3. Introduzione, tesi, conclusione - Il Mappamondo di Marco Rizzinelli
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3. Introduzione, tesi, conclusione - Il Mappamondo di Marco Rizzinelli
INTRODUZIONE Le relazioni tra Europa e Stati Uniti, già mutate profondamente durante gli anni Novanta a causa della conclusione della guerra fredda, hanno subito ulteriori e più radicali trasformazioni dopo gli attacchi terroristici dell‟undici Settembre 2001. Con il presente elaborato si sono volute studiare le cause dei cambiamenti nel rapporto transatlantico, partendo da un‟analisi della politica estera americana durante i mandati del presidente George W. Bush, per poi esaminare le problematiche interne ad istituzioni quali la NATO e L‟Unione Europea. Sono state inoltre osservate le differenze in ambito politico e culturale tra Stati Uniti ed Unione Europea. Innanzitutto sono state esaminate le trasformazioni in materia di politica estera apportate dal presidente Bush e sono state osservate similitudini e differenze con le precedenti amministrazioni. Sono stati poi considerati i principali eventi che hanno portato all‟elaborazione delle strategie per l‟intervento in Afghanistan ed in Iraq. In seguito è stato trattato il tema dell‟esportazione della democrazia attraverso l‟azione militare. Esaminando il dibattito tenutosi tra intellettuali ed esponenti politici, è stata analizzata la questione della legittimità di tale intervento a livello internazionale. Nella seconda parte dell‟elaborato sono stati riportati ed esaminati i principali eventi che hanno condotto alla crisi nelle relazioni transatlantiche durante i primi mesi del 2003. È stata inoltre approfondita la questione riguardante le differenze politiche e culturali fra Unione Europea e Stati Uniti, per comprendere più a fondo le cause della crisi nel rapporto tra le due sponde dell‟Atlantico relativa all‟intervento armato in Iraq. Sono state in seguito analizzate le questioni interne alle due principali istituzioni coinvolte nella crisi delle relazioni tra Europa e Stati Uniti: l‟Alleanza Atlantica e l‟Unione Europea. Queste due istituzioni hanno vissuto importanti trasformazioni già a partire dagli anni 1 Novanta, per poi evolversi in modo più radicale dopo il 2001. Con la fine della guerra fredda si sono dovuti ridefinire i ruoli e i compiti della NATO all‟interno del sistema internazionale, soprattutto per quanto riguarda l‟allargamento della membership ai paesi dell‟Europa orientale, un tempo satelliti dell‟Unione Sovietica. È stata inoltre esaminata la problematica degli interventi «out of area». Il dibattito concerne i limiti di tale concetto: l‟Alleanza Atlantica può intervenire anche fuori dai propri confini territoriali, o deve limitarsi ad operare durante le crisi che si verificano sul territorio degli stati membri? La questione dell‟allargamento della membership ha riguardato anche l‟Unione Europea, organizzazione che dagli anni Novanta ha cercato di ridefinire la propria identità e di sviluppare una politica estera comune a tutti gli stati membri. Un‟altra questione fondamentale per l‟Unione Europea concerne lo sviluppo di un apparato militare comune rilevante a livello internazionale. A tal proposito è stata esaminata la possibilità futura per i paesi europei di intervenire in modo autonomo in caso di una crisi nel sistema internazionale. L‟intento principale di questo elaborato è quello di capire se i cambiamenti attuati in materia di politica estera dall‟amministrazione Bush abbiano costituito un elemento di novità, o se si possano giudicare in linea con la tradizione politica americana. Per analizzare a fondo tale questione sono stati presi in considerazione e brevemente analizzati gli ideali che sin dalla nascita degli Stati Uniti ne influenzano la politica estera. Per quanto riguarda le legittimità dell‟intervento armato al fine di esportare la democrazia in altri paesi, sono state prese in considerazione diverse opinioni al riguardo per esaminare in modo accurato il dibattito relativo a tale argomento. Con questo elaborato si è anche cercato di dimostrare come le crisi nell‟ambito delle relazioni tra Europa e Stati Uniti siano arrivate nel 2003 ad un punto di rottura non solo a causa delle decisioni in materia di politica estera prese da parte dell‟amministrazione Bush, ma anche a causa della frattura interna all‟Unione Europea. A questo proposito sono state analizzate alcune opinioni relative al dibattito se gli Stati Uniti costituiscano un «impero» e se l‟Unione 2 Europea costituisca un modello alternativo di riferimento per la comunità internazionale, sia da un punto di vista politico che sociale. 3 CAPITOLO PRIMO LA POLITICA ESTERA DEGLI STATI UNITI DOPO L‟UNDICI SETTEMBRE 2001 I cambiamenti avvenuti nell‟ambito della politica estera statunitense dopo gli attacchi terroristici dell‟undici Settembre 2001, possono essere meglio compresi analizzando gli ideali alla base del pensiero politico americano e la filosofia del presidente George W. Bush. 1.1 FONDAMENTI DELLA POLITICA ESTERA STATUNITENSE: DA GEORGE WASHINGTON AGLI INIZI DEL XX SECOLO L‟idea basilare per l‟analisi della politica estera americana risale alla presidenza di George Washington (1789-1797) : “ La sua visione di un‟America che commerciava felicemente con l‟Europa, ma per altro verso rimaneva lontana da essa, divenne la pietra angolare della politica estera della nuova nazione.”1 Gli Stati Uniti d‟America furono quindi guidati, subito dopo la conquista dell‟indipendenza, dal presidente definito come il padre dell‟ideale isolazionista, ideale che, per certi versi, ancora oggi caratterizza la politica estera americana. Un altro ideale che influenza la politica estera americana attuale è quello internazionalista. I sostenitori di questa fazione ritenevano che gli Stati Uniti avrebbero accresciuto la propria potenza economica, la propria rilevanza politica e avrebbero difeso gli interessi nazionali, solo espandendo il proprio territorio ed assecondando ambizioni imperialistiche2. L‟ideale 1 I. H. DAALDER, J. M. LINDSAY, America Senza Freni, la Rivoluzione di Bush, Vita e Pensiero, Milano 2005, p. 12 2 Per approfondimenti sul dibattito relativo al tema se gli Stati Uniti possano definirsi o meno un impero, si veda il par. 2.2 4 internazionalista si sviluppò durante il diciannovesimo secolo e prese il sopravvento con la vittoria della guerra ispano-americana (1895-1898) : “ Con la guerra ispano-americana e il Corollario alla Dottrina Monroe di Roosvelt, per la prima volta gli internazionalisti ebbero la meglio sugli isolazionisti nella contesa per definire l‟interesse nazionale.”3 Con la presidenza di Woodraw Wilson (1913-1921) si assiste al capovolgimento della morale insita negli ideali tipici della politica americana secondo cui gli Stati Uniti avrebbero dovuto agire all‟estero solo in difesa dei propri interessi. La partecipazione degli Stati Uniti al primo conflitto mondiale portò alla vittoria degli Alleati e all‟ideazione della Società delle Nazioni. L‟ idea alla base della Società delle Nazioni era quella di creare un sistema di sicurezza collettivo, idea rivoluzionaria per la politica americana4. Fu con la mancata adesione alla Società delle Nazioni che l‟ideale internazionalista entrò in crisi; inoltre, durante gli anni Venti, ci furono altri dibattiti interni alla fazione internazionalista relativi alle modalità di impegno all‟estero. Agli inizi degli anni Trenta con la Grande Depressione e con le prime avvisaglie della guerra in Europa, negli Stati Uniti si fece spazio un forte sentimento isolazionista. Lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, l‟occupazione della Polonia e l‟invasione dell‟Unione Sovietica da parte della Germania non furono motivazioni sufficienti a convincere gli Stati Uniti della necessità di agire. Solo dopo l‟attacco da parte dei giapponesi a Pearl Harbor gli americani si decisero ad intervenire. Usciti vincitori dal conflitto, gli Stati Uniti dominavano il mondo economicamente, militarmente e politicamente. Le questioni di politica estera che gli americani dovettero affrontare riguardavano non ciò che gli Stati Uniti potevano fare per il mondo, ma ciò che avrebbero potuto fare, poiché si trovarono in una posizione dominante all‟interno del sistema internazionale. Il presidente Henry S. Truman 3 Ibi, p.14 4 Nonostante fossero stati proprio gli sforzi del presidente statunitense W. Wilson a far nascere la Società delle Nazioni, gli Stati Uniti non vi aderirono mai a causa dell'opposizione che fece il Partito Repubblicano al Senato, impedendo la ratifica del Trattato di Versailles del 1919. 