I paragrafi precedenti hanno delineato le differenze nell'incidenza dei working poor tra diverse categorie, individuando quelle a maggior rischio di povertà. In molti casi si tratta di differenze riconducibili a caratteristiche strutturali, come la minore produttività legata al capitale umano e all'esperienza. Come è stato più volte ricordato, però, gli ultimi anni sono caratterizzati da una crisi di entità e durata eccezionale, che si è tradotta 49 in un generale impoverimento, ma che ha avuto anche effetti differenziati, portando ad esempio ad un aumento delle disuguaglianze e colpendo soprattutto alcuni settori e categorie. Non stupisce pertanto osservare che l'aumento sostanzialmente generalizzato del rischio di essere un working poor non si sia distribuito in maniera uguale. In altre parole, ci sono dei perdenti a causa della crisi, anche se in termini relativi non è detto che si tratti delle stesse categorie a maggior rischio di povertà. Se infatti si guardano le categorie che hanno registrato tra il 2007 e il 2011 (ovvero, con il sopraggiungere della crisi) gli incrementi maggiori del rischio di essere working poor, si osserva come in molti casi si tratta di categorie favorite in senso relativo ma che con la crisi si trovano ad essere esposte ai rischi di povertà. È il caso dei laureati, per i quali l'incidenza di lavoratori a bassa remunerazione è raddoppiata tra prima e dopo la crisi, benché resti decisamente inferiore rispetto a quella dei lavoratori con livelli di istruzione inferiori (soprattutto, per coloro che hanno al massimo la licenza media inferiore). La laurea protegge, ma meno che in passato, dai rischi. Altre categorie che registrano maggiori incrementi del rischio di risultare working poor, pur risultando relativamente favorite, sono gli uomini, gli italiani, chi è inquadrato come impiegato, gli occupati nelle grandi imprese. Ancora una volta va sottolineato che per queste categorie si osserva un peggioramento più marcato, ma rispetto alle altre categorie con cui si confrontano (es. le donne, gli stranieri, gli occupati nelle piccole imprese, gli operai) sono ancora categorie avvantaggiate, con un minor rischio di povertà. In altri casi, invece, a peggiorare particolarmente la propria situazione sono categorie già svantaggiate, caratterizzate da incidenze elevate di working poor: ad esempio, per i lavoratori a termine o i giovani (categorie che spesso si sovrappongono), la situazione nel periodo di crisi appare decisamente deteriorata, più di quanto fosse prima della crisi. 50 Tavola 5 Per chi è aumentato maggiormente il rischio di essere working poor? Tra i dipendenti pre crisi (2007) post crisi (2011) classe di età 16-24 anni 25-29 anni 30-34 anni 35-39 anni 40-54 anni 55-64 anni 36.8% 21.0% 12.4% 12.8% 9.3% 8.7% 41.4% 25.2% 16.1% 13.8% 10.1% 9.7% cittadinanza italiano straniero 12.6% 29.7% 13.4% 28.6% genere uomini donne 12.4% 15.8% 13.8% 16.4% titolo di studio licenza primaria o media diploma superiore laurea o superiore 20.4% 12.2% 3.7% 20.3% 14.1% 7.2% numero di addetti che lavorano nella stessa impresa 1-10 persone 24.6% 11-15 persone 16.5% 16-19 persone 13.3% 20-49 persone 9.7% 50 persone e più 4.5% non so, ma fino a 10 26.7% non so ma più di 10 15.5% 26.9% 16.4% 16.0% 9.6% 6.0% 31.8% 15.3% tipo di contratto t.indeterminato a termine 10.5% 31.2% 11.5% 34.8% posizione lavorativa dirigente quadro impiegato operaio apprendista lavoratore presso il proprio domicilio 1.3% 1.3% 6.7% 21.3% 51.5% 23.3% 1.9% 0.9% 9.1% 22.1% 39.7% 2.6% Elaborazioni su dati IT SILC Istat 51 Tavola 6 Per chi è aumentato maggiormente il rischio di essere working poor? Tra gli autonomi pre crisi (2007) post crisi (2011) classe di età 16-24 anni 25-29 anni 30-34 anni 35-39 anni 40-54 anni 55-64 anni 14.5% 22.8% 15.0% 13.7% 14.3% 12.6% 18.8% 16.4% 17.6% 16.9% 15.1% 14.8% cittadinanza italiano straniero 14.9% 11.2% 15.4% 23.3% genere uomini donne 13.5% 17.6% 15.0% 18.0% titolo di studio licenza primaria o media diploma superiore laurea o superiore 18.9% 13.3% 6.2% 18.7% 14.9% 12.0% numero di addetti che lavorano nella stessa impresa 1-10 persone 16.0% 11-15 persone 3.8% 16-19 persone 5.7% 20-49 persone 4.0% 50 persone e più 4.4% 17.6% 4.9% 4.0% 5.4% 8.4% Elaborazioni su dati IT SILC Istat Tra gli autonomi, gli incrementi maggiori nel rischio di essere lavoratori a bassa remunerazione si rilevano, oltre che per i giovanissimi (che però sono pochi), soprattutto per i trentenni. Come osservato già per i dipendenti, inoltre, sono gli uomini e i laureati che registrano gli incrementi maggiori del rischio, pur restano relativamente avvantaggiati rispetto a donne e persone con titoli di studio inferiori. Si tratta prevalentemente di liberi professionisti (per i quali l'incidenza di lavoratori a basso salario è raddoppiata rispetto alla situazione pre crisi), all'inizio della carriera, che lavorano in proprio o per piccolissime imprese (come partite Iva parasubordinate). 52 Mobilità salariale e bassi salari: gradino di ingresso o trappola della povertà? Working poor: situazione transitoria o permanente? La condizione di working poor può essere temporanea, di passaggio, oppure caratterizzata da una maggiore persistenza nel tempo. Se la situazione di bassa remunerazione persiste nel tempo si assiste ad una sorta di trappola, che può portare alcuni individui in condizioni permanenti di povertà, con una stratificazione sociale ed economica della società molto intensa, ponendo con urgenza la questione di come consentire alle persone di garantirsi livelli adeguati di reddito da una parte, e di sfuggire a tale trappola dall'altra. Una bassa remunerazione può rappresentare un gradino di ingresso per chi entra nel mercato del lavoro: la transizione dalla scuola al lavoro rappresenta tipicamente un momento di difficoltà per i giovani, che non hanno esperienze né contatti, e che quando trovano un'occupazione è solitamente a basso salario, anche perché talvolta sono contemplati interventi formativi che in una certa misura vengono "scambiati" con il salario. Tuttavia, come accennato in precedenza, spesso i bassi salari per giovani rappresentano non tanto dei gradini di ingresso quanto una trappola della povertà, quando periodi di occupazione in posizioni, spesso precarie, a bassa remunerazione si alternano a periodi di disoccupazione, per accedere poi a nuovi posti di lavoro precari senza prospettive di progressione salariale. L'aver avuto lunghi periodi di disoccupazione, inframmezzati solo da impieghi a bassa retribuzione, può difatti comportare uno stigma sul mercato del lavoro, se tale condizione è vista come un segnale di bassa produttività: il mercato del lavoro è difatti caratterizzato da informazione incompleta, e quindi i datori di lavoro nelle loro decisioni di assunzione si basano anche su alcuni segnali, come il livello di istruzione o le esperienze passate, per desumere la potenziale produttività del candidato. Una maniera per valutare se la permanenza nella condizione di working poor è tra i più probabili esiti, è il ricorso alle transizioni che analizzano la dinamica tra uno stato e l'altro nel corso del tempo. L'analisi dinamica richiede dati particolari, in modo che gli 53 individui siano seguiti nel corso del tempo19. Per consentire tale tipo di analisi sono stati ricostruiti dataset longitudinali, per effettuare confronti annuali20. I confronti sono stati fatti tra anni consecutivi, per evitare di perdere troppe osservazioni scegliendo intervalli più ampi: c'è però da sottolineare che, dato che l'unità di riferimento per la rilevazione sia la famiglia, da un anno all'altro la sua composizione si può modificare, con l'ingresso e l'uscita di nuovi membri21. Permanenza bassa, ma elevata frequenza di passaggi all'inattività In generale, l'analisi delle matrici di transizione (sulla popolazione in età lavorativa) suggerisce come la permanenza nello status di lavoratore a bassa retribuzione sia tutto sommato limitata: da un anno all'altro meno di un lavoratore a bassa remunerazione su dieci resta tale. Più della metà esce dallo stato di working poor, passando sopra la soglia di povertà. Tuttavia, una quota non trascurabile dei lavoratori a basso salario (circa il 38 per cento), però, da un anno all'altro esce dall'occupazione e diventa disoccupato oppure esce proprio dal mercato del lavoro, passando nell'inattività22. Gli esiti più probabili per chi è lavoratore a basso salario sono dunque il passaggio sopra la soglia ma anche l'uscita dal mercato del lavoro: due esiti totalmente opposti, soprattutto se si considera che il passaggio all'inattività nasconde talvolta il fenomeno dello scoraggiamento. Tra i lavoratori che risultano occupati in entrambi gli anni non sono infrequenti i passaggi sopra e sotto la soglia di povertà: le transizioni sopra e sotto la soglia (ovvero, l'ingresso o l'uscita dalla condizione di working poor) sono più frequenti della 19 I database finora utilizzati erano di tipo cross-section, nei quali ogni anno si ha un campione rappresentativo della popolazione. La rilevazione, però, prevede che gli individui con almeno 16 anni (membri delle famiglie campionate in IT SILC) siano seguiti per più anni, secondo uno schema di rotazione. In tal maniera si può ricostruire, partendo dai dati trasversali, un dataset longitudinale. 20 I dataset ricostruiti contengono anche l'informazione circa la condizione di working poor, per valutare i passaggi da e verso tale status. La condizione di working poor è identificata secondo le definizioni applicate in precedenza, ovvero con soglie di povertà relative utilizzando il reddito netto orario da lavoro dipendente o da lavoro autonomo (per gli autonomi senza dipendenti). Le soglie sono state calcolate sulla base delle distribuzioni trasversali (Cappellari, 2002). 21 L'ingresso o l'uscita prima dei 16 anni (es. nascite) non modificano il dataset utilizzato a questi fini, mentre sono rilevanti dopo i 16 anni, risultando in osservazioni mancanti (perché non presenti in entrambi gli anni). 22 In parte, tali risultati dipendono anche dal campione, che tende ad essere sbilanciato a favore delle classi di età più anziane, per le quali è più probabile l'uscita dal mercato del lavoro (per pensionamento), mentre per i giovani working poor è più elevata la permanenza nello status di lavoratori a bassa remunerazione. I problemi derivano dal fatto che l'uscita dal nucleo familiare (e quindi la "scomparsa" dal campione) è più probabile per i giovani, che a un certo punto creano il proprio nucleo familiare (single, coppia o altro), lasciando quello d'origine. 