rapporto wp (finale) 01.07.2014 - Federazione Acli Internazionali

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rapporto wp (finale) 01.07.2014 - Federazione Acli Internazionali
Commissione istruttoria
per le politiche del lavoro e dei sistemi produttivi (II)
_____________________________
1 luglio 2014
Seminario
“Working poor:
un’analisi sui lavoratori a bassa
remunerazione
dopo la crisi”
___________________________
CNEL - Sala Gialla, ore 9.00
I dati riportati nel presente rapporto sono stati curati per il CNEL dal Centro di Ricerca sui
problemi di Economia del Lavoro e dell'Impresa (CRELI) dell'Università Cattolica di Milano. Il
gruppo di lavoro coordinato dal prof. Claudio Lucifora con la collaborazione di Valentina
Ferraris
Indice
Capitolo 1 - Crisi, impoverimento ed effetti sui salari
5
Redditi sotto pressione
Riquadro - L'indagine sulle condizioni di vita
Riquadro - La caduta delle ore lavorate come conseguenza della crisi
Riquadro - Le diseguaglianze promuovono o rallentano la crescita?
Capitolo 2 - I working poor
28
Il lavoro è ancora un’assicurazione contro la povertà?
Chi sono e quanti sono i working poor
Riquadro - working poor e sommerso
Evoluzione temporale: prima e dopo la crisi
Bassi salari e caratteristiche socio-economiche
Mobilità salariale e bassi salari: gradino di ingresso o trappola della povertà?
Riquadro: bassi salari e qualità del lavoro
Capitolo 3 - Famiglie, lavoro e povertà
70
Cresce la povertà tra le famiglie italiane
Lavoro e povertà: In-work poverty
In-work poverty e working poor
Capitolo 4 – Le politiche di contrasto
85
Le principali conclusioni
Le politiche di contrasto alla povertà degli individui
Riquadro: I minimi contrattuali sono davvero minimi?
Le politiche di contrasto alla povertà delle famiglie
Bibliografia
102
3
Capitolo 1 - Crisi, impoverimento ed effetti sui salari
Redditi sotto pressione
La crisi che l'economia italiana sta sperimentando ormai da parecchi anni non ha
precedenti, per intensità e durata, nella storia recente. La recessione è infatti in atto dal
2008, con la sola eccezione del 2010, e si è tradotta in una perdita complessiva di circa
nove punti percentuali di prodotto tra il 2007 e il 2013. La perdita è molto ampia, e per
alcuni importanti settori (industria e costruzioni) è stata ancora più rilevante. Ne sono
derivati effetti notevoli anche sul mercato del lavoro. La contrazione nei livelli
produttivi si è tradotta nella caduta della domanda di lavoro, sebbene nello stesso tempo
di sia osservata una riduzione della produttività che ha assorbito parte degli effetti
sull'occupazione. Il labour hoarding, ovvero il fenomeno di trattenere presso le imprese
parte dell'occupazione in eccesso rispetto ai fabbisogni produttivi al fine di minimizzare
i costi di recruitment una volta svoltato il ciclo, si è tradotto in una riduzione della
produttività oraria. Inoltre, sono diminuite le ore lavorate, grazie al ricorso alla Cassa
Integrazione, alle ferie arretrate, al taglio degli straordinari e alla diffusione del part
time, limitando la flessione nel numero di occupati1. Ciò nonostante, gli occupati negli
ultimi cinque anni si sono ridotti complessivamente di oltre 4 punti percentuali: nel
2013 risultavano persi quasi 967mila posti di lavoro rispetto al 2008.
Gli effetti sono stati devastanti anche dal punto di vista sociale. Se nella prima fase della
crisi l'incremento della disoccupazione è stato contenuto (dalla flessione nell'offerta,
legata anche al fenomeno dello scoraggiamento, e dal labour hoarding), nel corso
dell'ultimo triennio il tasso di disoccupazione è invece rapidamente aumentato. Nel
2013 il tasso di disoccupazione è salito al 12.2 per cento, un livello mai toccato negli
ultimi 36 anni, superiore ai massimi precedenti di metà anni novanta, e a gennaio 2014
il suo livello è stato record, pari al 12.9 per cento. Al contempo è cresciuta anche la
diffusione della condizione di sottoccupazione, ovvero di persone che lavorano meno di
quanto sarebbero disposte a fare o che svolgono lavori per i quali sono sovraqualificate.
1
La riduzione delle ore lavorate è stata notevole e, come si vedrà più avanti nel capitolo, ha colpito
soprattutto i lavoratori a bassa retribuzione e quelli più deboli: la Cassa Integrazione, ad esempio, non è
prevista per le posizioni apicali (es. dirigenti) e anche il ricorso al part time involontario è stato
maggiormente diffuso tra chi entra nel mercato del lavoro.
4
Ad essere stati particolarmente colpiti sono i più giovani, che scontano ormai tempi di
attesa molto lunghi, superiori a quelli della media europea, per entrare nel mercato del
lavoro: il tasso di disoccupazione giovanile (tra i 15 e i 24 anni) a inizio 2014 risulta
essere del 42.4 per cento; i disoccupati rappresentano ormai l'11.3 per cento della
popolazione nella fascia d'età 15-24 anni.
La situazione di debolezza in cui si trova il mercato del lavoro riflette la condizione di
intensa difficoltà che tutto il sistema economico sta attraversando. A farne le spese sono
anche i livelli retributivi. Sui rinnovi contrattuali ha pesato la congiuntura negativa e
l’elevata disoccupazione, che hanno frenato la dinamica contrattuale: nel privato
(industria e servizi privati) la crescita tendenziale delle retribuzioni contrattuali orarie
nell’ultimo triennio ha oscillato attorno al 2 per cento, a fronte di tassi medi prossimi al
3 per cento nel quinquennio precedente. Un altro aspetto rilevante che ha influito sulla
dinamica complessiva delle retribuzioni è il blocco salariale nel settore pubblico: tale
misura, introdotta per limitare la crescita della spesa pubblica e riportare sotto controllo
i conti nella fase più acuta della crisi del debito sovrano, ha avuto come effetto una
crescita nulla delle retribuzioni contrattuali nominali per i dipendenti pubblici. Tanto
che negli ultimi anni i salari dei dipendenti pubblici hanno perso terreno rispetto a quelli
dei dipendenti del privato. Dato il peso non trascurabile del settore pubblico
sull’occupazione (circa il 23 per cento), il blocco salariale nel pubblico si è riflesso in
una crescita modesta delle retribuzioni pro capite complessive, che si è pressoché
dimezzata nell’ultimo triennio rispetto ai tassi osservati mediamente nel quinquennio
precedente.
La crisi ha comportato anche un indebolimento delle componenti retributive di secondo
livello (come straordinari, premi di produttività, bonus), legate all’andamento del ciclo.
In una fase di debolezza del ciclo è normale che queste componenti vengano
parzialmente meno; lo slittamento salariale, dato dalla differenza di crescita tra le
retribuzioni di fatto – che includono le componenti di secondo livello – e quelle
contrattuali è rimasto negativo nell’ultimo triennio. Il wage drift negativo da tre anni e
la dinamica contenuta delle retribuzioni contrattuali si riflettono in un’evoluzione
modesta delle retribuzioni pro capite di fatto. In termini nominali, queste sono cresciute
mediamente di circa un punto percentuale su base tendenziale nel corso dell’ultimo
triennio.
5
Grafico 1
Retribuzioni contrattuali - industria e servizi
privati
4.5
4.0
3.5
3.0
2.5
2.0
1.5
1.0
06
07
08
09
10
11
12
13
14
var % a/a indice delle retribuzioni contrattuali orarie, totale
dipendenti al netto dei dirigenti. Fonte Istat
Grafico 2
Retribuzioni contrattuali - PA
6.0
5.0
4.0
3.0
2.0
1.0
0.0
06
07
08
09
10
11
12
13
14
var % a/a indice delle retribuzioni contrattuali orarie, totale
dipendenti al netto dei dirigenti. Fonte Istat
6
Grafico 3
Retribuzioni di fatto pro capite
6.0
5.0
4.0
3.0
2.0
1.0
0.0
06
07
08
09
10
11
12
13
var % a/a indice delle retribuzioni di fatto per ULA. Fonte Istat
Grafico 4
Wage drift - industria e servizi privati
2.0
1.0
0.0
-1.0
-2.0
-3.0
-4.0
06
07
08
09
10
11
12
13
differenza tra var % retribuzioni di fatto procapite e retribuzioni
contrattuali orarie.
Elaborazioni su dati Istat
Se in termini nominali la dinamica salariale è risultata al più modesta, in termini reali si
sono osservate variazioni negative. Benché l'inflazione abbia evidenziato una marcata
7
decelerazione nel corso del 2013, i tassi di crescita dei prezzi sono stati prossimi al 3 per
cento nel biennio 2011-2012, comprimendo l’andamento dei salari reali tanto da
registrare tassi di variazione negativi.
La caduta nei livelli occupazionali e la stagnazione dei salari reali si è riflessa
sull'andamento sui redditi disponibili familiari, dei quali i redditi da lavoro
rappresentano una componente prevalente. I dati Istat circa il reddito disponibile
evidenziano come questo sia, in termini reali, in calo ininterrotto dal 2008. Nel corso
degli ultimi sei anni la perdita complessiva è stata di oltre dieci punti percentuali.
Considerando inoltre che nello stesso periodo la popolazione residente in Italia ha
continuato a crescere, grazie all'apporto del saldo migratorio netto, il reddito pro capite
ha registrato un crollo, tornando sui livelli della seconda metà degli anni ottanta.
Il deterioramento delle condizioni economiche si è tradotto in un generale
impoverimento delle famiglie italiane. È aumentata la diffusione della povertà, anche
presso sottogruppi della popolazione che tradizionalmente presentano una incidenza del
fenomeno molto contenuta (Rapporto di Coesione sociale 2013).
Dai dati macro a quelli elementari
I dati finora analizzati sono dati macroeconomici, di fonte prevalentemente di
contabilità nazionale, che consentono di delineare un quadro macro delle evoluzioni del
reddito e delle retribuzioni nel tempo. I dati pro capite di retribuzioni e reddito sono
sostanzialmente una media (tra i residenti, tra gli occupati dipendenti, o tra le unità di
lavoro equivalenti a tempo pieno, in modo da tenere da conto delle differenze nelle ore
lavorate). Per la loro natura, questi dati non consentono però di fare analisi approfondite
sugli aspetti distributivi o sulle caratteristiche dei lavoratori2.
Per far ciò è necessario ricorrere a dati elementari, ricavati da indagini campionarie.
Utilizzando questi dati è quindi possibile inferire alcune informazioni circa le
retribuzioni e i redditi individuali, e osservarne la distribuzione.
Riquadro - L'indagine sulle condizioni di vita (IT-SILC)
2
Com’è noto, la media è un indicatore che descrive sinteticamente un insieme di dati ma, oltre a risentire
notevolmente degli outlier, non fornisce informazioni sulla distribuzione dei dati in questione.
8
L’Indagine sulle condizioni di vita condotta per l'Italia dall’Istat in collaborazione con Eurostat
nasce all’interno di un più ampio progetto denominato “Statistics on Income and Living
Conditions” (SILC) deliberato dal Parlamento Europeo e coordinato a livello europeo da
Eurostat. Il progetto consente di avere un’informazione statistica dettagliata su argomenti come
redditi, povertà, esclusione sociale, deprivazione, qualità della vita, con indicatori armonizzati a
livello comunitario. L’indagine contiene informazioni su redditi e spese familiari, ma anche
informazioni individuali sui componenti della famiglia, riguardanti status occupazionale,
istruzione, redditi percepiti, per gli anni compresi tra il 2004 e il 2011.
Retribuzioni in flessione
Le retribuzioni mensili lorde medie calcolate a partire dai dati elementari evidenziano
una tendenza moderatamente crescente almeno fino al 2010, interrottasi poi nel 2011. I
dati sono espressi in termini nominali, ovvero non corretti per l’inflazione, e
differiscono dai dati derivati dalla contabilità perché basati sulle dichiarazioni dei
soggetti interpellati nell’indagine. In media, le retribuzioni mensili lorde sono passate da
1734 euro nel 2004 a 1813 nel 2011.
Correggendo però per l'inflazione si osserva, con una conferma del quadro delineato dai
dati macro, che il trend dei salari reali medi si appiattisce tra il 2006 e il 2010, per poi
registrare una contrazione nel 2011.
Come è stato sottolineato, le medie risentono degli outlier, e nelle distribuzioni non
simmetriche, come sono tipicamente quelle del reddito, in cui c’è un addensamento
verso i valori più bassi e la coda inferiore, mentre nella coda superiore ci sono meno
osservazioni, ma con valori più alti che influiscono sulla media, i valori medi sono
superiori alla mediana, che invece rappresenta la posizione centrale nella distribuzione.
I trend descritti dalle mediane delle retribuzioni lorde mensili, sia in termini nominali
che reali, non sono molto diversi da quelli delineati dalle medie, ma i valori sono
ovviamente inferiori. Sulla base dei dati IT SILC si passa, in termini nominali, da 1514
euro lordi al mese nel 2004 a 1650 nel 20113.
3
Secondo i dati dell'indagine SES (Structural Earnings Survey), condotta da Eurostat, nel 2010 la
retribuzione mensile media in Italia era di 2286 euro, che però includeva anche le mensilità non standard;
inoltre la survey è condotta presso le imprese - e non i lavoratori, come invece l'IT SILC, e solo presso
9
Grafico 5
Retribuzioni lorde mensili - medie
nominali
reali
110
105
100
95
90
85
80
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
indice base 2004=100, elaborazioni su dati IT-SICL Istat
Grafico 6
Retribuzioni lorde mensili - mediane
nominali
reali
115
110
105
100
95
90
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
indice base 2004=100, elaborazioni su dati IT-SICL Istat
imprese con più di 10 addetti, escludendo così molte imprese in Italia, data la dimensione media ridotta,
oltretutto imprese le cui retribuzioni tendono ad essere più basse. Sono inoltre esclusi molti settori.
10
Naturalmente, il fatto di lavorare a tempo pieno o parziale comporta livelli retributivi
piuttosto diversi: poiché con la crisi il numero di lavoratori part time è aumentato, non è
da escludere un effetto composizione che spieghi almeno in parte l'andamento stagnante
delle retribuzioni reali osservato in termini reali. L'effetto composizione è più
importante per le retribuzioni mediane: i lavoratori part time sono difatti pagati
complessivamente meno, lavorando meno ore, e tendono a concentrarsi nella parte
bassa della distribuzione.
Distinguendo tra lavoratori dipendenti a tempo pieno e quelli a tempo parziale si
osservano due andamenti pressoché speculari delle retribuzioni (considerando i valori
mediani). Per i lavoratori full time le retribuzioni mediane si sono ridotte in termini reali
nella prima parte del periodo di osservazione (tra il 2004 e il 2007), riflettendo
probabilmente anche composizioni meno favorevoli con un aumento della presenza di
lavoratori a termine, a fronte di un lieve incremento invece delle retribuzioni mediane
per i part time. La situazione si è invertita invece nel periodo post crisi; le retribuzioni
per i lavoratori a tempo pieno sono rimaste pressoché stabili, mentre quelle dei
lavoratori a tempo parziale, al di là di oscillazioni da un anno all'altro, hanno
evidenziato dal 2010 una decisa riduzione.
Sulla base di queste osservazioni preliminari, si rileva come il deterioramento recente si
sia concentrato soprattutto sui lavoratori a tempo parziale, riflettendo probabilmente
anche una composizione meno favorevole, con un incremento dell'incidenza di
lavoratori in professioni meno qualificate o con contratti meno vantaggiosi.
11
Grafico 7
Retribuzioni lorde mensili reali - val.mediani
dip.full time
dip.part time
106
104
102
100
98
96
94
92
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
indice base 2004=100. Elaborazioni su dati IT-SILC Istat
Gli autonomi non sono stati risparmiati
In Italia i lavoratori autonomi rappresentano una quota importante dell'occupazione
complessiva: il lavoro autonomo, soprattutto durante le fasi di ristrutturazione
industriale del passato, è stato spesso una maniera per assorbire occupazione dipendente
in eccesso. Negli ultimi anni, però, l'occupazione autonoma ha anche incluso forme
occupazionali che nei fatti sono poco autonome; è fiorito l'utilizzo delle partite Iva
individuali
per
impiegare
professionisti,
soprattutto
giovani,
in
forme
di
parasubordinazione. Benché inquadrati, ai fini della normativa fiscale e previdenziale,
come autonomi, questi lavoratori sono di fatto impiegati in posizioni lavorative
assimilabili per condizioni e prospettive a quelle dei dipendenti a termine.
Un'analisi dei redditi da lavoro autonomo evidenzia come anche questi abbiano risentito
della crisi. La crescita dei redditi si è interamente concentrata nel periodo pre-crisi, ma
tra il 2007 e il 2011 i redditi medi da lavoro autonomo4 si sono ridotti
complessivamente dell'1,4 per cento. La contrazione è stata più intensa (-2,3 per cento)
4
Dall'analisi sono stati esclusi i redditi negativi, riducendo così il campione e "sottostimando" così la
riduzione totale.
12
per i redditi mediani, evidenziando come è stata soprattutto la prima metà della
distribuzione a subire le maggiori riduzioni. In termini reali, la riduzione del reddito
mediano da lavoro autonomo tra il 2007 e il 2011 è stata di oltre 10 punti percentuali.
D'altra parte con la crisi molte imprese, soprattutto piccole, hanno sperimentato grosse
difficoltà (e molte hanno dovuto chiudere), e anche i lavoratori in proprio e i
parasubordinati sono stati pesantemente colpiti.
I cambiamenti nella distribuzione
Nel complesso, le retribuzioni medie si sono deteriorate, in termini reali: ma all'interno
della distribuzione, gli effetti non sono stati uguali per tutti. Se si guardano le variazioni
delle retribuzioni reali tra il 2007 e il 2011, si osserva che la contrazione registrata per la
retribuzione mediana è più ampia di quella registrata per la media5.
Scendendo nel dettaglio della distribuzione, si rileva come le contrazioni di entità
maggiore si siano registrate in corrispondenza dei percentili inferiori della distribuzione,
ovvero per quei lavoratori che ricevono retribuzioni più basse. Il primo decile ha
sperimentato una riduzione delle retribuzioni reali di oltre il 10 per cento in un
quadriennio, mentre per l’ultimo decile la variazione è pressoché nulla. L’impressione è
che quindi la crisi, nei suoi effetti sui livelli retributivi, sia stata asimmetrica. Ad essere
maggiormente colpiti sono stati i decili più bassi, con un conseguente aumento delle
disuguaglianze. Inoltre, la concentrazione degli effetti sui decili più bassi (anche se
quelli più elevati non sono stati esenti dalle perdite) si è tradotta in un aumento dei
rischi di povertà: anche chi si trovava poco sopra le soglie di povertà ha sperimentato
uno scivolamento verso il basso.
5
Che risente maggiormente dei valori elevati della distribuzione.
13
Grafico 8
La perdita complessiva delle retribuzioni lorde
durante la crisi
p95
p90
p75
p25
p10
p5
-12%
-10%
-8%
-6%
-4%
-2%
0%
var % 2007-2011 retribuzioni lorde mensili reali, per diversi percentili
della distribuzione del reddito. Elaborazioni su dati IT-SILC Istat
In termini di salario orario6, invece, il quadro che si delinea appare contrastante con
quello osservato in riferimento alle retribuzioni pro capite. I salari reali, infatti,
mostrano un peggioramento abbastanza generalizzato, ma più marcato nella parte alta
della distribuzione. Sembrerebbe esserci stata una sorta di compressione verso il basso
dei salari nel corso del periodo 2004-2011, ovvero anche prima della crisi. Il confronto
dell'evoluzione della distribuzione delle retribuzioni lorde e di quella dei salari orari,
evidenzia due andamenti contrastanti: la prima suggerisce un ampliamento delle
divergenze mentre la seconda, al contrario, una compressione verso il basso dei salari.
Riquadro - La caduta delle ore lavorate come conseguenza della crisi
Il puzzle dell'apparente contraddizione tra l'andamento delle retribuzioni e quello dei salari orari
è risolto se si tiene in considerazione l'altro fattore, non meno importante - soprattutto durante le
fasi di recessione o di espansione - che influisce sui livelli retributivi, ovvero il numero di ore
lavorate. Il livello delle retribuzioni dall'andamento dei salari orari
6
I salari orari lordi rappresentano il prezzo del lavoro rilevante per le imprese.
14
- che riflettono la
contrattazione e l'evoluzioni delle componenti di secondo livello - e da quello del numero di ore
lavorate pro capite.
Mediamente, le ore lavorate pro capite si sono ridotte tra il 2004 e il 2011: rimaste
sostanzialmente stabili nella prima parte del periodo preso in esame, la contrazione si è
concentrata soprattutto nella seconda parte (ed in particolare nel 2009). Per far fronte alla caduta
della domanda e, di conseguenza, dei livelli produttivi, molte imprese hanno difatti ridotto le ore
per lavoratore, ad esempio riducendo gli straordinari, utilizzando le ferie arretrate e quando
possibile facendo ricorso alla Cassa Integrazione Guadagni. Questo fenomeno, segnalato anche
dai dati macro e noto anche come labour hoarding, è piuttosto comune nelle fasi iniziali di
recessione, quando le imprese, non sapendo se l'episodio recessivo è temporaneo o di natura più
persistente, preferiscono incorrere nei costi legati alla minore produttività (via compressione dei
margini) piuttosto che trovarsi a dover affrontare i costi derivanti dalla riduzione del personale,
legati alla necessità di operare di nuovo i processi di selezione e formazione qualora ci fosse una
ripresa a breve. Nel 2010, in coincidenza con il miglioramento del ciclo, le ore lavorate pro
capite sono lievemente cresciute, ma nel periodo post crisi si resta su livelli ben distanti da
quelli osservati in precedenza. Il ricorso alla Cassa Integrazione Guadagni ha raggiunto livelli
massimi negli anni della crisi.
Un altro fenomeno che ha cominciato a manifestarsi negli anni della crisi è stato l'incremento
della diffusione del part time. Il lavoro a tempo parziale sta diventando via via più comune,
perché spesso utilizzato per facilitare la conciliazione tra impegni familiari e lavoro, soprattutto
per la componente femminile dell'occupazione. Nel periodo di crisi però si è osservato un
aumento della diffusione dell'occupazione a tempo parziale anche per lavoratori disponibili a
lavorare un numero maggiore di ore, mentre si è ridotta l'occupazione a tempo pieno; in altre
parole, è cresciuto il part time involontario, che è una forma di sottoccupazione.