5 (1945-1953) affrontò la questione impegnandosi a perseguire gli obiettivi di Wilson senza ripeterne gli errori: egli rimodellò la politica estera americana con quella che poi fu chiamata la Dottrina Truman, “ Deve essere la politica degli Stati Uniti ad aiutare quei popoli liberi che oppongono resistenza a tentativi di conquista da parte di minoranze armate o di oppressioni esterne.”5 I principi della Dottrina Truman vennero attualizzati nella prassi attraverso il Piano Marshall che portò gli Stati Uniti a ricoprire un ruolo principale nella ricostruzione europea dopo il Secondo conflitto mondiale. Inoltre nel 1949, con la firma del trattato che creava la North Atlantic Treaty Organization (NATO), Truman ancorò in modo definitivo gli interessi di sicurezza statunitensi a quelli dell‟Europa occidentale. La partecipazione degli Stati Uniti ad istituzioni multilaterali aveva, per il presidente e i suoi consiglieri, l‟obiettivo di riuscire a mantenere più facilmente il potere statunitense, senza provocare risentimenti. Le scelte di Henry S. Truman non trovarono però approvazione in tutte le fazioni politiche; questa volta la sfida non veniva dagli isolazionisti, ma dai conservatori radicali. Questi ultimi ritenevano che la politica di contenimento dell‟Unione Sovietica elaborata da Henry S. Truman fosse troppo debole: secondo i conservatori radicali gli Stati Uniti avevano il dovere di attuare una politica del rollback6. I sostenitori di questa politica credettero di aver trovato il proprio leader in Dwight D. Eisenhower (1953-1961), ma la dottrina del rollback rappresentò un‟offensiva propagandistica e ideologica più che una vera linea politica. L‟attrattiva di questo tipo di politica si affievolì considerando il fatto che qualsiasi accenno all‟uso della forza armata per liberare l‟Europa orientale avrebbe potuto portare ad una guerra nucleare. Quindi Dwight D. Eisenhower continuò a seguire la linea di Henry S. Truman in politica estera: le organizzazioni internazionali, soprattutto le alleanze militari, erano uno strumento 5 Public Papers of the President of the United States: Henry S. Truman, 1947, Government Printing Office, Washington, D.C. 1963, pp.178-179 6 Strategia di politica estera elaborata nel 1953-1954 dal segretario di stato J.F. Dulles. Letteralmente intendeva far arretrare il comunismo, ossia l'espansione sovietica nell'Europa orientale, dove gli Stati Uniti perseguivano l'instaurazione di regimi democratico-parlamentari, lo svolgimento di libere elezioni e la riunificazione delle due Germanie. 6 chiave per la difesa degli interessi di Washington all‟estero. Nonostante si vantassero di essere stati i principali promotori di organizzazioni quali la NATO e l‟ONU, gli Stati Uniti non esitavano ad agire in modo unilaterale quando le organizzazioni multilaterali rifiutavano di seguire la linea politica statunitense. All‟inizio degli anni Novanta il crollo dell‟Unione Sovietica pose fine al dibattito interno agli Stati Uniti tra chi sosteneva la cooperazione con gli alleati e chi sosteneva l‟uso unilaterale della forza da parte dell‟unica superpotenza rimasta. “ Il vero dibattito negli anni Novanta non concerneva il se, ma il come gli Stati Uniti avrebbero dovuto impegnarsi nel mondo.”7 La presidenza di William Jefferson Clinton (1993-2001) fu caratterizzata dal ritorno al tradizionale approccio wilsoniano per la costruzione di un ordine mondiale basato sul rule of law. Le sue scelte relative alla politica estera gli procurarono critiche da parte dei suoi avversari. Secondo questi ultimi William J. Clinton non aveva capito che con il crollo dell‟Unione Sovietica, gli Stati Uniti avrebbero potuto agire come meglio credevano. Inoltre al presidente venne rimproverato di aver imprigionato gli Stati Uniti in una cornice multilaterale che non soddisfaceva nemmeno gli interessi nazionali più generali. Secondo i suoi oppositori, quindi, l‟America avrebbe potuto e dovuto essere senza vincoli. 1.2 LA PRESIDENZA DI GEORGE W. BUSH Alle soglie del nuovo millennio, gli Stati Uniti erano l‟unica superpotenza rimasta dopo un secolo caratterizzato da conflitti di portata mondiale. Da un punto di vista ideologico, erano il paese promotore del capitalismo e del liberalismo economico, cioè degli ideali usciti vittoriosi 7 I. H. DAALDER, J. M. LINDSAY, America Senza Freni, la Rivoluzione di Bush, Vita e Pensiero, Milano 2005, p. 22 7 dalla guerra fredda. Nonostante questo, c‟era chi pensava che il mondo fosse un luogo pericoloso, soprattutto per l‟America e che quindi il dovere di quest‟ultima era, si quello di continuare a promuovere libertà e democrazia, ma anche quello di utilizzare ogni mezzo per difendere gli interessi e gli obiettivi nazionali. George W. Bush credeva che l‟errore più grande commesso da William J. Clinton fosse quello di non essere riuscito a fissare le priorità; in particolare, secondo George W. Bush, l‟amministrazione del quarantaduesimo presidente aveva schierato le forze militari statunitensi in modo indifferenziato in giro per il mondo. Nonostante le critiche al suo predecessore , il presidente Bush non era ideologicamente contrario all‟intervento americano all‟estero. Per quanto riguardava l‟intervento nei Balcani, secondo George W. Bush, lo sbaglio di William J. Clinton non era stato quello di aver utilizzato attivamente la forza militare statunitense, ma quello di averla coinvolta in questioni di secondaria importanza. Secondo il quarantatreesimo presidente degli Stati Uniti bisognava avere obiettivi ben definiti e limitarsi ad intervenire con impegni specifici. Le critiche a William J. Clinton quindi riguardavano sia il modo in cui la sua amministrazione aveva fatto uso della forza militare americana, sia le relazioni intrattenute con alleati tradizionali e non8. Per quanto critico nei confronti delle buone relazioni instaurate dalla precedente amministrazione con Cina e Russia, George W. Bush cercò di mantenere relazioni stabili da un punto di vista commerciale per quanto riguardava la Cina e da un punto di vista militare per quanto riguardava la Russia. Nonostante tutto ciò, generalmente, gli obiettivi di politica estera di George W. Bush erano del tutto convenzionali. Già durante la campagna elettorale del 2000 il quarantatreesimo presidente espresse in modo chiaro la sua filosofia riguardo la politica estera. Questa filosofia non si basava tanto sui fini di tale politica, ma sul metodo d‟azione che gli Stati Uniti avrebbero dovuto attuare per raggiungerli: l‟uso unilaterale della forza americana era il modo più efficace per conseguire i propri obiettivi e non l‟azione in seno alle organizzazioni internazionali. Il mutamento portato 8 Clinton, durante la presidenza, si concentrò molto sul miglioramento delle relazioni con Cina e Russia, fatto per cui venne criticato da Bush poiché, secondo quest‟ultimo, erano state trascurate le alleanze tradizionali con i paesi europei. 8 da George W. Bush in politica estera poggia su due principali convinzioni: innanzitutto, secondo il presidente, liberarsi dei vincoli posti dagli alleati e dalle istituzioni era il modo più efficace per garantire la sicurezza agli Stati Uniti. In secondo luogo un‟America senza vincoli avrebbe dovuto usare la propria forza per mutare lo status quo nel mondo. Secondo la filosofia di George W. Bush quindi gli Stati Uniti avrebbero dovuto rivolgersi all‟estero in maniera aggressiva. La logica sottostante alla politica estera del quarantatreesimo presidente statunitense è radicata nella corrente del pensiero politico realista9, etichettata come “egemonista”. “ Nella sua componente più essenziale, la tesi „egemonista‟ sostiene che la chiave per salvaguardare gli interessi americani nel mondo sia costituita dall‟immensa forza americana e dalla volontà di esercitarla, anche al di là delle obiezioni altrui.”10 La filosofia di questa corrente si basa su cinque asserzioni. La prima sostiene che gli Stati Uniti vivano in un mondo pericoloso, più vicino allo stato di natura11 di Thomas Hobbes, che non a quello della pace perpetua12 di Immanuel Kant. George W. Bush infatti credeva che il crollo dell‟Unione Sovietica avesse portato gli Stati Uniti a vedere solo le opportunità presenti oltre i propri confini, ma non i pericoli. Il secondo assunto afferma che gli stati-nazione siano attori chiave della politica mondiale. L‟idea di globalizzazione che negli anni Novanta si diffuse tra molti pensatori del mondo politico, non attraeva gli egemonisti, poiché per costoro la globalizzazione minava l‟autorità dei singoli stati-nazione, facendo si che questi ultimi 9 Paradigma teorico, dominante nella disciplina delle relazioni internazionali, che si fa risalire all'opera di Tucidide del IV secolo a. C. sulle cause della guerra del Peloponneso. Si tratta di un paradigma e non di una teoria, poiché è piuttosto l'intreccio di varie teorie e vari livelli analitici, spesso in disaccordo tra loro, sebbene siano tutte concordi nell'affermare dei postulati di base: la natura anarchica del sistema internazionale e la centralità degli stati, considerati i principali attori della politica internazionale. 