54 permanenza in tale condizione: sia perché la soglia da un anno all'altro si sposta, sia perché la condizione di permanenza interessa solo un sottoinsieme degli occupati, ovvero solo i working poor. La crisi ha modificato però il quadro: rispetto alla situazione pre crisi si è ridotta la probabilità di restare nella condizione di lavoratore a bassa remunerazione da un anno all'altro, mentre è sostanzialmente raddoppiata la probabilità per un lavoratore working poor di perdere l'impiego e diventare disoccupato (dal 4 all'8 per cento). Tra chi resta occupato, situazione relativamente meno frequente rispetto alla situazione precedente la crisi, aumenta la probabilità di passaggio sopra e sotto la soglia di povertà. La situazione appare più turbolenta ed incerta che in passato: un quadro tutto sommato coerente con quanto osservato rispetto ai rischi di povertà, che sono aumentati soprattutto per categorie che prima della crisi erano avvantaggiate, se non parzialmente esenti. Grafico 11 Tassi di uscita dalla condizione di working poor 2004/2005 2006/2007 2010/2011 60 50 40 30 20 10 0 verso inattività verso disoccupazione verso occupazione non WP % di working poor nell'anno t0 che nell'anno t1 si sono trovati in altra condizione. Elaborazioni su dati IT SILC Istat 55 Grafico 12 Gli occupati e i passaggi sopra/sotto la soglia di povertà 2004/2005 2006/2007 2010/2011 12 10 8 6 4 2 0 uscita da WP permanenza nello status di WP ingresso nello status di WP % di occupati (che restano tali in t0 e t1) secondo gli stati rilevati in t0 e in t1. Elaborazioni su dati IT SILC Istat Giovani e donne svantaggiati Quanto finora osservato nel complesso può essere declinato diversamente quando si considerano due categorie, come i giovani e le donne, caratterizzate da peculiari funzionamenti del mercato del lavoro. I giovani (fino a 30 anni) si trovano a sperimentare la transizione tra la fine del percorso scolastico e l'inizio dell'attività lavorativa, con tutte le difficoltà connesse, legate alla mancanza di esperienza e di contatti, oltre all'inesperienza in termini di ricerca di lavoro e limitate risorse finanziarie. Le donne sono invece quelle che subiscono maggiormente il peso della difficile conciliazione tra responsabilità familiari e impegni lavorativi, e si spesso - più frequentemente degli uomini - si trovano in condizioni di inattività, per difficoltà nella conciliazione o scoraggiamento. In precedenza, inoltre, è stato evidenziato come sia i giovani che le donne soffrono di un maggior rischio di essere working poor. Per i giovani, la probabilità di essere un working poor è più che doppia rispetto agli adulti (intendendo con questo termine le persone dai 31 ai 64 anni); come è stato evidenziato, questo non è un risultato sorprendente, se si considera che spesso i salari di ingresso sono bassi e che per i giovani nella transizione scuola-lavoro impieghi a bassa 56 remunerazione possono servire come gradini di ingresso per occupazioni più stabili e meglio remunerate. Spesso però, la condizione di lavoratore a bassa remunerazione è tutt'altro che temporanea, di passaggio: tra i giovani working poor, il tasso di permanenza in tale condizione da un anno all'altro è tre volte quello rilevato per gli adulti. Solo poco più di un giovane working poor su tre riesce a salire oltre la soglia di povertà (tra gli adulti il tasso è di poco meno del 60 per cento). Sulla base di questi dati è possibile affermare che, almeno in parte, per i giovani la condizione di working poor è inquadrabile come trappola della povertà: l'essere a bassa remunerazione infatti non funziona più (o funziona sempre meno) come gradino d'ingresso nell'occupazione stabile e meglio pagata, ma diventa sempre più un segnale negativo se non addirittura una maniera in cui il capitale umano di un lavoratore rischia di deteriorarsi. Tra chi resta occupato da un anno all'altro, si osserva un'elevata frequenza di passaggi sotto e sopra la soglia, superiore a quella rilevata per gli adulti, segnale di un maggior rischio per i giovani di essere working poor (solo il 66 per cento degli occupati giovani non risulta a bassa retribuzione per almeno un anno, contro l'80 per cento degli adulti). L'impatto della crisi per i giovani è stato molto più dirompente di quanto non sia stato per il complesso dei lavoratori: per i lavoratori a bassa retribuzione è caduta la permanenza nell'occupazione da un anno all'altro, anche in impieghi a bassa retribuzione, mentre è più che raddoppiata la probabilità di uscita verso la disoccupazione. Per effetto della crisi, gli impieghi a bassa remunerazione hanno cessato la loro funzione di garanzia di occupazione per i giovani (anche se non garantiscono livelli adeguati di reddito). 57 Grafico 13 Tassi di uscita dalla condizione di working poor Giovani 2004/2005 2006/2007 Adulti 2010/2011 70 70 60 60 50 50 40 40 30 30 20 20 10 10 0 2006/2007 2010/2011 0 verso inattività verso disoccupazione verso occupazione non WP % di working poor fino a 30 anni nell'anno t0 che nell'anno t1 si sono trovati in altra condizione. Elaborazioni su dati IT SILC Istat 58 2004/2005 verso inattività verso verso disoccupazione occupazione non WP % di working poor con più di 30 anni nell'anno t0 che nell'anno t1 si sono trovati in altra condizione. Elaborazioni su dati IT SILC Istat Grafico 14 Gli occupati e i passaggi sopra/sotto la soglia di povertà Giovani 2004/2005 2006/2007 Adulti 2010/2011 2004/2005 25 25 20 20 15 15 10 10 5 5 2006/2007 2010/2011 0 0 uscita da WP permanenza nello status di WP ingresso nello status di WP % di occupati fino a 30 anni (che restano tali in t0 e t1) secondo gli stati rilevati in t0 e in t1. Elaborazioni su dati IT SILC Istat uscita da WP permanenza nello status di WP ingresso nello status di WP % di occupati con più di 30 anni (che restano tali in t0 e t1) secondo gli stati rilevati in t0 e in t1. Elaborazioni su dati IT SILC Istat 59 Per le donne che risultano working poor, la permanenza in tale condizione è più bassa di quanto non lo sia per gli uomini, mentre è molto più frequente l'uscita verso l'inattività; questo potrebbe essere conseguenza del fatto che quando la donna è percettore di reddito non principale nel proprio nucleo familiare può decidere di uscire dal mercato del lavoro se il salario non è sufficiente a coprire i costi dei servizi (es. di child care). L'uscita verso l'inattività, inoltre, nasconde anche quei fenomeni di scoraggiamento, se la ricerca di migliori opportunità di impiego non dà i suoi risultati. Rispetto agli uomini è molto più raro per le donne working poor riuscire a uscire dalla povertà. Se però si restringe l'analisi a chi resta occupato (ovvero, si esclude l'ampia quota di persone che escono dall'occupazione e spesso dal mercato del lavoro), si osserva come donne e uomini siano caratterizzati da livelli piuttosto simili di permanenza nella condizione di working poor, ma le donne hanno anche frequenze molto più elevate di passaggi tra le soglie. Questo riflette sostanzialmente il maggior rischio di essere working poor delle donne: se tra gli occupati uomini più dell'80 per cento non sperimenta tale condizione in nemmeno un anno, tra le donne solo il 73 per cento. In questo caso la crisi ha ridotto in parte le differenze tra i generi: per entrambi, è aumentata la probabilità di uscita dalla condizione di lavoratori a bassa retribuzione verso la disoccupazione, ma per le donne si è ridotto drasticamente il tasso di uscita verso l'inattività. Con la crisi, e la crescente pressione subita dai bilanci familiari, diventa cruciale l'integrazione anche del secondo reddito, per quanto modesto sia, e se si perde l'impiego se ne cerca un altro (passando così alla disoccupazione e non all'inattività). 60 Grafico 15 Tassi di uscita dalla condizione di working poor Donne 2004/2005 2006/2007 Uomini 2010/2011 2004/2005 80 80 70 70 60 60 50 50 40 40 30 30 20 20 10 10 0 2006/2007 2010/2011 0 verso inattività verso disoccupazione verso occupazione non WP % di working poor nell'anno t0 che nell'anno t1 si sono trovati in altra condizione. Elaborazioni su dati IT SILC Istat verso inattività verso disoccupazione verso occupazione non WP % di working poor nell'anno t0 che nell'anno t1 si sono trovati in altra condizione. Elaborazioni su dati IT SILC Istat 61 Grafico 16 Gli occupati e i passaggi sopra/sotto la soglia di povertà Donne 2004/2005 2006/2007 Uomini 2010/2011 16 2004/2005 2006/2007 2010/2011 25 14 20 12 10 15 8 10 6 4 5 2 0 0 uscita da WP permanenza nello status di WP ingresso nello status di WP % di occupati (che restano tali in t0 e t1) secondo gli stati rilevati in t0 e in t1. Elaborazioni su dati IT SILC Istat 62 uscita da WP permanenza nello status di WP ingresso nello status di WP % di occupati (che restano tali in t0 e t1) secondo gli stati rilevati in t0 e in t1. Elaborazioni su dati IT SILC Istat Riquadro: bassi salari e qualità del lavoro I livelli retributivi rappresentano una componente fondamentale della qualità di un'occupazione. Un impiego ben retribuito è generalmente gradito, consentendo di raggiungere più elevati standard di vita; tuttavia ci sono altri aspetti, non direttamente connessi alla retribuzione, che influenzano la qualità del posto di lavoro, ad esempio la salute e la sicurezza, le prospettive di carriera, e infine le possibilità di conciliare lavoro e famiglia. In un recente rapporto dell'European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions (Eurofound, 2012) sono stati elaborati alcuni indicatori di qualità dell'impiego, utilizzando le informazioni tratte da un'indagine sulle condizioni di lavoro (European Working Condition Survey) condotta ogni cinque anni presso un campione di lavoratori dell'Unione Europea, e giunta nel 2010 alla quinta edizione. Gli indicatori considerati riguardano le prospettive che concernono la sicurezza di un posto di lavoro, che dà anche sicurezza psicologica, ma anche le prospettive di carriera; la qualità dell'impiego intrinseca, che si riferisce al livello di autonomia consentito, all'utilizzo delle competenze, al sostegno sociale da parte dei colleghi, dalla qualità dell'ambiente fisico di lavoro (se pone rischi per la salute o meno), all'intensità dello sforzo di lavoro (sia in termini fisici che emotivi o mentali); infine c'è la qualità del tempo di lavoro, che riassume le caratteristiche di un'occupazione che consentono o meno la conciliazione dei tempi di lavoro con le responsabilità familiari. Dato che l'aspetto retributivo ha un ruolo importante nel definire la qualità di un posto di lavoro, la condizione di working poor potrebbe associarsi a una bassa qualità dell'occupazione. Non si può però escludere che in alcuni casi possa esserci una sorta di scambio di alcuni aspetti non monetari della qualità del lavoro (ad esempio, la conciliazione) con il salario. Vogliamo vedere se nei settori e nelle professioni in cui i working poor sono maggiormente concentrati anche la qualità media del lavoro è ridotta, confrontando gli indicatori di qualità non monetaria del lavoro (prospettive, qualità intrinseca del lavoro e qualità del tempo di lavoro) con la presenza di working poor. Si osserva come generalmente l'incidenza di lavoratori a bassa retribuzione tende ad essere più elevata nei settori e nelle professioni dove la qualità del lavoro media è più bassa23. I settori dove la qualità intrinseca media del lavoro è maggiore (secondo chi ci lavora) sono l'istruzione, la PA e la sanità, settori prevalentemente pubblici, nei quali la quota di lavoratori a basso salario è modesta (tra il 5 e il 9 per cento della sanità). Sono settori, con l'eccezione della sanità, dove anche la qualità del tempo di lavoro, e quindi la possibilità di conciliazione, è molto 23 Gli indici di job quality vanno da 1 a 100: a valori più elevati degli indici corrispondono livelli più elevati della qualità dell'impiego. 