15
Grafico 9
Part time involontario
70
60
50
40
30
20
10
0
2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012
% di involontari tra occupati part time >15 anni. Dati Istat
La diffusione del part time involontario, che interessa soprattutto chi entra nel mercato del
lavoro, contribuisce a spiegare la riduzione delle ore lavorate pro capite. Se oltretutto si guarda
come si sono ridotte le ore lavorate nei diversi decili della distribuzione dei salari è possibile
rilevare come la caduta delle ore lavorate sia stata particolarmente marcata in corrispondenza
dei primi decili, ovvero per quei lavoratori che percepiscono le retribuzioni più basse. La
riduzione delle ore lavorate si è osservata anche nel periodo precedente la crisi, ma si è molto
intensificata negli anni della crisi. Per i lavoratori dell'ultimo decile, invece, l'andamento delle
ore lavorate non si è molto discostato da quello medio. In parte, la maggior tenuta delle ore per
chi è nel decile più elevato è dovuta anche al fatto che in questo decile si concentrano i dirigenti,
che non hanno diritto alla Cassa Integrazione.
In conclusione, chi già lavora tendenzialmente meno ore (nel primo decile si trovano soprattutto
lavoratori con retribuzioni molto basse e che lavorano meno di 30 ore settimanali
nell'occupazione principale, dove già incide molto il lavoro a tempo parziale) è stato interessato
da una riduzione più marcata degli orari lavorativi, soprattutto per effetto della crescente
importanza di fattori istituzionali, come l'incremento della diffusione del part time involontario,
di contratti a poche ore e del ricorso alla Cassa Integrazione.
16
Grafico 10
Ore lavorate in media a settimana
totale lav.dipendenti
primo decile
ultimo decile
102
100
98
96
94
92
90
88
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
ore lavorate nell'occupazione principale, media lavoratori dipendenti,
indice base 2004=100. Elaborazioni su dati IT SILC Istat
La diversa evoluzione delle ore lavorate, con una contrazione molto più marcata per i lavoratori
del primo decile, contribuisce a spiegare perché, nonostante una riduzione delle distanze in
termini di salari orari, si sia osservata una crescente divergenza nelle retribuzioni mensili
all'interno della distribuzione, con perdite concentrate soprattutto sui decili più bassi.
Una crescente divergenza anche tra i redditi netti
Per verificare l'ipotesi di una crisi asimmetrica nei sui effetti, sono stati analizzati anche
i redditi netti per lavoro dipendente e come è cambiata la loro distribuzione nel tempo. I
redditi da lavoro dipendente riflettono non solo le retribuzioni monetarie, ma anche
quelle non monetarie, in natura, come i benefits (che in alcuni casi possono avere un
valore non trascurabile); inoltre essendo valori netti, tengono conto dell’impatto del
sistema fiscale, che ha anche la funzione di garantire una redistribuzione dei redditi.
In questo caso si osserva una polarizzazione nell’entità delle contrazioni dei redditi
reali: le contrazioni maggiori si osservano in corrispondenza dei percentili più bassi (-17
per cento la riduzione del reddito netto per il primo decile), ma anche per quelli più
elevati, mentre sono risultate più contenute le perdite in termini percentuali per le
17
posizioni centrali. In termini assoluti, tra il 2007 e il 2011 gli occupati del primo decile
(quelli che guadagnano il 10 per cento dei redditi più bassi) hanno perso 1450 euro netti
all’anno in termini reali, un valore superiore alla perdita assoluta osservata per la media
(1419 euro).
Grafico 11
La perdita complessiva di redditi individuali netti
da lavoro dipendente durante la crisi
p95
p90
p75
p25
p10
p5
-30%
-25%
-20%
-15%
-10%
-5%
0%
var % 2007-2011 redditi reali netti, per diversi percentili della
distribuzione del reddito. Elaborazioni su dati IT-SILC Istat
Questi numeri suggeriscono come la distribuzione dei redditi da lavoro dipendente sia
cambiata, andando verso una maggiore sperequazione. Un'ulteriore conferma viene
dagli indicatori che generalmente sono utilizzati per valutare le disuguaglianze. Tra
questi, i rapporti tra percentili e l’indice di Gini7. Il rapporto tra i percentili segnala se la
distanza all'interno della distribuzione aumenta o si riduce nel tempo; un incremento dei
rapporti tra percentili estremi indica una maggior diseguaglianza nella distribuzione dei
redditi.
7
L'indice di Gini è un indicatore che offre una misura sintetica del grado di concentrazione nella
distribuzione di una variabile: quanto più il valore è prossimo a 1 tanto più la distribuzione risulterà
concentrata (la variabile, ad esempio il reddito, sarà interamente concentrata nell'ultimo percentile),
mentre quando il valore è prossimo a 0 la distribuzione risulta equa (ogni percentile ha una quota uguale
della variabile di cui si sta osservando la distribuzione).
18
Come segnalano le elaborazioni effettuate sulla base dei microdati da indagine IT SILC,
l'indice di Gini per le retribuzioni lorde è sceso in misura statisticamente significativa8
tra il 2004 e il 2008. Tra il 2008 e il 2010 l'indice è rimasto pressoché stabile, ma dal
2011 si osserva un'inversione di tendenza significativa, con un deciso incremento
dell'indice, segnale che la crisi prolungata ha cominciato ad avere effetti sulla
distribuzione delle retribuzioni, con un aumento della disuguaglianza. Più smussati gli
andamenti dell'indice di Gini calcolato per i redditi netti da lavoro dipendente (che
tengono conto dei trasferimenti), ma che confermano sostanzialmente l'aumento della
concentrazione nell'ultima fase. Tra il 2004 e il 2007 l'indice è rimasto stabile (le
variazioni non risultano statisticamente significative); dopo una riduzione temporanea
nel 2008 e una sostanziale stabilità nel biennio successivo, dal 2011 l'indice ha
registrato un incremento, ovvero un aumento della sperequazione e un deterioramento
della posizione relativa dei decili più bassi.
Grafico 12
Indice di Gini per redditi netti da lavoro
dipendente
0.29
0.28
0.27
0.26
0.25
0.24
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
i punti indicano gli estremi degli intervalli di confidenza. Elaborazioni su
dati IT-SILC Istat
8
Ovvero quelle variazioni più ampie dell'intervallo di confidenza: quando sono variazioni all'interno di
tale intervallo, si ritiene l'indice sostanzialmente stabile.
19
Ad ogni modo, l'evoluzione dell'indice di Gini suggerisce che la disuguaglianza nella
distribuzione delle retribuzioni lorde e dei redditi netti è aumentata nell'ultima fase del
periodo di osservazione, quando gli effetti della crisi hanno cominciato a manifestarsi in
misura più marcata.
Indicazioni non dissimili provengono dall'analisi dei rapporti inter-percentili.
Esaminando i rapporti tra percentili dei redditi netti da lavoro dipendente, si osserva
come in generale questi siano cresciuti tra il 2004 e il 2011 (periodo per il quale sono
disponibili i microdati): se nel 2004 il reddito dell'ultimo decile era pari a 3,6 volte
quello del primo decile, a fine periodo risulta essere pari a 4 volte, segno di un
allargamento delle distanze tra gli estremi della distribuzione. Va sottolineato come il
rapporto è rimasto sostanzialmente stabile nella prima parte del periodo, mentre è
aumentato solo nell'ultimo triennio, quando hanno cominciato progressivamente a
manifestarsi gli effetti della crisi.
Guardando più nel dettaglio della distribuzione dei redditi netti, si osserva che la
divergenza è stata prevalentemente nella metà inferiore della distribuzione: il rapporto
tra la mediana e il primo decile, rimasto pressoché stabile nella prima parte del periodo,
è aumentato nell'ultimo triennio di osservazione, raggiungendo quota 2,4. La distanza
tra la mediana e l'ultimo decile è invece inferiore (l'ultimo decile è pari a 1,7 volte la
media), e tale rapporto non ha sperimentato grossi mutamenti nel corso del periodo di
osservazione.
Considerando che nella seconda parte del periodo in esame i redditi mediani in termini
reali sono rimasti stagnanti, per poi contrarsi nel 2011, l'aumento della distanza con i
redditi più bassi suggerisce come per questi ultimi le difficoltà siano state ancora più
intense. In altre parole, chi già percepisce redditi modesti da lavoro dipendente si è
ulteriormente impoverito, sia in termini assoluti (come si è visto, per il primo decile i
redditi reali si sono ridotti di 1450 euro nel periodo di crisi) che in termini relativi, ossia
rispetto al resto della distribuzione.
In conclusione, la crisi si è tradotta non solo in un arretramento delle retribuzioni e dei
redditi, ma anche in un peggioramento della distribuzione delle stesse, con un
ampliamento delle differenze e con un deterioramento soprattutto delle posizioni di chi
già si trova a guadagnare redditi modesti.
20
Grafico 13
Rapporti interpercentili tra i redditi netti da lavoro
dipendente
ultimo/primo decile - scala sin
mediana/primo decile
ultimo decile/mediana
4.2
2.6
2.4
4
2.2
3.8
2
3.6
1.8
1.6
3.4
1.4
3.2
1.2
3
1
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
Elaborazioni su dati IT-SILC Istat
Un generale impoverimento
La crisi ha avuto origini finanziarie ed internazionali, ma si è sovrapposta a una
situazione di grave debolezza strutturale dell'economia italiana, dovuta all'incapacità di
reagire ai notevoli cambiamenti geopolitici, tecnologici e demografici degli ultimi
decenni (come è stato ricordato nelle Considerazioni finali del Governatore della Banca
d'Italia, a maggio 2013).
Nelle pagine precedenti si è sottolineato come tale crisi stia cominciando sempre più a
ripercuotersi sulla coesione sociale, a causa dell'aumento della disoccupazione, della
sottoccupazione (ad esempio, per effetto del crescente ricorso al part time involontario),
della riduzione dell'occupazione per le forme contrattuali più stabili. (Rapporto sulla
Coesione sociale, 2013). La debolezza del mercato del lavoro si è tradotta anche in una
dinamica sostanzialmente stagnante delle retribuzioni, tale da avere un arretramento in
termini reali. In buona misura questo è l'esito della riduzione delle ore lavorate, ma
anche per i salari orari reali si è registrata una diminuzione. La flessione delle
retribuzioni reali e quella dell'occupazione hanno determinato una crescente pressione
21
sui redditi delle famiglie italiane. Inoltre, come hanno rilevato le elaborazioni sui
microdati, la disuguaglianza è aumentata, con un ampliamento delle differenze e un
arretramento soprattutto di chi già si trovava nei decili inferiori.
È cresciuta la diffusione della povertà; i dati più recenti dell'Istat, relativi al 2012,
evidenziano un'incidenza della povertà che non si era vista negli ultimi quindici anni. Le
famiglie in povertà relativa erano il 12,7 per cento del totale: l'aumento dell'incidenza è
stato notevole (in media, nel decennio precedente aveva sempre oscillato attorno all'11
per cento), soprattutto se si considera che il generale impoverimento ha determinato uno
scivolamento verso il basso della distribuzione, e quindi una riduzione della soglia di
povertà9.
Sebbene il lavoro sia tradizionalmente ritenuto una buona assicurazione contro la
povertà, l'avere un'occupazione non è una condizione sufficiente per essere al riparo dal
rischio di essere povero. Nelle pagine che seguono si approfondirà il tema della povertà
nell'occupazione secondo due approcci differenti.
Il primo è quello che sceglie come punto di vista quello dei lavoratori a basso reddito
da lavoro: si è evidenziato come retribuzioni e redditi da lavoro (dipendente e
autonomo) si siano deteriorati nel corso della crisi e come l'arretramento sia stato
marcato soprattutto nella parte bassa della distribuzione. Si concentra l'attenzione su
quel gruppo di lavoratori che, pur regolarmente occupati, percepiscono una
remunerazione del loro lavoro non adeguata a garantire livelli di sussistenza, e che sono
stati particolarmente colpiti dalla crisi in atto. Il rischio di essere un working poor è
cresciuto, confermando così il generale deterioramento, e per alcune categorie
(lavoratori con bassi profili professionali, bassa istruzione o che lavorano in settori dove
i livelli remunerativi sono più bassi) è molto elevato. Ma anche quei sottogruppi che
tradizionalmente presentano una diffusione del fenomeno molto più contenuta sono stati
interessati dal generale impoverimento, e anche per questi è aumentato il rischio di
essere un working poor.
Se la bassa remunerazione del lavoro (dipendente o autonomo) risulta inadeguata a
raggiungere livelli minimi di benessere, non è però detto che necessariamente un
9
La condizione di povertà relativa è calcolata con riferimento ad una soglia di povertà relativa, che
individua il livello di spesa o di reddito sotto il quale una famiglia è definita povera. Tale livello è
individuato in relazione alla spesa o al reddito mediano di un dato anno, e quindi risente dei movimenti
della distribuzione. Come è stato evidenziato, il reddito mediano, in termini reali, si è ridotto con la crisi.
22
working poor sia in condizioni di disagio economico (anche se è piuttosto probabile).
La famiglia di cui il lavoratore a bassa remunerazione fa parte costituisce un rilevante
ammortizzatore sociale, consentendo di contenere le disuguaglianze dei redditi che si
formano sul mercato del lavoro grazie a varie forme di redistribuzione tra i componenti
del nucleo familiare.
Il secondo approccio alla questione della povertà nell'occupazione è appunto quello che
privilegia invece la prospettiva della famiglia, esaminando il caso di quei nuclei
familiari che risultano poveri, ovvero hanno un reddito disponibile equivalente inferiore
alla soglia di povertà relativa, nonostante almeno uno dei componenti sia occupato. In
questo caso assume importanza la condizione familiare, la sua composizione e
l'intensità di lavoro al suo interno, oltre ai trasferimenti pubblici che possono
riequilibrare in parte le sperequazioni e concorrono alla definizione del reddito
disponibile.
Anche il rischio di povertà nell'occupazione (la cosiddetta in-work poverty) è aumentato
con la crisi. Il legame con il fenomeno dei working poor è comunque molto forte: a
essere maggiormente esposti al rischio di povertà sono quei nuclei familiari dove il
lavoratore a bassa remunerazione è il principale se non addirittura l'unico percettore di
reddito, mentre il rischio si riduce con l'aumentare dell'intensità dell'occupazione
all'interno del nucleo, che consente di compensare la bassa retribuzione di uno dei
componenti.
Pertanto, le politiche di contrasto a queste forme di povertà devono essere sì specifiche,
ma in una certa misura coordinate, dato il legame forte esistente.
Riquadro - Le diseguaglianze promuovono o rallentano la crescita?
La relazione che lega le diseguaglianze nei redditi alla crescita economica è molto dibattuta tra
gli economisti, sia dal punto di vista teorico, sia per ciò che concerne l’evidenza empirica.
Alcuni economisti ritengono che le diseguaglianze (nelle remunerazioni dei lavoratori e nel
rendimento del capitale) costituiscano un elemento essenziale della struttura degli incentivi per
garantire la crescita. In questo contesto, elevati rendimenti dell’investimento in istruzione e
formazione contribuiscono all’accumulazione del capitale umano e della conoscenza (il
“motore” della crescita, si veda Roemer, 1994). Allo stesso modo differenze nel rendimento del
capitale consentono un’adeguata allocazione dello stesso alle attività più produttive e
23
determinano l’uscita dal mercato delle imprese meno efficienti. Infine, l’esistenza di
significative differenze nei livelli retributivi serve a garantire che gli individui esercitino il
massimo sforzo sul lavoro contribuendo alla crescita della produttività (Aghion et al. 1999).
Altri economisti, invece, pongono l’accento sulle imperfezioni e i fallimenti dei mercati e
sottolineano come in presenza di asimmetrie informative e vincoli di liquidità (nel mercato del
capitale e del lavoro) la presenza di forti diseguaglianze impedisca ai meno abbienti di compiere
scelte ottimali, riducendo sia la mobilità sociale, sia il potenziale di crescita. In tali contesti, la
crescita risulta polarizzata tra i ricchi e i poveri e le diseguaglianze aumentano (Galor and Zeira,
1993). Altri elementi di impedimento alla crescita, in contesti di ampie diseguaglianze, sono: la
presenza di tasse elevate (e distorsive) e l’instabilità socio-politica.
Dal punto di vista empirico, l’evidenza suggerisce che forti diseguaglianze nella distribuzione
della terra o della ricchezza sono frequentemente associate a una minor crescita, mentre
l’evidenza relativa alle diseguaglianze nei redditi e crescita sembra inconclusiva. Alcuni gli
studi trovano conferma che forti diseguaglianze nei redditi, in presenza di imperfezioni e
fallimenti del mercato, sono un freno alla crescita, mentre sembra statisticamente più debole il
legame tra tassazione, instabilità socio-politica e crescita. Nella Grafico 14, la correlazione tra
diseguaglianza nei redditi (delle famiglie) e crescita del PIL pro-capite (1994-2009), per i paesi
Ocse, mostra l’assenza di una relazione statisticamente significativa tra diseguaglianze e crescita
(OCSE, 2012).
Grafico 14
Diseguaglianze nei redditi e crescita economica (Paesi Ocse, 1994-2009)
Diseguaglianza nei redditi familiari
Crescita del PIL pro-capite: 1994-2009 media
Fonte: OCSE (2012) "Going for Growth" - Figura 5.9. pag. 194
24
La crisi e il conseguente aumento delle diseguaglianze e della povertà hanno riportato la
controversia tra diseguaglianza e crescita al centro del dibattito economico e politico. Se da un
lato è chiaro a tutti quanto la crescita sia necessaria per creare occupazione e ridurre la povertà,
dall’altro molti sono convinti che l’eccessiva disuguaglianza nei redditi e nella ricchezza
accumulata nel corso degli ultimi decenni – anche a seguito di politiche di deregolamentazione
dei mercati finanziari e riduzione della progressività della tassazione (soprattutto al top della
distribuzione) - possa essere all’origine della crisi economica e dell’ulteriore impoverimento dei
gruppi sociali più deboli.
Questa linea ha raccolto un forte consenso tra diverse organizzazioni internazionali chiamate a
fornire assistenza ai governi per promuovere politiche orientate alla crescita. In particolare,
l’Ocse nel Rapporto “Economic Policy Reforms: Going for Growth” del 2012 e l’International
Monetary Fund nel Rapporto “Redistribution, Inequality, and Growth” del 2014 hanno riportato
una serie di evidenze empiriche a favore di interventi per ridurre le diseguaglianze e favorire la
crescita ed hanno elencato una serie di riforme che potrebbero contribuire al dibattito in corso
sulle politiche10 da attuare per rilanciare la crescita:
•
Migliorare la qualità e la diffusione dell’istruzione secondaria e terziaria (migliorare il
reclutamento e la formazione degli insegnanti, misure di sostegno agli studenti a rischio di
abbandono)
•
Promuovere l’uguaglianza delle opportunità nell’istruzione (ridurre la stratificazione sociale
e posticipare il tracking degli studenti nei percorsi scolastici)
•
Ridurre il divario nella protezione dell’impiego (tra lavoratori con contratti a tempo
indeterminato e a tempo determinato)
•
Aumentare la spesa in politiche attive del mercato del lavoro (migliore orientamento,
accompagnamento nella ricerca e formazione)
•
Promuovere l’integrazione degli immigrati (attivazione di corsi di lingua per stranieri e
sistemi trasparenti di riconoscimento dei titoli di studio stranieri)
•
Migliorare gli esiti occupazionali delle donne (incremento dei servizi di cura dei bambini e
degli anziani per facilitare la conciliazione lavoro-famiglia)
•
Combattere la discriminazione (sia con strumenti legali, sia con azioni positive)
10
Per un approfondimento delle misure di policy per contrastare la povertà si rimanda all'ultimo capitolo
(Le politiche di contrasto).
25
•
Promuovere una tassazione equa e compatibile con la crescita (revisione della tassazione
che favorisce i gruppi ad alto reddito a favore di quelli a basso reddito, riduzione delle
distorsioni nella tassazione delle rendite finanziarie)
•
Proteggere i lavoratori a basso salario (salario minimo, misure di sostegno dei bassi
redditi e politiche di attivazione, come ad esempio il “making work pay tax credit”.
26
Capitolo 2 - I working poor
Il lavoro è ancora un’assicurazione contro la povertà?
La crisi, come è stato evidenziato nelle pagine precedenti, si è tradotta non solo in un
generale arretramento dei salari e dei redditi, ma anche in un peggioramento delle
disuguaglianze. È aumentata la povertà: la crescente diffusione di questo fenomeno
emerge sia ricorrendo a indicatori di povertà assoluta, ovvero calcolati con riferimento
ad un paniere di spesa per consumi minima o di reddito minimo di sussistenza, che
relativa, che sono calcolati invece utilizzando soglie definite con riferimento al reddito o
ai consumi mediani di un dato anno. L’incidenza della povertà assoluta tra le famiglie è
cresciuta, indipendentemente dalla loro numerosità (ma è cresciuta soprattutto tra le
famiglie più numerose). Dal 2010 anche l’incidenza della povertà relativa, sia tra le
famiglie sia tra gli individui, ha ripreso a crescere, registrando un deciso incremento nel
2012 che ha portato il tasso di incidenza su livelli massimi degli ultimi 15 anni, pari al
15,8 per cento.
Grafico 1
Povertà relativa individuale
17
16
15
14
13
12
11
10
9
8
97 98 99 00 01 02 03 04 05 06 07 08 09 10 11 12
% di persone che risultano povere. Dati Istat
27
Il lavoro è generalmente considerato una buona assicurazione contro la povertà: essere
occupato riduce la probabilità di essere povero, ma non è condizione sufficiente per
annullare il rischio. Tradizionalmente, la povertà è stata associata alla mancanza di
lavoro, ovvero a condizioni di disoccupazione o inattività; più recentemente questi
confini sono diventati più sfumati e anche categorie di lavoratori regolarmente occupati
si trovano di fatto in condizioni di povertà. Le dimensioni del fenomeno e le diverse
modalità con cui si manifesta nel mercato del lavoro sono complesse e non riguardano
solo la povertà intesa come mancanza di potere di acquisto o incapacità a svolgere
determinate funzioni, ma anche aspetti più strettamente legati alle prospettive
occupazionali, alla precarietà delle carriere, e alla inclusione sociale dei lavoratori.
La crisi ha inciso profondamente sulla povertà degli individui, sia riducendo l’intensità
di lavoro (a livello individuale, via riduzione degli orari, ma anche a livello familiare,
con una crescente diffusione della disoccupazione e dell’inattività tra i membri), sia
aumentando il rischio di povertà per gli occupati, a rischio dei bassi salari e della ridotta
azione delle politiche di sostegno.
L'ampliarsi dei differenziali salariali ha portato difatti un nuovo evento avverso nel
mercato del lavoro, i bassi salariali. La categoria dei working poor è così a rischio di
povertà, nonostante la condizione di occupazione, proprio per il basso livello di reddito
da lavoro che non garantisce loro di sfuggire a tale rischio.