10 I. H. DAALDER, J. M. LINDSAY, America Senza Freni, la Rivoluzione di Bush, Vita e Pensiero, Milano 2005, p.56 11 Lo stato di natura per Hobbes corrisponde ad una condizione presociale, o condizione di vita caratterizzata dall'assenza di leggi, e da una specie d‟uguaglianza naturale tra gli uomini; uguaglianza intesa come uguale possibilità di nuocersi l‟uno con l‟altro. 12 Immanuel Kant nella sua opera Per la Pace Perpetua, diceva che si sarebbe potuto creare un governo mondiale attraverso il superamento della sovranità statale causa dell‟anarchia e quindi della guerra. 9 cedessero parte del proprio potere ad attori non-statali. George W. Bush e i suoi consiglieri non condividevano nulla di questa visione, perché essi collegavano il terrorismo ad enti statali e credevano che senza il loro supporto sarebbe scomparso. Il terzo postulato riguarda la forza, in particolare quella militare, che è vista dagli egemonisti come moneta di scambio nel sistema internazionale. Forza non significa solo disponibilità di risorse, ma è anche una questione di volontà13. La dimostrazione di risolutezza era quindi essenziale sia verso gli alleati che verso i nemici. Secondo il quarto assunto della corrente egemonista gli accordi e le istituzioni multilaterali non sono né essenziali, né necessariamente funzionali agli interessi statunitensi. George W. Bush e i suoi consiglieri esposero una visione chiaramente strumentale degli impegni multilaterali formali: questi erano accettabili nella misura in cui assecondavano gli interessi immediati e i valori degli Stati Uniti. Sia durante la campagna elettorale che durante la sua presidenza, George W. Bush risultò quindi molto scettico verso le istituzioni internazionali. Come risultò chiaro ancora durante il suo primo mandato, se gli Stati Uniti non avessero trovato appoggio nelle istituzioni multilaterali su questioni prioritarie per la nazione, avrebbero agito attraverso la creazione di coalizioni ad hoc. Secondo la quinta asserzione gli Stati Uniti sono l‟unica grande potenza e gli altri la vedono come tale. Questa proposizione è l‟unica estranea alla visione realista che invece considera come trascurabili l‟organizzazione e le caratteristiche interne di uno stato. Ma il quinto assunto della corrente egemonista è considerato evidente da praticamente tutti gli americani. Con la fine della guerra fredda gli Stati Uniti avevano avuto la possibilità di diventare un impero (eventualità possibile in funzione della percezione della potenza americana in patria e all‟estero), ma, secondo George W. Bush, l‟America era l‟unica grande potenza che, avendo avuto questa opportunità, aveva rifiutato il potere e la gloria in virtù dei principi di grandezza e giustizia: “ L‟interesse nazionale è stato definito dal desiderio di promuovere la diffusione della libertà e del libero mercato.”14 13 Secondo Wolfowitz, dalla modalità in cui vennero costruite le coalizioni durante la guerra fredda si poteva trarre una lezione importante: era necessario dimostrare agli amici che sarebbero stati protetti e ai nemici che sarebbero stati puniti. 14 RICE, Promoting the National Interest, p.62 10 La chiarezza delle motivazioni americane era cruciale, perché significava che l‟esercizio della forza statunitense avrebbe minacciato solo coloro che erano intimoriti dalla diffusione della libertà e del libero mercato. La definizione di impero venne quindi rifiutata da parte di Washington ad un livello superficiale, ma ad un‟analisi più approfondita si vede come gli Stati Uniti abbiano negli ultimi decenni creato un impero basato sul soft power. La visione del mondo che George W. Bush espresse, relativamente alla politica estera, durante la campagna elettorale era basata sul suo essere un nazionalista convinto: durante i primi mesi in carica come presidente, George W. Bush si dedicò soprattutto alle questioni di politica interna. Fu solo dopo gli attacchi terroristici dell‟undici Settembre che la sua presidenza si focalizzò sulla politica estera. 1.3 L‟UNDICI SETTEMBRE “ L‟11 Settembre infranse il senso di invulnerabilità dell‟America, la espose alle minacce che la maggior parte degli altri paesi devono affrontare quotidianamente e mostrò i rischi che si corrono volendo agire per conto proprio in un mondo pieno di pericoli. Solo collaborando strettamente con gli altri per individuare i terroristi senza nazionalità e sventando altre minacce transnazionali sarebbe stato possibile mettere al sicuro il popolo americano.”15 Dopo gli attacchi terroristici dell‟undici Settembre 2001, quindi, ci si aspettava che gli Stati Uniti avrebbero ricercato e accettato tutto l‟aiuto possibile da parte di alleati e amici per reagire. Nonostante alcuni osservatori ritenessero che il modo in cui George W. Bush reagì rappresentasse una spaccatura con la posizione che egli aveva sostenuto durante la campagna elettorale, gli eventi del Settembre 2001 contribuirono più a riaffermare che a trasformare la 15 I. H. DAALDER, J. M. LINDSAY, America Senza Freni, la Rivoluzione di Bush, Vita e Pensiero, Milano 2005, p. 105-106 11 visione del mondo di George W. Bush: non si poteva confidare nell‟efficacia dell‟intervento diplomatico delle istituzioni multilaterali, solo una salda determinazione e l‟utilizzo dell‟immane forza militare americana avrebbe portato nuovamente sicurezza agli Stati Uniti e al suo popolo. Secondo l‟idea che il presidente Bush aveva espresso durante la campagna elettorale i terroristi dipendevano da enti statali ed egli riconobbe subito che per scovarli e combatterli si sarebbe dovuto agire contro gli stati che li appoggiavano. E, anche se i terroristi potevano essere definiti come dei „senza patria‟, in ultima istanza, per poter operare essi dipendevano da regimi come quello talebano16. Da quel momento la politica estera, o meglio la guerra al terrorismo, divenne la missione che contrassegnò la presidenza di George W. Bush. Subito dopo gli attacchi dell‟undici Settembre gli Stati Uniti ricevettero dimostrazioni di solidarietà da molti dei paesi alleati e non: il giorno successivo all‟ONU venne votata una risoluzione che condannava “i responsabili di aver aiutato, appoggiato o dato asilo agli esecutori, organizzatori e finanziatori di questi atti” e autorizzava “tutte le misure necessarie”17 per rispondere agli attacchi. Inoltre, per la prima volta nella sua storia, l‟alleanza atlantica fece appello all‟articolo cinque18 del suo trattato istitutivo. Ma, nonostante la 16 I Taliban sono un movimento sorto agli inizi degli anni Novanta in Pakistan nelle numerose scuole religiose e moschee sorte lungo il confine con l‟Afghanistan. Qui migliaia di profughi afgani, in particolare di etnia Pashtun, hanno ricevuto rifugio ed un‟istruzione ispirata ad una visione dogmatica dei precetti della shari’a e dell‟islam. Tutto ciò li ha portati a sviluppare un‟ideologia politico-religiosa fortemente illiberale e ostile verso ogni altra comunità etnico-culturale afgana. Tra il 1994 e il 1998 i Taliban presero il potere in Afghanistan instaurando un regime basato sull‟integralismo religioso. 17 UN Security Council Resolution 1368, adottata il 12 Settembre 2001 (Testo disponibile alla pagina http://www.un.org/ga/search/view_doc.asp?symbol=S/RES/1368%282001%29 ; ultimo accesso 05/03/2011). 18 “Le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o nell'America settentrionale, costituirà un attacco verso tutte, e di conseguenza convengono che se tale attacco dovesse verificarsi, ognuna di esse, nell'esercizio del diritto di legittima difesa individuale o collettiva riconosciuto dall'art.51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate, intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l'azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l'impiego della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell'Atlantico settentrionale. Qualsiasi attacco armato siffatto, e tutte le misure prese in conseguenza di esso, verrà immediatamente segnalato al Consiglio di Sicurezza. Tali misure dovranno essere sospese non appena il Consiglio di Sicurezza avrà adottato le disposizioni necessarie per ristabilire e mantenere la pace e la sicurezza internazionali.”. NATO, Institutive Treaty, art.5 (disponibile alla pagina http://www.nato.int/cps/en/natolive/official_texts_17120.htm ; ultimo accesso 05/03/2011). 