63 elevata, soprattutto rispetto alla media; anche per quanto riguarda le prospettive questi settori sono ai primi posti della graduatoria, insieme ai servizi finanziari. Per quanto riguarda quindi i settori, non sembra di poter affermare che c'è uno scambio salario-altri aspetti della qualità del lavoro. Le donne potrebbero essere maggiormente propense a questo tipo di scambio, soprattutto del livello retributivo con la accessibilità alla conciliazione, dato che spesso sono percettori secondari nel nucleo familiare e con maggiori responsabilità di cura (tradizionalmente). Esaminando i settori dove è maggiore la presenza femminile nell'occupazione (commercio e servizi turistici, istruzione, servizi alle persone e alle famiglie), questo tipo di scambio in realtà non risulta evidente. Nell'istruzione, come già detto, la qualità è generalmente alta (meno nell'aspetto delle prospettive, ma molto per quanto riguarda la conciliazione) e la quota di working poor è attorno al 6 per cento nel 2011 (meno della metà della quota nazionale). Nel commercio e servizi turistici, al contrario, la qualità del tempo di lavoro è molto bassa mentre l'incidenza di lavoratori a bassa remunerazione supera il 20 per cento. L'unica parziale eccezione è rappresentata dai servizi alle persone e alle famiglie, dove la quota di working poor è molto elevata (circa un occupato su tre è a bassa remunerazione), la qualità intrinseca dell'impiego e le prospettive non brillano, ma dove la qualità del tempo lavorato (e la possibilità di conciliazione) sono superiori alla media. Grafico 17 Qualità intrinseca del lavoro e working poor per settori 35 % working poor 30 25 20 15 10 5 0 50 55 60 65 70 75 Indicatore di qualità intrinseca del lavoro (la qualità è crescente al crescere dell'indice). Elaborazioni su dati EWCS 2010 e IT SILC 2011 64 80 Grafico 18 Qualità del tempo di lavoro e working poor per settori 35 servizi alle famiglie % working poor 30 25 20 15 10 5 0 50 60 70 80 90 Indicatore di qualità del tempo di lavoro (la qualità è crescente al crescere dell'indice). Elaborazioni su dati EWCS 2010 e IT SILC 2011 Grafico 19 Prospettive e working poor per settori 35 30 % working poor servizi alle famiglie 25 20 15 10 5 0 50 55 60 65 70 75 Indicatore di prospettive (la qualità è crescente al crescere dell'indice). Elaborazioni su dati EWCS 2010 e IT SILC 2011 Anche per quanto riguarda le professioni, si nota una associazione tra bassi livelli degli indicatori di qualità non monetaria dell'impiego e elevata presenza di lavoratori a bassa remunerazione. Appare evidente come le professioni meno qualificate sono caratterizzate sia da 65 bassi livelli medi di qualità dell'impiego e da un'elevata incidenza di working poor. Si potrebbe pertanto asserire che c'è una forma di segregazione, soprattutto delle persone con minori competenze, in lavori poco qualificati, di scarsa qualità e con basse remunerazioni. Grafico 20 Qualità intrinseca del lavoro e working poor per professioni 45 % working poor 40 prof.qualificate agricoltura 35 30 25 20 15 10 5 0 50 55 60 65 70 75 80 Indicatore di qualità intrinseca del lavoro (la qualità è crescente al crescere dell'indice). Elaborazioni su dati EWCS 2010 e IT SILC 2011 Grafico 21 Qualità del tempo di lavoro e working poor per professioni 45 % working poor 40 professioni elementari 35 30 25 20 15 10 5 0 50 55 60 65 70 75 Indicatore di qualità del tempo di lavoro (la qualità è crescente al crescere dell'indice). Elaborazioni su dati EWCS 2010 e IT SILC 2011 66 80 Grafico 22 Prospettive e working poor per professioni prof.qualificate agricoltura 45 40 % working poor 35 30 25 20 15 10 5 0 50 55 60 65 70 Indicatore di prospettive (la qualità è crescente al crescere dell'indice). Elaborazioni su dati EWCS 2010 e IT SILC 2011 67 Capitolo 3 - Famiglie, lavoro e povertà Cresce la povertà tra le famiglie italiane Nei capitoli precedenti è stato evidenziato come il generale impoverimento determinato dall'entità e dalla prolungata durata della crisi abbia determinato un aumento della diffusione della povertà, con un incremento dei rischi anche per coloro che prima erano sostanzialmente protetti. Il lavoro ha cessato di essere una garanzia contro la povertà. La quota di famiglie con capofamiglia occupato che si trovano in condizioni di povertà assoluta (ovvero, con livelli di consumo inferiori ad un livello definito di sussistenza) è raddoppiata rispetto alla situazione precedente la crisi, passando dal 2,7 al 5,5 per cento. Grafico 1 Povertà assoluta familiare - capofamiglia occupato 6 5 4 3 2 1 0 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 % di famiglie al di sotto della soglia assoluta di povertà, la cui persona di riferimento è occupata. Dati Istat Finora l'attenzione è stata rivolta essenzialmente agli individui, e ai loro rischi di povertà nonostante l'occupazione. Si tratta di rischi di povertà, valutati in termini di basso salario: quando la remunerazione è molto bassa, è ritenuta insufficiente per garantire livelli adeguati di reddito, consumi, benessere. Ma non è necessariamente una persona povera; non sempre percepire un basso salario implica, per l'individuo, una 68 condizione di disagio economico. Non va dimenticato che gli individui sono spesso parte di nuclei familiari, caratterizzati da forme di redistribuzione e solidarietà familiare: il nostro paese è peraltro caratterizzato da una forte divisione del lavoro, che in molti nuclei familiari concentra l'attività lavorativa su un unico percettore, lasciando gli altri componenti a carico (il partner, generalmente la donna, e i figli, spesso anche quelli adulti). In Italia, in particolar modo, la famiglia costituisce il principale ammortizzatore sociale che consente di contenere le disuguaglianze dei redditi che si formano sul mercato del lavoro. Ma i bilanci familiari nella fase attuale sono sempre più sotto pressione: l'incidenza della povertà relativa è balzata su livelli elevati, superiori ai massimi precedenti di fine anni novanta. Risulta sempre più complesso, pertanto, per le famiglie operare il proprio ruolo di compensazione. Lavoro e povertà: In-work poverty Famiglie povere nonostante l'occupazione dei componenti Dopo aver esaminato la questione della povertà individuale nell'occupazione, è importante estendere il campo di analisi dall'individuo alle famiglie: nelle analisi circa il rapporto tra lavoro e povertà non si può difatti trascurare il dibattito riguardante l'inwork poverty. Con questo termine si intende definire quel fenomeno riguardante le famiglie che si trovano in condizioni di povertà nonostante uno o più componenti siano occupati: in altre parole, si tratta di quelle famiglie che non riescono a raggiungere livelli di reddito adeguati sebbene abbiano un legame con il mercato del lavoro. La condizione di povertà nonostante l'occupazione di almeno un componente della famiglia deriva da diverse eventualità, che si possono combinare tra loro: innanzi tutto, la scarsa intensità di lavoro della famiglia nel suo insieme, ovvero se l'occupazione è concentrata su un solo membro, che sarà l'unico percettore di reddito (ad esempio, perché gli altri componenti risultano disoccupati o inattivi, situazione non infrequente in un quadro di crescente disoccupazione); oppure la scarsa intensità di lavoro dei singoli componenti, che risultano magari sotto-occupati (perché occupati involontariamente a tempo parziale o in Cassa Integrazione), che riduce le ore lavorate e di conseguenza i 69 redditi complessivi; oppure perché i componenti occupati sono lavoratori a bassa remunerazione, working poor; o ancora perché le prestazioni percepite fuori dal lavoro (es. assegni familiari) risultano inadeguate per sostenere il reddito. La definizione adottata per il calcolo dell'indicatore di in-work poverty fa riferimento alle famiglie: rientrano nella definizione di in-work poor le famiglie (e di conseguenza, gli individui che ne fanno parte) in cui uno o più componenti siano occupati, e il cui reddito disponibile risulti inferiore al 60 per cento del reddito mediano. I redditi sono espressi in termini di reddito equivalente, ovvero normalizzato con una scala d'equivalenza, in modo da tenere in conto le differenze nella composizione e nella dimensione delle famiglie. Si noti che nel caso della in-work poverty oltre alla retribuzione complessiva (che dipende anche dal numero di ore lavorate dai componenti della famiglia) contano anche le altre fonti di reddito (es. le rendite finanziarie), i trasferimenti, le imposte dirette, gli oneri sociali e soprattutto la composizione familiare. Come nel caso dei working poor, pur descrivendo fenomeni differenti, si fa riferimento a criteri di povertà relativa. Questo è importante da tenere presente, perché nella misura in cui la crisi ha peggiorato le condizioni di quasi tutti, con uno scivolamento verso il basso dell'intera distribuzione, criteri relativi consentono di cogliere solo in parte il fenomeno di impoverimento e il peggioramento delle condizioni. In Italia, una persona su dieci è in condizioni di in-work poverty Utilizzando i dati IT SILC, si è calcolato che nel 2011 il numero di famiglie in in-work poverty, ovvero con un reddito equivalente al di sotto della soglia di povertà e con almeno un componente occupato, fosse pari a circa 2 milioni e 50mila, pari all'8,1 per cento delle famiglie italiane. In termini individuali, la in-work poverty interessava quasi 6 milioni 500mila persone nel 2011, pari al 10,6 per cento della popolazione residente in Italia; un'incidenza non trascurabile. Analizzando l'evoluzione della in-work poverty nell'Unione Europea durante il periodo della crisi, si nota una certa stabilità nella quota di individui che appartengono ad un nucleo familiare in cui vi sia almeno un percettore di reddito da lavoro e che siano in condizioni di povertà relativa. Per la media dell'Ue, la quota di individui in-work poor è 70 di circa l'8,5 per cento per buona parte del periodo, ma si evidenzia un modesto aumento nel 2011. Le differenze tra i paesi, però, sono significative. La in-work poverty è relativamente bassa, e inferiore alla media europea, nei paesi scandinavi, in buona parte dei paesi dell'Europa continentale (Francia, Germania, Austria, Belgio, Olanda, Slovacchia e altri) e nei paesi anglosassoni (Irlanda e Regno Unito). È invece più elevata nei paesi mediterranei (Grecia, Spagna, Portogallo e Italia) e in alcuni paesi di recente ingresso nella Ue (Polonia, Romani, Lettonia, Lituania). La severità con cui la crisi ha inciso sulla povertà delle famiglie con lavoratori è invece più eterogenea: per molti paesi, tra cui l'Italia, il 2011 segna un peggioramento rispetto al periodo pre crisi. Inoltre, anche nei paesi che prima dell'inizio della crisi godevano di tassi di in-work poverty relativamente contenuti hanno sperimentato un aumento consistente (in termini percentuali) della povertà. Va ricordato che si tratta di indicatori relativi di povertà: la crisi ha significato un peggioramento per tutti, modificando solo in parte la povertà relativa, dato che tutta la distribuzione è stata toccata. Grafico2 La in-work poverty in Europa 2007 2011 16 14 12 10 8 6 4 2 Spagna Grecia Polonia Italia Portogallo Ue27 Regno Unito Germania Francia Svezia Danimarca Irlanda Paesi Bassi Belgio Rep.Ceca Finlandia 0 % individui in-work poor. Dati Eurostat EU SILC 71 Chi è a maggior rischio di povertà? Complessivamente, nel 2011 il rischio individuale di appartenere ad una famiglia al di sotto della soglia di povertà relativa nonostante almeno uno dei componenti fosse occupato è stato del 10,6 per cento. Tale rischio è una media tra tutte le famiglie: se si compiono alcune distinzioni, sulla base delle caratteristiche socio-economiche, si osservano però notevoli differenze nei livelli di rischio. La probabilità di essere in in-work poverty è maggiore per gli individui che appartengono a famiglie residenti nel Mezzogiorno (probabilità doppia rispetto alla media italiana)24, e per le famiglie che non possiedono l'abitazione di residenza. Le famiglie monoparentali, o con figli a carico presentano maggiori rischi di in-work poverty per i loro membri: il lavoro di uno o più dei componenti non è sempre sufficiente a garantire livelli adeguati di benessere. I single beneficiano generalmente di un minor rischio di povertà, ma non quelli più giovani, che sono a maggior rischio di avere occupazioni meno stabili e peggio retribuite (come è stato evidenziato nel capitolo precedente), e hanno minore probabilità di avere altre fonti di reddito non da lavoro, avendo minori risparmi e minori investiti rispetto a persone più mature. 24 Si ricorda che la soglia di povertà è calcolata a livello nazionale; in una situazione come quella italiana, caratterizzata da un marcato dualismo territoriale, i livelli medi di reddito nelle diverse aree sono estremamente differenti. Il ricorso a soglie territoriali naturalmente ridurrebbe le differenze, ma questo limiterebbe il confronto solo tra realtà fisicamente prossime. 