Chi sono e quanti sono i working poor
Questioni definitorie
Con l'espressione working poor si intendono quelle persone che, occupate, hanno una
bassa remunerazione del lavoro, il che le espone a rischi di povertà. La definizione del
basso salario è ovviamente il punto cruciale per l'identificazione dei working poor: è
necessario a tal fine individuare un livello salariale "soglia", sotto il quale un lavoratore
si possa considerare povero. La scelta può ricadere su una soglia assoluta, ad esempio
definita su un salario minimo che potrebbe essere fissato in base a standard di decenza
(come quando la soglia di povertà assoluta è fissata sulla base di un reddito minimo di
sussistenza). In tal caso, l'idea fondante è che il lavoro dovrebbe consentire di
28
raggiungere livelli minimi di benessere. In alternativa si sceglie una soglia relativa,
ovvero in riferimento alla distribuzione dei salari; in questo caso si dà importanza alle
relatività salariali. I lavoratori a bassa remunerazione sono quelli che si posizionano
nella coda inferiore della distribuzione. Di norma, nella letteratura che si è occupata di
working poor, l'approccio che si è seguito è quello della soglia relativa, che può essere
scelta come un quintile fisso (ad esempio, il primo quintile, o il primo 30 per cento della
distribuzione) oppure, più frequentemente, una quota fissa rispetto alla media o alla
mediana della distribuzione. La definizione più frequente della soglia di basso salario è
quella che fa riferimento ai due terzi della mediana, utilizzata anche dalla Commissione
Europea e dall'Ocse, il che la rende la più adatta ai confronti internazionali.
Naturalmente, tale definizione deve essere declinata anche in senso operativo: occorre
scegliere la variabile "remunerazione" la cui distribuzione si utilizzerà (redditi da lavoro
o retribuzioni? valori netti o lordi?), l'aggregato di occupati tra i quali analizzare
l'esistenza di working poor (tutti gli occupati? solo i dipendenti o gli autonomi?).
Inoltre, un elemento di non trascurabile rilevanza è quello legato all'intensità di lavoro:
come è stato evidenziato nel capitolo precedente, il numero di ore lavorate ha un
impatto notevole sul livello della retribuzione complessiva. In particolare l'occupazione
part time e la bassa remunerazione sono spesso legate.
Le quantificazioni dei working poor
Tenendo in considerazione le osservazioni avanzate poco sopra, si sono elaborate
definizioni operative per l'identificazione dei working poor e, di conseguenza, per la
loro quantificazione. Innanzi tutto sono stati considerati, separatamente, sia i lavoratori
dipendenti che gli autonomi; tra questi ultimi, però, sono stati considerati solo quelli
senza dipendenti, in modo da cogliere anche quelle forme di parasubordinazione (come
le partite Iva parasubordinate, la cui diffusione è aumentata molto negli ultimi anni).
In entrambi i casi sono state considerate misure orarie della remunerazione, in modo da
avere risultati al netto delle differenze di intensità di lavoro (non sempre volontarie). I
dati utilizzati sono quelli dell'Indagine sulle condizioni di vita condotta dall'Istat in
collaborazione con Eurostat ("Statistics on Income and Living Conditions", IT SILC). I
dati IT SILC forniscono informazioni sia a livello familiare che individuale (solo per le
29
persone con più di 15 anni). A livello individuale sono fornite informazioni sui redditi
individuali annui, sia per il lavoro dipendente sia per il lavoro autonomo, e sulle
retribuzioni mensili dei lavoratori dipendenti percepiti nell'occupazione principale. I
dati IT SILC sono disponibili per gli anni compresi tra il 2004 e il 2011 (inclusi).
Per i dipendenti, le retribuzioni e i redditi da lavoro differiscono non solo per l'arco
temporale a cui fanno riferimento (il mese le prime, l'anno i secondi), ma anche perché
le retribuzioni sono lorde mentre i redditi, che includono anche le componenti non
monetarie (es. benefit aziendali), sono espressi al netto delle imposte.
In letteratura sono stati prevalentemente utilizzati i redditi, anche perché più
frequentemente disponibili nelle banche dati a cui si è fatto ricorso. In queste analisi si è
provato a utilizzare entrambe le misure, che portano risultati simili, seppur con alcune
differenze.
Secondo le elaborazioni effettuate per i lavoratori dipendenti sulla base del reddito
orario netto11, il reddito mediano, in base al quale viene calcolata la soglia di povertà,
risulta pari a 9,5 euro all'ora nel 2011, ultimo anno disponibile dai microdati. In tal
modo, il reddito orario netto sotto il quale i lavoratori sono considerati working poor
(soglia di povertà) è pari a 6,2 euro: oltre 2 milioni 640 mila occupati dipendenti
risultavano percepire un reddito orario inferiore nel 2011, secondo quanto dichiarato
dagli stessi12, pari al 14,9 per cento degli occupati dipendenti.
Con la definizione alternativa, ovvero utilizzando come misura della remunerazione
oraria, il salario orario lordo, la mediana risulta più alta, pari a 10.5 euro all'ora nel
2011, e di conseguenza anche la soglia di povertà, pari a 6.9 euro all'ora nel 2011. In
base a tale soglia e a una distribuzione delle retribuzioni lievemente diversa da quella
dei redditi, il numero di lavoratori dipendenti a basso salario (working poor) risulta pari
a 2 milioni 75mila persone, pari all'11,7 per cento degli occupati dipendenti. Tra gli
autonomi senza dipendenti, invece, la misura della remunerazione che si è utilizzata è
11
Il reddito orario netto è stato ottenuto considerando le ore lavorate settimanalmente nell'occupazione
principale dal lavoratore e il numero di mesi di lavoro (considerando solo quelli come lavoratore
dipendente per i redditi da lavoro dipendente, e viceversa solo quelli come autonomo per i redditi da
lavoro autonomo). Per tutti i lavoratori, infine, è stato considerato un numero medio di settimane al mese
di 4,3 (pari a 52/12), non essendoci informazioni sul numero di settimane lavorate. Per il calcolo del
salario orario dalle retribuzioni mensili sono state fatte le stesse considerazioni circa ore lavorate e
settimane.
12
Il problema della sottodichiarazione dei redditi è di entità non trascurabile, soprattutto in certi contesti
(aree, settori), dove l'incidenza dell'economia sommersa è più elevata. A tal proposito, si veda il riquadro
Working poor e sommerso nelle pagine seguenti.
30
quella del reddito da lavoro autonomo orario, ovvero rapportato al numero di ore
lavorate nell'occupazione principale. Molti autonomi però dichiarano redditi talvolta
negativi (quando ad esempio hanno chiuso l'anno in perdita), o nulli; inoltre il problema
della sottodichiarazione è più diffuso tra gli autonomi. Per evitare un'eccessiva
influenza di questi fattori, il campione è stato ristretto solo a coloro che dichiarano un
reddito non nullo. Gli autonomi senza dipendenti con un reddito orario inferiore alla
soglia (pari a 4,8 euro all'ora, con una mediana di 7,2 euro all'ora) sono circa 756mila
nel 2011, pari al 15,9 per cento.
Tavola 1
Confronto tra le quantificazioni dei working poor
2011
soglia di
povertà (€
all'ora)
n. working poor
dipendenti
- reddito netto orario
- salario orario lordo
autonomi
6.2
6.9
4.8
2 640 664
2 075 121
756 335
incidenza
%
14.9
11.7
15.9
Elaborazioni su dati IT SILC Istat
Nel confronto con gli altri paesi europei si osserva come in Italia la quota di working
poor tra i lavoratori dipendenti risulta tutto sommato contenuta rispetto alla media
europea. Secondo i dati elaborati da Eurostat sulla base dell'indagine Structure of
Earnings Survey (SES) e relativi al 2010, il salario orario mediano lordo pagato nei
paesi dell'Unione Europea è di 11,9 euro, e per i paesi aderenti all'area euro 13,2 euro.
Rispetto a questi livelli, il salario orario mediano in Italia, pur allineato a quello
dell'Unione europea, risulta inferiore di circa il 10 per cento se confrontato con quello
dell'area euro (e del 23 per cento rispetto alla Germania). Per mettere nel giusto contesto
queste statistiche è necessario tenere presente che la distribuzione dei salari orari e la
soglia di basso salario influenzano la proporzione di lavoratori a basso salario: tanto
maggiore è il salario mediano e la dispersione dei salari, tanto più elevata è la quota di
working poor. Tale proporzione in Italia, nel 2010, era pari al 12,4 per cento sul totale
dei dipendenti, inferiore sia alla media dell'Ue (17 per cento), sia alla media dei paesi
dell'eurozona (14,8 per cento).
31
Tavola 2
Livelli retributivi e occupazione a basso salario in Europa
2010
Quota di
Basso
lavoratori
salario
Salario orario
a basso
(soglia, € lordo mediano (€
salario
all'ora)
all'ora)
(%)
EU-27
EA-17
BE
BG
CZ
DK
DE
EE
IE
ES
FR
IT
CY
LV
LT
LU
HU
MT
NL
AT
PL
PT
RO
SI
SK
FI
SE
UK
IS
NO
CH
HR
MK
TR
10.9
1.0
3.0
16.6
10.2
2.7
12.2
6.3
9.2
7.9
6.2
1.9
1.8
11.9
2.3
5.0
10.2
8.6
2.6
3.4
1.3
4.8
2.6
10.6
9.9
8.4
6.7
16.6
14.9
3.2
1.7
1.4
11.9
13.2
16.4
1.5
4.4
25.0
15.4
4.1
18.3
9.4
13.7
11.9
9.4
2.9
2.7
17.8
3.4
7.5
15.3
13.0
4.0
5.1
2.0
7.2
3.9
16.0
14.9
12.6
10.0
25.0
22.4
4.8
2.5
2.1
17.0
14.8
6.4
22.0
18.2
7.7
22.2
23.8
20.7
14.7
6.1
12.4
22.7
27.8
27.2
13.1
19.8
18.3
18.1
15.0
24.2
16.1
25.6
17.1
19.0
5.9
2.5
22.1
9.1
7.3
11.0
18.2
28.3
0.2
Dati Eurostat, SES 2010
Si nota anche come i dati elaborati da Eurostat indichino per l'Italia livelli più elevati sia
del salario mediano lordo (11,9 euro invece di 10,5 euro all'ora), sia della quota di
working poor (12,4 per cento, invece di 11,7), anche se quest'ultima è ovviamente una
conseguenza della maggior soglia di povertà. Le differenze sono in buona misura
spiegate dal fatto che l'indagine SES tende a sovrastimare le retribuzioni dal momento
32
che è ristretta alle imprese con almeno 10 dipendenti e che esclude alcuni settori, come
l'agricoltura e i servizi presso le famiglie, dove si concentrano i salari più bassi13.
Riquadro - Working poor e sommerso
Le quantificazioni dei lavoratori a basso salario effettuate sulla base di informazioni tratte da
indagini presso le famiglie e gli individui, ai quali viene richiesto di dichiarare il livello della
propria retribuzione e del proprio reddito, risentono di non trascurabili problemi di
sottodichiarazione. Gli intervistati tendono generalmente a dichiarare livelli retributivi e
reddituali in certa misura inferiori a quelli reali14. Seppure la metodologia d'indagine preveda la
possibilità di effettuare verifiche, ad esempio della coerenza tra dati netti e lordi utilizzando
modelli di microsimulazione e integrazione con dati campionari e amministrativi, il problema
della sottodichiarazione non è mai interamente eliminabile.
Sebbene tipicamente il problema tenda a pesare di più sulla parte superiore della distribuzione,
non è trascurabile l'impatto nemmeno sulla prima metà della distribuzione; tale considerazione è
legata alla diffusione dell'economia sommersa nel nostro paese (secondo l'Istat, il fatturato
sommerso rappresenterebbe tra il 16 e il 17 per cento dell'economia italiana, altre fonti, come
Schneider 2012, fissano tale livello anche al 25 per cento). Anche tra i lavoratori solo
parzialmente irregolari, molti tenderanno a sottodichiarare i propri livelli retributivi, nel timore
di sanzioni o verifiche, e questo si rifletterà sull'incidenza di working poor.
Naturalmente è molto difficile trovare numeri che corroborino queste ipotesi, date le difficoltà
di stima dell'economia sommersa. Esistono però degli indicatori della diffusione del sommerso;
da qualche tempo, infatti, l'Istat diffonde le stime di occupazione irregolare. Come evidenzia il
grafico 2 allegato, ci sono settori - come l'agricoltura, i servizi alle famiglie, ma anche i servizi
di informazione e comunicazioni - dove il tasso di irregolarità è superiore alla media
dell'economia, ovvero dove più di un occupato su dieci risulta non regolare. I settori a maggior
incidenza di irregolarità, dove c'è maggior sommerso, sono anche quelli dove è più alta la quota
di lavoratori a basso salario, ovvero sembra esistere una correlazione positiva tra irregolarità e
13
Inoltre, l'indagine SES è condotta presso le imprese (e quindi senza parte dei problemi di
sottodichiarazione delle retribuzioni da parte degli individui che si riscontrano nell'indagine SILC).
14
Benché le informazioni raccolte per fini statistici siano coperte da confidenzialità (il segreto statistico),
ovvero dall'impegno a non diffonderle se non in forma aggregata o in forma tale che non sia possibile
risalire alla singola persona che ha fornito l'informazione e a non utilizzarle per fini che non siano
statistici (ad esempio, per accertamenti fiscali).
33
diffusione dei working poor, che riflette la maggior probabilità di sottostima per i redditi e le
retribuzioni dei lavoratori occupati in quei settori15.
Grafico 2
Basso salario e sommerso
50
agricoltura
45
% di working poor
40
35
alloggio e
ristorazione
30
att.artistiche,
servizi famiglie
25
20
15
10
5
0
0
10
20
30
40
tasso di irregolarità (% di occupati irregolari)
Fattori che spiegano l'esistenza di working poor
L’insorgere del fenomeno dei working poor è imputabile a diverse cause, legate
all’evoluzione del mercato del lavoro oppure a cambiamenti istituzionali. Tra i fattori di
mercato c’è il progresso tecnico asimmetrico, ovvero quei cambiamenti tecnologici
della struttura produttiva che hanno favorito la domanda di lavoratori qualificati rispetto
a quelli meno qualificati (il cosiddetto Skill biased technological change); i processi
delocalizzazione produttiva, che spostando le fasi della produzione a maggiore intensità
di lavoro nei paesi emergenti, caratterizzati da bassi costi del lavoro, intensificano gli
effetti sulla domanda relativa dei fattori produttivi, e in particolare della domanda di
lavoro meno qualificato, comprimendone la crescita salariale; i cambiamenti nella
struttura produttiva, ad esempio con la progressiva terziarizzazione dell’economia; i
15
Non è da escludere nemmeno un minor potere contrattuale per lavoratori occupati in maniera non
regolare, che quindi si trovano a percepire salari molto bassi.
34
cambiamenti demografici, come l’invecchiamento della popolazione e i flussi migratori,
che esercitano una pressione crescente sulle retribuzioni dei lavoratori meno qualificati.
Questi fattori si sono tradotti in una progressiva polarizzazione della distribuzione
dell’occupazione tra “buoni” lavori e “cattivi” posti di lavoro, e di conseguenza della
distribuzione dei salari. Studi di confronto internazionale evidenziano come l’incidenza
dei bassi salari è più elevata tra i lavoratori meno qualificati, e gli occupati in
professioni manuali.
Tra gli aspetti istituzionali rientrano le riforme di flessibilizzazione del mercato del
lavoro, che spesso hanno determinato una riduzione delle tutele dei lavoratori,
soprattutto per alcune tipologie contrattuali (rapporti di lavoro a tempo determinato,
collaborazioni e forme di parasubordinazione), e in alcuni casi anche un peggioramento
della qualità delle posizioni lavorative; la progressiva erosione del potere contrattuale
dei sindacati e la maggior difficoltà del sindacato nel coprire i lavoratori meno stabili,
che ha portato ad una minor copertura dei contratti collettivi nazionali; questi fattori
possono aver avuto ripercussioni negative sulle retribuzioni soprattutto sulla coda
sinistra della distribuzione dei salari. Nei paesi dove il tasso di sindacalizzazione è più
elevato e maggiore è la copertura della contrattazione collettiva, si osservano minimi
salariali (es. minimi contrattuali) e una minore dispersione delle retribuzioni, in
particolare nella metà inferiore della distribuzione.
Ai fattori che tradizionalmente vengono presi in considerazione per spiegare l’esistenza
e la persistenza dei working poor, negli ultimi anni si sono aggiunti gli effetti negativi
della recente crisi su crescita e occupazione.
Evoluzione temporale: prima e dopo la crisi
Working poor sempre più diffusi
La crisi ha inciso profondamente sulla povertà degli individui, portando ad un generale
arretramento dei salari e dei redditi, innalzando il rischio di disoccupazione e di
inattività ma anche il rischio di povertà per gli occupati, a causa dei bassi salari.
Finora si è discusso di definizioni di working poor e della loro quantificazione nel
contesto italiano: ora si proverà a definire un quadro di evoluzione temporale, per capire
se e come la crisi ha avuto effetto su questa dimensione di povertà.
35
Sebbene con risultati lievemente differenti, a seconda della definizione operativa di
basso salario scelta (salario orario lordo o reddito netto orario), c’è concordanza
nell’indicare un incremento della proporzione di lavoratori working poor tra i lavoratori
dipendenti. Cambia solo la tempistica: secondo le elaborazioni sulla base del reddito
netto orario, la quota di lavoratori a basso reddito è aumentata negli anni della crisi. Nel
triennio 2009-2011 la quota è rimasta sostanzialmente stabile attorno al 15 per cento,
dopo essersi aggirata attorno al 13 per cento nel quinquennio precedente. In valori
assoluti, si è passati dai 2 milioni 287 mila lavoratori a basso reddito del 2008 a oltre 2
milioni e 640 mila, con un incremento cumulato di 353 mila persone (a fronte di una
riduzione dell’occupazione dipendente).
Secondo le quantificazioni che prendono a riferimento il salario orario lordo, invece,
l’incremento si sarebbe concentrato nel biennio 2010-2011, evidenziando inoltre
un’inversione di tendenza nell’evoluzione dell’incidenza di working poor, che nel
periodo pre crisi si era gradualmente ridotta.
Grafico 3
Working poor tra i lavoratori dipendenti
16%
14%
12%
10%
8%
6%
4%
2%
0%
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
% di lavoratori dipendenti con reddito da lavoro dipendente orario
netto inferiore ai 2/3 del reddito orario mediano.
Elaborazioni su dati IT-SILC Istat
36
Grafico 4
Working poor tra i lavoratori dipendenti
14%
12%
10%
8%
6%
4%
2%
0%
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
% di lavoratori dipendenti con salario orario lordo inferiore ai 2/3 del
salario orario mediano.
Elaborazioni su dati IT-SILC Istat
Le misure fino a qui utilizzate sono di incidenza, o di prevalenza della povertà: in altre
parole, si conta il numero di persone che risultano povere e le si paragona con il totale
della popolazione (head count ratio); si ha così un’indicazione della diffusione della sua
povertà, ma non della sua gravità. Un altro indicatore è rappresentato dal poverty gap
ratio, che misura la distanza media dalla soglia di povertà e segnala il grado di intensità
della povertà, e che si può interpretare anche come incremento del salario o del reddito
necessario per portare l'individuo sopra la soglia di povertà. Anche questo indicatore
conferma il deterioramento delle condizioni e del crescente impoverimento anche per
gli occupati.
Come si vede dal grafico 5 allegato, non solo è aumentata la quota di lavoratori con
salario al di sotto della soglia di povertà, ma le loro condizioni si sono ulteriormente
deteriorate; la crisi ha comportato che in media la distanza dalla soglia di povertà è
aumentata (dal 24 per cento pre crisi a quasi il 33 per cento). Se fino al 2008 era
sufficiente in media un incremento di 1,3 euro del reddito orario per colmare la distanza
dalla soglia, dal 2009 l’incremento necessario per consentire di uscire dalla condizione
di working poor è salito a circa 2 euro all’ora netti.
37
Grafico 5
Intensità della povertà
40%
35%
30%
25%
20%
15%
10%
5%
0%
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
poverty gap ratio per i lavoratori dipendenti (distanza media dalla
soglia di povertà). Elaborazioni su dati IT SILC Istat
Anche tra i lavoratori autonomi (senza dipendenti) è cresciuta la diffusione di occupati a
bassa remunerazione: tra il 2010 e il 2011 si è osservato un incremento di oltre due
punti percentuali (dal 13,8 al 15,9 per cento) della quota di working poor, segno che le
difficoltà non risparmiano nemmeno gli autonomi.
La riduzione delle ore e l’evoluzione dei working poor
Nelle definizioni di working poor si è fatto finora riferimento a misure orarie del reddito
o della retribuzione: questo per evitare che il diverso numero di ore lavorate potesse
influenzare eccessivamente le quantificazioni, ed in particolare le differenze tra
lavoratori a tempo parziale e a tempo pieno. D’altra parte, si è più volte sottolineato
come l’andamento delle ore lavorate abbia avuto un impatto non trascurabile sulle
dinamiche e sulla distribuzione di retribuzioni e redditi, in particolare per effetto del
crescente ricorso al part time involontario e altre forme di riduzione degli orari di lavoro
(ad esempio, con la Cassa Integrazione).
Quantificazioni alternative dell’incidenza di working poor fanno riferimento ai livelli
reddituali mensili, ovvero senza correggere per il numero di ore lavorate, ma
38
distinguendo solo tra occupati a tempo pieno e part time.
In tale maniera, la
quantificazione dei working poor risente della diversa evoluzione osservata dalle ore
lavorate lungo la distribuzione dei redditi.
Secondo queste quantificazioni, nel 2011 i lavoratori a basso reddito erano il 13,9 per
cento tra i dipendenti a tempo pieno, e il 14,3 per cento invece tra i part time.
Apparentemente, in termini di incidenza, non sembrerebbero esserci grosse differenze:
se però si osserva l’evoluzione temporale, il quadro appare un po’ più vario. Tra i
lavoratori a tempo pieno, difatti, la quota di working poor è aumentata con la crisi, di
circa tre punti percentuali, e da allora rimane sostanzialmente stabile. Tra i part time,
invece, si è osservato un forte incremento dell’incidenza nei primi anni della crisi (nel
2009, quasi un dipendente a tempo parziale su cinque risultava essere working poor, con
una soglia calcolata sull’insieme ristretto dei part time), per poi ridursi dal 2011.
Grafico 6
Incidenza dei working poor tra i lavoratori
dipendenti a tempo pieno
20%
18%
16%
14%
12%
10%
8%
6%
4%
2%
0%
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
% di lavoratori dipendenti full time con reddito da lavoro dipendente
netto inferiore ai 2/3 del reddito mediano netto full time. Elaborazioni
su dati IT SILC Istat
39
Grafico 7
Incidenza dei working poor tra i lavoratori
dipendenti a tempo parziale
20%
18%
16%
14%
12%
10%
8%
6%
4%
2%
0%
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
% di lavoratori dipendenti part time con reddito da lavoro
dipendente netto inferiore ai 2/3 del reddito mediano netto part time.