12 comunità internazionale si fosse mostrata solidale e benché gli alleati della NATO e i membri delle Nazioni Unite avessero reso esplicita la propria volontà di collaborare all‟eventuale reazione degli Stati Uniti, questi ultimi, generalmente, declinarono le offerte d‟aiuto, eccezion fatta per Gran Bretagna e Australia. Oltre a preferire l‟azione unilaterale, George W. Bush introdusse una nuova dottrina dell‟attacco preventivo che affermava il diritto sovrano dell‟America ad attaccare potenziali nemici prima che questi potessero nuocergli. Il quarantatreesimo presidente e i suoi consiglieri avevano per anni sostenuto che l‟euforia seguita al crollo dell‟Unione Sovietica e alla “fine della storia”19 avesse oscurato il fatto che gli Stati Uniti avessero ancora molti nemici in giro per il mondo. Quindi, secondo George W. Bush, il pericolo di fronte a cui si trovava l‟America non era un pericolo nuovo e diverso, ma vecchio e famigliare. Nei trent‟anni precedenti si erano verificati numerosi attentati per mano di terroristi arabi o islamisti: nessuno sul territorio statunitense, ma tutti contro simboli o obiettivi militari americani dislocati all‟estero, come gli attacchi contro le ambasciate statunitensi in Kenya e in Tanzania del 1998 e contro la USS Cole nello Yemen del 2000. Nonostante, con tutti i precedenti attentati, il terrorismo avesse ucciso quasi mille cittadini americani, la reazione degli Stati Uniti era stata quasi sempre timida e contenuta. Fino al 2001 gli attentati terroristici furono trattati come crimini internazionali, piuttosto che come atti di guerra. Ma dopo l‟undici Settembre cambiò il modo di guardare al terrorismo: se prima era considerato un problema secondario poiché colpiva la nazione americana solo in modo indiretto, ora era la questione principale poiché gli Stati Uniti erano stati colpiti sul proprio territorio. L‟amministrazione Bush era conscia che per combattere il terrorismo, in questo caso islamico, era necessario prima di tutto ristabilire la credibilità della fermezza americana sia verso amici che nemici. Inoltre era importante rinforzare la difesa del territorio nazionale e intensificare le operazioni anti-terrorismo. L‟FBI (Federal Bureau of Investigation) e la CIA (Central Intelligence Agency) ricevettero fondi supplementari per far si che fosse garantito l‟ordine 19 Secondo Francis Fukuyama, con la fine della guerra fredda è stata raggiunta la fine della storia, cioè si è arrivati ad un limite oltre il quale non si può andare: avendo raggiunto con la democrazia il massimo progresso dell‟idea umana, la storia non evolve più. 13 interno e per intensificare le operazioni di intelligence in collaborazione con altri paesi. Nonostante gli sforzi e la spesa per aumentare la difesa interna, il presidente continuava a sostenere che la miglior difesa fosse un buon attacco. Attacco che andava sferrato contro degli enti statali, in questo caso lo stato afgano20. George W. Bush, la notte successiva agli attacchi dell‟undici Settembre, dichiarò che non sarebbe stata fatta distinzione tra i terroristi che avevano commesso quelle azioni e coloro che davano loro rifugio. Tale dichiarazione è oggi nota come la „dottrina Bush‟.21 Il presidente e i suoi consiglieri rifiutavano l‟idea che i terroristi potessero essere in grado di agire senza il supporto statale, nonostante tutto ciò che si diceva sulla globalizzazione22. Ovviamente gli stati in cui queste organizzazioni terroristiche potevano tranquillamente sopravvivere erano i cosiddetti stati falliti, in questo caso particolare l‟Afghanistan, dove era al potere il regime talebano. Attraverso le parole del presidente, si capiva chiaramente che la guerra al terrorismo non era solamente una missione finalizzata alla difesa degli interessi americani, quanto più una lotta tra il bene e il male, che riguardava i popoli di tutto il mondo. Nel descrivere la sua nuova missione, la guerra al terrorismo, come una lotta tra il bene e il male, George W. Bush fece spesso allusione all‟aiuto di Dio: idea certamente non nuova nella politica americana, ma il quarantatreesimo presidente era tra i più apertamente religiosi degli ultimi cento anni. L‟invocazione del nome del Signore venne apprezzata, soprattutto in patria, nei giorni successivi agli attacchi dell‟undici Settembre, ma, poco dopo, iniziarono a nascere polemiche sia negli Stati Uniti che all‟estero. Si temeva che il presidente degli Stati Uniti si vedesse come attuatore della volontà divina nella missione di lotta al terrorismo. Molte critiche vennero rivolte a George W. Bush sulla questione della fede, poiché non si capiva quanto 20 Dal 1996 Osama bin Laden e la sua rete al Qaeda avevano stabilito una vasta infrastruttura in Afghanistan con il pieno appoggio dei Talebani, il regime a matrice islamica asceso al potere quello stesso anno. 21 John Lewis Gaddis sostiene che ci sia una relazione diretta tra gli attacchi a sorpresa e i cambiamenti nella concezione della dottrina per la sicurezza nazionale statunitense, come successe, ad esempio, nel 1941 dopo l‟attacco giapponese a Pearl Harbor (in Attacco a sorpresa e sicurezza: le strategie degli Stati Uniti, Vita e Pensiero, Milano 2004). 22 Tale convinzione è spiegata al par. 1.2, dove sono stati trattati gli assunti della corrente egemonista del pensiero realista. 14 quest‟ultima avesse influenzato le sue scelte relative alla lotta al terrorismo; ma infine risultò chiaro che, in qualsiasi caso, non sarebbe stata la sua fede a suggerire una strategia per scovare al Qaeda. Il fatto importante fu che la strategia del presidente per vincere la guerra al terrorismo dipendeva da principi e inclinazioni evidenti ben prima dell‟undici Settembre. Oltre a procurare a George W. Bush una valida ragione per intervenire all‟estero, gli attacchi terroristici del 2001 gli diedero la possibilità di farlo senza incontrare ostacoli in patria: dopo tali fatti le resistenze da parte del Congresso alle politiche per la sicurezza nazionale di Bush vennero meno. Nel periodo immediatamente successivo agli attacchi il Congresso approvò un ampliamento delle libertà del presidente23 nel compiere una rappresaglia contro i responsabili dell‟undici Settembre. Praticamente il Congresso dichiarò guerra e lasciò poi decidere alla Casa Bianca chi fosse il nemico. Il presidente poche ore dopo gli attacchi dell‟undici Settembre aveva riunito un consiglio di guerra24 dove in breve tempo si passò dal chiedersi come agire in merito ad una possibile azione, alla discussione su come agire in Afghanistan. Con quel consiglio di guerra si segnò l‟inizio di una strategia che venne delineata dalle decisioni che George W. Bush prese nei giorni successivi agli attentati. Innanzitutto gli Stati Uniti avrebbero colpito i gruppi terroristici ovunque si trovassero nel mondo, a partire da al Qaeda. In secondo luogo Washington avrebbe ritenuto responsabili i paesi che appoggiavano tali gruppi. Inoltre altri paesi avrebbero dovuto unirsi alla lotta al terrorismo, accettando la strategia proposta dall‟America. Infine, il presidente americano rese chiaro che la forza militare avrebbe giocato un ruolo centrale in questa strategia. Nonostante George W. Bush avesse pronta questa teorica strategia per l‟azione in Afghanistan, in pratica la preparazione di quest‟ultima richiedeva 23 Tre giorni dopo gli attacchi terroristici dell‟undici Settembre, il Congresso votò, quasi all'unanimità (un solo voto contrario), una risoluzione che conferiva a George W. Bush il potere illimitato di usare la forza "necessaria e opportuna" contro Stati, organizzazioni e individui coinvolti negli attentati e in altre attività terroristiche. 24 Il consiglio di guerra formato da George W. Bush era composto oltre che da lui, da Richard Cheney, Colin Powell, Donald Rumsfeld, Condoleezza Rice, Andrew Card, George Tenet e Hugh Shelton, capo di Stato Maggiore per la Difesa (a fine Settembre 2001 subentrò il suo vice, Richard Myers, poiché Shelton andò in pensione). 