72 Tavola 1 A I caratteri dell'in-work poverty 2011 Quali famiglie comportano per i propri componenti i maggiori rischi di essere in work poor? rischio medio: territorio Nord Ovest Nord Est Centro Sud Isole tipologia familiare Single - single fino a 34 anni 2 adulti (sotto i 65 anni), no figli a carico 2 adulti (di cui almeno uno sopra i 65 anni), senza figli a carico Altri nuclei familiari senza figli a carico Nucleo monogenitoriale, uno o più figli a carico Coppia, un figlio a carico Coppia, due figli a carico Coppia, tre o più figli a carico Altri nuclei familiari con figli a carico Proprietà abitazione Proprietari casa residenza/ comodato gratuito Affitto % in-work poor 10.6% 5.3% 5.2% 8.0% 18.7% 20.3% 5.1% 12.5% 5.4% 0.6% 3.9% 20.6% 11.9% 18.6% 27.3% 18.9% 8.7% 19.7% Elaborazioni su dati IT SILC Istat Guardando ad alcune caratteristiche del capofamiglia25, il rischio di povertà dei membri della famiglia cresce quando la persona di riferimento ha cittadinanza non italiana o ha meno di 30 anni: la probabilità di povertà tende a ridursi con il crescere dell'età del capofamiglia e rimane elevata anche per i quarantenni. Il rischio di povertà scende per le famiglie la cui persona di riferimento ha un titolo di studio universitario, mentre non ci sono rilevanti differenze tra le famiglie di chi ha concluso al massimo la scuola media inferiore e chi invece possiede un diploma di scuola superiore. Se il capofamiglia si trova in una posizione di debolezza (ha un'occupazione temporanea, è un lavoratore autonomo senza dipendenti, è un operaio, un apprendista, un collaboratore, un imprenditore o un lavoratore in proprio) i rischi per la famiglia di povertà nell'occupazione sono maggiori. 25 Con questo termine si intende la persona di riferimento nelle indagini. 73 Tavola 2 I caratteri dell'in-work poverty 2011 Quali famiglie hanno maggiori probabilità di essere in work poor? secondo le caratteristiche del capofamiglia* rischio medio: classe di età 17-24 anni 25-29 anni 30-34 anni 35-39 anni 40-54 anni 55-64 anni >65 anni % in-work poor 8.1% 26.9% 18.0% 15.3% 14.2% 13.8% 5.0% 0.6% titolo di studio licenza primaria o media diploma superiore laurea o superiore 8.4% 8.8% 4.7% cittadinanza italiano straniero 7.0% 24.9% tipo di contratto lavoratore dipendente - t.indeterminato - a termine autonomo - con dipendenti - senza dipendenti 7.2% 5.8% 19.1% 20.0% 14.6% 22.9% posizione professionale dirigente quadro impiegato operaio apprendista lavoratore presso il proprio domicilio imprenditore libero professionista lavoratore in proprio socio di cooperativa coadiuvante nella ditta di un familiare 1.5% 0.2% 5.5% 20.1% 49.2% 82.7% 17.3% 7.8% 24.7% 11.3% 19.7% *per capofamiglia si intende la persona di riferimento nell'indagine Elaborazioni su dati IT SILC Istat L'importanza dell'intensità di lavoro In generale, comunque, sulla probabilità di essere o meno in in-work poverty influisce molto la tipologia familiare e l'intensità di lavoro all'interno della famiglia. Il rischio di povertà cresce con il numero di componenti, soprattutto se alcuni di questi sono a 74 carico: i rischi più alti li corrono le coppie con tre o più figli a carico e i nuclei monogenitoriali (sempre più comuni per effetto della dissoluzione delle famiglie) con uno o più figli a carico. L'avere molti componenti a carico comporta avere pochi percettori di reddito: le famiglie che hanno un solo occupato tra i componenti sono a rischio doppio di povertà rispetto alle altre, e la probabilità cade in misura marcata se gli occupati sono due o più. Tavola 1B I caratteri dell'in-work poverty 2011 Quali famiglie comportano per i propri componenti i maggiori rischi di essere in work poor? % in-work poor numero di componenti 1 2 3 4 5 6 7 8 9 e più 5.1% 3.8% 8.9% 15.2% 21.8% 25.0% 34.6% 26.2% 45.4% numero di occupati 1 2 3 4 5 19.6% 7.4% 4.8% 0.0% 0.0% numero di occupati part time 0 1 2 e più 9.0% 22.9% 35.8% numero di lavoratori autonomi 0 1 2 e più 8.5% 21.6% 7.1% Elaborazioni su dati IT SILC Istat L'intensità occupazionale, calcolata come rapporto tra numero di occupati e componenti di una famiglia (per tenere conto delle diverse numerosità), è un fattore importante che spiega la in-work poverty: tanto più l'intensità occupazionale è bassa tanto maggiore è la probabilità di essere poveri. Tra le famiglie che hanno al massimo un solo occupato su sei componenti, una su due è povera; il rischio si riduce al crescere del rapporto tra 75 occupati e membri. Tende a risalire per chi ha intensità occupazionale pari a 1, ovvero per le famiglie dove tutti i componenti sono occupati, categoria in cui sono più frequenti le coppie di occupati e i single. I single giovani (fino a 34 anni) sono a maggior rischio di povertà: si tratta perlopiù di giovani che hanno da poco lasciato il nucleo familiare d'origine e sono all'inizio del proprio percorso professionale. Grafico3 Rischio di in-work poverty e intensità occupazionale 50% 40% 30% 20% 10% 1 [0.7;1) [0.6;0.7) [0.5;0.6) [0.4; 0.5) [0.3;0.4) [0.2;0.3) (0; 0.2) 0% Intensità occupazionale: rapporto tra numero di occupati all'interno della famiglia e numero di membri. Elaborazioni su dati IT SILC Istat D'altra parte, se si guarda la classificazione dei paesi ad alta e bassa in-work poverty all'interno dell'Unione Europea, riportata nel grafico 2, si può notare come questa richiami la classificazione degli stessi paesi secondo i tassi di partecipazione (e di occupazione) femminile, a segnalare come per questo tipo di povertà l'intensità di lavoro sia l'antidoto principale per ridurre il rischio di povertà (Oecd, 2009). L'Italia, in questo quadro, presenta tassi di povertà occupazionale più elevati della media europea e in aumento rispetto al periodo pre crisi, ed è anche uno dei paesi in cui l'intensità di lavoro all'interno dei nuclei familiari è più bassa. La crisi ha ulteriormente contribuito a peggiorare l'intensità occupazionale all'interno delle famiglie, soprattutto per i lavoratori meno protetti sul mercato del lavoro (i cosiddetti secondary earners). 76 Il rischio di povertà si riduce all'aumentare del numero di percettori di reddito; il rischio per tipologia familiare, tuttavia, varia significativamente tra i paesi a seconda del regime fiscale e dei trasferimenti alle famiglie. Per chi è cresciuto il rischio di povertà? La crisi ha determinato un generale peggioramento dei redditi per le famiglie italiane, con un incremento dell'incidenza della povertà tra gli individui. Il generale impoverimento si traduce in un aumento del rischio di ricadere al di sotto della soglia di povertà, che coinvolge anche persone che prima della crisi erano relativamente al sicuro. In effetti, confrontando la probabilità di in-work poverty prima della crisi con quella osservata nel periodo successivo si nota come il rischio sia aumentato un po' per tutti, ma in misura più marcata per alcune categorie caratterizzate da una minore probabilità di povertà. Tra questi i residenti nel Centro-Nord (e in particolare nel Nord Est), che pur beneficiando di un rischio di in-work poverty molto inferiore alla media nazionale, hanno sperimentato un incremento percentuale più marcato (anche per effetti di base, comunque). Ma anche le famiglie con capofamiglia laureato hanno sperimentato incrementi rilevanti del rischio di povertà, e così quelle il cui capofamiglia è inquadrato come impiegato, oppure ha un contratto di collaborazione (il rischio è raddoppiato) o ancora risulta imprenditore. Se prima della crisi solo una famiglia su 10 con capofamiglia imprenditore era a rischio di in-work poverty, dopo la crisi l'incidenza è salita rapidamente al 17,3 per cento; la crisi ha messo in difficoltà moltissime imprese, soprattutto di piccole dimensioni, esponendo a maggiori rischi di povertà anche categorie, come quella degli imprenditori, che ne erano parzialmente esenti. Seppure il rischio di povertà cresce anche per quelle categorie che risultavano almeno in parte protette, in molti casi ad aver subito maggiormente la crisi - in termini di accresciuto rischio di povertà - sono le categorie più deboli, come i nuclei familiari monoparentali. Anche per i single, comunque, si osserva un incremento del rischio di povertà. 77 Tavola 3 Per chi è aumentato maggiormente il rischio di essere in condizioni di in-work poverty? per gli individui, secondo le caratteristiche della famiglia pre crisi (2007) territorio Nord Ovest Nord Est Centro Sud Isole post crisi (2011) 4.5% 3.5% 5.8% 16.5% 18.9% 5.3% 5.2% 8.0% 18.7% 20.3% 4.3% 5.0% 5.1% 5.4% 0.6% 5.0% 0.6% 3.9% Nucleo monogenitoriale, uno o più figli a carico Coppia, un figlio a carico Coppia, due figli a carico Coppia, tre o più figli a carico Altri nuclei familiari con figli a carico 13.8% 10.6% 19.1% 34.0% 14.5% 20.6% 11.9% 18.6% 27.3% 18.9% numero di occupati in famiglia 1 2 3 4 5 17.0% 6.9% 9.5% 0.0% 0.0% 19.6% 7.4% 4.8% 0.0% 0.0% tipologia familiare Single 2 adulti (sotto i 65 anni), no figli a carico 2 adulti (di cui almeno uno sopra i 65 anni), senza figli a carico Altri nuclei familiari senza figli a carico secondo le caratteristiche del capofamiglia, per le famiglie: titolo di studio licenza primaria o media 8.7% diploma superiore 7.6% laurea o superiore 2.8% posizione professionale dirigente quadro impiegato operaio apprendista lavoratore presso il proprio domicilio imprenditore libero professionista lavoratore in proprio socio di cooperativa coadiuvante nella ditta di un familiare 2.5% 1.3% 4.9% 19.3% 47.2% 49.0% 10.4% 10.2% 23.2% 18.7% 15.6% 8.4% 8.8% 4.7% 1.5% 0.2% 5.5% 20.1% 49.2% 82.7% 17.3% 7.8% 24.7% 11.3% 19.7% Elaborazioni su dati IT SILC Istat La probabilità di essere in in-work poverty è aumentata soprattutto per chi appartiene a nuclei familiari dove c'è un solo lavoratore; ancora una volta si evidenzia l'estrema 78 importanza dell'intensità occupazionale all'interno della famiglia come uno degli strumenti più efficaci per contrastare questa forma di povertà. In-work poverty e working poor La differenza tra basso salario e basso reddito Discutendo di in-work poverty l'attenzione si è finora concentrata sulle famiglie, le loro caratteristiche, la loro composizione, l'intensità di lavoro al loro interno. La variabile cruciale per la definizione della soglia di povertà, e per l'individuazione dei poveri, è il reddito disponibile equivalente. Alla composizione del reddito disponibile concorrono diverse forme di reddito: redditi individuali da lavoro dipendente, o da lavoro autonomo, pensioni e indennità varie, più redditi familiari da capitale così come diverse forme di trasferimenti (es. assegni familiari), al netto delle imposte. Poiché l'unità di analisi è la famiglia, non è detto che un individuo che percepisce un basso salario, sia effettivamente in una condizione di disagio economico; la famiglia, difatti, opera da ammortizzatore sociale, redistribuendo le risorse all'interno del nucleo familiare tra i diversi componenti. In altre parole, in alcuni casi la redistribuzione all'interno della famiglia può consentire di contenere le disuguaglianze che si creano sul mercato del lavoro. La sovrapposizione tra le basse remunerazioni e la povertà è stimata piuttosto contenuta in molte economie industrializzate (Marx e Verbist, 1998), dato che le famiglie povere talvolta non hanno nemmeno un componente occupato (a meno che siano in-work poor), mentre molti lavoratori a bassa remunerazione vivono in famiglie dove ci sono più percettori di reddito, che consentono di compensare le basse remunerazioni. Ciononostante, sebbene questa distinzione sia utile e importante per la misurazione e l'analisi dei due fenomeni (working poverty e in-work poverty), non è può giustificare atteggiamenti indulgenti della politica nei confronti del problema delle persone a bassa remunerazione. Al contrario, l'interazione tra lavoratori a basso salario e famiglie povere nonostante abbiano almeno un componente occupato è da analizzare con attenzione, dato che si può delineare una sorta di polarizzazione della società, divisa tra nuclei familiari "ricchi" (in 79 termini di occupazione e redditi) e nuclei "poveri" (in termini di disoccupazione e basse remunerazioni). Questa interazione diventa cruciale quando gli occupati a bassa remunerazione sono gli unici componenti occupati del loro nucleo familiare oppure, detta altrimenti, se il reddito familiare dipende in misura principale dai loro - bassi redditi. La presenza di working poor aumenta il rischio di povertà per la famiglia Benché i due fenomeni non coincidano, l'interazione non è così infrequente: la probabilità che una