Elaborazioni su dai IT SILC Istat
Tali andamenti vanno letti alla luce dell’evoluzione delle ore lavorate. Tra chi è rimasto
lavoratore a tempo pieno, la riduzione degli orari è stata effettuata prevalentemente via
ricorso alla Cassa Integrazione: questo ha ridotto i redditi netti, portando ad un aumento
del numero di lavoratori a basso reddito (che hanno superato i 2 milioni, quando fino al
2008 erano poco meno di 1 milione e 700 mila). Tra i lavoratori part time, invece, è
progressivamente cresciuta la quota di involontari: è aumentato il numero assoluto di
working poor, e si è spostata tutta la distribuzione. Sebbene nel 2011 i dipendenti a
tempo parziale a basso reddito fossero il 14,3 per cento del totale dei part time, un
livello non molto dissimile da quello toccato prima della crisi, il loro numero
complessivo è salito oltre le 410 mila persone, con un aumento complessivo del 22 per
cento rispetto al loro numero nel 2008.
La povertà tra gli occupati è aumentata
Finora la condizione di working poor è stata definita in riferimento ad una soglia
relativa, ovvero calcolata rispetto alla mediana (e quindi, alla distribuzione) dei redditi o
delle retribuzioni osservata in un dato anno.
40
Come è stato evidenziato nel capitolo precedente, però, con la crisi si è osservato un
generale arretramento dei salari reali e un cambiamento nelle distribuzioni. Pertanto, se
fosse valutata in termini reali, ovvero tenendo conto anche dell'inflazione, la linea di
povertà come il resto dei salari reali risulterebbe anch’essa arretrata, il che porterebbe a
sottostimare la dimensione del fenomeno working poor. Un approccio alternativo, che
consente di tenere conto del cambiamento nei livelli assoluti dei salari, è quello che
fissa la soglia di povertà nell’anno di partenza (in questo caso, nel 2004) e negli anni
successivi la aggiorna per il tasso di inflazione. Con questa soglia “assoluta”16 non si
considerano i cambiamenti nella distribuzione che sono invece impliciti nella soglia
relativa.
Grafico 8
Linea di povertà - salario orario lordo
soglia assoluta (2004 rivalutato)
soglia relativa
7.4
7.2
7.0
6.8
6.6
6.4
6.2
6.0
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
euro di retribuzione lorda per ora lavorata. Soglie di povertà.
Elaborazioni su dati IT SILC Istat
Poiché le retribuzioni lorde tra il 2004 e il 2011 sono cresciute meno dell’inflazione
(sulla base dei dati elementari), la soglia “assoluta” calcolata rivalutando la soglia del
2004 risulta superiore a quella relativa, calcolata con riferimento alle mediane di
16
Va specificato che di fatto si tratta di una soglia relativa, dato che almeno nell’anno di partenza è
calcolata come 2/3 della mediana della distribuzione, e non invece fissando un livello salariale di
sussistenza (come per le soglie assolute in senso stretto).
41
ciascun anno. Ne consegue che il numero dei working poor è ancora maggiore se si
considera la soglia “assoluta”, avvicinandosi a quota 2 milioni e 600mila (calcolati
utilizzando il salario orario lordo) nel 2011, pari al 14,7 per cento degli occupati
dipendenti.
Grafico 9
Incidenza dei working poor tra i dipendenti
con soglia assoluta (2004 rivalutata)
con soglia relativa
16%
15%
14%
13%
12%
11%
10%
9%
8%
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
% di dipendenti con salario orario inferiore alla soglia di povertà Elaborazioni su dati IT SILC Istat, utilizzando le retribuzioni lorde
Bassi salari e caratteristiche socio-economiche
Tra i dipendenti, rischi maggiori per giovani, stranieri e meno istruiti
Il rischio di essere un lavoratore a basso salario (ovvero, un working poor) non è
ovviamente lo stesso per tutti. Se nel complesso, tale rischio nel 2011 risultava pari a
14,9 per cento in media per i lavoratori dipendenti (prendendo come misura di
riferimento il reddito netto orario) e 15,9 per cento per gli autonomi senza dipendenti,
per alcune categorie socio-economiche il rischio è decisamente più alto. In alcuni casi, il
maggior rischio dipende da caratteristiche dell'individuo, che possono comportare
l'essere meno produttivo o meno domandato sul mercato (ad esempio, per i più giovani
o i meno istruiti). Ma il rischio di essere un lavoratore a basso salario sale anche per
42
alcuni tipi di occupazioni (professioni, settori, dimensione aziendale), le cui
caratteristiche possono influire sulla produttività media e quindi sui livelli salariali
pagati. Non si possono nemmeno escludere forme di discriminazione salariale17.
Naturalmente, trattandosi di semplici frequenze, il rischio di povertà (non condizionato)
è affetto da numerosi fattori di composizione (ad esempio, età media, livello di
istruzione, settore di occupazione) che possono incidere diversamente tra le categorie
considerate.
Per quanto riguarda le caratteristiche individuali, il rischio di essere un lavoratore a
bassa remunerazione (misurato dalla maggior incidenza di working poor all'interno
delle singole categorie18) è maggiore per i lavoratori dipendenti più giovani, soprattutto
per coloro che non superano i 30 anni. Questo risultato non sorprende, se si considera
che i giovani alle prime esperienze sono spesso meno produttivi; i salari di ingresso
sono molto bassi e lo sono soprattutto per quelle forme contrattuali che interessano
prevalentemente i più giovani (come l'apprendistato, il lavoro a tempo determinato e i
contratti di formazione); inoltre le occupazioni caratterizzate da remunerazioni più
modeste sono spesso (ma non sempre) dei "gradini di ingresso" per poter entrare in
occupazioni più stabili e meglio retribuite, ed è quindi naturale che siano più diffuse tra
i più giovani. Ovviamente quando la condizione di lavoratore a bassa retribuzione
diventa persistenze, la situazione diventa preoccupante, perché da gradino d'ingresso la
condizione di working poor potrebbe rivelarsi invece una sorta di trappola della povertà.
Sebbene valutazioni di questo genere necessitino di rilevazioni su anni differenti,
l'osservare come non solo i più giovani, ma anche i giovani adulti (ovvero per la classe
d'età 30-34 anni, quando ci si potrebbe attendere una graduale stabilizzazione dei
percorsi professionali) siano caratterizzati da un maggior rischio di essere working poor
è un elemento che desta una certa preoccupazione. La letteratura empirica ha mostrato
che i bassi salari per i giovani spesso rappresentano trappole della povertà, quando
posizioni precarie a basso salario si alternano a periodi di disoccupazione e a nuovi posti
di lavoro precari, senza prospettive di progressione salariale (Stewart e Swaffield, 1999;
Cappellari e Jenkins, 2004).
17
Per verificare l'esistenza di eventuali forme di discriminazione salariale sarebbe necessaria un'analisi
molto più approfondita, che tenga conto dell'eterogeneità individuale. Questa esula però dagli obiettivi del
presente lavoro.
18
La soglia di povertà è la stessa per tutti i lavoratori, con la sola distinzione tra dipendenti e autonomi
senza dipendenti utilizzata in precedenza.
43
Tavola 3 A
I caratteri della working poverty
2011
Tra i dipendenti, il rischio di essere un working poor è più alto per:
quota di working poor
rischio medio:
14.9%
classe di età
16-24 anni
25-29 anni
30-34 anni
35-39 anni
40-54 anni
55-64 anni
41.4%
25.2%
16.1%
13.8%
10.1%
9.7%
cittadinanza
italiano
straniero UE
straniero non UE
13.4%
31.8%
27.0%
genere
uomini
donne
13.8%
16.4%
titolo di studio
licenza primaria o media
diploma superiore
laurea o superiore
20.3%
14.1%
7.2%
numero di addetti che lavorano nella stessa impresa
1-10 persone
11-15 persone
16-19 persone
20-49 persone
50 persone e più
non so, ma fino a 10
non so ma più di 10
26.9%
16.4%
16.0%
9.6%
6.0%
31.8%
15.3%
Elaborazioni su dati IT SILC Istat
Anche gli stranieri soffrono un maggior rischio di essere working poor: questo riflette le
caratteristiche dell'immigrazione nel nostro paese, concentrata in occupazioni poco
professionalizzate e specializzate e in settori dove prevalgono livelli retributivi più bassi
della media. D'altra parte gli stranieri, soprattutto se non comunitari, tendono a
evidenziare salari di riserva molto più bassi degli italiani: lunghi periodi di
disoccupazione possono difatti mettere a repentaglio la regolarità della permanenza
(perché il permesso di soggiorno non sia revocato è necessario iscriversi alle liste dei
centri per l'impiego, e l'assenza di un'occupazione per più di 6 mesi può essere motivo
44
di mancato rinnovo di un permesso scaduto); inoltre, gli stranieri tendono ad avere
minori coperture da risorse sia familiari che da risparmio individuale.
Un'altra categoria caratterizzata da un rischio decisamente più elevato di essere working
poor è quella dei lavoratori con un basso livello d’istruzione, misurato dal titolo di
studio massimo conseguito. Lavoratori meno istruiti tendono ad avere minore
produttività, anche perché spesso impiegati in professioni poco qualificate, e di
conseguenza sono meno retribuiti: più di uno su cinque rientra nella categoria dei
lavoratori a bassa retribuzione.
Confrontando l'incidenza dei working poor tra uomini e donne si nota come, anche
considerando il reddito orario che consente di controllare per l'effetto della maggior
diffusione del part time tra le donne, la percentuale di donne occupate a basso salario sia
più
elevata;
questo
potrebbe
risentire
della
tendenza
a
una
segregazione
dell'occupazione femminile in settori e in professioni meno produttivi e remunerati.
Per quanto riguarda invece le caratteristiche dell'occupazione, i settori dove si osserva
una maggiore incidenza di lavoratori working poor sono quei settori dove c'è maggior
intensità di lavoro poco qualificato e con più modesto valore aggiunto per addetto
(produttività); tra questi l'agricoltura, dove quasi un occupato dipendente su due
percepisce un reddito orario inferiore alla soglia, i servizi sociali e alle persone
(all'interno del quale sono classificati i servizi presso le famiglie di collaboratori
domestici e badanti), e i servizi turistici, di alloggio e ristorazione.
Anche l'occupazione nelle piccole imprese è spesso associata a livelli retributivi più
contenuti e a una maggiore incidenza di lavoratori a bassa remunerazione, e così la
posizione di operario o apprendista. Non stupisce, alla luce di quanto già evidenziato in
precedenza in riferimento all'incidenza per età, che le forme contrattuali meno stabili
siano caratterizzate da una maggior incidenza di lavoratori a basso reddito: la maggior
precarietà non è solo in termini di durata del contratto di lavoro ma anche di livello
reddituale. Nella misura in cui i contratti a tempo determinato si trasformano i contratti
a durata indeterminata, i bassi salari dovrebbero rappresentare solo una fase transitoria
della carriera degli individui, ma spesso questa eventualità non si osserva.
Tra le professioni, non sorprende constatare come siano quelle meno qualificate a
registrare incidenze elevate di working poor.
45
Tavola 3B
I caratteri della working poverty
2011
Tra i dipendenti, il rischio di essere un working poor è più alto per:
quota di working poor
settore di occupazione
agricoltura, silvicoltura, pesca
45.4%
industria in s.s.
12.4%
costruzioni
21.5%
commercio
18.0%
trasporto e magazzinaggio
13.8%
alloggio e ristorazione
32.0%
informazioni e comunicazioni
5.6%
att.finanziarie e assicurative
4.2%
att.immobiliari, professionali, noleggio
17.3%
PA
5.7%
istruzione
6.0%
sanità e assistenza sociale
8.9%
att.artistiche, sociali, altri servizi
33.0%
tipo di contratto
t.indeterminato
a termine
di cui:
-formazione lavoro/ inserimento lavorativo
-apprendistato
-lavoro interinale o somministrazione
-tempo determinato
- altro tipo di contratto
posizione lavorativa
dirigente
quadro
impiegato
operaio
apprendista
lavoratore presso il proprio domicilio
Elaborazioni su dati IT SILC Istat
46
11.5%
34.8%
39.5%
33.7%
18.8%
34.2%
52.0%
1.9%
0.9%
9.1%
22.1%
39.7%
2.6%
Grafico 10
Incidenza working poor
Operatori ecologici e altri lavoratori non qualificati
Venditori ambulanti
Assistenti nella preparazione del cibo
Lavoratori non qualificati nella manifattura, nell'estrazione
di minerali, nei trasporti e nelle costruzioni
Braccianti e lavoratori non qualificati nell'agricoltura, nella
cura del verde e nella pesca
Addetti alle pulizie e collaboratori familiari
Conduttori di veicoli, di macchinari mobili e di sollevamento
Operai specializzati nell'alimentare, lavorazione del legno,
tessile e altri artigiani
Elettricisti ed elettrotecnici
Artigiani qualificati e tipografi
Operai specializzati nelle costruzioni (eccetto elettricisti)
Lavoratori commerciali specializzati nella silvicoltura, caccia
e pesca
Agricoltori e operai specializzati nell'agricoltura
Personale di cura
Commessi e venditori
Personale di servizi alle persone
0
10
20
30
40
50
60
70
% di lavoratori con reddito netto orario inferiore alla soglia di povertà (2/3 del salario orario mediano).
Elaborazioni su dati IT SILC Istat
47
Tra gli autonomi differenze più contenute
Replicando lo stesso tipo di analisi nel gruppo degli autonomi (senza dipendenti), si
osserva innanzi tutto come le differenze tra le varie categorie nei rischi di essere
working poor siano più smussate rispetto a quanto osservato tra i lavoratori dipendenti:
questo anche perché si sta esaminando un aggregato di dimensioni minori, e per certi
versi molto meno eterogeneo.
Le categorie a maggior rischio di essere a bassa remunerazione sono simili a quelle già
evidenziate per i dipendenti: gli stranieri, che soffrono di un rischio più alto di quasi il
60 per cento di essere working poor rispetto agli italiani, le donne, i meno istruiti, e i più
giovani. In quest'ultimo caso va rilevato come l'incidenza di lavoratori a bassa
remunerazione sia elevata anche per classi di età non propriamente giovani secondo le
definizioni classiche, dato che il rischio resta elevato anche per coloro che hanno tra i 30
e i 40 anni.
Sono soprattutto i lavoratori in proprio ad essere a maggior rischio di povertà (quasi uno
su quattro ha un reddito netto orario inferiore alla soglia, che è pari a 4,8 euro all'ora nel
2011), ma i liberi professionisti - tra i quali incidono molto le partite Iva
parasubordinate - non ne sono esenti.
Considerando che l'analisi è ristretta ai soli autonomi senza dipendenti, non stupisce che
la maggior incidenza di working poor si osservi per chi lavora per imprese di ridotta
dimensione (fino a 10 addetti): in molti casi si tratterà di ditte individuali, ma non si
possono escludere casi di autonomi parasubordinati che lavorano per imprese con più
un addetto (es. studi professionali). D'altra parte, le osservazioni non sono nulle,
sebbene l'incidenza di working poor sia molto più contenuta, per chi lavora presso
imprese di maggiori dimensioni, segno che parte di questi autonomi senza dipendenti di
fatto lavora per un unico committente. La mono-committenza è uno dei criteri utilizzati
per individuare le forme di parasubordinazione (insieme alla dipendenza organizzativa,
ovvero i vincoli di luogo nella prestazione, e alla natura non temporanea della
prestazione). In conclusione i dati segnalano che oltre ai lavoratori in proprio, molti
parsubordinati sono a rischio di povertà.
48
Tavola 4
I caratteri della working poverty
2011
Tra gli autonomi, il rischio di essere un working poor è più alto per:
quota di working poor
rischio medio:
15.9%
classe di età
16-24 anni
25-29 anni
30-34 anni
35-39 anni
40-54 anni
55-64 anni
18.8%
16.4%
17.6%
16.9%
15.1%
14.8%
cittadinanza
italiano
straniero UE
straniero non UE
15.4%
26.4%
21.8%
genere
uomini
donne
15.0%
18.0%
titolo di studio
licenza primaria o media
diploma superiore
laurea o superiore
18.7%
14.9%
12.0%
numero di addetti che lavorano nella stessa impresa
1-10 persone
11-15 persone
16-19 persone
20-49 persone
50 persone e più
50 persone e più
17.6%
4.9%
4.0%
5.4%
8.4%
8.4%
Elaborazioni su dati IT SILC Istat
Per chi è aumentato il rischio di essere un lavoratore a bassa remunerazione?
I paragrafi precedenti hanno delineato le differenze nell'incidenza dei working poor tra
diverse categorie, individuando quelle a maggior rischio di povertà. In molti casi si
tratta di differenze riconducibili a caratteristiche strutturali, come la minore produttività
legata al capitale umano e all'esperienza. Come è stato più volte ricordato, però, gli
ultimi anni sono caratterizzati da una crisi di entità e durata eccezionale, che si è tradotta
49
in un generale impoverimento, ma che ha avuto anche effetti differenziati, portando ad
esempio ad un aumento delle disuguaglianze e colpendo soprattutto alcuni settori e
categorie. Non stupisce pertanto osservare che l'aumento sostanzialmente generalizzato
del rischio di essere un working poor non si sia distribuito in maniera uguale. In altre
parole, ci sono dei perdenti a causa della crisi, anche se in termini relativi non è detto
che si tratti delle stesse categorie a maggior rischio di povertà.
Se infatti si guardano le categorie che hanno registrato tra il 2007 e il 2011 (ovvero, con
il sopraggiungere della crisi) gli incrementi maggiori del rischio di essere working poor,
si osserva come in molti casi si tratta di categorie favorite in senso relativo ma che con
la crisi si trovano ad essere esposte ai rischi di povertà.
È il caso dei laureati, per i quali l'incidenza di lavoratori a bassa remunerazione è
raddoppiata tra prima e dopo la crisi, benché resti decisamente inferiore rispetto a quella
dei lavoratori con livelli di istruzione inferiori (soprattutto, per coloro che hanno al
massimo la licenza media inferiore). La laurea protegge, ma meno che in passato, dai
rischi. Altre categorie che registrano maggiori incrementi del rischio di risultare
working poor, pur risultando relativamente favorite, sono gli uomini, gli italiani, chi è
inquadrato come impiegato, gli occupati nelle grandi imprese. Ancora una volta va
sottolineato che per queste categorie si osserva un peggioramento più marcato, ma
rispetto alle altre categorie con cui si confrontano (es. le donne, gli stranieri, gli occupati
nelle piccole imprese, gli operai) sono ancora categorie avvantaggiate, con un minor
rischio di povertà.
In altri casi, invece, a peggiorare particolarmente la propria situazione sono categorie
già svantaggiate, caratterizzate da incidenze elevate di working poor: ad esempio, per i
lavoratori a termine o i giovani (categorie che spesso si sovrappongono), la situazione
nel periodo di crisi appare decisamente deteriorata, più di quanto fosse prima della crisi.
50
Tavola 5
Per chi è aumentato maggiormente il rischio
di essere working poor?
Tra i dipendenti
pre crisi
(2007)
post crisi
(2011)
classe di età
16-24 anni
25-29 anni
30-34 anni
35-39 anni
40-54 anni
55-64 anni
36.8%
21.0%
12.4%
12.8%
9.3%
8.7%
41.4%
25.2%
16.1%
13.8%
10.1%
9.7%
cittadinanza
italiano
straniero
12.6%
29.7%
13.4%
28.6%
genere
uomini
donne
12.4%
15.8%
13.8%
16.4%
titolo di studio
licenza primaria o media
diploma superiore
laurea o superiore
20.4%
12.2%
3.7%
20.3%
14.1%
7.2%
numero di addetti che lavorano nella stessa impresa
1-10 persone
24.6%
11-15 persone
16.5%
16-19 persone
13.3%
20-49 persone
9.7%
50 persone e più
4.5%
non so, ma fino a 10
26.7%
non so ma più di 10
15.5%
26.9%
16.4%
16.0%
9.6%
6.0%
31.8%
15.3%
tipo di contratto
t.indeterminato
a termine
10.5%
31.2%
11.5%
34.8%
posizione lavorativa
dirigente
quadro
impiegato
operaio
apprendista
lavoratore presso il proprio domicilio
1.3%
1.3%
6.7%
21.3%
51.5%
23.3%
1.9%
0.9%
9.1%
22.1%
39.7%
2.6%
Elaborazioni su dati IT SILC Istat
51
Tavola 6
Per chi è aumentato maggiormente il rischio
di essere working poor?
Tra gli autonomi
pre crisi
(2007)
post crisi
(2011)
classe di età
16-24 anni
25-29 anni
30-34 anni
35-39 anni
40-54 anni
55-64 anni
14.5%
22.8%
15.0%
13.7%
14.3%
12.6%
18.8%
16.4%
17.6%
16.9%
15.1%
14.8%
cittadinanza
italiano
straniero
14.9%
11.2%
15.4%
23.3%
genere
uomini
donne
13.5%
17.6%
15.0%
18.0%
titolo di studio
licenza primaria o media
diploma superiore
laurea o superiore
18.9%
13.3%
6.2%
18.7%
14.9%
12.0%
numero di addetti che lavorano nella stessa impresa
1-10 persone
16.0%
11-15 persone
3.8%
16-19 persone
5.7%
20-49 persone
4.0%
50 persone e più
4.4%
17.6%
4.9%
4.0%
5.4%
8.4%
Elaborazioni su dati IT SILC Istat
Tra gli autonomi, gli incrementi maggiori nel rischio di essere lavoratori a bassa
remunerazione si rilevano, oltre che per i giovanissimi (che però sono pochi),
soprattutto per i trentenni. Come osservato già per i dipendenti, inoltre, sono gli uomini
e i laureati che registrano gli incrementi maggiori del rischio, pur restano relativamente
avvantaggiati rispetto a donne e persone con titoli di studio inferiori. Si tratta
prevalentemente di liberi professionisti (per i quali l'incidenza di lavoratori a basso
salario è raddoppiata rispetto alla situazione pre crisi), all'inizio della carriera, che
lavorano in proprio o per piccolissime imprese (come partite Iva parasubordinate).
52
Mobilità salariale e bassi salari: gradino di ingresso o trappola della povertà?
Working poor: situazione transitoria o permanente?
La condizione di working poor può essere temporanea, di passaggio, oppure
caratterizzata da una maggiore persistenza nel tempo. Se la situazione di bassa
remunerazione persiste nel tempo si assiste ad una sorta di trappola, che può portare
alcuni individui in condizioni permanenti di povertà, con una stratificazione sociale ed
economica della società molto intensa, ponendo con urgenza la questione di come
consentire alle persone di garantirsi livelli adeguati di reddito da una parte, e di sfuggire
a tale trappola dall'altra.