15 un‟analisi più profonda sia delle capacità reali dell‟esercito americano, sia della collocazione geografica dello stato contro cui si voleva intervenire. Prima di tutto era importante trovare appoggio nella regione circostante l‟Afghanistan poiché quest‟ultima era formata da Stati con cui Washington aveva ben pochi rapporti. Il Pakistan era di fondamentale importanza e, nonostante dal 1999 i rapporti tra quest‟ultimo e Washington fossero peggiorati, infine gli Stati Uniti ottennero la sua collaborazione. Ovviamente l‟appoggio di uno stato limitrofo all‟obiettivo non risolveva il problema basilare che il presidente si trovava a dover affrontare: ideare un piano d‟azione militare contro l‟Afghanistan. Proprio allora la CIA propose un piano che prevedeva la collaborazione tra Forze Operative Speciali e squadre paramilitari, le quali avevano lavorato con l‟opposizione afgana per anni; queste due forze avrebbero aiutato l‟opposizione a destituire i Talebani. La chiave del successo di questa strategia era l‟appoggio dell‟Alleanza del Nord25. George W. Bush voleva agire in fretta ed ora aveva un piano d‟azione pronto all‟uso; inoltre questo piano d‟azione non prevedeva l‟utilizzo di truppe americane di terra. Nonostante due settimane di pressione sui leader talebani affinché consegnassero Osama bin Laden e i terroristi di al Qaeda, il presidente statunitense non riuscì a convincere il regime talebano a soddisfare le sue richieste. Il 7 Ottobre 2001 le forze militari americane e inglesi diedero inizio alla guerra contro l‟Afghanistan, concentrandosi su obiettivi inizialmente limitati: distruggere i campi d‟addestramento per i terroristi e danneggiare le linee di comunicazione sfruttate da questi ultimi. L‟operazione militare andò a buon fine e dopo due mesi i leader talebani e di al Qaeda lasciarono le città dove avevano creato la loro linea difensiva. Nonostante la riuscita dell‟offensiva militare, bin Laden e molti altri leader principali di al Qaeda erano ancora a piede libero e si rifugiarono sulle montagne lungo il confine tra Afghanistan e Pakistan ed in altre zone poco accessibili del paese. Per far si che non desse più ospitalità ad altre organizzazioni terroristiche, era necessario stabilizzare l‟Afghanistan poiché restava un paese lacerato da tensioni etniche e devastato dalla guerra. 25 L‟alleanza del Nord è una forza che si è creata negli anni novanta quando i Talebani, quindi i Pashtun, sono tornati al potere. Questa alleanza è formata dalle minoranze etniche afgane, emigrate nei territori settentrionali del paese dopo aver perso il potere: gli Hazara, i Tajiki e gli Uzbechi. 16 Inoltre il modo in cui era stata combattuta la guerra rendeva ancora più difficile perseguire i talebani e i terroristi poiché la strategia attuata dagli Stati Uniti dipendeva da signori della guerra che avevano in comune con Washington l‟obiettivo di cacciare i talebani, ma non volevano che venisse creato un governo stabile e capace di dirigere l‟intero paese. Quindi pochi giorni dopo fu chiaro che per stabilizzare l‟Afghanistan non si poteva fare affidamento sulle milizie locali26. Il vero problema, oltre al fatto che l‟azione militare non aveva portato i risultati sperati, era che prima di iniziare l‟attacco armato il consiglio di guerra non si era posto nessun quesito riguardo a cosa fare dopo la destituzione dei talebani. Lo scarso interesse mostrato verso quello che sarebbe stato il futuro dell‟Afghanistan era dovuto al fatto che George W. Bush e i suoi consiglieri non erano propensi ad attuare azioni di nation-building, poiché ritenevano che la ricostruzione del paese non rientrasse negli interessi nazionali principali: l‟obiettivo dell‟intervento militare era la destituzione del regime talebano per il supporto dato ad al Qaeda, questa era la causa ed anche lo scopo della missione. Ma poco dopo l‟inizio dell‟offensiva militare, a Washington si iniziò a discutere riguardo al modo in cui sarebbe stato poi gestito il paese e, in collaborazione con le Nazioni Unite, si iniziò un processo decisionale che culminò con la scelta di Hamid Karzai27 come guida di un‟amministrazione transitoria. Nonostante le buone intenzioni della comunità internazionale e degli Stati Uniti in 26 Dopo la conclusione dei bombardamenti, i servizi segreti americani vennero a sapere che numerosi combattenti di al Qaeda, tra cui anche Osama bin Laden, si erano rifugiati tra le montagne a est di Jalalabad. I militari statunitensi diressero il fuoco aereo, mentre i combattenti delle milizie locali insieme ai soldati dell‟esercito regolare pakistano, avrebbero imprigionato i terroristi a bombardamenti conclusi. L‟amministrazione Bush si rifiutò di inviare truppe americane sul luogo e fece affidamento solo sulle milizie locali, ma queste ultime avevano già ottenuto ciò che desideravano (la destituzione del regime talebano), quindi non avevano interessi nel catturare bin Laden o altri combattenti di al Qaeda. Infatti nessun membro importante dell‟organizzazione venne trovato, probabilmente corruppero i miliziani afgani e si rifugiarono sulle montagne del vicino Pakistan. 27 Tra il 1989 e il 1992, Hamid Karzai fu direttore dell‟unità di relazioni internazionali per il presidente Najibullah; successivamente, dal 1992 fino all‟ascesa del regime talebano nel 1996, ricoprì il ruolo di ministro degli Esteri durante l‟amministrazione Rabbani. Nel 2001 H. Karzai venne scelto durante un importante incontro a Bonn, in Germania, (incontro tenutosi tra Richard Haass, un collaboratore di C. Powell, James Dobbins, un rappresentante del dipartimento di stato americano e Lakhdar Brahimi, Rappresentante Speciale dell‟Onu per l‟Afghanistan) come presidente di un governo ad interim per l‟Afghanistan. Nel 2004 H. Karzai vinse le prime elezioni democratiche di questo paese e venne rieletto nel 2009. 17 particolare, gli sforzi economici fatti per aiutare il paese non furono notevoli28. L‟Afghanistan si trovava in una situazione economica pessima: con un prodotto interno lordo pro capite di circa centocinquanta dollari, la sua economia si basava quasi unicamente sulla coltivazione del papavero (usato per la produzione di eroina). Il contesto politico non era certo migliore: il vuoto di sicurezza che si era creato attraverso la rimozione del regime talebano fu colmato dai signori della guerra locali, molti dei quali erano stati abbondantemente finanziati dagli Stati Uniti dopo l‟undici Settembre. Quindi Hamid Karzai controllava effettivamente solo Kabul e pochi altri territori. La sicurezza nella capitale venne mantenuta da una forza internazionale di peace-keeping sotto comando britannico (nel 2003 passò sotto comando della NATO), la International Security Assistance Force o ISAF, composta da circa quattromila truppe. Il presidente Bush non permise che forze americane partecipassero all‟ISAF, questo a riconfermare che egli non voleva usare soldati statunitensi per azioni di peace-keeping o nation-building. Inoltre George W. Bush credeva che il modo migliore per garantire sicurezza all‟Afghanistan nel lungo periodo fosse quello di creare un esercito nazionale afgano; “ Ma per comporre un nuovo esercito- in particolare, un esercito che avesse i mezzi e la volontà per sfidare i ben equipaggiati signori della guerra- sarebbero stati necessari almeno dieci anni.”29 Nessun paese metteva in dubbio la legittimità dell‟azione armata americana: dopo gli attacchi subiti dagli Stati Uniti, a livello internazionale venne riconosciuto il diritto americano all‟autodifesa. Allo stesso modo nessuno stato si schierò dalla parte di al Qaeda e dei talebani. L‟appoggio da parte della comunità internazionale e la partecipazione da parte di alcuni paesi all‟azione militare, fu così esplicito poiché molti di questi stati credevano che il coinvolgimento nella regione si sarebbe concluso con la destituzione del regime talebano e la 28 Gli Stati Uniti e gli altri paesi si impegnarono a contribuire alla ricostruzione dell‟Afghanistan per 4,5 miliardi di dollari nell‟arco di cinque anni, praticamente nulla in confronto agli ottanta miliardi di dollari che l‟America da sola spese per la ricostruzione europea con il Piano Marshall dopo la seconda guerra mondiale. 29 I. H. DAALDER, J. M. LINDSAY, America Senza Freni, la Rivoluzione di Bush, Vita e Pensiero, Milano 2005, p. 151 18 cattura di Osama bin Laden; ovvero si sarebbe limitato all‟Afghanistan. Inoltre si credeva che la cattura dei leader di al Qaeda fosse questione di tempo: molti si aspettavano che l‟attenzione si sarebbe poi spostata dalle operazioni militari ad attività di applicazione della legge contro i responsabili degli attacchi terroristici. Ma George W. Bush mise subito in chiaro che gli Stati Uniti erano impegnati in un‟impresa più grande: la loro guerra al terrorismo non si sarebbe fermata finché tutti i gruppi terroristici non fossero stati fermati. Alla fine del 2001, quindi, fu chiaro che per il presidente americano non era stato sufficiente distruggere il movimento che aveva supportato al Qaeda, ma sarebbe stato necessario capire quali altri paesi finanziavano, o appoggiavano in altro modo, l‟organizzazione terroristica. Molti si chiedevano quale paese o organizzazione terroristica sarebbe stata l‟obiettivo della cosiddetta „Fase Due‟ della guerra al terrorismo: la prima scelta era l‟Iraq, ma altre opzioni erano gli stati falliti o in via di fallimento che avrebbero potuto ospitare al Qaeda. Tra questi troviamo la Somalia, il Sudan, lo Yemen, la Georgia e le Filippine. La Fase Due avrebbe potuto colpire secondo altri organizzazioni come Hezbollah30, Hamas e la Jihad islamica31. Mentre molti dibattevano su chi sarebbe stato il seguente obiettivo americano, l‟attenzione si spostò sulla questione delle armi di distruzione di massa: Richard Cheney temeva soprattutto che fosse possibile un altro attacco terroristico attuato con armi radiologiche, batteriologiche o perfino nucleari. La sua preoccupazione si trasformò in realtà tre settimane dopo l‟undici Settembre, il cinque Ottobre fu segnalato il primo caso di antrace negli Stati Uniti dal 1976. Nelle due settimane successive, buste contenenti antrace furono inviate ad alcune agenzie di stampa e agli uffici di alcuni senatori. Questi fatti resero palese come un attacco batteriologico su scala ridotta avrebbe potuto paralizzare il paese e scatenare il panico. Inoltre alla fine di Ottobre 2001 i servizi segreti intercettarono la voce di un altro attacco terroristico, questa 30 Hezbollah significa partito di Dio ed è un gruppo politico-militare organizzato in Libano dalla minoranza sciita negli anni Ottanta. 