famiglia sia in in-work poverty, ovvero con un reddito al di sotto della soglia di povertà nonostante almeno un componente occupato, è molto più elevata quando c'è almeno un working poor in famiglia, rispetto a quando non ce n'è nemmeno uno. Tra le famiglie senza working poor, solo una su venti nel 2011 risultava in in-work poverty, mentre tra quelle con almeno un working poor il rischio era sette volte superiore: circa il 37 per cento risultava avere un reddito inferiore alla soglia di povertà. Grafico 4 Probabilità di in-work poverty e presenza di working poor nella famiglia 40% 35% 30% 25% 20% 15% 10% 5% 0% 0 1 2 o più numero di working poor in famiglia. Elaborazioni su dati IT SILC Istat 80 Nonostante si sia visto come la diffusione dei working poor, seppur cresciuta con la crisi, sia piuttosto contenuta, tra le famiglie in condizioni di in-work poverty quasi una su due (il 43 per cento) ha almeno un componente che risulta a bassa remunerazione. Se il lavoratore a bassa remunerazione è un secondary earner (es. donne o i figli adulti ai primi impieghi), il rischio di povertà si riduce notevolmente, mentre cresce notevolmente quando i working poor sono i principali o gli unici percettori di reddito della famiglia. Quando il lavoratore a bassa remunerazione è il capofamiglia (che non è necessariamente il primario percettore di reddito, anche se spesso i due ruoli coincidono), quasi una famiglia su due, il 47 per cento, risulta al di sotto della soglia di povertà. Nel caso che i lavoratori a bassa remunerazione siano single, quindi necessariamente gli unici percettori di reddito, il loro rischio di essere in-work poor è elevato, pari al 46 per cento, ovvero nove volte il rischio per i single nel loro complesso. Anche i nuclei monoparentali sono ad elevato rischio di povertà quando l’unico percettore di reddito (il genitore) è a bassa remunerazione: più di due su tre (il 68 per cento) ha un reddito inferiore alla soglia di povertà, un rischio tre volte superiore rispetto ai nuclei monoparentali totali. Grafico 5 Rischio di in-work poverty famiglie con almeno un working poor totale famiglie altre tipologie due o più nuclei monogenitori con figli minorenni coppia con figli adulti coppia con figli minorenni coppia senza figli conviventi single 0% 20% 40% 60% 80% famiglie in-work poor in % del totale delle famiglie, per tipologia familiare. Elaborazioni su dati IT SILC Istat 81 Un’altra tipologia familiare a elevato rischio di povertà è rappresentata dalle coppie con figli minorenni, a carico; normalmente la loro probabilità di essere in-work poor è del 16,8 per cento (doppia rispetto a quella dell’insieme delle famiglie italiane), ma se al loro interno c’è almeno un working poor tale rischio triplica, salendo al 47 per cento. Nel caso italiano si evidenzia come la presenza di più lavoratori all’interno del nucleo familiare costituisce il miglior modo di sfuggire alla povertà e di compensare la presenza di redditi a basso salario. Quello che emerge inoltre, a differenza di gran parte degli altri paesi europei, è la scarsa capacità del nostro sistema di assistenza sociale nel correggere situazioni di povertà relativa delle famiglie dovute a redditi da lavoro insufficienti, anche in presenza di figli. In particolare, l’impatto in termini di riduzione percentuale della povertà del nostro sistema di assistenza sociale (escluse le pensioni) è stimato in misura pari al 17 per cento: uno dei più bassi in Europa se confrontato con una media europea del 35 per cento, e rispetto ad un massimo del 60 per cento nei paesi scandinavi e ad un minimo del 15 per cento in Bulgaria (Eurofound, 2010). 82 Capitolo 4 – Le politiche di contrasto Le principali conclusioni Il quadro che emerge dall’analisi svolta sul fenomeno dei working poor in Italia mostra luci e ombre. Da un lato, l’occupazione a bassa remunerazione non risulta particolarmente elevata, essendo inferiore sia alla media europea sia a quella dei paesi dell’Area euro. Questo è il risultato di due fattori, da un lato la contenuta dispersione salariale, ottenuta anche grazie alla capacità della contrattazione collettiva di dare copertura a buona parte dell’occupazione alle dipendenze, e dall’altro livelli salariali (mediani) relativamente bassi: in linea con la media europea (EU27) ma sensibilmente inferiori a quelli di gran parte dei paesi dell’Area euro. Quando tuttavia l’attenzione si sposta dai salari ai redditi, il rischio di povertà relativa dei lavoratori aumenta significativamente. L’Italia presenta dei tassi di in-work poverty e cioè povertà relativa per famiglie in cui vi siano dei componenti che percepiscono un reddito da lavoro – che sono maggiori della media europea e, soprattutto, in aumento nel 2011 rispetto agli anni precedenti. Tale rischio di povertà, inoltre, risulta sensibilmente più elevato per i nuclei familiari in cui vi siano più componenti (anche in presenza di figli) e un solo percettore di reddito a basso salario. Questo aspetto mette in luce il lato debole del mercato del lavoro italiano, in cui la povertà trova origine da una scarsa intensità di lavoro all’interno delle famiglie, dovuta anche, ma non solo, alla bassa partecipazione (e occupazione) femminile. A questo si aggiunge una scarsa efficacia dei meccanismi di protezione sociale di ridurre il rischio di povertà attraverso politiche del lavoro passive o attive. Dall’analisi emerge anche come la migliore protezione dal rischio di povertà trovi origine dalla presenza di più percettori di reddito da lavoro all’interno delle famiglie, che tuttavia in condizioni di disoccupazione (o inattività) diffusa, come succede nella attuale situazione di crisi, non trova adeguato supporto nel sistema di assistenza sociale e nelle politiche di attivazione al lavoro. 83 Le politiche di contrasto alla povertà degli individui Quale sostegno ai working poor? Una premessa importante relativa alle politiche di contrasto al fenomeno dei working poor è che quest’ultime riguardano principalmente politiche passive a sostegno delle retribuzioni, piuttosto che politiche di contrasto alla povertà diffusa. Infatti, come discusso nei precedenti capitoli, non sempre e non necessariamente l'occupazione a basso salario è associata a situazioni di povertà. È stato tuttavia sottolineato come alcune caratteristiche incidono notevolmente sulla probabilità di occupare un posto di lavoro a basso salario, come la scarsa qualificazione, l’avere un contratto a tempo determinato o l’essere occupati in un settore produttivo a basso salario. Le posizioni lavorative a basso salario rappresentano per i giovani lavoratori - che accedono al mercato del lavoro per la prima volta o per gli studenti che combinano istruzione e formazione con periodi di occupazione -, una “porta di ingresso” per acquisire esperienza di lavoro e transitare successivamente verso posizioni lavorative caratterizzate da maggiori garanzie e retribuzioni più elevate; ciò nonostante, spesso le stesse si trasformano in “trappole della povertà”, senza che vi sia un percorso verso la stabilizzazione del rapporto di lavoro e una maggiore indipendenza economica. Come riportato nel capitolo 2, tra i giovani working poor il tasso di permanenza in tale condizione è tre volte quello degli adulti, e solo un giovane su tre riesce a risalire da un anno all'altro oltre la soglia di povertà. Nei precedenti capitoli è anche emerso come per le famiglie in cui il reddito dipende esclusivamente dal reddito percepito dal lavoratore a bassa remunerazione (es. i single e i nuclei monoparentali con figli a carico) il rischio di povertà sia elevatissimo. Sulla bassa retribuzione dei lavoratori, e di conseguenza sulla povertà delle famiglie con lavoratori working poor, negli ultimi anni, quelli della crisi, ha inciso soprattutto la riduzione delle ore lavorate; sebbene in termini reali, i salari orari si siano anch'essi ridotti rispetto alla situazione pre-crisi. Il menù di politiche dirette a contrastare le basse retribuzioni, oltre alle politiche di promozione dell’occupazione (margine estensivo) e di aumento delle ore lavorate (margine intensivo), include una serie di trasferimenti mirati ai lavoratori più 84 svantaggiati e interventi per fissare minimi salariali legislativi. Le politiche di sostegno ai redditi dei lavoratori a basso salario, pur essendo molto diffuse in tutti i paesi OCSE, sono molto controverse in merito agli effetti sul mercato del lavoro e oggetto di un intenso dibattito politico. Da un lato, vi è chi ritiene che le politiche di contrasto siano utile strumento di redistribuzione verso i lavoratori più svantaggiati (a scapito ovviamente di altri fattori di produzione come lavoratori più qualificati e capitale), dall’altro vi è chi invece sostiene che contribuiscano all’aumento della disoccupazione trasformando lavoratori a basso salario in disoccupati. Il dibattito sia accademico sia politico, tuttavia è stato fortemente influenzato dalle posizioni ideologiche: da un lato i sostenitori del laissez-faire, fortemente contrari; dall’altro i fautori dell’intervento dello Stato, spesso aprioristicamente favorevoli. Questa contrapposizione ha impedito una valutazione imparziale sia degli effetti delle politiche, sia una discussione approfondita del disegno ottimale degli interventi in un’ottica organica. Infatti, sebbene non vi sia alcun dubbio che interventi diretti a gruppi selezionati della popolazione (ad es. i working poor) possano producano effetti indesiderabili (come la disoccupazione) o esternalità su altri gruppi (maggiore tassazione), non è chiaro come l’azione combinata dei vari interventi incida sul benessere sociale. Molti studi hanno previlegiato un’ottica welfarista (dove ciò che conta è solo il benessere complessivo), senza tener conto che i governi possono avere specifici obiettivi redistributivi e valutare diversamente l’utilità e il benessere dei lavoratori più svantaggiati rispetto ai lavoratori più qualificati o ad elevato reddito (Blumkin e Danziger, 2014; Lee e Saez, 2012). Nelle successive sezioni vengono prese in esame le diverse opzioni di contrasto alla diffusione dei working poor, prestando particolare attenzione agli effetti che tali politiche producono sugli stessi lavoratori a basso salario ed anche su altre categorie di lavoratori. Spesso infatti le misure risultano più efficaci quando pensate in modo complementare tra loro. Ad esempio, un’implicazione importante discussa nella letteratura economica è che misure di sostegno al reddito (tipo crediti d'imposta) debbano accompagnarsi a salari minimi legali tali da creare una soglia alle retribuzioni per evitare che, attraverso il meccanismo del trasferimento dell’imposta (negativa), i datori di lavoro adeguino verso il basso le retribuzioni - a parità di redditi netti per i lavoratori - svuotando così di efficacia l'intervento (Bargain e Orsini, 2004). In altri casi, è stato mostrato come sia opportuno disegnare in modo graduale l’estensione dei 85 benefici ai gruppi selezionati e a quelli esclusi (phase-in e phase-out) per evitare aliquote marginali elevate ed effetti di spiazzamento su ore lavorate e occupazione (Saez, 2002). Il salario minimo Uno degli strumenti che vengono spesso richiamati per fornire un sostegno alle persone a bassa retribuzione è l'introduzione, o il rafforzamento, di un salario minimo legale. Il salario minimo legale definisce, per legge e per tutti i lavoratori (salvo le clausole di eccezione per età presenti in alcuni paesi) l'ammontare salariale minimo garantito. Attualmente in Europa i paesi che prevedono un salario minimo legale sono una ventina; in alcuni casi il livello è fissato in termini orari, in altri con riferimento alla giornata lavorativa o al mese. In termini mensili, le retribuzioni minime vanno dai 174 euro della Bulgaria ai 1921 del Lussemburgo, e in media è di 747 euro mensili. In termini di salario orario, come riportato nel grafico 1, la graduatoria non cambia molto (considerando che gli orari standard sono pressoché uguali, attorno alle 40 ore settimanali, pur con alcune importanti eccezioni, come in Francia): in media il salario orario si attesta attorno ai 4.6 euro. Molta di questa variabilità dipende però dai livelli salariali medi prevalenti nei diversi paesi. Se si esclude infatti il gruppo dei paesi dell'Europa orientale, entrati più recentemente nell'Unione Europea e caratterizzati ancora da livelli salariali inferiori, la media del salario minimo vigente a inizio 2014 è di 7 euro all'ora, pari a circa 1.140 euro al mese. Un modo di confrontare l’incidenza del salario minimo tra i diversi paesi è quella di rapportarlo alle retribuzioni medie (o mediane). Questo rapporto viene solitamente misurato dall'indice di Kaitz, e fa riferimento alle retribuzioni a tempo pieno. Utilizzando i dati raccolti da Eurostat per calcolare l’indice di Kaitz, nel grafico 2 viene mostrato come tale indice vari da un minimo del 31.7 per cento nella Repubblica Ceca a livelli attorno al 50 per cento in Grecia e Slovenia, per una media di 41.3 per cento. 