Una bassa remunerazione può rappresentare un gradino di ingresso per chi entra nel
mercato del lavoro: la transizione dalla scuola al lavoro rappresenta tipicamente un
momento di difficoltà per i giovani, che non hanno esperienze né contatti, e che quando
trovano un'occupazione è solitamente a basso salario, anche perché talvolta sono
contemplati interventi formativi che in una certa misura vengono "scambiati" con il
salario. Tuttavia, come accennato in precedenza, spesso i bassi salari per giovani
rappresentano non tanto dei gradini di ingresso quanto una trappola della povertà,
quando periodi di occupazione in posizioni, spesso precarie, a bassa remunerazione si
alternano a periodi di disoccupazione, per accedere poi a nuovi posti di lavoro precari
senza prospettive di progressione salariale. L'aver avuto lunghi periodi di
disoccupazione, inframmezzati solo da impieghi a bassa retribuzione, può difatti
comportare uno stigma sul mercato del lavoro, se tale condizione è vista come un
segnale di bassa produttività: il mercato del lavoro è difatti caratterizzato da
informazione incompleta, e quindi i datori di lavoro nelle loro decisioni di assunzione si
basano anche su alcuni segnali, come il livello di istruzione o le esperienze passate, per
desumere la potenziale produttività del candidato.
Una maniera per valutare se la permanenza nella condizione di working poor è tra i più
probabili esiti, è il ricorso alle transizioni che analizzano la dinamica tra uno stato e
l'altro nel corso del tempo. L'analisi dinamica richiede dati particolari, in modo che gli
53
individui siano seguiti nel corso del tempo19. Per consentire tale tipo di analisi sono stati
ricostruiti dataset longitudinali, per effettuare confronti annuali20. I confronti sono stati
fatti tra anni consecutivi, per evitare di perdere troppe osservazioni scegliendo intervalli
più ampi: c'è però da sottolineare che, dato che l'unità di riferimento per la rilevazione
sia la famiglia, da un anno all'altro la sua composizione si può modificare, con l'ingresso
e l'uscita di nuovi membri21.
Permanenza bassa, ma elevata frequenza di passaggi all'inattività
In generale, l'analisi delle matrici di transizione (sulla popolazione in età lavorativa)
suggerisce come la permanenza nello status di lavoratore a bassa retribuzione sia tutto
sommato limitata: da un anno all'altro meno di un lavoratore a bassa remunerazione su
dieci resta tale. Più della metà esce dallo stato di working poor, passando sopra la soglia
di povertà. Tuttavia, una quota non trascurabile dei lavoratori a basso salario (circa il 38
per cento), però, da un anno all'altro esce dall'occupazione e diventa disoccupato oppure
esce proprio dal mercato del lavoro, passando nell'inattività22. Gli esiti più probabili per
chi è lavoratore a basso salario sono dunque il passaggio sopra la soglia ma anche
l'uscita dal mercato del lavoro: due esiti totalmente opposti, soprattutto se si considera
che il passaggio all'inattività nasconde talvolta il fenomeno dello scoraggiamento.
Tra i lavoratori che risultano occupati in entrambi gli anni non sono infrequenti i
passaggi sopra e sotto la soglia di povertà: le transizioni sopra e sotto la soglia (ovvero,
l'ingresso o l'uscita dalla condizione di working poor) sono più frequenti della
19
I database finora utilizzati erano di tipo cross-section, nei quali ogni anno si ha un campione
rappresentativo della popolazione. La rilevazione, però, prevede che gli individui con almeno 16 anni
(membri delle famiglie campionate in IT SILC) siano seguiti per più anni, secondo uno schema di
rotazione. In tal maniera si può ricostruire, partendo dai dati trasversali, un dataset longitudinale.
20
I dataset ricostruiti contengono anche l'informazione circa la condizione di working poor, per valutare i
passaggi da e verso tale status. La condizione di working poor è identificata secondo le definizioni
applicate in precedenza, ovvero con soglie di povertà relative utilizzando il reddito netto orario da lavoro
dipendente o da lavoro autonomo (per gli autonomi senza dipendenti). Le soglie sono state calcolate sulla
base delle distribuzioni trasversali (Cappellari, 2002).
21
L'ingresso o l'uscita prima dei 16 anni (es. nascite) non modificano il dataset utilizzato a questi fini,
mentre sono rilevanti dopo i 16 anni, risultando in osservazioni mancanti (perché non presenti in entrambi
gli anni).
22
In parte, tali risultati dipendono anche dal campione, che tende ad essere sbilanciato a favore delle
classi di età più anziane, per le quali è più probabile l'uscita dal mercato del lavoro (per pensionamento),
mentre per i giovani working poor è più elevata la permanenza nello status di lavoratori a bassa
remunerazione. I problemi derivano dal fatto che l'uscita dal nucleo familiare (e quindi la "scomparsa" dal
campione) è più probabile per i giovani, che a un certo punto creano il proprio nucleo familiare (single,
coppia o altro), lasciando quello d'origine.
54
permanenza in tale condizione: sia perché la soglia da un anno all'altro si sposta, sia
perché la condizione di permanenza interessa solo un sottoinsieme degli occupati,
ovvero solo i working poor.
La crisi ha modificato però il quadro: rispetto alla situazione pre crisi si è ridotta la
probabilità di restare nella condizione di lavoratore a bassa remunerazione da un anno
all'altro, mentre è sostanzialmente raddoppiata la probabilità per un lavoratore working
poor di perdere l'impiego e diventare disoccupato (dal 4 all'8 per cento). Tra chi resta
occupato, situazione relativamente meno frequente rispetto alla situazione precedente la
crisi, aumenta la probabilità di passaggio sopra e sotto la soglia di povertà. La
situazione appare più turbolenta ed incerta che in passato: un quadro tutto sommato
coerente con quanto osservato rispetto ai rischi di povertà, che sono aumentati
soprattutto per categorie che prima della crisi erano avvantaggiate, se non parzialmente
esenti.
Grafico 11
Tassi di uscita dalla condizione di working poor
2004/2005
2006/2007
2010/2011
60
50
40
30
20
10
0
verso inattività
verso
disoccupazione
verso occupazione
non WP
% di working poor nell'anno t0 che nell'anno t1 si sono trovati in
altra condizione. Elaborazioni su dati IT SILC Istat
55
Grafico 12
Gli occupati e i passaggi sopra/sotto la soglia di
povertà
2004/2005
2006/2007
2010/2011
12
10
8
6
4
2
0
uscita da WP
permanenza nello
status di WP
ingresso nello
status di WP
% di occupati (che restano tali in t0 e t1) secondo gli stati rilevati in
t0 e in t1. Elaborazioni su dati IT SILC Istat
Giovani e donne svantaggiati
Quanto finora osservato nel complesso può essere declinato diversamente quando si
considerano due categorie, come i giovani e le donne, caratterizzate da peculiari
funzionamenti del mercato del lavoro. I giovani (fino a 30 anni) si trovano a
sperimentare la transizione tra la fine del percorso scolastico e l'inizio dell'attività
lavorativa, con tutte le difficoltà connesse, legate alla mancanza di esperienza e di
contatti, oltre all'inesperienza in termini di ricerca di lavoro e limitate risorse
finanziarie. Le donne sono invece quelle che subiscono maggiormente il peso della
difficile conciliazione tra responsabilità familiari e impegni lavorativi, e si spesso - più
frequentemente degli uomini - si trovano in condizioni di inattività, per difficoltà nella
conciliazione o scoraggiamento. In precedenza, inoltre, è stato evidenziato come sia i
giovani che le donne soffrono di un maggior rischio di essere working poor.
Per i giovani, la probabilità di essere un working poor è più che doppia rispetto agli
adulti (intendendo con questo termine le persone dai 31 ai 64 anni); come è stato
evidenziato, questo non è un risultato sorprendente, se si considera che spesso i salari di
ingresso sono bassi e che per i giovani nella transizione scuola-lavoro impieghi a bassa
56
remunerazione possono servire come gradini di ingresso per occupazioni più stabili e
meglio remunerate. Spesso però, la condizione di lavoratore a bassa remunerazione è
tutt'altro che temporanea, di passaggio: tra i giovani working poor, il tasso di
permanenza in tale condizione da un anno all'altro è tre volte quello rilevato per gli
adulti. Solo poco più di un giovane working poor su tre riesce a salire oltre la soglia di
povertà (tra gli adulti il tasso è di poco meno del 60 per cento). Sulla base di questi dati
è possibile affermare che, almeno in parte, per i giovani la condizione di working poor è
inquadrabile come trappola della povertà: l'essere a bassa remunerazione infatti non
funziona più (o funziona sempre meno) come gradino d'ingresso nell'occupazione
stabile e meglio pagata, ma diventa sempre più un segnale negativo se non addirittura
una maniera in cui il capitale umano di un lavoratore rischia di deteriorarsi. Tra chi resta
occupato da un anno all'altro, si osserva un'elevata frequenza di passaggi sotto e sopra la
soglia, superiore a quella rilevata per gli adulti, segnale di un maggior rischio per i
giovani di essere working poor (solo il 66 per cento degli occupati giovani non risulta a
bassa retribuzione per almeno un anno, contro l'80 per cento degli adulti).
L'impatto della crisi per i giovani è stato molto più dirompente di quanto non sia stato
per il complesso dei lavoratori: per i lavoratori a bassa retribuzione è caduta la
permanenza nell'occupazione da un anno all'altro, anche in impieghi a bassa
retribuzione, mentre è più che raddoppiata la probabilità di uscita verso la
disoccupazione. Per effetto della crisi, gli impieghi a bassa remunerazione hanno
cessato la loro funzione di garanzia di occupazione
per i giovani (anche se non
garantiscono livelli adeguati di reddito).
57
Grafico 13
Tassi di uscita dalla condizione di working poor
Giovani
2004/2005
2006/2007
Adulti
2010/2011
70
70
60
60
50
50
40
40
30
30
20
20
10
10
0
2006/2007
2010/2011
0
verso inattività
verso
disoccupazione
verso
occupazione non
WP
% di working poor fino a 30 anni nell'anno t0 che nell'anno
t1 si sono trovati in altra condizione. Elaborazioni su dati IT
SILC Istat
58
2004/2005
verso inattività
verso
verso
disoccupazione occupazione non
WP
% di working poor con più di 30 anni nell'anno t0 che
nell'anno t1 si sono trovati in altra condizione. Elaborazioni
su dati IT SILC Istat
Grafico 14
Gli occupati e i passaggi sopra/sotto la soglia di povertà
Giovani
2004/2005
2006/2007
Adulti
2010/2011
2004/2005
25
25
20
20
15
15
10
10
5
5
2006/2007
2010/2011
0
0
uscita da WP
permanenza
nello status di
WP
ingresso nello
status di WP
% di occupati fino a 30 anni (che restano tali in t0 e t1)
secondo gli stati rilevati in t0 e in t1. Elaborazioni su dati IT
SILC Istat
uscita da WP
permanenza
nello status di
WP
ingresso nello
status di WP
% di occupati con più di 30 anni (che restano tali in t0 e t1)
secondo gli stati rilevati in t0 e in t1. Elaborazioni su dati IT
SILC Istat
59
Per le donne che risultano working poor, la permanenza in tale condizione è più bassa di
quanto non lo sia per gli uomini, mentre è molto più frequente l'uscita verso l'inattività;
questo potrebbe essere conseguenza del fatto che quando la donna è percettore di
reddito non principale nel proprio nucleo familiare può decidere di uscire dal mercato
del lavoro se il salario non è sufficiente a coprire i costi dei servizi (es. di child care).
L'uscita verso l'inattività, inoltre, nasconde anche quei fenomeni di scoraggiamento, se
la ricerca di migliori opportunità di impiego non dà i suoi risultati. Rispetto agli uomini
è molto più raro per le donne working poor riuscire a uscire dalla povertà.
Se però si restringe l'analisi a chi resta occupato (ovvero, si esclude l'ampia quota di
persone che escono dall'occupazione e spesso dal mercato del lavoro), si osserva come
donne e uomini siano caratterizzati da livelli piuttosto simili di permanenza nella
condizione di working poor, ma le donne hanno anche frequenze molto più elevate di
passaggi tra le soglie. Questo riflette sostanzialmente il maggior rischio di essere
working poor delle donne: se tra gli occupati uomini più dell'80 per cento non
sperimenta tale condizione in nemmeno un anno, tra le donne solo il 73 per cento.
In questo caso la crisi ha ridotto in parte le differenze tra i generi: per entrambi, è
aumentata la probabilità di uscita dalla condizione di lavoratori a bassa retribuzione
verso la disoccupazione, ma per le donne si è ridotto drasticamente il tasso di uscita
verso l'inattività. Con la crisi, e la crescente pressione subita dai bilanci familiari,
diventa cruciale l'integrazione anche del secondo reddito, per quanto modesto sia, e se si
perde l'impiego se ne cerca un altro (passando così alla disoccupazione e non
all'inattività).
60
Grafico 15
Tassi di uscita dalla condizione di working poor
Donne
2004/2005
2006/2007
Uomini
2010/2011
2004/2005
80
80
70
70
60
60
50
50
40
40
30
30
20
20
10
10
0
2006/2007
2010/2011
0
verso inattività
verso
disoccupazione
verso
occupazione non
WP
% di working poor nell'anno t0 che nell'anno t1 si sono
trovati in altra condizione. Elaborazioni su dati IT SILC Istat
verso inattività
verso
disoccupazione
verso
occupazione non
WP
% di working poor nell'anno t0 che nell'anno t1 si sono
trovati in altra condizione. Elaborazioni su dati IT SILC Istat
61
Grafico 16
Gli occupati e i passaggi sopra/sotto la soglia di povertà
Donne
2004/2005
2006/2007
Uomini
2010/2011
16
2004/2005
2006/2007
2010/2011
25
14
20
12
10
15
8
10
6
4
5
2
0
0
uscita da WP
permanenza
nello status di
WP
ingresso nello
status di WP
% di occupati (che restano tali in t0 e t1) secondo gli stati
rilevati in t0 e in t1. Elaborazioni su dati IT SILC Istat
62
uscita da WP
permanenza
nello status di
WP
ingresso nello
status di WP
% di occupati (che restano tali in t0 e t1) secondo gli stati
rilevati in t0 e in t1. Elaborazioni su dati IT SILC Istat
Riquadro: bassi salari e qualità del lavoro
I livelli retributivi rappresentano una componente fondamentale della qualità di un'occupazione.
Un impiego ben retribuito è generalmente gradito, consentendo di raggiungere più elevati
standard di vita; tuttavia ci sono altri aspetti, non direttamente connessi alla retribuzione, che
influenzano la qualità del posto di lavoro, ad esempio la salute e la sicurezza, le prospettive di
carriera, e infine le possibilità di conciliare lavoro e famiglia. In un recente rapporto
dell'European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions (Eurofound,
2012) sono stati elaborati alcuni indicatori di qualità dell'impiego, utilizzando le informazioni
tratte da un'indagine sulle condizioni di lavoro (European Working Condition Survey) condotta
ogni cinque anni presso un campione di lavoratori dell'Unione Europea, e giunta nel 2010 alla
quinta edizione. Gli indicatori considerati riguardano le prospettive che concernono la
sicurezza di un posto di lavoro, che dà anche sicurezza psicologica, ma anche le prospettive di
carriera; la qualità dell'impiego intrinseca, che si riferisce al livello di autonomia consentito,
all'utilizzo delle competenze, al sostegno sociale da parte dei colleghi, dalla qualità
dell'ambiente fisico di lavoro (se pone rischi per la salute o meno), all'intensità dello sforzo di
lavoro (sia in termini fisici che emotivi o mentali); infine c'è la qualità del tempo di lavoro,
che riassume le caratteristiche di un'occupazione che consentono o meno la conciliazione dei
tempi di lavoro con le responsabilità familiari.
Dato che l'aspetto retributivo ha un ruolo importante nel definire la qualità di un posto di lavoro,
la condizione di working poor potrebbe associarsi a una bassa qualità dell'occupazione. Non si
può però escludere che in alcuni casi possa esserci una sorta di scambio di alcuni aspetti non
monetari della qualità del lavoro (ad esempio, la conciliazione) con il salario.
Vogliamo vedere se nei settori e nelle professioni in cui i working poor sono maggiormente
concentrati anche la qualità media del lavoro è ridotta, confrontando gli indicatori di qualità non
monetaria del lavoro (prospettive, qualità intrinseca del lavoro e qualità del tempo di lavoro)
con la presenza di working poor. Si osserva come generalmente l'incidenza di lavoratori a bassa
retribuzione tende ad essere più elevata nei settori e nelle professioni dove la qualità del lavoro
media è più bassa23.
I settori dove la qualità intrinseca media del lavoro è maggiore (secondo chi ci lavora) sono
l'istruzione, la PA e la sanità, settori prevalentemente pubblici, nei quali la quota di lavoratori a
basso salario è modesta (tra il 5 e il 9 per cento della sanità). Sono settori, con l'eccezione della
sanità, dove anche la qualità del tempo di lavoro, e quindi la possibilità di conciliazione, è molto
23
Gli indici di job quality vanno da 1 a 100: a valori più elevati degli indici corrispondono livelli più
elevati della qualità dell'impiego.
63
elevata, soprattutto rispetto alla media; anche per quanto riguarda le prospettive questi settori
sono ai primi posti della graduatoria, insieme ai servizi finanziari. Per quanto riguarda quindi i
settori, non sembra di poter affermare che c'è uno scambio salario-altri aspetti della qualità del
lavoro. Le donne potrebbero essere maggiormente propense a questo tipo di scambio,
soprattutto del livello retributivo con la accessibilità alla conciliazione, dato che spesso sono
percettori secondari nel nucleo familiare e con maggiori responsabilità di cura
(tradizionalmente). Esaminando i settori dove è maggiore la presenza femminile
nell'occupazione (commercio e servizi turistici, istruzione, servizi alle persone e alle famiglie),
questo tipo di scambio in realtà non risulta evidente. Nell'istruzione, come già detto, la qualità è
generalmente alta (meno nell'aspetto delle prospettive, ma molto per quanto riguarda la
conciliazione) e la quota di working poor è attorno al 6 per cento nel 2011 (meno della metà
della quota nazionale). Nel commercio e servizi turistici, al contrario, la qualità del tempo di
lavoro è molto bassa mentre l'incidenza di lavoratori a bassa remunerazione supera il 20 per
cento. L'unica parziale eccezione è rappresentata dai servizi alle persone e alle famiglie, dove la
quota di working poor è molto elevata (circa un occupato su tre è a bassa remunerazione), la
qualità intrinseca dell'impiego e le prospettive non brillano, ma dove la qualità del tempo
lavorato (e la possibilità di conciliazione) sono superiori alla media.
Grafico 17
Qualità intrinseca del lavoro e working poor per
settori
35
% working poor
30
25
20
15
10
5
0
50
55
60
65
70
75
Indicatore di qualità intrinseca del lavoro (la qualità è
crescente al crescere dell'indice).
Elaborazioni su dati EWCS 2010 e IT SILC 2011
64
80
Grafico 18
Qualità del tempo di lavoro e working poor per
settori
35
servizi alle famiglie
% working poor
30
25
20
15
10
5
0
50
60
70
80
90
Indicatore di qualità del tempo di lavoro (la qualità è
crescente al crescere dell'indice).
Elaborazioni su dati EWCS 2010 e IT SILC 2011
Grafico 19
Prospettive e working poor per settori
35
30
% working poor
servizi alle famiglie
25
20
15
10
5
0
50
55
60
65
70
75
Indicatore di prospettive (la qualità è crescente al
crescere dell'indice).
Elaborazioni su dati EWCS 2010 e IT SILC 2011
Anche per quanto riguarda le professioni, si nota una associazione tra bassi livelli degli
indicatori di qualità non monetaria dell'impiego e elevata presenza di lavoratori a bassa
remunerazione. Appare evidente come le professioni meno qualificate sono caratterizzate sia da
65
bassi livelli medi di qualità dell'impiego e da un'elevata incidenza di working poor. Si potrebbe
pertanto asserire che c'è una forma di segregazione, soprattutto delle persone con minori
competenze, in lavori poco qualificati, di scarsa qualità e con basse remunerazioni.
Grafico 20
Qualità intrinseca del lavoro e working poor per
professioni
45
% working poor
40
prof.qualificate
agricoltura
35
30
25
20
15
10
5
0
50
55
60
65
70
75
80
Indicatore di qualità intrinseca del lavoro (la qualità è
crescente al crescere dell'indice).
Elaborazioni su dati EWCS 2010 e IT SILC 2011
Grafico 21
Qualità del tempo di lavoro e working poor per
professioni
45
% working poor
40
professioni
elementari
35
30
25
20
15
10
5
0
50
55
60
65
70
75
Indicatore di qualità del tempo di lavoro (la qualità è
crescente al crescere dell'indice).
Elaborazioni su dati EWCS 2010 e IT SILC 2011
66
80
Grafico 22
Prospettive e working poor per professioni
prof.qualificate
agricoltura
45
40
% working poor
35
30
25
20
15
10
5
0
50
55
60
65
70
Indicatore di prospettive (la qualità è crescente al
crescere dell'indice).
Elaborazioni su dati EWCS 2010 e IT SILC 2011
67
Capitolo 3 - Famiglie, lavoro e povertà
Cresce la povertà tra le famiglie italiane
Nei capitoli precedenti è stato evidenziato come il generale impoverimento determinato
dall'entità e dalla prolungata durata della crisi abbia determinato un aumento della
diffusione della povertà, con un incremento dei rischi anche per coloro che prima erano
sostanzialmente protetti. Il lavoro ha cessato di essere una garanzia contro la povertà. La
quota di famiglie con capofamiglia occupato che si trovano in condizioni di povertà
assoluta (ovvero, con livelli di consumo inferiori ad un livello definito di sussistenza) è
raddoppiata rispetto alla situazione precedente la crisi, passando dal 2,7 al 5,5 per cento.
Grafico 1
Povertà assoluta familiare - capofamiglia
occupato
6
5
4
3
2
1
0
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
2012
% di famiglie al di sotto della soglia assoluta di povertà, la cui
persona di riferimento è occupata. Dati Istat
Finora l'attenzione è stata rivolta essenzialmente agli individui, e ai loro rischi di
povertà nonostante l'occupazione. Si tratta di rischi di povertà, valutati in termini di
basso salario: quando la remunerazione è molto bassa, è ritenuta insufficiente per
garantire livelli adeguati di reddito, consumi, benessere. Ma non è necessariamente una
persona povera; non sempre percepire un basso salario implica, per l'individuo, una
68
condizione di disagio economico. Non va dimenticato che gli individui sono spesso
parte di nuclei familiari, caratterizzati da forme di redistribuzione e solidarietà familiare:
il nostro paese è peraltro caratterizzato da una forte divisione del lavoro, che in molti
nuclei familiari concentra l'attività lavorativa su un unico percettore, lasciando gli altri
componenti a carico (il partner, generalmente la donna, e i figli, spesso anche quelli
adulti).