31 Hamas e la Jihad islamica si sono sviluppati negli anni Novanta durante le trattative di pace tra Israele e l‟Organizzazione per la liberazione della Palestina. Questi movimenti hanno un‟ideologia di riferimento di matrice islamico-radicale e rifiutano qualsiasi trattativa con Israele. 19 volta però sarebbe stata usata una „bomba sporca‟32. La domanda che si ponevano il presidente Bush e i suoi consiglieri riguardava chi avrebbe potuto aiutare al Qaeda, ora che i talebani erano stati rimossi: l‟Iraq era il primo della lista. Da quel momento la difesa dal terrorismo nucleare divenne la priorità su qualsiasi altra minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti. La soluzione secondo George W. Bush era molto semplice: attaccare per primi, piuttosto che in controffensiva. La nuova minaccia che si presentava agli Stati Uniti, dopo solo pochi mesi dagli attacchi dell‟undici Settembre, era rappresentata dalla combinazione di terrorismo, tirannia e tecnologie di distruzione di massa. Il presidente Bush aveva, in un suo discorso del Gennaio 2002, individuato stati ed organizzazioni che potevano unire questi tre fattori e diventare pericolosi per l‟America: organizzazioni terroristiche quali Hamas, Hezbollah, la Jihad islamica e Jaish-iMohammed33, e stati canaglia quali Iran, Iraq e Corea del Nord. Questa nuova minaccia era di portata molto più ampia rispetto a quella posta dai semplici gruppi terroristici, che furono l‟obiettivo principale della coalizione creata nell‟Ottobre 2001. La strategia che George W. Bush studiò per combattere la nuova minaccia non fu subito chiara, ma si comprese solo nei mesi successivi: i punti chiave di questa tattica erano la potenza e la leadership americana, l‟attenzione verso gli stati canaglia e la necessità di agire in via preventiva. Durante tutto il 2002 i discorsi del presidente degli Stati Uniti e anche di alcuni suoi consiglieri si focalizzarono sulla promozione di questa strategia emergente: l‟attacco preventivo era di gran lunga la scelta migliore per combattere il terrorismo e per preservare la libertà del popolo americano. George W. Bush definì questa strategia come la „nuova dottrina dell‟attacco preventivo‟ e con quest‟ultima segnò un‟importante rottura con la politica estera americana tradizionale. Rottura dovuta non al concetto di attacco preventivo in sé, quanto più alla sua citazione in pubblico. Gli Stati Uniti avevano sempre avuto la possibilità di utilizzare la forza preventivamente e in alcune circostanze non avevano esitato 32 Ordigno contenente materiale radiologico avvolto in un esplosivo convenzionale. 33 Organizzazione terroristica fondata nel 2000 e attiva in Kashmir. 20 ad usarla. La novità portata dal quarantatreesimo presidente stava nel sostegno che dava a tale causa: nessun precedente presidente americano aveva mai sostenuto esplicitamente questa causa, tanto meno in pubblico. L‟elaborazione della strategia per sconfiggere la combinazione di terrorismo, tirannia e tecnologie di distruzione di massa fu del tutto chiara dopo la pubblicazione del documento National Security Strategy34 nel Settembre del 2002. Questo documento rappresentava l‟esposizione più esaustiva della politica estera dell‟amministrazione Bush: al centro della strategia venne messa, coerentemente con la visione egemonista del presidente e dei suoi consiglieri, la potenza americana, la quale nasceva dalla combinazione della immane forza militare e dall‟incarnazione da parte degli Stati Uniti dei principi di libertà e democrazia. “ L‟essenza della strategia di Bush, perciò, era di usare questa potenza americana senza precedenti per rimodellare l‟ordine mondiale a sua immagine. Per raggiungere tale obiettivo era necessario rimuovere gli ostacoli e le minacce alle libertà che esistevano ovunque nel mondo”35 Secondo il presidente statunitense, la volontà a ricorrere all‟attacco preventivo veniva giustificata dal fatto che la deterrenza non avrebbe funzionato. La legittimità dell‟azione preventiva era vincolata, e lo è tuttora secondo molti esperti di diritto internazionale, all‟esistenza di una minaccia imminente, esplicitata da una mobilitazione visibile di forze di terra, di aria e di mare in preparazione ad un attacco.36 Il concetto di minaccia imminente, secondo il presidente Bush, era da adattare alle capacità e agli obiettivi dei nemici di oggi: come risultava chiaro dopo gli attacchi dell‟undici Settembre, i terroristi non utilizzavano armi convenzionali. Una volta eliminata la minaccia alla sicurezza dell‟America e del mondo, i valori di libertà, democrazia e libero mercato avrebbero trionfato. 34 Documento che la Casa Bianca pubblica ogni anno su richiesta del Congresso. 35 I. H. DAALDER, J. M. LINDSAY, America Senza Freni, la Rivoluzione di Bush, Vita e Pensiero, Milano 2005, p. 161-162 36 M. EVANGELISTA, Diritto, etica e guerra al terrore, Vita e Pensiero, Milano 2009, p.114 21 George W. Bush vedeva la libertà come un diritto universale in quanto dono di Dio all‟umanità intera. Tale convinzione è comprensibile, oltre che attraverso la fede personale del presidente, anche attraverso un assunto profondamente americano che riguardava tutti i popoli del mondo e che stava al centro della strategia del presidente per combattere le nuove minacce alla libertà: avendone la possibilità, qualsiasi popolo sceglierebbe di abbracciare la libertà, la democrazia e il libero mercato, ovvero farebbe ciò che fece il popolo americano quando ottenne l‟indipendenza. Questa convinzione, condivisa anche da buona parte dell‟opinione pubblica, rese semplice per George W. Bush giustificare la „nuova dottrina dell‟attacco preventivo‟ come il mezzo più efficace per esportare la democrazia in quei paesi da troppo tempo succubi di regimi illiberali. 1.4 ESPORTARE LA DEMOCRAZIA Per poter intraprendere una campagna militare contro l‟Iraq, il presidente George W. Bush doveva puntare sull‟appoggio dell‟opinione pubblica americana. Quando l‟amministrazione realizzò che il presunto sospetto della detenzione di armi di distruzione di massa e di eventuali armi nucleari da parte dell‟Iraq non portavano un consenso maggiore all‟azione militare, si spostò gradualmente verso la tesi della liberalizzazione e democratizzazione di quel paese per ottenere il nullaosta del popolo americano. Questo perché, per far si che l‟opinione pubblica approvasse la scelta dell‟uso della forza contro l‟Iraq, la ragione di tale accanimento avrebbe dovuto soddisfare gli ideali americani secondo i quali la democrazia è il primo requisito perché un popolo possa essere veramente libero. Secondo il quarantatreesimo presidente americano, l‟Iraq sarebbe stato in grado di costruire una democrazia liberale, inoltre un cambio di regime in questo paese sarebbe stato un forte esempio di libertà per tutta la regione. Il presidente Bush non sbagliava nel riconoscere che l‟Iraq avrebbe potuto diventare una democrazia, il problema riguardava il modo in cui questo paese sarebbe diventato tale: attraverso l‟occupazione straniera. 