86 Grafico 1 Salari minimi legali in Europa Lussemburgo Regno Unito Belgio Irlanda Paesi Bassi United Slovenia Spagna Malta Grecia Portogallo Croazia Polonia Estonia Slovacchia Ungheria Rep.Ceca Lettonia Lituania Romania Bulgaria 0.0 2.0 4.0 6.0 8.0 10.0 12.0 14.0 2014 - euro lordi all'ora (quando espressi in termini mensili, i salari sono riportati all'ora utilizzando gli orari settimanali standard). Elaborazioni su dati Eurostat Grafico 2 Indice di Kaitz in Europa Rep.Ceca Estonia Romania Spagna Croazia Slovacchia Bulgaria Regno Polonia Lituania Irlanda Portogallo Paesi Bassi Lettonia Ungheria Belgio Malta Lussembur Francia Slovenia Grecia 0 10 20 30 40 50 60 2012 - salario minimo legale in % del salario medio lordo. Dati Eurostat Al momento, 7 paesi non hanno un salario minimo nazionale: si tratta principalmente di paesi dell'Europa Continentale (Austria, Germania, Danimarca) o Settentrionale 87 (Svezia, Finlandia), oltre a Cipro e naturalmente l'Italia in cui i salari sono negoziati a livello settoriale26. In due recenti studi, Boeri (2009) e Garnero et al (2013) analizzano gli effetti dei minimi salariali contrattati e dei salari minimi legali sulla distribuzione delle retribuzioni. Ciò che emerge è che nei paesi in cui i salari minimi sono fissati dalla contrattazione i minimi risultano mediamente più elevati (in Italia in particolare) rispetto ai paesi in cui i vige un salario minimo legale, tuttavia una quota significativa di lavoratori (working poor) non risulta coperta dagli effetti della contrattazione collettiva. In altre parole, un livello elevato dei minimi salariali contrattati, più che un successo della contrattazione collettiva sembra evidenziare una debolezza nei confronti dei lavoratori meno tutelati e a più basso salario. Uno degli effetti della Grande crisi è stato quello di esacerbare queste differenze ed anche di mettere in discussione l’efficacia della contrattazione centralizzata nei tutelare i minimi salariali di tutti i lavoratori. In Germania, per esempio, è in fase avanzata di discussione l’introduzione di un salario minimo legale27, ed anche in Italia vi sono delle proposte avanzate in tal senso. Riquadro: I minimi contrattuali sono davvero minimi? Uno degli argomenti che spesso vengono avanzati contro l'introduzione di un salario minimo legale nei paesi che hanno invece dei minimi salariali fissati dalla contrattazione, come nel caso dell'Italia, è che spesso il salario minimo legale, per non comportare problemi all'occupazione nei settori a salario più basso, è fissato su livelli molto bassi. Ovvero il salario minimo legale sarebbe fissato ad un livello inferiore rispetto ai minimi contrattuali di alcuni settori, e quindi potenzialmente potrebbe comportare un progressivo livellamento verso il basso delle retribuzioni. Come evidenziato in uno studio di Garnero, Kampelmann e Rycx (2013), i paesi con contratti collettivi tendono ad avere in media salari minimi più elevati, in termini di salario mediano (o medio), rispetto ai paesi che hanno invece salari minimi legali28. Confrontando i dati 26 In Italia infatti la contrattazione collettiva nazionale di settore (Ccnl) fissa dei salari minimi, che coincidono con il valore tabellare per la categoria più bassa. I minimi contrattuali sono molteplici, secondo i diversi contratti vigenti (che possono valere per più settori produttivi, oppure alcuni settori applicano diversi contratti alle diverse figure professionali impiegate). 27 In Germania, la nuova Grande Coalizione di governo prevede che dal 2015 entrerà in vigore un salario minimo legale. 28 I confronti non sono tra valori assoluti, a causa delle differenze di prezzo e di produttività tra i paesi, ma in termini di indice di Kaitz, che misura il salario minimo come quota del salario mediano. 88 per l'Italia, ricostruiti dagli autori prendendo in rassegna gli 80 contratti collettivi che coprono il maggior numero di lavoratori con i salari orari medi risultanti dall'indagine SES (Structural Earnings Survey) condotta da Eurostat, si osserva come l'indice di Kaitz sia su livelli piuttosto elevati, compresi tra lo 0.66 dei settori delle ‘attività finanziarie e assicurative’ e ‘dell'istruzione’ e lo 0.98 del settore ‘alberghi, turismo e ristorazione’. In altre parole, il salario minimo contrattuale è sufficientemente alto da coprire buona parte dei lavoratori (il suo valore non dista troppo dalla media). Inoltre, se si considera che l'indagine SES è ristretta alle sole imprese con almeno 10 addetti e sono esclusi alcuni settori (caratterizzati da remunerazioni relativamente basse, es. l'agricoltura), il rapporto rispetto al salario medio potrebbe essere persino più elevato. Se si utilizzano invece i salari orari lordi medi per settori risultanti dall'indagine IT-SILC (che pur risentono di problemi di misurazione, dato che si tratta di retribuzioni dichiarate dai lavoratori), l'indice di Kaitz risulta compreso tra lo 0.74 della sanità e dell'assistenza sociale all'1.19 delle costruzioni. Tavola 1 I minimi contrattuali in Italia: quanti lavoratori coprono realmente? salario minimo salario indice di salario indice di contrattuale medio Kaitz medio Kaitz 2009 2010* 2009 A A B B a agricoltura, silvicoltura, pesca 8.4 8.2 1.03 b-e industria in s.s. 9.6 13.11 0.73 10.6 0.91 f costruzioni 11.8 12.65 0.93 9.9 1.19 g commercio 9.3 11.81 0.79 9.9 0.94 h trasporto e magazzinaggio 11.0 13.64 0.80 11.4 0.97 i alloggio e ristorazione 9.3 9.49 0.98 8.8 1.06 j informazioni e comunicazioni 9.9 16.82 0.59 12.0 0.82 k att.finanziarie e assicurative 14.5 21.94 0.66 15.9 0.91 l -n att.immobiliari, professionali, noleggio 9.2 13.63 0.67 10.6 0.87 o PA 13.3 13.2 1.01 p istruzione 14.7 22.17 0.66 15.6 0.94 q sanità e assistenza sociale 9.9 16.62 0.60 13.4 0.74 r-u att.artistiche, sociali, altri servizi 8.6 10.65 0.81 8.9 0.97 A: salario medio da indagine SES (Structural Earnings Survey, Eurostat, 2010) indagine su imprese di almeno 10 addetti (esclusi settori A, O, S) B: elaborazioni su dati IT SILC Istat Questi valori dell'indice di Kaitz segnalano come, di fatto, il salario orario risulti spesso inferiore al minimo contrattuale: in molti settori una buona parte dei lavoratori ha salari inferiori al minimo contrattuale. Secondo stime di Garnero, Kampelmann e Rycx, l'Italia è il paese con la più elevata quota di persone di fatto non coperte dai minimi contrattuali: circa il 19 per cento dei lavoratori risultano avere un salario orario lordo inferiore al minimo contrattuale rilevante per il loro settore, con punte superiori al 30 per cento nelle costruzioni e in agricoltura. 89 Cosa sappiamo sugli effetti del salario minimo? Esiste un’estesa letteratura empirica che ha analizzato, per diversi paesi, gli effetti dell’introduzione di un salario minimo sui salari e sui tassi di occupazione (e disoccupazione) dei lavoratori meno qualificati (si vedano le rassegne presenti nei lavori di, Card e Krueger, 1995; Neumark e Wascher, 2007). Nonostante i risultati degli studi empirici relativi agli effetti dell’introduzione di un salario minimo siano in parte controversi, vi è sufficiente consenso circa i costi e i benefici che caratterizzano il mercato del lavoro, in particolar modo nel segmento dei lavoratori meno qualificati. In generale, gran parte degli studi che hanno valutato gli effetti sull’occupazione dell’introduzione di un salario minimo concordano sul fatto che i suoi effetti siano nonnegativi e in molti casi moderatamente positivi. Questi risultati sono tuttavia soggetti a due cautele: in primo luogo il salario minimo non deve essere fissato ad un livello troppo elevato rispetto al salario medio, in secondo luogo alcuni gruppi, come ad esempio i giovani che spesso alternano studio e lavoro, devono essere esclusi o soggetti a minimi salariali inferiori. Gli effetti sui salari sono ovviamente maggiori per i lavoratori che si trovano attorno alla soglia (positivi per chi si trova sotto, moderatamente negativi per chi si trova immediatamente sopra), mentre non vi è evidenza che il salario minimo alteri in modo significativo la distribuzione dei salari più alti, contribuendo in tal modo al contenimento delle diseguaglianze dei redditi. Il salario minimo, determina spesso anche dei vantaggi fiscali che derivano dal maggior gettito originato dall’incremento di redditi e contributi, tuttavia tali vantaggi devono essere confrontati con eventuali ulteriori esborsi per trasferimenti e sussidi. In generale, dagli studi emerge come gli effetti netti di breve periodo sulle finanze siano spesso positivi. Un aspetto critico dell’introduzione di un salario minimo riguarda i giovani (tra i 15 e i 18 anni) e gli apprendisti, cioè quei segmenti del mercato del lavoro in cui avviene la transizione al lavoro per i lavoratori meno qualificati. Per questo tipo di studentilavoratori, quando il salario minimo si colloca al disopra del livello di equilibrio, possono manifestarsi effetti di spiazzamento sull’occupazione e disincentivi al proseguimento degli studi o della formazione sul lavoro. Sebbene spesso si faccia riferimento al salario minimo come strumento redistributivo per i lavoratori a basso 90 reddito, gli studi mostrano chiaramente che gli effetti redistributivi del salario minimo sono limitati ai nuclei famigliari con un solo percettore a basso reddito. In tutti gli altri casi, il salario minimo non ha effetti redistributivi significativi, mentre altri strumenti risultano più efficaci per raggiungere gli stessi obiettivi. In particolare, l’introduzione del salario minimo dovrebbe tener in debito conto le interazioni con il sistema di sussidi e trasferimenti per evitare effetti disincentivo e spiazzamento dovuti ad aliquote marginali elevate per alcune categorie di lavoratori (ad es. i lavoratori part-time, percettori di sussidi condizionali al redddito, numero di figli, ecc.). Le esperienze internazionali sono di grande aiuto in questo senso. Il Regno Unito, nel 1999, ha re-introdotto un salario minimo legale ed ha istituito una Low Pay Commission incaricata di proporre delle raccomandazioni per l’adeguamento dei minimi salariali alla crescita della produttività e dei prezzi. Attualmente il livello del salario minimo legale è di 6,31 sterline per ora lavorata (circa 7,50 euro). Sono previsti minimi salariali inferiori per i giovani (5,03 sterline per 20-18 anni, 3,72 sterline per 18-16 anni) e per gli apprendisti (2,68 sterline). Negli Stati Uniti il salario minimo legale (federale) è attualmente fissato a 7,25 dollari all’ora (circa 5,25 euro) con clausole di esclusione per i giovani e significative differenze tra gli Stati. Al momento sono in discussione al Congresso piani per portare entro 2016 il salario minimo a 10,10 dollari all’ora. In Francia il salario minimo legale, detto SMIC (salaire minimum interprofessionnel de croissance), si applica in modo relativamente rigido a tutti i lavoratori (fissato a 9,35 euro) con limitate eccezioni per i minori di 18 anni e per gli apprendisti. Lo SMIC è adeguato