In Italia, in particolar modo, la famiglia costituisce il principale ammortizzatore sociale
che consente di contenere le disuguaglianze dei redditi che si formano sul mercato del
lavoro. Ma i bilanci familiari nella fase attuale sono sempre più sotto pressione:
l'incidenza della povertà relativa è balzata su livelli elevati, superiori ai massimi
precedenti di fine anni novanta. Risulta sempre più complesso, pertanto, per le famiglie
operare il proprio ruolo di compensazione.
Lavoro e povertà: In-work poverty
Famiglie povere nonostante l'occupazione dei componenti
Dopo aver esaminato la questione della povertà individuale nell'occupazione, è
importante estendere il campo di analisi dall'individuo alle famiglie: nelle analisi circa il
rapporto tra lavoro e povertà non si può difatti trascurare il dibattito riguardante l'inwork poverty. Con questo termine si intende definire quel fenomeno riguardante le
famiglie che si trovano in condizioni di povertà nonostante uno o più componenti siano
occupati: in altre parole, si tratta di quelle famiglie che non riescono a raggiungere
livelli di reddito adeguati sebbene abbiano un legame con il mercato del lavoro.
La condizione di povertà nonostante l'occupazione di almeno un componente della
famiglia deriva da diverse eventualità, che si possono combinare tra loro: innanzi tutto,
la scarsa intensità di lavoro della famiglia nel suo insieme, ovvero se l'occupazione è
concentrata su un solo membro, che sarà l'unico percettore di reddito (ad esempio,
perché gli altri componenti risultano disoccupati o inattivi, situazione non infrequente in
un quadro di crescente disoccupazione); oppure la scarsa intensità di lavoro dei singoli
componenti, che risultano magari sotto-occupati (perché occupati involontariamente a
tempo parziale o in Cassa Integrazione), che riduce le ore lavorate e di conseguenza i
69
redditi complessivi; oppure perché i componenti occupati sono lavoratori a bassa
remunerazione, working poor; o ancora perché le prestazioni percepite fuori dal lavoro
(es. assegni familiari) risultano inadeguate per sostenere il reddito.
La definizione adottata per il calcolo dell'indicatore di in-work poverty fa riferimento
alle famiglie: rientrano nella definizione di in-work poor le famiglie (e di conseguenza,
gli individui che ne fanno parte) in cui uno o più componenti siano occupati, e il cui
reddito disponibile risulti inferiore al 60 per cento del reddito mediano. I redditi sono
espressi in termini di reddito equivalente, ovvero normalizzato con una scala
d'equivalenza, in modo da tenere in conto le differenze nella composizione e nella
dimensione delle famiglie.
Si noti che nel caso della in-work poverty oltre alla retribuzione complessiva (che
dipende anche dal numero di ore lavorate dai componenti della famiglia) contano anche
le altre fonti di reddito (es. le rendite finanziarie), i trasferimenti, le imposte dirette, gli
oneri sociali e soprattutto la composizione familiare. Come nel caso dei working poor,
pur descrivendo fenomeni differenti, si fa riferimento a criteri di povertà relativa.
Questo è importante da tenere presente, perché nella misura in cui la crisi ha peggiorato
le condizioni di quasi tutti, con uno scivolamento verso il basso dell'intera distribuzione,
criteri relativi consentono di cogliere solo in parte il fenomeno di impoverimento e il
peggioramento delle condizioni.
In Italia, una persona su dieci è in condizioni di in-work poverty
Utilizzando i dati IT SILC, si è calcolato che nel 2011 il numero di famiglie in in-work
poverty, ovvero con un reddito equivalente al di sotto della soglia di povertà e con
almeno un componente occupato, fosse pari a circa 2 milioni e 50mila, pari all'8,1 per
cento delle famiglie italiane. In termini individuali, la in-work poverty interessava quasi
6 milioni 500mila persone nel 2011, pari al 10,6 per cento della popolazione residente
in Italia; un'incidenza non trascurabile.
Analizzando l'evoluzione della in-work poverty nell'Unione Europea durante il periodo
della crisi, si nota una certa stabilità nella quota di individui che appartengono ad un
nucleo familiare in cui vi sia almeno un percettore di reddito da lavoro e che siano in
condizioni di povertà relativa. Per la media dell'Ue, la quota di individui in-work poor è
70
di circa l'8,5 per cento per buona parte del periodo, ma si evidenzia un modesto aumento
nel 2011. Le differenze tra i paesi, però, sono significative. La in-work poverty è
relativamente bassa, e inferiore alla media europea, nei paesi scandinavi, in buona parte
dei paesi dell'Europa continentale (Francia, Germania, Austria, Belgio, Olanda,
Slovacchia e altri) e nei paesi anglosassoni (Irlanda e Regno Unito). È invece più
elevata nei paesi mediterranei (Grecia, Spagna, Portogallo e Italia) e in alcuni paesi di
recente ingresso nella Ue (Polonia, Romani, Lettonia, Lituania).
La severità con cui la crisi ha inciso sulla povertà delle famiglie con lavoratori è invece
più eterogenea: per molti paesi, tra cui l'Italia, il 2011 segna un peggioramento rispetto
al periodo pre crisi. Inoltre, anche nei paesi che prima dell'inizio della crisi godevano di
tassi di in-work poverty relativamente contenuti hanno sperimentato un aumento
consistente (in termini percentuali) della povertà. Va ricordato che si tratta di indicatori
relativi di povertà: la crisi ha significato un peggioramento per tutti, modificando solo in
parte la povertà relativa, dato che tutta la distribuzione è stata toccata.
Grafico2
La in-work poverty in Europa
2007
2011
16
14
12
10
8
6
4
2
Spagna
Grecia
Polonia
Italia
Portogallo
Ue27
Regno Unito
Germania
Francia
Svezia
Danimarca
Irlanda
Paesi Bassi
Belgio
Rep.Ceca
Finlandia
0
% individui in-work poor. Dati Eurostat EU SILC
71
Chi è a maggior rischio di povertà?
Complessivamente, nel 2011 il rischio individuale di appartenere ad una famiglia al di
sotto della soglia di povertà relativa nonostante almeno uno dei componenti fosse
occupato è stato del 10,6 per cento. Tale rischio è una media tra tutte le famiglie: se si
compiono alcune distinzioni, sulla base delle caratteristiche socio-economiche, si
osservano però notevoli differenze nei livelli di rischio.
La probabilità di essere in in-work poverty è maggiore per gli individui che
appartengono a famiglie residenti nel Mezzogiorno (probabilità doppia rispetto alla
media italiana)24, e per le famiglie che non possiedono l'abitazione di residenza. Le
famiglie monoparentali, o con figli a carico presentano maggiori rischi di in-work
poverty per i loro membri: il lavoro di uno o più dei componenti non è sempre
sufficiente a garantire livelli adeguati di benessere. I single beneficiano generalmente di
un minor rischio di povertà, ma non quelli più giovani, che sono a maggior rischio di
avere occupazioni meno stabili e peggio retribuite (come è stato evidenziato nel capitolo
precedente), e hanno minore probabilità di avere altre fonti di reddito non da lavoro,
avendo minori risparmi e minori investiti rispetto a persone più mature.
24
Si ricorda che la soglia di povertà è calcolata a livello nazionale; in una situazione come quella italiana,
caratterizzata da un marcato dualismo territoriale, i livelli medi di reddito nelle diverse aree sono
estremamente differenti. Il ricorso a soglie territoriali naturalmente ridurrebbe le differenze, ma questo
limiterebbe il confronto solo tra realtà fisicamente prossime.
72
Tavola 1 A
I caratteri dell'in-work poverty
2011
Quali famiglie comportano per i propri componenti
i maggiori rischi di essere in work poor?
rischio medio:
territorio
Nord Ovest
Nord Est
Centro
Sud
Isole
tipologia familiare
Single
- single fino a 34 anni
2 adulti (sotto i 65 anni), no figli a carico
2 adulti (di cui almeno uno sopra i 65 anni),
senza figli a carico
Altri nuclei familiari senza figli a carico
Nucleo monogenitoriale, uno o più figli a carico
Coppia, un figlio a carico
Coppia, due figli a carico
Coppia, tre o più figli a carico
Altri nuclei familiari con figli a carico
Proprietà abitazione
Proprietari casa residenza/ comodato gratuito
Affitto
% in-work poor
10.6%
5.3%
5.2%
8.0%
18.7%
20.3%
5.1%
12.5%
5.4%
0.6%
3.9%
20.6%
11.9%
18.6%
27.3%
18.9%
8.7%
19.7%
Elaborazioni su dati IT SILC Istat
Guardando ad alcune caratteristiche del capofamiglia25, il rischio di povertà dei membri
della famiglia cresce quando la persona di riferimento ha cittadinanza non italiana o ha
meno di 30 anni: la probabilità di povertà tende a ridursi con il crescere dell'età del
capofamiglia e rimane elevata anche per i quarantenni. Il rischio di povertà scende per
le famiglie la cui persona di riferimento ha un titolo di studio universitario, mentre non
ci sono rilevanti differenze tra le famiglie di chi ha concluso al massimo la scuola media
inferiore e chi invece possiede un diploma di scuola superiore.
Se il capofamiglia si trova in una posizione di debolezza (ha un'occupazione
temporanea, è un lavoratore autonomo senza dipendenti, è un operaio, un apprendista,
un collaboratore, un imprenditore o un lavoratore in proprio) i rischi per la famiglia di
povertà nell'occupazione sono maggiori.
25
Con questo termine si intende la persona di riferimento nelle indagini.
73
Tavola 2
I caratteri dell'in-work poverty
2011
Quali famiglie hanno maggiori probabilità
di essere in work poor?
secondo le caratteristiche del capofamiglia*
rischio medio:
classe di età
17-24 anni
25-29 anni
30-34 anni
35-39 anni
40-54 anni
55-64 anni
>65 anni
% in-work poor
8.1%
26.9%
18.0%
15.3%
14.2%
13.8%
5.0%
0.6%
titolo di studio
licenza primaria o media
diploma superiore
laurea o superiore
8.4%
8.8%
4.7%
cittadinanza
italiano
straniero
7.0%
24.9%
tipo di contratto
lavoratore dipendente
- t.indeterminato
- a termine
autonomo
- con dipendenti
- senza dipendenti
7.2%
5.8%
19.1%
20.0%
14.6%
22.9%
posizione professionale
dirigente
quadro
impiegato
operaio
apprendista
lavoratore presso il proprio domicilio
imprenditore
libero professionista
lavoratore in proprio
socio di cooperativa
coadiuvante nella ditta di un familiare
1.5%
0.2%
5.5%
20.1%
49.2%
82.7%
17.3%
7.8%
24.7%
11.3%
19.7%
*per capofamiglia si intende la persona di riferimento nell'indagine
Elaborazioni su dati IT SILC Istat
L'importanza dell'intensità di lavoro
In generale, comunque, sulla probabilità di essere o meno in in-work poverty influisce
molto la tipologia familiare e l'intensità di lavoro all'interno della famiglia. Il rischio di
povertà cresce con il numero di componenti, soprattutto se alcuni di questi sono a
74
carico: i rischi più alti li corrono le coppie con tre o più figli a carico e i nuclei
monogenitoriali (sempre più comuni per effetto della dissoluzione delle famiglie) con
uno o più figli a carico. L'avere molti componenti a carico comporta avere pochi
percettori di reddito: le famiglie che hanno un solo occupato tra i componenti sono a
rischio doppio di povertà rispetto alle altre, e la probabilità cade in misura marcata se gli
occupati sono due o più.
Tavola 1B
I caratteri dell'in-work poverty
2011
Quali famiglie comportano per i propri componenti
i maggiori rischi di essere in work poor?
% in-work poor
numero di componenti
1
2
3
4
5
6
7
8
9 e più
5.1%
3.8%
8.9%
15.2%
21.8%
25.0%
34.6%
26.2%
45.4%
numero di occupati
1
2
3
4
5
19.6%
7.4%
4.8%
0.0%
0.0%
numero di occupati part time
0
1
2 e più
9.0%
22.9%
35.8%
numero di lavoratori autonomi
0
1
2 e più
8.5%
21.6%
7.1%
Elaborazioni su dati IT SILC Istat
L'intensità occupazionale, calcolata come rapporto tra numero di occupati e componenti
di una famiglia (per tenere conto delle diverse numerosità), è un fattore importante che
spiega la in-work poverty: tanto più l'intensità occupazionale è bassa tanto maggiore è la
probabilità di essere poveri. Tra le famiglie che hanno al massimo un solo occupato su
sei componenti, una su due è povera; il rischio si riduce al crescere del rapporto tra
75
occupati e membri. Tende a risalire per chi ha intensità occupazionale pari a 1, ovvero
per le famiglie dove tutti i componenti sono occupati, categoria in cui sono più frequenti
le coppie di occupati e i single. I single giovani (fino a 34 anni) sono a maggior rischio
di povertà: si tratta perlopiù di giovani che hanno da poco lasciato il nucleo familiare
d'origine e sono all'inizio del proprio percorso professionale.
Grafico3
Rischio di in-work poverty e intensità
occupazionale
50%
40%
30%
20%
10%
1
[0.7;1)
[0.6;0.7)
[0.5;0.6)
[0.4;
0.5)
[0.3;0.4)
[0.2;0.3)
(0; 0.2)
0%
Intensità occupazionale: rapporto tra numero di occupati all'interno
della famiglia e numero di membri. Elaborazioni su dati IT SILC Istat
D'altra parte, se si guarda la classificazione dei paesi ad alta e bassa in-work poverty
all'interno dell'Unione Europea, riportata nel grafico 2, si può notare come questa
richiami la classificazione degli stessi paesi secondo i tassi di partecipazione (e di
occupazione) femminile, a segnalare come per questo tipo di povertà l'intensità di
lavoro sia l'antidoto principale per ridurre il rischio di povertà (Oecd, 2009).
L'Italia, in questo quadro, presenta tassi di povertà occupazionale più elevati della
media europea e in aumento rispetto al periodo pre crisi, ed è anche uno dei paesi in cui
l'intensità di lavoro all'interno dei nuclei familiari è più bassa. La crisi ha ulteriormente
contribuito a peggiorare l'intensità occupazionale all'interno delle famiglie, soprattutto
per i lavoratori meno protetti sul mercato del lavoro (i cosiddetti secondary earners).
76
Il rischio di povertà si riduce all'aumentare del numero di percettori di reddito; il rischio
per tipologia familiare, tuttavia, varia significativamente tra i paesi a seconda del regime
fiscale e dei trasferimenti alle famiglie.
Per chi è cresciuto il rischio di povertà?
La crisi ha determinato un generale peggioramento dei redditi per le famiglie italiane,
con un incremento dell'incidenza della povertà tra gli individui. Il generale
impoverimento si traduce in un aumento del rischio di ricadere al di sotto della soglia di
povertà, che coinvolge anche persone che prima della crisi erano relativamente al
sicuro.
In effetti, confrontando la probabilità di in-work poverty prima della crisi con quella
osservata nel periodo successivo si nota come il rischio sia aumentato un po' per tutti,
ma in misura più marcata per alcune categorie caratterizzate da una minore probabilità
di povertà.
Tra questi i residenti nel Centro-Nord (e in particolare nel Nord Est), che pur
beneficiando di un rischio di in-work poverty molto inferiore alla media nazionale,
hanno sperimentato un incremento percentuale più marcato (anche per effetti di base,
comunque). Ma anche le famiglie con capofamiglia laureato hanno sperimentato
incrementi rilevanti del rischio di povertà, e così quelle il cui capofamiglia è inquadrato
come impiegato, oppure ha un contratto di collaborazione (il rischio è raddoppiato) o
ancora risulta imprenditore. Se prima della crisi solo una famiglia su 10 con
capofamiglia imprenditore era a rischio di in-work poverty, dopo la crisi l'incidenza è
salita rapidamente al 17,3 per cento; la crisi ha messo in difficoltà moltissime imprese,
soprattutto di piccole dimensioni, esponendo a maggiori rischi di povertà anche
categorie, come quella degli imprenditori, che ne erano parzialmente esenti.
Seppure il rischio di povertà cresce anche per quelle categorie che risultavano almeno in
parte protette, in molti casi ad aver subito maggiormente la crisi - in termini di
accresciuto rischio di povertà - sono le categorie più deboli, come i nuclei familiari
monoparentali. Anche per i single, comunque, si osserva un incremento del rischio di
povertà.
77
Tavola 3
Per chi è aumentato maggiormente il rischio
di essere in condizioni di in-work poverty?
per gli individui, secondo le caratteristiche della famiglia
pre crisi
(2007)
territorio
Nord Ovest
Nord Est
Centro
Sud
Isole
post crisi
(2011)
4.5%
3.5%
5.8%
16.5%
18.9%
5.3%
5.2%
8.0%
18.7%
20.3%
4.3%
5.0%
5.1%
5.4%
0.6%
5.0%
0.6%
3.9%
Nucleo monogenitoriale, uno o più figli a carico
Coppia, un figlio a carico
Coppia, due figli a carico
Coppia, tre o più figli a carico
Altri nuclei familiari con figli a carico
13.8%
10.6%
19.1%
34.0%
14.5%
20.6%
11.9%
18.6%
27.3%
18.9%
numero di occupati in famiglia
1
2
3
4
5
17.0%
6.9%
9.5%
0.0%
0.0%
19.6%
7.4%
4.8%
0.0%
0.0%
tipologia familiare
Single
2 adulti (sotto i 65 anni), no figli a carico
2 adulti (di cui almeno uno sopra i 65 anni),
senza figli a carico
Altri nuclei familiari senza figli a carico
secondo le caratteristiche del capofamiglia, per le famiglie:
titolo di studio
licenza primaria o media
8.7%
diploma superiore
7.6%
laurea o superiore
2.8%
posizione professionale
dirigente
quadro
impiegato
operaio
apprendista
lavoratore presso il proprio domicilio
imprenditore
libero professionista
lavoratore in proprio
socio di cooperativa
coadiuvante nella ditta di un familiare
2.5%
1.3%
4.9%
19.3%
47.2%
49.0%
10.4%
10.2%
23.2%
18.7%
15.6%
8.4%
8.8%
4.7%
1.5%
0.2%
5.5%
20.1%
49.2%
82.7%
17.3%
7.8%
24.7%
11.3%
19.7%
Elaborazioni su dati IT SILC Istat
La probabilità di essere in in-work poverty è aumentata soprattutto per chi appartiene a
nuclei familiari dove c'è un solo lavoratore; ancora una volta si evidenzia l'estrema
78
importanza dell'intensità occupazionale all'interno della famiglia come uno degli
strumenti più efficaci per contrastare questa forma di povertà.
In-work poverty e working poor
La differenza tra basso salario e basso reddito
Discutendo di in-work poverty l'attenzione si è finora concentrata sulle famiglie, le loro
caratteristiche, la loro composizione, l'intensità di lavoro al loro interno. La variabile
cruciale per la definizione della soglia di povertà, e per l'individuazione dei poveri, è il
reddito disponibile equivalente. Alla composizione del reddito disponibile concorrono
diverse forme di reddito: redditi individuali da lavoro dipendente, o da lavoro
autonomo, pensioni e indennità varie, più redditi familiari da capitale così come diverse
forme di trasferimenti (es. assegni familiari), al netto delle imposte. Poiché l'unità di
analisi è la famiglia, non è detto che un individuo che percepisce un basso salario, sia
effettivamente in una condizione di disagio economico; la famiglia, difatti, opera da
ammortizzatore sociale, redistribuendo le risorse all'interno del nucleo familiare tra i
diversi componenti. In altre parole, in alcuni casi la redistribuzione all'interno della
famiglia può consentire di contenere le disuguaglianze che si creano sul mercato del
lavoro. La sovrapposizione tra le basse remunerazioni e la povertà è stimata piuttosto
contenuta in molte economie industrializzate (Marx e Verbist, 1998), dato che le
famiglie povere talvolta non hanno nemmeno un componente occupato (a meno che
siano in-work poor), mentre molti lavoratori a bassa remunerazione vivono in famiglie
dove ci sono più percettori di reddito, che consentono di compensare le basse
remunerazioni.
Ciononostante, sebbene questa distinzione sia utile e importante per la misurazione e
l'analisi dei due fenomeni (working poverty e in-work poverty), non è può giustificare
atteggiamenti indulgenti della politica nei confronti del problema delle persone a bassa
remunerazione.
Al contrario, l'interazione tra lavoratori a basso salario e famiglie povere nonostante
abbiano almeno un componente occupato è da analizzare con attenzione, dato che si può
delineare una sorta di polarizzazione della società, divisa tra nuclei familiari "ricchi" (in
79
termini di occupazione e redditi) e nuclei "poveri" (in termini di disoccupazione e basse
remunerazioni). Questa interazione diventa cruciale quando gli occupati a bassa
remunerazione sono gli unici componenti occupati del loro nucleo familiare oppure,
detta altrimenti, se il reddito familiare dipende in misura principale dai loro - bassi redditi.
La presenza di working poor aumenta il rischio di povertà per la famiglia
Benché i due fenomeni non coincidano, l'interazione non è così infrequente: la
probabilità che una famiglia sia in in-work poverty, ovvero con un reddito al di sotto
della soglia di povertà nonostante almeno un componente occupato, è molto più elevata
quando c'è almeno un working poor in famiglia, rispetto a quando non ce n'è nemmeno
uno. Tra le famiglie senza working poor, solo una su venti nel 2011 risultava in in-work
poverty, mentre tra quelle con almeno
un working poor il rischio era sette volte
superiore: circa il 37 per cento risultava avere un reddito inferiore alla soglia di povertà.
Grafico 4
Probabilità di in-work poverty e presenza di
working poor nella famiglia
40%
35%
30%
25%
20%
15%
10%
5%
0%
0
1
2 o più
numero di working poor in famiglia.
Elaborazioni su dati IT SILC Istat
80
Nonostante si sia visto come la diffusione dei working poor, seppur cresciuta con la
crisi, sia piuttosto contenuta, tra le famiglie in condizioni di in-work poverty quasi una
su due (il 43 per cento) ha almeno un componente che risulta a bassa remunerazione.
Se il lavoratore a bassa remunerazione è un secondary earner (es. donne o i figli adulti
ai primi impieghi), il rischio di povertà si riduce notevolmente, mentre cresce
notevolmente quando i working poor sono i principali o gli unici percettori di reddito
della famiglia. Quando il lavoratore a bassa remunerazione è il capofamiglia (che non è
necessariamente il primario percettore di reddito, anche se spesso i due ruoli
coincidono), quasi una famiglia su due, il 47 per cento, risulta al di sotto della soglia di
povertà.
Nel caso che i lavoratori a bassa remunerazione siano single, quindi necessariamente gli
unici percettori di reddito, il loro rischio di essere in-work poor è elevato, pari al 46 per
cento, ovvero nove volte il rischio per i single nel loro complesso. Anche i nuclei
monoparentali sono ad elevato rischio di povertà quando l’unico percettore di reddito (il
genitore) è a bassa remunerazione: più di due su tre (il 68 per cento) ha un reddito
inferiore alla soglia di povertà, un rischio tre volte superiore rispetto ai nuclei
monoparentali totali.