22 Essendo stato modificato l‟obiettivo dell‟eventuale intervento militare in Iraq, ci fu un cambiamento di rotta nella politica estera americana a favore della democrazia e dei diritti umani37. Questa svolta era in netto contrasto con la politica americana in Medio Oriente degli ultimi decenni: durante gli anni Sessanta gli Stati Uniti appoggiarono il partito baath poiché venne scelto da Washington come principale strumento per poter influire sull‟Iraq, ma, durante i primi anni Settanta, quest‟ultimo si avvicinò all‟Unione Sovietica attraverso la firma di un trattato di alleanza e amicizia. Questo fatto portò gli Stati Uniti a supportare lo scià persiano nel finanziamento di una rivolta dei curdi contro Baghdad, rivolta che si concluse con la morte di migliaia di curdi traditi dallo scià che nel 1975 raggiunse un accordo con Saddam Hussein. Dopo il cambio di regime iraniano avvenuto nel 1973, che diede vita ad un regime islamico contrario a molti degli ideali americani, i rapporti tra Stati Uniti e Iraq tornarono ad essere ottimi: durante gli anni Ottanta l‟amministrazione americana sostenne direttamente e indirettamente il regime baathista contro il governo iraniano e, nel 1988, supportò Baghdad quando dichiarò guerra al vicino Iran. Questo approccio noncurante delle violazioni dei diritti umani e dei sistemi non democratici di governo è stato per decenni la consuetudine in Medio Oriente da parte degli Stati Uniti, che traevano da questo tipo di politica benefici di vario genere. La conseguenza di questa politica e del maggiore coinvolgimento degli ultimi anni, ha procurato a Washington ben pochi amici nella regione. “ I policy-maker americani ben di rado, forse mai, hanno accettato che la mancanza di democrazia o l‟esistenza di violazioni dei diritti umani fosse un ostacolo a intrattenere rapporti con i governi amici. Pertanto il cambiamento da parte dell‟amministrazione Bush dell‟approccio coerentemente seguito per oltre un secolo, e cioè perseguire i propri fini materiali e strategici senza guardare alla natura repressiva e non rappresentativa di un dato regime, sarebbe davvero una novità assoluta e benvenuta nella politica americana in Medio Oriente.” 38 37 Ne fu un esempio il congelamento dell‟aiuto americano all‟Egitto di fronte alla decisione del governo egiziano di arrestare un professore egiziano-americano critico del regime di Mubarak, poi rilasciato nel 2003. Inoltre il presidente Bush, in un discorso del Giugno 2002 sul Medio Oriente, richiese una riforma ed una democratizzazione dell‟Autorità nazionale palestinese. 38 R. KHALIDI, La resurrezione dell’impero. L’America e l’avventura occidentale in Medio Oriente, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 67 23 Questo cambiamento radicale di politica nei confronti del Medio Oriente avrebbe richiesto agli Stati Uniti un comportamento coerente, quindi un unico trattamento, verso i paesi alleati e tutti gli altri; inoltre sarebbe stato necessario rispettare ogni governo eletto in modo democratico, anche quando questi non seguivano le volontà americane. La guerra in Iraq iniziò il diciannove Marzo 2003 e si concluse dopo tre settimane. Subito dopo la conclusione dell‟offensiva militare si iniziò a lavorare per la ricostruzione del paese. Anche in questa fase della guerra al terrorismo gli Stati Uniti fecero lo stesso errore commesso nella guerra contro l‟Afghanistan: l‟amministrazione Bush credeva che la fase bellica e le operazioni di nation-building del dopoguerra potessero essere effettuate quasi indipendentemente l‟una dall‟altra e quindi, durante la pianificazione, venne dedicata meno attenzione alla progettazione del dopoguerra.39 La transizione verso un nuovo governo democratico sarebbe stata, secondo George W. Bush, veloce e poco costosa: il presidente credeva che in Iraq il nation-building sarebbe stato leggero. Da un punto di vista accademico “La questione più delicata di tutta la guerra in Iraq è forse stata la domanda se sia possibile esportare la democrazia con le armi e, ammesso che sia possibile, se tale operazione sia anche legittima.”40 Secondo R. Khalidi, “Qualsiasi concetto serio di democrazia suggerisce che quel che serve è un lento processo organico di sviluppo politico, giuridico e sociale, che non può essere né accorciato, né imposto.”41 39 Per esempio, il numero di truppe inviate sul territorio dopo le operazioni militari non era sufficiente a mantenere il controllo sul territorio. 40 V. E. PARSI, L’alleanza inevitabile. Europa e Stati Uniti oltre l’Iraq, Università Bocconi Editore, Milano 2006, p. 142 41 R. KHALIDI, La resurrezione dell’impero. L’America e l’avventura occidentale in Medio Oriente, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 60 24 Quindi questo autore crede che l‟occupazione militare non avrebbe potuto trasformare l‟Iraq dall‟essere un regime dittatoriale baathista in una democrazia, poiché il paese non aveva ancora raggiunto lo sviluppo adeguato alla nascita di un nuovo modello di governo. Anzi, Khalidi aggiunge che “Ci sono buone ragioni storiche e politiche per pensare che la guerra, l‟intervento esterno e l‟occupazione straniera non siano la ricetta ideale per portare la democrazia in Medio Oriente; esistono invece prove certe che l‟intervento esterno e l‟occupazione straniera hanno bloccato la democrazia nella prima metà del XX secolo in molti paesi arabi”42 Molti intellettuali, per quanto riguarda la democratizzazione dell‟Iraq, hanno preso in considerazione gli esempi di Germania e Giappone, dove la democrazia venne esportata militarmente dopo la seconda guerra mondiale. Rashid Khalidi sostiene che questi due paesi erano tra i più avanzati in Europa e in Asia sul piano politico, economico e sociale, molto prima che le truppe statunitensi intervenissero sul loro territorio nel secondo dopoguerra. Ma troviamo opinioni differenti al riguardo, come ad esempio spiega Angelo Panebianco, ciò che ha reso possibile la democratizzazione di Germania e Giappone a metà degli anni Quaranta, è stata la fine della presa del regime sull‟apparato burocratico e sulle strutture della società. Quindi, in Iraq, avrebbe dovuto esserci un forte controllo, o un rinnovamento delle strutture dopo la fine delle operazioni militari, per assicurarsi che membri del regime non si inserissero nei nuovi sistemi per ripristinare l‟ordine precedente. Invece, secondo Ralph Dahrendorf, l‟Iraq avrebbe potuto diventare un paese democratico, non tanto attraverso un rinnovo della pubblica amministrazione, ma piuttosto con l‟instaurazione di uno stato di diritto, ovvero con la creazione di un apparato giudiziario incorruttibile ed imparziale. Nonostante nella maggior parte dei paesi sorti dopo la caduta di un regime dittatoriale, l‟instaurazione dello stato di diritto abbia originato grosse difficoltà e sia generalmente rimasto incompiuto, questo autore sostiene che la chiave per la ripresa in Iraq sarebbe stata proprio questa. Ciò che invece preoccupava alcuni pensatori e personaggi di spicco del mondo arabo, era il fatto che l‟Iraq 42 Ibi, p. 76-77 25 avrebbe probabilmente goduto di una democrazia formale, dove ci sarebbe stata una sostanziale libertà d‟espressione, ma una minima libertà decisionale. Vittorio Emanuele Parsi sostiene che la democratizzazione dell‟Iraq sia una sfida assai ambiziosa poiché si vorrebbe “ […] portare a un tempo democrazia, diritti umani, modernizzazione, laicizzazione e parità di genere: tutte acquisizioni sulle quali il mondo arabo e islamico, più in generale, sembra essere piuttosto in ritardo.”43 Questo è un elemento fondamentale per comprendere la motivazione per cui è così difficile esportare la democrazia in aree come il Medio Oriente, dove la laicizzazione dello stato è quasi un‟utopia. Si deve tener conto che in Europa, e nel mondo occidentale più in generale, l‟evoluzione del modello dello stato nazionale è seguita alla scissione tra politica e religione (Pace di Westphalia, 1648); inoltre la democrazia si è sviluppata nel corso di più di due secoli soprattutto grazie ad un lento, ma efficace, progresso culturale in campo politico-filosofico. La democrazia, quindi, in Occidente non è stata imposta, ma è stata creata, inizialmente, in modo teorico, attraverso uno sviluppo culturale distaccato dalla religione; in seguito i diversi popoli, in tempi diversi, l‟hanno „conquistata‟ e resa reale. Questo fattore sottolinea quanto sia importante per lo sviluppo della democrazia in Iraq, che quest‟ultima venga accettata e voluta dalla popolazione e non semplicemente imposta, come invece è stato fatto con molti paesi sorti dalla decolonizzazione degli anni Sessanta dove venne imposto il modello dello statonazione. Inoltre si tenga conto che, durante la guerra fredda, Stati Uniti ed Unione Sovietica intervenivano sempre nelle aree di crisi (come per esempio in Afghanistan), poiché la logica sottostante l‟azione era che il non intervento avrebbe dato un vantaggio alla potenza rivale, ma dopo la caduta dell‟Unione Sovietica, “ […] ogni coinvolgimento è calcolato sulla base della rilevanza strategica per sé dell‟area in questione.”44 43 V. E. PARSI, L’alleanza inevitabile. Europa e Stati Uniti oltre l’Iraq, Università Bocconi Editore, Milano 2006, p. 148-149 26 Non c‟è quindi da meravigliarsi che alcuni paesi del Medio Oriente, per anni usati come arena della lotta di potere tra due stati esterni e poi trascurati per quasi un decennio, non accettino di buon grado l‟imposizione di modelli di governo da parte dell‟America. Quest‟ultima, infatti, ha dimostrato nel corso degli ultimi decenni di agire sempre nel proprio interesse nazionale e non di qualsivoglia