automaticamente al tasso di inflazione e in modo discrezionale, in base alle raccomandazioni di una commissione, al tasso di crescita medio delle retribuzioni. In Spagna il salario minimo SMI (salario minimo interprofesional) è pari a 4,48 euro all'ora. Infine, sebbene per ora in Germania non ci sia un salario minimo legale, l'accordo che ha portato alla nascita della nuova Grande Coalizione di governo prevede, a partire dal 2015, l'introduzione di un salario minimo legale pari a 8,50 euro all'ora. Dato un salario orario mediano di circa 17 euro, il livello del salario minimo in discussione in Germania implica un indice di Kaitz pari a 50%, che sale al 60% se vengono considerati anche i lavoratori part-time (Zimmermann, 2014). Per questi motivi, l'istituzione del salario minimo legale in Germania è stata accompagnata da molte polemiche, anche perché molti posti di lavoro creati negli ultimi 91 anni (come i mini-jobs) sono posti di lavoro a bassa remunerazione che rischiano di essere spiazzati dall'introduzione di un salario minimo più elevato. Da rilevare che un aspetto tradizionalmente trascurato nelle analisi degli effetti del salario minimo, riguarda i costi per le azioni di monitoraggio, vigilanza e contrasto rispetto alla corretta applicazione dei minimi salariali. In paesi caratterizzati da una diffusa elusione fiscale, contributiva e normativa (come l’Italia), questi aspetti potrebbero rivelarsi particolarmente importanti, andando ad alimentare anche il ricorso al lavoro nero. L’introduzione di un salario minimo legale in Italia Una delle argomentazioni avanzate contro l'introduzione di un salario minimo legale in Italia si fonda sul timore che ciò comporterebbe un indebolimento del ruolo della contrattazione collettiva e un appiattimento verso il basso della distribuzione dei salari (il salario minimo nazionale, potrebbe essere inferiore ai salari minimi di alcuni contratti). Tuttavia, come dimostrato in Checchi e Lucifora (2002) il salario minimo legale è una istituzione che rafforza il ruolo del sindacato e il suo potere contrattuale, complementando ed estendendo l’azione di protezione delle retribuzioni del sindacato anche a quei lavoratori che sono più difficili da sindacalizzare e tutelare con la contrattazione. Infatti, come già discusso, una parte dell'occupazione dipendente già risulta, al netto di errori di misurazione e di sottodichiarazione, non coperta dai minimi contrattuali. I working poor infatti rappresentano solo un sottoinsieme di questo gruppo di persone (la soglia di povertà in termini di salario lordo orario è ampiamente inferiore al più basso dei minimi contrattuali). Negli anni inoltre, per effetto della crescente diffusione di nuove fattispecie contrattuali e dell’erosione degli effetti della contrattazione collettiva, è cresciuta la quota di lavoratori non coperta che percepisce salari inferiori ai minimi. In tale contesto, l'introduzione di un salario minimo legale potrebbe consentire una forma di garanzia - almeno per i meno tutelati -, contenendo il fenomeno dei working poor. Come l’esperienza internazionale insegna, il successo di interventi legislativi in materia di salario minimo dipende dal livello a cui viene fissato il minimo e dai meccanismi di adeguamento. Un livello elevato incorre nel rischio di 92 spiazzare la domanda di lavoro per le fasce più deboli (giovani e persone con bassa qualificazione), la cui occupazione sta già pesantemente risentendo della crisi. Nell’ipotesi che un salario minimo legale venga introdotto nell’ordinamento italiano, può essere utile valutare quale copertura sarebbe garantita in corrispondenza di diversi livelli salariali. Se per esempio il salario minimo venisse fissato al livello di 6.5 euro lordi all'ora, non troppo distante dalla soglia di povertà retributiva, pari a 6,88 euro (in termini di retribuzione lorda oraria del 2011)29, risulterebbero interessati la maggior parte dei working poor tra i lavoratori dipendenti. Dei quasi 2 milioni 75 mila lavoratori a bassa remunerazione (pari al 10 per cento dell'occupazione dipendente), solo 305 mila risulterebbero non coperti, pari a circa 15 per cento dei working poor. Per la maggioranza dei working poor il salario minimo comporterebbe una riduzione della distanza relativa dalla povertà (poverty gap ratio) dal 21.8 per cento al 5.1 per cento. Nel caso in cui il minimo salariale venisse fissato ad un livello più basso, ad esempio pari a 4,50 euro all'ora come nel caso dello SMI spagnolo30, coprirebbe solo una quota limitata di working poor (circa il 19.6 per cento), pari a 406mila lavoratori (meno del 2.5 per cento dei lavoratori dipendenti). Il poverty gap ratio si ridurrebbe al 13.5 per cento (dal 21.8 per cento). Un livello di salario minimo pari a quello previsto in Germania o a quello vigente in Francia avrebbero effetti decisamente più rilevanti sia sulla povertà retributiva. Nel primo caso, un salario minimo fissato a 8.5 euro lordi l'ora coprirebbe quasi il 28 per cento degli occupati dipendenti (4 milioni 912mila lavoratori), quindi non working poor ma anche lavoratori con un salario superiore alla soglia. Nel secondo caso, un livello salariale pari allo SMIC francese (pari a 9.53 euro) coprirebbe oltre 7 milioni di lavoratori, circa il 40 per cento dell'occupazione dipendente. In entrambi i casi, un salario minimo legale fissato a livelli così alti inciderebbe con buone probabilità negativamente sull’occupazione dei giovani e dei lavoratori meno qualificati. Tavola 2 29 In questo caso, per identificare i working poor viene utilizzata la distribuzione delle retribuzioni lorde orarie relativa al 2011 (ultimo anno disponibile). Inoltre, le simulazioni non prendono in considerazione eventuali cambiamenti nella distribuzione indotti dal salario minimo. 30 Lo SMI è pari (a gennaio 2014) a 753 euro lordi al mese. Il calcolo del salario orario tiene conto dell'orario standard (40 euro) settimanale. 93 Ipotesi di istituzione di un salario minimo legale in Italia livello (euro lordi all'ora) lavoratori coperti % occ.dipendente ipotesi 1 ipotesi SMI Spagna ipotesi Germania ipotesi SMIC Francia 6.50 4.48 8.50 9.53 1 768 762 406 136 4 912 410 7 198 299 10.0 2.3 27.8 40.7 elaborazioni su dati IT SILC Istat al 2011 In conclusione, sembra che una politica prudente di introduzione di un minimo salariale legale fissato ad un livello prossimo alla soglia di povertà retributiva, con opportune clausole di salvaguardia per giovani e apprendisti, sia quella che dia maggiori garanzie di successo in termini di benefici retributivi e minori costi in termini di potenziale spiazzamento occupazionale. L’adeguamento di tale livello, alla crescita della produttività e dei prezzi, dovrebbe essere perseguito in modo graduale e senza automatismi, da una commissione indipendente che dopo un attento monitoraggio degli effetti redistributivi e occupazionali, faccia delle raccomandazioni al Parlamento. Il taglio del cuneo fiscale Come già discusso, il salario minimo ha come obiettivo principale quello di garantire salari equi, di contrastare il potere monopsonistico delle imprese e di prevenire una concorrenza sleale sui bassi salari. Il ruolo del salario minimo come strumento di redistribuzione e di protezione dei singoli lavoratori e delle famiglie dalla povertà è invece molto controverso. Numerosi studi hanno evidenziato come molti lavoratori a bassa remunerazione siano inseriti in nuclei familiari con un reddito ben al di sopra della soglia di povertà. Tuttavia, mentre per un nucleo monoparentale il reddito netto garantito dal salario minimo è sufficiente quasi ovunque in Europa per superare la soglia di povertà (con l’eccezione del Regno Unito e della Spagna in cui il salario minimo è molto basso), nel caso di famiglie numerose questo non è più vero (Marx e Nolan, 2012). Tra le misure di contrasto alla povertà, che fanno parte della strategia europea e sono introdotte in molti paesi da tempo, vi sono misure dirette a ridurre il cuneo fiscale, sia attraverso riduzioni del prelievo fiscale sia di quello contributivo, spesso dirette ai lavoratori a basso salario. Un aspetto degno di nota è che nei casi in cui le decontribuzioni non sono in qualche modo coperte dalla fiscalità generale, i tagli dei 94 contributi rischiano di tradursi in una riduzione delle prestazioni sociali attese in futuro, e quindi un maggiore rischio di povertà per le generazioni future. Il tema è molto dibattuto anche in Italia, sia per il livello elevato della pressione fiscale in generale, sia per la rilevanza del cuneo fiscale. Secondo stime Ocse, in Italia nel 2013 il cuneo fiscale per i lavoratori single (senza figli) con salari lordi pari al 67 per cento di quello medio nel settore privato era pari al 44,6 per cento del costo del lavoro, tra i livelli più elevati in Europa (la media Ocse è pari al 32,2 per cento). La riduzione del cuneo fiscale attraverso un “credito d’imposta” a favore dei lavoratori dipendenti (e assimilati) con redditi bassi (fino a circa 24mila euro lordi l'anno) è stata recentemente introdotta, tuttavia è ancora presto per poter valutare gli effetti sui consumi e sull’occupazione. Se reso strutturale ed orientato ai lavoratori a rischio di povertà retributiva questo tipo di intervento potrebbe senz’altro contribuire ad una riduzione della quota di working poor. Tuttavia, per il meccanismo di decontribuzione utilizzato, il provvedimento recentemente preso dal governo interessa i redditi dei lavoratori non eccessivamente poveri (quelli con un minor poverty gap ratio) mentre sono rimasti esclusi i lavoratori a maggiore rischio di povertà, cioè quelli che appartengono alla cosiddetta “no-tax” area (i cosiddetti ‘incapienti’). Un’estensione dei benefici dell’intervento anche a questi lavoratori sembra altamente desiderabile. Le politiche di contrasto alla povertà delle famiglie (in-work poverty) Quali strumenti per sostenere le famiglie? Alle politiche di sostegno ai redditi dei lavoratori a bassa remunerazione dovrebbero essere affiancate misure dirette alle famiglie. La in-work poverty, ovvero lo stato di povertà di una famiglia nonostante la presenza di almeno un componente che risulta occupato, è infatti associata non tanto alle basse retribuzioni in sé, quanto alla bassa intensità occupazionale all'interno del nucleo familiare. Se c'è un solo percettore di reddito da lavoro, e questo è un lavoratore a bassa remunerazione, il rischio di povertà della famiglia è elevato. Per questi casi è inefficace o inefficiente puntare esclusivamente ad aumenti del salario minimo: incrementi contenuti, non eccessivamente distorsivi, non sarebbero efficaci per 95 sostenere il reddito delle famiglie che dipendono unicamente dal reddito di un lavoratore working poor, mentre incrementi più elevati sarebbero inefficienti, perché oltre ad aumentare eccessivamente i costi del lavoro per le imprese, andrebbero a beneficio anche di lavoratori a bassa remunerazione ma non poveri. Gli strumenti da utilizzare in questo caso sono altri, eventualmente da combinare con l'incremento (o l'istituzione) del salario minimo. Possono essere misure, dirette o indirette, per facilitare la partecipazione al mercato del lavoro, aumentando l'intensità occupazionale delle famiglie e dotandole così di maggiori garanzie, oppure interventi a sostegno dei redditi delle famiglie. Le misure più comunemente applicate per sostenere il reddito delle famiglie, contrastandone il rischio di povertà, sono quelle derivanti da interventi sul sistema fiscale, via riduzione delle imposte (ad esempio con detrazioni e deduzioni) e trasferimenti (es. gli assegni familiari). In questo modo si fornisce un sostegno, anche solo parziale, al reddito netto delle famiglie che hanno persone a carico, come i bambini. In Italia le detrazioni, come quelle per figli a carico, hanno la prerogativa di aumentare la progressività del sistema fiscale, dato che la differenza tra aliquota media e aliquota marginale si riduce al crescere della base imponibile. Il loro ammontare, però, è