Grafico 5
Rischio di in-work poverty
famiglie con almeno un working poor
totale famiglie
altre tipologie
due o più nuclei
monogenitori con figli minorenni
coppia con figli adulti
coppia con figli minorenni
coppia senza figli conviventi
single
0%
20%
40%
60%
80%
famiglie in-work poor in % del totale delle famiglie, per tipologia
familiare. Elaborazioni su dati IT SILC Istat
81
Un’altra tipologia familiare a elevato rischio di povertà è rappresentata dalle coppie con
figli minorenni, a carico; normalmente la loro probabilità di essere in-work poor è del
16,8 per cento (doppia rispetto a quella dell’insieme delle famiglie italiane), ma se al
loro interno c’è almeno un working poor tale rischio triplica, salendo al 47 per cento.
Nel caso italiano si evidenzia come la presenza di più lavoratori all’interno del nucleo
familiare costituisce il miglior modo di sfuggire alla povertà e di compensare la
presenza di redditi a basso salario. Quello che emerge inoltre, a differenza di gran parte
degli altri paesi europei, è la scarsa capacità del nostro sistema di assistenza sociale nel
correggere situazioni di povertà relativa delle famiglie dovute a redditi da lavoro
insufficienti, anche in presenza di figli. In particolare, l’impatto in termini di riduzione
percentuale della povertà del nostro sistema di assistenza sociale (escluse le pensioni) è
stimato in misura pari al 17 per cento: uno dei più bassi in Europa se confrontato con
una media europea del 35 per cento, e rispetto ad un massimo del 60 per cento nei paesi
scandinavi e ad un minimo del 15 per cento in Bulgaria (Eurofound, 2010).
82
Capitolo 4 – Le politiche di contrasto
Le principali conclusioni
Il quadro che emerge dall’analisi svolta sul fenomeno dei working poor in Italia mostra
luci e ombre. Da un lato, l’occupazione a bassa remunerazione non risulta
particolarmente elevata, essendo inferiore sia alla media europea sia a quella dei paesi
dell’Area euro. Questo è il risultato di due fattori, da un lato la contenuta dispersione
salariale, ottenuta anche grazie alla capacità della contrattazione collettiva di dare
copertura a buona parte dell’occupazione alle dipendenze, e dall’altro livelli salariali
(mediani) relativamente bassi: in linea con la media europea (EU27) ma sensibilmente
inferiori a quelli di gran parte dei paesi dell’Area euro.
Quando tuttavia l’attenzione si sposta dai salari ai redditi, il rischio di povertà relativa
dei lavoratori aumenta significativamente. L’Italia presenta dei tassi di in-work poverty e cioè povertà relativa per famiglie in cui vi siano dei componenti che percepiscono un
reddito da lavoro – che sono maggiori della media europea e, soprattutto, in aumento
nel 2011 rispetto agli anni precedenti. Tale rischio di povertà, inoltre, risulta
sensibilmente più elevato per i nuclei familiari in cui vi siano più componenti (anche in
presenza di figli) e un solo percettore di reddito a basso salario.
Questo aspetto mette in luce il lato debole del mercato del lavoro italiano, in cui la
povertà trova origine da una scarsa intensità di lavoro all’interno delle famiglie, dovuta
anche, ma non solo, alla bassa partecipazione (e occupazione) femminile. A questo si
aggiunge una scarsa efficacia dei meccanismi di protezione sociale di ridurre il rischio
di povertà attraverso politiche del lavoro passive o attive.
Dall’analisi emerge anche come la migliore protezione dal rischio di povertà trovi
origine dalla presenza di più percettori di reddito da lavoro all’interno delle famiglie,
che tuttavia in condizioni di disoccupazione (o inattività) diffusa, come succede nella
attuale situazione di crisi, non trova adeguato supporto nel sistema di assistenza sociale
e nelle politiche di attivazione al lavoro.
83
Le politiche di contrasto alla povertà degli individui
Quale sostegno ai working poor?
Una premessa importante relativa alle politiche di contrasto al fenomeno dei working
poor è che quest’ultime riguardano principalmente politiche passive a sostegno delle
retribuzioni, piuttosto che politiche di contrasto alla povertà diffusa. Infatti, come
discusso nei precedenti capitoli, non sempre e non necessariamente l'occupazione a
basso salario è associata a situazioni di povertà. È stato tuttavia sottolineato come
alcune caratteristiche incidono notevolmente sulla probabilità di occupare un posto di
lavoro a basso salario, come la scarsa qualificazione, l’avere un contratto a tempo
determinato o l’essere occupati in un settore produttivo a basso salario. Le posizioni
lavorative a basso salario rappresentano per i giovani lavoratori - che accedono al
mercato del lavoro per la prima volta o per gli studenti che combinano istruzione e
formazione con periodi di occupazione -, una “porta di ingresso” per acquisire
esperienza di lavoro e transitare successivamente verso posizioni lavorative
caratterizzate da maggiori garanzie e retribuzioni più elevate; ciò nonostante, spesso le
stesse si trasformano in “trappole della povertà”, senza che vi sia un percorso verso la
stabilizzazione del rapporto di lavoro e una maggiore indipendenza economica. Come
riportato nel capitolo 2, tra i giovani working poor il tasso di permanenza in tale
condizione è tre volte quello degli adulti, e solo un giovane su tre riesce a risalire da un
anno all'altro oltre la soglia di povertà.
Nei precedenti capitoli è anche emerso come per le famiglie in cui il reddito dipende
esclusivamente dal reddito percepito dal lavoratore a bassa remunerazione (es. i single e
i nuclei monoparentali con figli a carico) il rischio di povertà sia elevatissimo. Sulla
bassa retribuzione dei lavoratori, e di conseguenza sulla povertà delle famiglie con
lavoratori working poor, negli ultimi anni, quelli della crisi, ha inciso soprattutto la
riduzione delle ore lavorate; sebbene in termini reali, i salari orari si siano anch'essi
ridotti rispetto alla situazione pre-crisi.
Il menù di politiche dirette a contrastare le basse retribuzioni, oltre alle politiche di
promozione dell’occupazione (margine estensivo) e di aumento delle ore lavorate
(margine intensivo), include una serie di trasferimenti mirati ai lavoratori più
84
svantaggiati e interventi per fissare minimi salariali legislativi. Le politiche di sostegno
ai redditi dei lavoratori a basso salario, pur essendo molto diffuse in tutti i paesi OCSE,
sono molto controverse in merito agli effetti sul mercato del lavoro e oggetto di un
intenso dibattito politico. Da un lato, vi è chi ritiene che le politiche di contrasto siano
utile strumento di redistribuzione verso i lavoratori più svantaggiati (a scapito
ovviamente di altri fattori di produzione come lavoratori più qualificati e capitale),
dall’altro vi è chi invece sostiene che contribuiscano all’aumento della disoccupazione
trasformando lavoratori a basso salario in disoccupati. Il dibattito sia accademico sia
politico, tuttavia è stato fortemente influenzato dalle posizioni ideologiche: da un lato i
sostenitori del laissez-faire, fortemente contrari; dall’altro i fautori dell’intervento dello
Stato, spesso aprioristicamente favorevoli. Questa contrapposizione ha impedito una
valutazione imparziale sia degli effetti delle politiche, sia una discussione approfondita
del disegno ottimale degli interventi in un’ottica organica. Infatti, sebbene non vi sia
alcun dubbio che interventi diretti a gruppi selezionati della popolazione (ad es. i
working poor) possano producano effetti indesiderabili (come la disoccupazione) o
esternalità su altri gruppi (maggiore tassazione), non è chiaro come l’azione combinata
dei vari interventi incida sul benessere sociale. Molti studi hanno previlegiato un’ottica
welfarista (dove ciò che conta è solo il benessere complessivo), senza tener conto che i
governi possono avere specifici obiettivi redistributivi e valutare diversamente l’utilità e
il benessere dei lavoratori più svantaggiati rispetto ai lavoratori più qualificati o ad
elevato reddito (Blumkin e Danziger, 2014; Lee e Saez, 2012).
Nelle successive sezioni vengono prese in esame le diverse opzioni di contrasto alla
diffusione dei working poor, prestando particolare attenzione agli effetti che tali
politiche producono sugli stessi lavoratori a basso salario ed anche su altre categorie di
lavoratori. Spesso infatti le misure risultano più efficaci quando pensate in modo
complementare tra loro. Ad esempio, un’implicazione importante discussa nella
letteratura economica è che misure di sostegno al reddito (tipo crediti d'imposta)
debbano accompagnarsi a salari minimi legali tali da creare una soglia alle retribuzioni
per evitare che, attraverso il meccanismo del trasferimento dell’imposta (negativa), i
datori di lavoro adeguino verso il basso le retribuzioni - a parità di redditi netti per i
lavoratori - svuotando così di efficacia l'intervento (Bargain e Orsini, 2004). In altri
casi, è stato mostrato come sia opportuno disegnare in modo graduale l’estensione dei
85
benefici ai gruppi selezionati e a quelli esclusi (phase-in e phase-out) per evitare
aliquote marginali elevate ed effetti di spiazzamento su ore lavorate e occupazione
(Saez, 2002).
Il salario minimo
Uno degli strumenti che vengono spesso richiamati per fornire un sostegno alle persone
a bassa retribuzione è l'introduzione, o il rafforzamento, di un salario minimo legale. Il
salario minimo legale definisce, per legge e per tutti i lavoratori (salvo le clausole di
eccezione per età presenti in alcuni paesi) l'ammontare salariale minimo garantito.
Attualmente in Europa i paesi che prevedono un salario minimo legale sono una
ventina; in alcuni casi il livello è fissato in termini orari, in altri con riferimento alla
giornata lavorativa o al mese.
In termini mensili, le retribuzioni minime vanno dai 174 euro della Bulgaria ai 1921 del
Lussemburgo, e in media è di 747 euro mensili. In termini di salario orario, come
riportato nel grafico 1, la graduatoria non cambia molto (considerando che gli orari
standard sono pressoché uguali, attorno alle 40 ore settimanali, pur con alcune
importanti eccezioni, come in Francia): in media il salario orario si attesta attorno ai 4.6
euro. Molta di questa variabilità dipende però dai livelli salariali medi prevalenti nei
diversi paesi. Se si esclude infatti il gruppo dei paesi dell'Europa orientale, entrati più
recentemente nell'Unione Europea e caratterizzati ancora da livelli salariali inferiori, la
media del salario minimo vigente a inizio 2014 è di 7 euro all'ora, pari a circa 1.140
euro al mese.
Un modo di confrontare l’incidenza del salario minimo tra i diversi paesi è quella di
rapportarlo alle retribuzioni medie (o mediane). Questo rapporto viene solitamente
misurato dall'indice di Kaitz, e fa riferimento alle retribuzioni a tempo pieno.
Utilizzando i dati raccolti da Eurostat per calcolare l’indice di Kaitz, nel grafico 2 viene
mostrato come tale indice vari da un minimo del 31.7 per cento nella Repubblica Ceca a
livelli attorno al 50 per cento in Grecia e Slovenia, per una media di 41.3 per cento.
86
Grafico 1
Salari minimi legali in Europa
Lussemburgo
Regno Unito
Belgio
Irlanda
Paesi Bassi
United
Slovenia
Spagna
Malta
Grecia
Portogallo
Croazia
Polonia
Estonia
Slovacchia
Ungheria
Rep.Ceca
Lettonia
Lituania
Romania
Bulgaria
0.0
2.0
4.0
6.0
8.0
10.0 12.0 14.0
2014 - euro lordi all'ora (quando espressi in termini mensili, i salari
sono riportati all'ora utilizzando gli orari settimanali standard).
Elaborazioni su dati Eurostat
Grafico 2
Indice di Kaitz in Europa
Rep.Ceca
Estonia
Romania
Spagna
Croazia
Slovacchia
Bulgaria
Regno
Polonia
Lituania
Irlanda
Portogallo
Paesi Bassi
Lettonia
Ungheria
Belgio
Malta
Lussembur
Francia
Slovenia
Grecia
0
10
20
30
40
50
60
2012 - salario minimo legale in % del salario medio lordo. Dati
Eurostat
Al momento, 7 paesi non hanno un salario minimo nazionale: si tratta principalmente di
paesi dell'Europa Continentale (Austria, Germania, Danimarca) o Settentrionale
87
(Svezia, Finlandia), oltre a Cipro e naturalmente l'Italia in cui i salari sono negoziati a
livello settoriale26.
In due recenti studi, Boeri (2009) e Garnero et al (2013) analizzano gli effetti dei
minimi salariali contrattati e dei salari minimi legali sulla distribuzione delle
retribuzioni. Ciò che emerge è che nei paesi in cui i salari minimi sono fissati dalla
contrattazione i minimi risultano mediamente più elevati (in Italia in particolare)
rispetto ai paesi in cui i vige un salario minimo legale, tuttavia una quota significativa di
lavoratori (working poor) non risulta coperta dagli effetti della contrattazione collettiva.
In altre parole, un livello elevato dei minimi salariali contrattati, più che un successo
della contrattazione collettiva sembra evidenziare una debolezza nei confronti dei
lavoratori meno tutelati e a più basso salario.
Uno degli effetti della Grande crisi è stato quello di esacerbare queste differenze ed
anche di mettere in discussione l’efficacia della contrattazione centralizzata nei tutelare
i minimi salariali di tutti i lavoratori. In Germania, per esempio, è in fase avanzata di
discussione l’introduzione di un salario minimo legale27, ed anche in Italia vi sono delle
proposte avanzate in tal senso.
Riquadro: I minimi contrattuali sono davvero minimi?
Uno degli argomenti che spesso vengono avanzati contro l'introduzione di un salario minimo
legale nei paesi che hanno invece dei minimi salariali fissati dalla contrattazione, come nel caso
dell'Italia, è che spesso il salario minimo legale, per non comportare problemi all'occupazione
nei settori a salario più basso, è fissato su livelli molto bassi. Ovvero il salario minimo legale
sarebbe fissato ad un livello inferiore rispetto ai minimi contrattuali di alcuni settori, e quindi
potenzialmente potrebbe comportare un progressivo livellamento verso il basso delle
retribuzioni. Come evidenziato in uno studio di Garnero, Kampelmann e Rycx (2013), i paesi
con contratti collettivi tendono ad avere in media salari minimi più elevati, in termini di salario
mediano (o medio), rispetto ai paesi che hanno invece salari minimi legali28. Confrontando i dati
26
In Italia infatti la contrattazione collettiva nazionale di settore (Ccnl) fissa dei salari minimi, che
coincidono con il valore tabellare per la categoria più bassa. I minimi contrattuali sono molteplici,
secondo i diversi contratti vigenti (che possono valere per più settori produttivi, oppure alcuni settori
applicano diversi contratti alle diverse figure professionali impiegate).
27
In Germania, la nuova Grande Coalizione di governo prevede che dal 2015 entrerà in vigore un salario
minimo legale.
28
I confronti non sono tra valori assoluti, a causa delle differenze di prezzo e di produttività tra i paesi,
ma in termini di indice di Kaitz, che misura il salario minimo come quota del salario mediano.
88
per l'Italia, ricostruiti dagli autori prendendo in rassegna gli 80 contratti collettivi che coprono il
maggior numero di lavoratori con i salari orari medi risultanti dall'indagine SES (Structural
Earnings Survey) condotta da Eurostat, si osserva come l'indice di Kaitz sia su livelli piuttosto
elevati, compresi tra lo 0.66 dei settori delle ‘attività finanziarie e assicurative’ e
‘dell'istruzione’ e lo 0.98 del settore ‘alberghi, turismo e ristorazione’. In altre parole, il salario
minimo contrattuale è sufficientemente alto da coprire buona parte dei lavoratori (il suo valore
non dista troppo dalla media). Inoltre, se si considera che l'indagine SES è ristretta alle sole
imprese con almeno 10 addetti e sono esclusi alcuni settori (caratterizzati da remunerazioni
relativamente basse, es. l'agricoltura), il rapporto rispetto al salario medio potrebbe essere
persino più elevato. Se si utilizzano invece i salari orari lordi medi per settori risultanti
dall'indagine IT-SILC (che pur risentono di problemi di misurazione, dato che si tratta di
retribuzioni dichiarate dai lavoratori), l'indice di Kaitz risulta compreso tra lo 0.74 della sanità e
dell'assistenza sociale all'1.19 delle costruzioni.
Tavola 1
I minimi contrattuali in Italia: quanti lavoratori coprono realmente?
salario minimo salario indice di salario indice di
contrattuale
medio Kaitz
medio Kaitz
2009
2010*
2009
A
A
B
B
a
agricoltura, silvicoltura, pesca
8.4
8.2
1.03
b-e
industria in s.s.
9.6
13.11
0.73
10.6
0.91
f
costruzioni
11.8
12.65
0.93
9.9
1.19
g
commercio
9.3
11.81
0.79
9.9
0.94
h
trasporto e magazzinaggio
11.0
13.64
0.80
11.4
0.97
i
alloggio e ristorazione
9.3
9.49
0.98
8.8
1.06
j
informazioni e comunicazioni
9.9
16.82
0.59
12.0
0.82
k
att.finanziarie e assicurative
14.5
21.94
0.66
15.9
0.91
l -n
att.immobiliari, professionali, noleggio
9.2
13.63
0.67
10.6
0.87
o
PA
13.3
13.2
1.01
p
istruzione
14.7
22.17
0.66
15.6
0.94
q
sanità e assistenza sociale
9.9
16.62
0.60
13.4
0.74
r-u
att.artistiche, sociali, altri servizi
8.6
10.65
0.81
8.9
0.97
A: salario medio da indagine SES (Structural Earnings Survey, Eurostat, 2010)
indagine su imprese di almeno 10 addetti (esclusi settori A, O, S)
B: elaborazioni su dati IT SILC Istat
Questi valori dell'indice di Kaitz segnalano come, di fatto, il salario orario risulti spesso
inferiore al minimo contrattuale: in molti settori una buona parte dei lavoratori ha salari inferiori
al minimo contrattuale. Secondo stime di Garnero, Kampelmann e Rycx, l'Italia è il paese con la
più elevata quota di persone di fatto non coperte dai minimi contrattuali: circa il 19 per cento dei
lavoratori risultano avere un salario orario lordo inferiore al minimo contrattuale rilevante per il
loro settore, con punte superiori al 30 per cento nelle costruzioni e in agricoltura.
89
Cosa sappiamo sugli effetti del salario minimo?
Esiste un’estesa letteratura empirica che ha analizzato, per diversi paesi, gli effetti
dell’introduzione di un salario minimo sui salari e sui tassi di occupazione (e
disoccupazione) dei lavoratori meno qualificati (si vedano le rassegne presenti nei lavori
di, Card e Krueger, 1995; Neumark e Wascher, 2007). Nonostante i risultati degli studi
empirici relativi agli effetti dell’introduzione di un salario minimo siano in parte
controversi, vi è sufficiente consenso circa i costi e i benefici che caratterizzano il
mercato del lavoro, in particolar modo nel segmento dei lavoratori meno qualificati.
In generale, gran parte degli studi che hanno valutato gli effetti sull’occupazione
dell’introduzione di un salario minimo concordano sul fatto che i suoi effetti siano nonnegativi e in molti casi moderatamente positivi. Questi risultati sono tuttavia soggetti a
due cautele: in primo luogo il salario minimo non deve essere fissato ad un livello
troppo elevato rispetto al salario medio, in secondo luogo alcuni gruppi, come ad
esempio i giovani che spesso alternano studio e lavoro, devono essere esclusi o soggetti
a minimi salariali inferiori. Gli effetti sui salari sono ovviamente maggiori per i
lavoratori che si trovano attorno alla soglia (positivi per chi si trova sotto,
moderatamente negativi per chi si trova immediatamente sopra), mentre non vi è
evidenza che il salario minimo alteri in modo significativo la distribuzione dei salari più
alti, contribuendo in tal modo al contenimento delle diseguaglianze dei redditi. Il salario
minimo, determina spesso anche dei vantaggi fiscali che derivano dal maggior gettito
originato dall’incremento di redditi e contributi, tuttavia tali vantaggi devono essere
confrontati con eventuali ulteriori esborsi per trasferimenti e sussidi. In generale, dagli
studi emerge come gli effetti netti di breve periodo sulle finanze siano spesso positivi.
Un aspetto critico dell’introduzione di un salario minimo riguarda i giovani (tra i 15 e i
18 anni) e gli apprendisti, cioè quei segmenti del mercato del lavoro in cui avviene la
transizione al lavoro per i lavoratori meno qualificati. Per questo tipo di studentilavoratori, quando il salario minimo si colloca al disopra del livello di equilibrio,
possono manifestarsi effetti di spiazzamento sull’occupazione e disincentivi al
proseguimento degli studi o della formazione sul lavoro. Sebbene spesso si faccia
riferimento al salario minimo come strumento redistributivo per i lavoratori a basso
90
reddito, gli studi mostrano chiaramente che gli effetti redistributivi del salario minimo
sono limitati ai nuclei famigliari con un solo percettore a basso reddito. In tutti gli altri
casi, il salario minimo non ha effetti redistributivi significativi, mentre altri strumenti
risultano più efficaci per raggiungere gli stessi obiettivi. In particolare, l’introduzione
del salario minimo dovrebbe tener in debito conto le interazioni con il sistema di sussidi
e trasferimenti per evitare effetti disincentivo e spiazzamento dovuti ad aliquote
marginali elevate per alcune categorie di lavoratori (ad es. i lavoratori part-time,
percettori di sussidi condizionali al redddito, numero di figli, ecc.).
Le esperienze internazionali sono di grande aiuto in questo senso.
Il Regno Unito, nel 1999, ha re-introdotto un salario minimo legale ed ha istituito una
Low Pay Commission incaricata di proporre delle raccomandazioni per l’adeguamento
dei minimi salariali alla crescita della produttività e dei prezzi. Attualmente il livello del
salario minimo legale è di 6,31 sterline per ora lavorata (circa 7,50 euro). Sono previsti
minimi salariali inferiori per i giovani (5,03 sterline per 20-18 anni, 3,72 sterline per
18-16 anni) e per gli apprendisti (2,68 sterline).
Negli Stati Uniti il salario minimo legale (federale) è attualmente fissato a 7,25 dollari
all’ora (circa 5,25 euro) con clausole di esclusione per i giovani e significative
differenze tra gli Stati. Al momento sono in discussione al Congresso piani per portare
entro 2016 il salario minimo a 10,10 dollari all’ora. In Francia il salario minimo legale,
detto SMIC (salaire minimum interprofessionnel de croissance), si applica in modo
relativamente rigido a tutti i lavoratori (fissato a 9,35 euro) con limitate eccezioni per i
minori di 18 anni e per gli apprendisti. Lo SMIC è adeguato automaticamente al tasso di
inflazione e in modo discrezionale, in base alle raccomandazioni di una commissione, al
tasso di crescita medio delle retribuzioni. In Spagna il salario minimo SMI (salario
minimo interprofesional) è pari a 4,48 euro all'ora. Infine, sebbene per ora in Germania
non ci sia un salario minimo legale, l'accordo che ha portato alla nascita della nuova
Grande Coalizione di governo prevede, a partire dal 2015, l'introduzione di un salario
minimo legale pari a 8,50 euro all'ora. Dato un salario orario mediano di circa 17 euro,
il livello del salario minimo in discussione in Germania implica un indice di Kaitz pari a
50%, che sale al 60% se vengono considerati anche i lavoratori part-time (Zimmermann,
2014). Per questi motivi, l'istituzione del salario minimo legale in Germania è stata
accompagnata da molte polemiche, anche perché molti posti di lavoro creati negli ultimi
91
anni (come i mini-jobs) sono posti di lavoro a bassa remunerazione che rischiano di
essere spiazzati dall'introduzione di un salario minimo più elevato.