generalmente modesto e non consente di contrastare efficacemente la povertà, soprattutto se non sono previste forme di imposta negativa per chi è incapiente. Per quanto riguarda i trasferimenti alle famiglie, le scelte se estenderli a tutte le famiglie oppure limitarli solo alla famiglie con reddito più basso hanno ciascuna dei pro e dei contro. Da una parte, trasferimenti mean-tested - ovvero condizionati alla scarsità dei mezzi (destinati quindi solo a chi non supera determinate soglie di reddito) - permettono di essere molto più efficaci nella riduzione della povertà anche con risorse limitate, dato che minimizzano gli effetti “spreco” nel fornire sostegno a famiglie che stanno sopra la soglia di povertà. Tuttavia, presentano il non trascurabile difetto di disincentivare la mobilità salariale e la partecipazione al lavoro (soprattutto dei percettori aggiuntivi di reddito, i cosiddetti secondary earners), sia per quanto riguarda il margine intensivo (ore lavorate), sia quello estensivo (intensità di ricerca del lavoro). Infatti, il rischio di perdere i benefici in seguito a miglioramenti salariali o all'occupazione di un componente che prima era inoccupato, induce delle risposte comportamentali che scoraggiano l’attività lavorativa dei componenti del nucleo familiare. A causa delle 96 perdite di efficienza sopra discusse, e anche in considerazione del fatto che quest’ultime possano superare i benefici redistributivi, questo tipo di interventi sono stati fonte di molte controversie ed hanno contribuito a sviluppare politiche di workfare, maggiormente orientate a favorire la partecipazione dei lavoratori al mercato del lavoro. Un esempio di trasferimenti condizionati alle famiglie è dato dai cosiddetti in-work benefits, sviluppati nell'ambito delle politiche Making work pay (MWP) promosse nell’ambito della strategia europea per l’occupazione. Le politiche per rendere vantaggioso il lavoro Da oltre un decennio, il modello di Making work pay (ovvero, rendere il lavoro più vantaggioso) è entrato a far parte della strategia europea per l'occupazione, al fine di rendere lo status di lavoratore più attraente rispetto a quello di inattivo o disoccupato. Scopo di queste politiche è quindi l'attivazione degli individui, in modo da sfuggire alle trappole dell'inattività, innescate ad esempio da politiche sociali generose (OECD, 1997). L'attuazione di questa tipologia di politiche di sostegno al reddito e incentivazione al lavoro (MWP) ha trovato, nella pratica, diverse forme. Prevalentemente sono stati introdotti dei crediti d'imposta (tax credits) o dei trasferimenti (in-work benefits) a favore degli occupati, in modo da incrementarne il reddito (condizionato all'occupazione) rendendo più convenienti anche impieghi a bassa remunerazione, senza aumentare eccessivamente il salario minimo, dati i rischi di distorsione del mercato del lavoro, come precedentemente discusso. Due esempi di questo tipo di politiche sono rappresentati dal Earned Income Tax Credit (EITC) degli Stati Uniti e il Working Family Tax Credit (WFTC) del Regno Unito (in vigore fino al 2003 e poi sostituito dal Working Tax Credit). Nonostante il nome, non si tratta di riduzioni di imposta, ma di trasferimenti (o imposta negativa) per famiglie (con o senza figli) in cui almeno un adulto sia occupato (dipendente o autonomo). La struttura degli incentivi è tuttavia molto diversa tra i due schemi. L’EITC eroga incentivi anche in corrispondenza di redditi molto bassi e si riduce molto gradualmente al crescere del reddito e di altri parametri relativi alla composizione familiare. Il WFTC invece è condizionato alla presenza di un lavoratore occupato per almeno 16 ore a settimana, e con un reddito 97 familiare al di sotto di una soglia. Dal 2003, il Working Tax Credit (WTC) è stato esteso anche a famiglie senza figli a carico, con il vincolo di un minimo di ore lavorate a settimana.31 Altri modelli di credito d'imposta sono il Crédit d'impôt sur les bas revenus de l'activité professionnelle belga e il Prime pour l'emploi (PPE) francese. Nel primo caso si tratta di una riduzione del carico fiscale per i contribuenti che risultano occupati per almeno 13 ore a settimana e con un reddito individuale al di sotto di una soglia compatibile con remunerazioni da lavoro prossime al salario minimo. Il PPE francese è un credito d'imposta individuale per i lavoratori che hanno una remunerazione annuale che non superi del 40 per cento lo SMIC, ovvero il salario minimo. La soglia di reddito è incrementata nel caso ci siano figli o coniugi a carico. C'è anche una soglia minima per le retribuzioni individuali, che esclude le persone che lavorano meno di 11 ore a settimana. Il PPE ha una componente variabile, che cresce al crescere del numero delle ore lavorate ed è invece decrescente all'aumentare del salario orario. Studi teorici ed empirici (Saez, 2002; OECD, 2003; Blumkin e Danziger, 2014) hanno mostrato come le politiche di MWP siano efficaci nel ridurre la povertà e l’esclusione sociale nelle famiglie a maggiore rischio di povertà e consentano, contestualmente, di aumentare la partecipazione (e in molti casi l’occupazione) degli individui a più basso reddito destinatari di sussidi. Il dibattito che si è sviluppato successivamente ha riguardato il disegno ottimale degli schemi di incentivazione e le risposte (comportamentali) degli individui. Politiche di attivazione e disegno ottimale degli incentivi Sebbene le diverse politiche di MWP mettano tutte al centro l’attivazione al lavoro dei membri inattivi al fine di contrastare la povertà delle famiglie, le diverse misure hanno implicazioni diverse in termini di incentivazione al lavoro dei componenti aggiuntivi (secondary earner) e riduzione della in-work poverty. In particolare, il dibattito di politica economica si è concentrato sui criteri per l'accesso ai crediti d'imposta in 31 Gli individui al di sotto dei 60 anni devono lavorare almeno 30 ore retribuite a settimana. Mentre i nuclei monoparentali (con figli a carico) hanno diritto al WTC con 16 ore di lavoro settimanali, nel caso di coppie (con figli a carico) è necessario che complessivamente le ore lavorate siano 24, di cui almeno 16 da parte di uno dei due componenti della coppia. 98 termini di reddito (individuale o familiare), composizione familiare (con o senza figli) e requisiti di ore minime lavorate. Ad esempio, una particolarità degli schemi che fissano oltre a soglie di reddito e parametri di composizione familiare anche un minimo di ore lavorate (come nel caso del WFCT) è quello di introdurre aliquote marginali elevate in corrispondenza delle soglie di attivazione degli incentivi che incentivano la partecipazione ma disincentivano le ore lavorate. Per converso schemi di tipo EITC caratterizzati da incentivi a partire da redditi molto bassi e una riduzione molto graduale al crescere del reddito, favoriscono moderatamente la partecipazione anche per occupazioni part-time ed hanno effetti di disincentivo contenuti nella fase di riduzione dei benefici (OECD 2003). I risultati di alcuni studi di microsimulazione inoltre hanno mostrato come l'effetto dell'introduzione di un credito d'imposta per l'occupazione calcolato con riferimento al reddito familiare (come nel caso del WFCT) sia in generale più efficiente per ridurre la povertà (essendo destinato ai nuclei familiari a basso reddito), mentre nel caso di misure per le quali l'accesso è stabilito sulla base di criteri individuali c’è il rischio di trasferire risorse a lavoratori a bassa remunerazione che però non appartengono a nuclei familiari poveri (Bargain e Orsini 2004). Ma le differenze maggiori emergono in termini di reazioni dell'offerta di lavoro: se nei nuclei individuali o monoparentali entrambe le misure forniscono incentivi alla partecipazione dell'adulto (in modo da avere accesso ai sussidi), lo stesso non si può dire per le coppie. In questo caso, gli incentivi indirizzati alle famiglie scoraggiano la partecipazione dei secondary earners (che sono principalmente donne): il reddito aggiuntivo derivante dal lavoro di questi, infatti, rischia di far perdere alla famiglia il diritto al credito d'imposta per superamento della soglia. Nel caso di sussidi individuali, invece l’incentivazione alla partecipazione interessa anche i percettori secondari di reddito, dato che l'accesso è valutato sui redditi individuali e non familiari, riducendo inoltre la quota di persone con salari molto bassi. Risultati simili si osservano non solo per quelle misure alle quali l'accesso è dato dal reddito familiare, ma anche per quelle che riconoscono vantaggi addizionali (ad esempio, soglie più ampie) nel caso di coniugi a carico, come nel caso del PPE francese. Gli in-work benefits funzionano bene nell'attivare anche i percettori di reddito secondari quando, oltre a tenere in conto i redditi individuali e le ore lavorate individualmente, operano in combinazione con altre politiche di attivazione. Tra queste, le misure che 99 favoriscono la conciliazione tra occupazione e responsabilità all'interno della famiglia, in modo da facilitare l'ingresso nel mercato del lavoro dei membri inattivi (ma impegnati in compiti di cura). In particolare, le misure riguardano le donne, che all'interno dei nuclei familiari sono quelle che più frequentemente si trovano ad occuparsi dei compiti di cura di bambini e familiari non autosufficienti. Oltre alla diffusione del part time, che favorisce la partecipazione femminile al mercato del lavoro, gli interventi riguardano soprattutto la fornitura di servizi di cura. Conta non solo la disponibilità di questi servizi (espressa ad esempio nella percentuale di posti disponibili rispetto alla potenziale domanda, es. numero di bambini), ma anche la loro flessibilità d'orario, che rende più facile usufruirne senza dover ricorrere ad ulteriori aiuti. Inoltre sono importanti i costi di questi servizi: quanto più sono elevati, tanto maggiore sarà il salario di riserva. Un recente studio empirico per l'Italia ha evidenziato come un sussidio parziale al costo dei servizi di cura avrebbe un effetto positivo e significativo sul tasso di occupazione femminile (Del Boca e Vuri 2006). Inoltre, un aumento dell'offerta di servizi di cura potrebbe determinare un incremento dell'occupazione anche, indirettamente, per mezzo di una maggior domanda di personale per questi servizi (che sono ad elevata intensità femminile). Altri strumenti a cui ricorrere per incentivare l'attivazione dei membri inattivi delle famiglie, e quindi ridurre i rischi di in-work poverty, sono i programmi di formazione o riqualificazione professionale che intervengono sulla capacità potenziale dell'individuo di essere occupato e di percepire redditi. Un miglioramento delle politiche attive del lavoro, ovvero delle azioni mirate alla collocazione lavorativa delle persone, come l'orientamento e l'accompagnamento nella ricerca, è un elemento da non trascurare nel disegno complessivo di una strategia di sostegno alle famiglie. In conclusione, gli strumenti a disposizione dei policy-maker sono diversi, e spesso la migliore strategia è cercarne la combinazione ottimale piuttosto che puntare esclusivamente su una sola misura. 100 Bibliografia • Aghion, P., E. Caroli and C. Garcia-Penalosa (1999a) Inequality and Economic Growth: The Perspective of the New Growth Theories, Journal of Economic Literature. XXXVII: 1615-1660. • Bargain O, e Orsini K. (2004) In-Work Policies in Europe: Killing Two Birds with One Stone?, IZA Discussion Paper n.1445 • Blumkin T. e Danziger, L. "Deserving Poor and the Desirability of Minimum Wage Rules", Cesifo Working Paper No. 4721, March 2014. • Boeri, T. (2009) "Setting the Minimum Wage" Labour Economics, 2012, 19 (3), 281-290 • Calvert E, e Nolan B. (2012) Material Deprivation in Europe, AIAS GINI Discussion Paper 68 • Cappellari L, Jenkins S.P. (2004) Modelling Low Income Transition, Journal of Applied Econometrics, 19, 2004 • Cappellari L. 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