Da rilevare che un aspetto tradizionalmente trascurato nelle analisi degli effetti del
salario minimo, riguarda i costi per le azioni di monitoraggio, vigilanza e contrasto
rispetto alla corretta applicazione dei minimi salariali. In paesi caratterizzati da una
diffusa elusione fiscale, contributiva e normativa (come l’Italia), questi aspetti
potrebbero rivelarsi particolarmente importanti, andando ad alimentare anche il ricorso
al lavoro nero.
L’introduzione di un salario minimo legale in Italia
Una delle argomentazioni avanzate contro l'introduzione di un salario minimo legale in
Italia si fonda sul timore che ciò comporterebbe un indebolimento del ruolo della
contrattazione collettiva e un appiattimento verso il basso della distribuzione dei salari
(il salario minimo nazionale, potrebbe essere inferiore ai salari minimi di alcuni
contratti). Tuttavia, come dimostrato in Checchi e Lucifora (2002) il salario minimo
legale è una istituzione che rafforza il ruolo del sindacato e il suo potere contrattuale,
complementando ed estendendo l’azione di protezione delle retribuzioni del sindacato
anche a quei lavoratori che sono più difficili da sindacalizzare e tutelare con la
contrattazione. Infatti, come già discusso, una parte dell'occupazione dipendente già
risulta, al netto di errori di misurazione e di sottodichiarazione, non coperta dai minimi
contrattuali. I working poor infatti rappresentano solo un sottoinsieme di questo gruppo
di persone (la soglia di povertà in termini di salario lordo orario è ampiamente inferiore
al più basso dei minimi contrattuali). Negli anni inoltre, per effetto della crescente
diffusione di nuove fattispecie contrattuali e dell’erosione degli effetti della
contrattazione collettiva, è cresciuta la quota di lavoratori non coperta che percepisce
salari inferiori ai minimi. In tale contesto, l'introduzione di un salario minimo legale
potrebbe consentire una forma di garanzia - almeno per i meno tutelati -, contenendo il
fenomeno dei working poor. Come l’esperienza internazionale insegna, il successo di
interventi legislativi in materia di salario minimo dipende dal livello a cui viene fissato
il minimo e dai meccanismi di adeguamento. Un livello elevato incorre nel rischio di
92
spiazzare la domanda di lavoro per le fasce più deboli (giovani e persone con bassa
qualificazione), la cui occupazione sta già pesantemente risentendo della crisi.
Nell’ipotesi che un salario minimo legale venga introdotto nell’ordinamento italiano,
può essere utile valutare quale copertura sarebbe garantita in corrispondenza di diversi
livelli salariali. Se per esempio il salario minimo venisse fissato al livello di 6.5 euro
lordi all'ora, non troppo distante dalla soglia di povertà retributiva, pari a 6,88 euro (in
termini di retribuzione lorda oraria del 2011)29, risulterebbero interessati la maggior
parte dei working poor tra i lavoratori dipendenti. Dei quasi 2 milioni 75 mila lavoratori
a bassa remunerazione (pari al 10 per cento dell'occupazione dipendente), solo 305 mila
risulterebbero non coperti, pari a circa 15 per cento dei working poor. Per la
maggioranza dei working poor il salario minimo comporterebbe una riduzione della
distanza relativa dalla povertà (poverty gap ratio) dal 21.8 per cento al 5.1 per cento.
Nel caso in cui il minimo salariale venisse fissato ad un livello più basso, ad esempio
pari a 4,50 euro all'ora come nel caso dello SMI spagnolo30, coprirebbe solo una quota
limitata di working poor (circa il 19.6 per cento), pari a 406mila lavoratori (meno del
2.5 per cento dei lavoratori dipendenti). Il poverty gap ratio si ridurrebbe al 13.5 per
cento (dal 21.8 per cento). Un livello di salario minimo pari a quello previsto in
Germania o a quello vigente in Francia avrebbero effetti decisamente più rilevanti sia
sulla povertà retributiva. Nel primo caso, un salario minimo fissato a 8.5 euro lordi l'ora
coprirebbe quasi il 28 per cento degli occupati dipendenti (4 milioni 912mila
lavoratori), quindi non working poor ma anche lavoratori con un salario superiore alla
soglia. Nel secondo caso, un livello salariale pari allo SMIC francese (pari a 9.53 euro)
coprirebbe oltre 7 milioni di lavoratori, circa il 40 per cento dell'occupazione
dipendente. In entrambi i casi, un salario minimo legale fissato a livelli così alti
inciderebbe con buone probabilità negativamente sull’occupazione dei giovani e dei
lavoratori meno qualificati.
Tavola 2
29
In questo caso, per identificare i working poor viene utilizzata la distribuzione delle retribuzioni lorde
orarie relativa al 2011 (ultimo anno disponibile). Inoltre, le simulazioni non prendono in considerazione
eventuali cambiamenti nella distribuzione indotti dal salario minimo.
30
Lo SMI è pari (a gennaio 2014) a 753 euro lordi al mese. Il calcolo del salario orario tiene conto
dell'orario standard (40 euro) settimanale.
93
Ipotesi di istituzione di un salario minimo legale in Italia
livello (euro lordi
all'ora)
lavoratori coperti % occ.dipendente
ipotesi 1
ipotesi SMI Spagna
ipotesi Germania
ipotesi SMIC Francia
6.50
4.48
8.50
9.53
1 768 762
406 136
4 912 410
7 198 299
10.0
2.3
27.8
40.7
elaborazioni su dati IT SILC Istat al 2011
In conclusione, sembra che una politica prudente di introduzione di un minimo salariale
legale fissato ad un livello prossimo alla soglia di povertà retributiva, con opportune
clausole di salvaguardia per giovani e apprendisti, sia quella che dia maggiori garanzie
di successo in termini di benefici retributivi e minori costi in termini di potenziale
spiazzamento occupazionale. L’adeguamento di tale livello, alla crescita della
produttività e dei prezzi, dovrebbe essere perseguito in modo graduale e senza
automatismi, da una commissione indipendente che dopo un attento monitoraggio degli
effetti redistributivi e occupazionali, faccia delle raccomandazioni al Parlamento.
Il taglio del cuneo fiscale
Come già discusso, il salario minimo ha come obiettivo principale quello di garantire
salari equi, di contrastare il potere monopsonistico delle imprese e di prevenire una
concorrenza sleale sui bassi salari. Il ruolo del salario minimo come strumento di
redistribuzione e di protezione dei singoli lavoratori e delle famiglie dalla povertà è
invece molto controverso. Numerosi studi hanno evidenziato come molti lavoratori a
bassa remunerazione siano inseriti in nuclei familiari con un reddito ben al di sopra
della soglia di povertà. Tuttavia, mentre per un nucleo monoparentale il reddito netto
garantito dal salario minimo è sufficiente quasi ovunque in Europa per superare la
soglia di povertà (con l’eccezione del Regno Unito e della Spagna in cui il salario
minimo è molto basso), nel caso di famiglie numerose questo non è più vero (Marx e
Nolan, 2012). Tra le misure di contrasto alla povertà, che fanno parte della strategia
europea e sono introdotte in molti paesi da tempo, vi sono misure dirette a ridurre il
cuneo fiscale, sia attraverso riduzioni del prelievo fiscale sia di quello contributivo,
spesso dirette ai lavoratori a basso salario. Un aspetto degno di nota è che nei casi in cui
le decontribuzioni non sono in qualche modo coperte dalla fiscalità generale, i tagli dei
94
contributi rischiano di tradursi in una riduzione delle prestazioni sociali attese in futuro,
e quindi un maggiore rischio di povertà per le generazioni future.
Il tema è molto dibattuto anche in Italia, sia per il livello elevato della pressione fiscale
in generale, sia per la rilevanza del cuneo fiscale. Secondo stime Ocse, in Italia nel 2013
il cuneo fiscale per i lavoratori single (senza figli) con salari lordi pari al 67 per cento di
quello medio nel settore privato era pari al 44,6 per cento del costo del lavoro, tra i
livelli più elevati in Europa (la media Ocse è pari al 32,2 per cento). La riduzione del
cuneo fiscale attraverso un “credito d’imposta” a favore dei lavoratori dipendenti (e
assimilati) con redditi bassi (fino a circa 24mila euro lordi l'anno) è stata recentemente
introdotta, tuttavia è ancora presto per poter valutare gli effetti sui consumi e
sull’occupazione. Se reso strutturale ed orientato ai lavoratori a rischio di povertà
retributiva questo tipo di intervento potrebbe senz’altro contribuire ad una riduzione
della quota di working poor. Tuttavia, per il meccanismo di decontribuzione utilizzato,
il provvedimento recentemente preso dal governo interessa i redditi dei lavoratori non
eccessivamente poveri (quelli con un minor poverty gap ratio) mentre sono rimasti
esclusi i lavoratori a maggiore rischio di povertà, cioè quelli che appartengono alla
cosiddetta “no-tax” area (i cosiddetti ‘incapienti’). Un’estensione dei benefici
dell’intervento anche a questi lavoratori sembra altamente desiderabile.
Le politiche di contrasto alla povertà delle famiglie (in-work poverty)
Quali strumenti per sostenere le famiglie?
Alle politiche di sostegno ai redditi dei lavoratori a bassa remunerazione dovrebbero
essere affiancate misure dirette alle famiglie. La in-work poverty, ovvero lo stato di
povertà di una famiglia nonostante la presenza di almeno un componente che risulta
occupato, è infatti associata non tanto alle basse retribuzioni in sé, quanto alla bassa
intensità occupazionale all'interno del nucleo familiare. Se c'è un solo percettore di
reddito da lavoro, e questo è un lavoratore a bassa remunerazione, il rischio di povertà
della famiglia è elevato.
Per questi casi è inefficace o inefficiente puntare esclusivamente ad aumenti del salario
minimo: incrementi contenuti, non eccessivamente distorsivi, non sarebbero efficaci per
95
sostenere il reddito delle famiglie che dipendono unicamente dal reddito di un
lavoratore working poor, mentre incrementi più elevati sarebbero inefficienti, perché
oltre ad aumentare eccessivamente i costi del lavoro per le imprese, andrebbero a
beneficio anche di lavoratori a bassa remunerazione ma non poveri.
Gli strumenti da utilizzare in questo caso sono altri, eventualmente da combinare con
l'incremento (o l'istituzione) del salario minimo. Possono essere misure, dirette o
indirette, per facilitare la partecipazione al mercato del lavoro, aumentando l'intensità
occupazionale delle famiglie e dotandole così di maggiori garanzie, oppure interventi a
sostegno dei redditi delle famiglie.
Le misure più comunemente applicate per sostenere il reddito delle famiglie,
contrastandone il rischio di povertà, sono quelle derivanti da interventi sul sistema
fiscale, via riduzione delle imposte (ad esempio con detrazioni e deduzioni) e
trasferimenti (es. gli assegni familiari). In questo modo si fornisce un sostegno, anche
solo parziale, al reddito netto delle famiglie che hanno persone a carico, come i
bambini. In Italia le detrazioni, come quelle per figli a carico, hanno la prerogativa di
aumentare la progressività del sistema fiscale, dato che la differenza tra aliquota media e
aliquota marginale si riduce al crescere della base imponibile. Il loro ammontare, però, è
generalmente modesto e non consente di contrastare efficacemente la povertà,
soprattutto se non sono previste forme di imposta negativa per chi è incapiente.
Per quanto riguarda i trasferimenti alle famiglie, le scelte se estenderli a tutte le famiglie
oppure limitarli solo alla famiglie con reddito più basso hanno ciascuna dei pro e dei
contro. Da una parte, trasferimenti mean-tested - ovvero condizionati alla scarsità dei
mezzi (destinati quindi solo a chi non supera determinate soglie di reddito) - permettono
di essere molto più efficaci nella riduzione della povertà anche con risorse limitate, dato
che minimizzano gli effetti “spreco” nel fornire sostegno a famiglie che stanno sopra la
soglia di povertà. Tuttavia, presentano il non trascurabile difetto di disincentivare la
mobilità salariale e la partecipazione al lavoro (soprattutto dei percettori aggiuntivi di
reddito, i cosiddetti secondary earners), sia per quanto riguarda il margine intensivo
(ore lavorate), sia quello estensivo (intensità di ricerca del lavoro). Infatti, il rischio di
perdere i benefici in seguito a miglioramenti salariali o all'occupazione di un
componente che prima era inoccupato, induce delle risposte comportamentali che
scoraggiano l’attività lavorativa dei componenti del nucleo familiare. A causa delle
96
perdite di efficienza sopra discusse, e anche in considerazione del fatto che quest’ultime
possano superare i benefici redistributivi, questo tipo di interventi sono stati fonte di
molte controversie ed hanno contribuito a sviluppare politiche di workfare,
maggiormente orientate a favorire la partecipazione dei lavoratori al mercato del lavoro.
Un esempio di trasferimenti condizionati alle famiglie è dato dai cosiddetti in-work
benefits, sviluppati nell'ambito delle politiche Making work pay (MWP) promosse
nell’ambito della strategia europea per l’occupazione.
Le politiche per rendere vantaggioso il lavoro
Da oltre un decennio, il modello di Making work pay (ovvero, rendere il lavoro più
vantaggioso) è entrato a far parte della strategia europea per l'occupazione, al fine di
rendere lo status di lavoratore più attraente rispetto a quello di inattivo o disoccupato.
Scopo di queste politiche è quindi l'attivazione degli individui, in modo da sfuggire alle
trappole dell'inattività, innescate ad esempio da politiche sociali generose (OECD,
1997).
L'attuazione di questa tipologia di politiche di sostegno al reddito e incentivazione al
lavoro (MWP) ha trovato, nella pratica, diverse forme. Prevalentemente sono stati
introdotti dei crediti d'imposta (tax credits) o dei trasferimenti (in-work benefits) a
favore degli occupati, in modo da incrementarne il reddito (condizionato
all'occupazione) rendendo più convenienti anche impieghi a bassa remunerazione, senza
aumentare eccessivamente il salario minimo, dati i rischi di distorsione del mercato del
lavoro, come precedentemente discusso. Due esempi di questo tipo di politiche sono
rappresentati dal Earned Income Tax Credit (EITC) degli Stati Uniti e il Working
Family Tax Credit (WFTC) del Regno Unito (in vigore fino al 2003 e poi sostituito dal
Working Tax Credit). Nonostante il nome, non si tratta di riduzioni di imposta, ma di
trasferimenti (o imposta negativa) per famiglie (con o senza figli) in cui almeno un
adulto sia occupato (dipendente o autonomo). La struttura degli incentivi è tuttavia
molto diversa tra i due schemi. L’EITC eroga incentivi anche in corrispondenza di
redditi molto bassi e si riduce molto gradualmente al crescere del reddito e di altri
parametri relativi alla composizione familiare. Il WFTC invece è condizionato alla
presenza di un lavoratore occupato per almeno 16 ore a settimana, e con un reddito
97
familiare al di sotto di una soglia. Dal 2003, il Working Tax Credit (WTC) è stato esteso
anche a famiglie senza figli a carico, con il vincolo di un minimo di ore lavorate a
settimana.31 Altri modelli di credito d'imposta sono il Crédit d'impôt sur les bas revenus
de l'activité professionnelle belga e il Prime pour l'emploi (PPE) francese. Nel primo
caso si tratta di una riduzione del carico fiscale per i contribuenti che risultano occupati
per almeno 13 ore a settimana e con un reddito individuale al di sotto di una soglia
compatibile con remunerazioni da lavoro prossime al salario minimo. Il PPE francese è
un credito d'imposta individuale per i lavoratori che hanno una remunerazione annuale
che non superi del 40 per cento lo SMIC, ovvero il salario minimo. La soglia di reddito
è incrementata nel caso ci siano figli o coniugi a carico. C'è anche una soglia minima
per le retribuzioni individuali, che esclude le persone che lavorano meno di 11 ore a
settimana. Il PPE ha una componente variabile, che cresce al crescere del numero delle
ore lavorate ed è invece decrescente all'aumentare del salario orario.
Studi teorici ed empirici (Saez, 2002; OECD, 2003; Blumkin e Danziger, 2014) hanno
mostrato come le politiche di MWP siano efficaci nel ridurre la povertà e l’esclusione
sociale nelle famiglie a maggiore rischio di povertà e consentano, contestualmente, di
aumentare la partecipazione (e in molti casi l’occupazione) degli individui a più basso
reddito destinatari di sussidi. Il dibattito che si è sviluppato successivamente ha
riguardato il disegno ottimale degli schemi di incentivazione e le risposte
(comportamentali) degli individui.
Politiche di attivazione e disegno ottimale degli incentivi
Sebbene le diverse politiche di MWP mettano tutte al centro l’attivazione al lavoro dei
membri inattivi al fine di contrastare la povertà delle famiglie, le diverse misure hanno
implicazioni diverse in termini di incentivazione al lavoro dei componenti aggiuntivi
(secondary earner) e riduzione della in-work poverty. In particolare, il dibattito di
politica economica si è concentrato sui criteri per l'accesso ai crediti d'imposta in
31
Gli individui al di sotto dei 60 anni devono lavorare almeno 30 ore retribuite a settimana. Mentre i
nuclei monoparentali (con figli a carico) hanno diritto al WTC con 16 ore di lavoro settimanali, nel caso
di coppie (con figli a carico) è necessario che complessivamente le ore lavorate siano 24, di cui almeno 16
da parte di uno dei due componenti della coppia.
98
termini di reddito (individuale o familiare), composizione familiare (con o senza figli) e
requisiti di ore minime lavorate.
Ad esempio, una particolarità degli schemi che fissano oltre a soglie di reddito e
parametri di composizione familiare anche un minimo di ore lavorate (come nel caso
del WFCT) è quello di introdurre aliquote marginali elevate in corrispondenza delle
soglie di attivazione degli incentivi che incentivano la partecipazione ma disincentivano
le ore lavorate. Per converso schemi di tipo EITC caratterizzati da incentivi a partire da
redditi molto bassi e una riduzione molto graduale al crescere del reddito, favoriscono
moderatamente la partecipazione anche per occupazioni part-time ed hanno effetti di
disincentivo contenuti nella fase di riduzione dei benefici (OECD 2003). I risultati di
alcuni studi di microsimulazione inoltre hanno mostrato come l'effetto dell'introduzione
di un credito d'imposta per l'occupazione calcolato con riferimento al reddito familiare
(come nel caso del WFCT) sia in generale più efficiente per ridurre la povertà (essendo
destinato ai nuclei familiari a basso reddito), mentre nel caso di misure per le quali
l'accesso è stabilito sulla base di criteri individuali c’è il rischio di trasferire risorse a
lavoratori a bassa remunerazione che però non appartengono a nuclei familiari poveri
(Bargain e Orsini 2004). Ma le differenze maggiori emergono in termini di reazioni
dell'offerta di lavoro: se nei nuclei individuali o monoparentali entrambe le misure
forniscono incentivi alla partecipazione dell'adulto (in modo da avere accesso ai
sussidi), lo stesso non si può dire per le coppie. In questo caso, gli incentivi indirizzati
alle famiglie scoraggiano la partecipazione dei secondary earners (che sono
principalmente donne): il reddito aggiuntivo derivante dal lavoro di questi, infatti,
rischia di far perdere alla famiglia il diritto al credito d'imposta per superamento della
soglia. Nel caso di sussidi individuali, invece l’incentivazione alla partecipazione
interessa anche i percettori secondari di reddito, dato che l'accesso è valutato sui redditi
individuali e non familiari, riducendo inoltre la quota di persone con salari molto bassi.
Risultati simili si osservano non solo per quelle misure alle quali l'accesso è dato dal
reddito familiare, ma anche per quelle che riconoscono vantaggi addizionali (ad
esempio, soglie più ampie) nel caso di coniugi a carico, come nel caso del PPE francese.
Gli in-work benefits funzionano bene nell'attivare anche i percettori di reddito secondari
quando, oltre a tenere in conto i redditi individuali e le ore lavorate individualmente,
operano in combinazione con altre politiche di attivazione. Tra queste, le misure che
99
favoriscono la conciliazione tra occupazione e responsabilità all'interno della famiglia,
in modo da facilitare l'ingresso nel mercato del lavoro dei membri inattivi (ma
impegnati in compiti di cura). In particolare, le misure riguardano le donne, che
all'interno dei nuclei familiari sono quelle che più frequentemente si trovano ad
occuparsi dei compiti di cura di bambini e familiari non autosufficienti.
Oltre alla diffusione del part time, che favorisce la partecipazione femminile al mercato
del lavoro, gli interventi riguardano soprattutto la fornitura di servizi di cura. Conta non
solo la disponibilità di questi servizi (espressa ad esempio nella percentuale di posti
disponibili rispetto alla potenziale domanda, es. numero di bambini), ma anche la loro
flessibilità d'orario, che rende più facile usufruirne senza dover ricorrere ad ulteriori
aiuti. Inoltre sono importanti i costi di questi servizi: quanto più sono elevati, tanto
maggiore sarà il salario di riserva. Un recente studio empirico per l'Italia ha evidenziato
come un sussidio parziale al costo dei servizi di cura avrebbe un effetto positivo e
significativo sul tasso di occupazione femminile (Del Boca e Vuri 2006). Inoltre, un
aumento dell'offerta di servizi di cura potrebbe determinare un incremento
dell'occupazione anche, indirettamente, per mezzo di una maggior domanda di
personale per questi servizi (che sono ad elevata intensità femminile).
Altri strumenti a cui ricorrere per incentivare l'attivazione dei membri inattivi delle
famiglie, e quindi ridurre i rischi di in-work poverty, sono i programmi di formazione o
riqualificazione professionale che intervengono sulla capacità potenziale dell'individuo
di essere occupato e di percepire redditi. Un miglioramento delle politiche attive del
lavoro, ovvero delle azioni mirate alla collocazione lavorativa delle persone, come
l'orientamento e l'accompagnamento nella ricerca, è un elemento da non trascurare nel
disegno complessivo di una strategia di sostegno alle famiglie.
In conclusione, gli strumenti a disposizione dei policy-maker sono diversi, e spesso la
migliore strategia è cercarne la combinazione ottimale piuttosto che puntare
esclusivamente su una sola misura.
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