stato essa dicesse di voler sostenere o aiutare, poiché, anche durante la guerra fredda, i finanziamenti ai vari partiti o movimenti politici in Medio Oriente, erano sempre dettati dalla volontà di raggiungere determinati obiettivi che avrebbero portato benefici agli Stati Uniti, piuttosto che allo stato coinvolto. Attualmente non è ancora possibile definire in modo certo il modello di governo dell‟Iraq: quando si parla di „livello di democrazia‟, esso viene definito un ibrido.45 Dopo il 2003, con la caduta del regime baathista, sicuramente la popolazione irachena ha conquistato libertà fondamentali prima pressoché sconosciute. Ma le elezioni del 2005 hanno portato, secondo alcuni, all‟instaurazione di un „governo fantoccio‟ gestito dagli Stati Uniti. Questo non significa che, con il tempo e, soprattutto, con l‟impegno delle forze politiche interne e straniere, l‟Iraq non possa diventare una democrazia a pieno titolo. A livello accademico si trovano opinioni differenti al riguardo. Rashid Khalidi, analizzando la storia del colonialismo in Medio Oriente durante il XX secolo, giunge alla conclusione che “ […] l‟occupazione militare straniera indesiderata (anche la sua sola minaccia) è incompatibile con la democratizzazione. È ovvio che essa, anche in un solo paese, altera il corso dello sviluppo politico dell‟intera regione, e ha quasi inevitabilmente l‟effetto di rafforzare il nazionalismo sciovinista come risposta difensiva, oltre a provocare e favorire le tendenze autoritarie nello stato preso di mira.”46 44 ibi, p. 77 45 Informazione presa da un grafico riportato sulla rivista «Internazionale», 18 (2011), p.17 46 R. KHALIDI, La resurrezione dell’impero. L’America e l’avventura occidentale in Medio Oriente, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 80 27 Inoltre questo autore ritiene che, nell‟attuale situazione, gli Stati Uniti dovrebbero lasciare che i conflitti interni alla regione mediorientale vengano risolti dai popoli della regione, piuttosto che intervenire direttamente. “ Tutto quel che gli attori esterni possono fare è limitare il loro intervento, aiutare a risolvere conflitti come quello tra Israele e Palestina o quello su Cipro, che in passato essi hanno contribuito a complicare con le loro politiche, e favorire l‟autoaffermazione della società civile di fronte allo sconfinato potere dello stato.”47 Ci sono altre visioni meno critiche e incentrate sulle conseguenze, ormai immutabili, della guerra in Iraq, piuttosto che sulle motivazioni americane di tale conflitto. Vittorio Emanuele Parsi sostiene che “ Anche senza spingersi fino ad affermare che il solo fatto di esportare la democrazia renda una guerra legittima, va riconosciuto che la prospettiva e la volontà di democratizzare l‟ex nemico sconfitto faccia la differenza tra guerra e guerra, giacché in tal modo si fa del nemico vinto (per definizione „altro da noi‟) „uno come noi‟”48 Da questa affermazione si può trarre la conclusione che, dato che la guerra è stata fatta e il regime di Saddam Hussein è stato eliminato, anche gli intellettuali e i politici critici o sospettosi rispetto alle reali motivazioni per cui gli Stati Uniti volessero intervenire nel paese, potrebbero concentrarsi su ciò che adesso è possibile fare per migliorare la situazione in Iraq e nelle zone limitrofe: appoggiare il cambio di regime supportando lo stato iracheno e la sua popolazione durante questa transizione, potrebbe essere l‟unico modo per aiutare il paese senza suscitare rancore per le passate azioni negative degli Stati Uniti nella regione. A questo proposito è fondamentale che la comunità internazionale, in particolare l‟Occidente, tenga presente l‟importanza che si crei un modello di democrazia mediorientale: piuttosto di imporre un modello di governo sarebbe utile indirizzare i partiti politici a metodi di governo 47 Ibi, p. 91 48 V. E. PARSI, L’alleanza inevitabile. Europa e Stati Uniti oltre l’Iraq, Università Bocconi Editore, Milano 2006, p. 148 28 democratici e lasciare poi che questi trovino il modo, modificando per certi versi il modello occidentale, per far convivere la democrazia con la cultura e la religione del Medio Oriente. In conclusione si può ritenere che “ […] fino a quando non si avvierà una dinamica democratica all‟interno dell‟Iraq e nei paesi della regione la diffusione di una democrazia islamica appare quantomeno problematica.”49 49 Ibi, p.152 29 CAPITOLO SECONDO LE CRISI NELLE RELAZIONI TRANSATLANTICHE DURANTE LA PRESIDENZA DI GEORGE W. BUSH Durante la campagna elettorale statunitense del 2000, la maggior parte dei paesi europei sosteneva il candidato democratico Gore, mentre il repubblicano Bush non riscuoteva grandi simpatie tra gli alleati del vecchio continente. La maggiore preoccupazione dei membri dell‟Unione Europea, relativa alla politica estera della futura amministrazione repubblicana, riguardava la preferenza di quest‟ultima per l‟azione unilaterale. Tale timore venne confermato, dopo le elezioni, dalle decisioni del nuovo presidente rispetto ad una serie di trattati, accordi e negoziati internazionali: egli respinse molti di questi ultimi, compresi quelli alla cui elaborazione avevano partecipato gli Stati Uniti.50 È importante sottolineare che le decisioni prese riguardo ai casi citati in nota, erano in linea con le posizioni della precedente amministrazione americana ed erano giustificate alla luce degli interessi nazionali all‟inizio del 2001. Queste decisioni furono giudicate negativamente in Europa poiché la concezione degli Stati Uniti delle relazioni internazionali alla base di tali scelte non era in sintonia con quella europea. Durante i primi mesi della presidenza di George W. Bush, quindi, le relazioni transatlantiche furono caratterizzate da un minimo livello di contestazione da parte degli alleati europei, ma il rapporto rimase sostanzialmente stabile. In generale, come già spiegato nel capitolo precedente, la politica estera della nuova amministrazione si differenziò da quella 50 Per esempio, nel Marzo 2001, gli Stati Uniti respinsero il protocollo di Kyoto; in Aprile si rifiutarono di incontrare i funzionari della Unione Europea per discutere dello spionaggio economico e del loro programma Echelon di controllo delle comunicazioni elettroniche , telefoniche e via fax; inoltre non parteciparono ad una conferenza dell‟OCSE. In Luglio gli Stati Uniti abbandonarono la conferenza di Londra sul nuovo protocollo alla Convenzione del 1972 sulle armi biologiche e, proprio una settimana prima dell‟undici Settembre, si ritirarono dalla World Conference against Racism, Racial Discrimination, Xenophobia and Related Intolerance. Bisogna ricordare che, già durante la precedente amministrazione, gli Stati Uniti si erano rifiutati di firmare alcuni trattati non in linea con gli interessi del paese. (Esempi contenuti in M. DE LEONARDIS, Alla ricerca della rotta transatlantica: le relazioni tra Europa e Stati Uniti dopo l’11 Settembre 2001, Centro Militare di Studi Strategici, 2008, p. 46) 30 precedente più in teoria che in pratica.51 Solo dopo l‟undici Settembre la strategia americana cambiò radicalmente. 2.1 LA CRISI NELLE RELAZIONI TRA EUROPA E STATI UNITI DOVUTA AGLI INTERVENTI IN AFGHANISTAN E IRAQ Subito dopo gli attacchi terroristici dell‟undici Settembre 2001 la coesione tra le due sponde dell‟Atlantico sembrò rafforzata, grazie alle espressioni di solidarietà da parte di tutti i membri della NATO attraverso l‟invocazione dell‟articolo cinque del suo trattato istitutivo. Più in generale i governanti europei, insieme all‟opinione pubblica, sostennero la decisione americana di usare la forza militare per intraprendere la lotta al terrorismo e si dissero pronti ad intervenire a fianco degli Stati Uniti. Il primo problema interno alla NATO si creò quando lo spontaneo ed immediato appoggio degli alleati storici degli Stati Uniti venne respinto da questi ultimi; infatti l‟amministrazione Bush si dichiarò più propensa alla creazione di coalizioni temporanee create ad hoc in base al tipo di minaccia. La strategia del quarantatreesimo presidente americano consisteva, come spiegò poi il sottosegretario Paul Wolfowitz, nell‟utilizzare l‟appoggio degli alleati per creare diverse coalizioni che avrebbero agito in diverse parti del mondo. Durante l‟operazione militare in Afghanistan gli Stati Uniti accettarono solo l‟aiuto del Regno Unito, di Germania, Danimarca ed Australia, oltre che dell‟Alleanza del Nord. Il segretario alla difesa Rumsfeld riteneva che fosse la minaccia a dover determinare la coalizione e non viceversa: “ Il modello della coalition of the willing prevalse sull‟organizzazione atlantica, la strategia delle coalizioni su quella delle alleanze permanenti, in coerenza con la tradizione americana più antica.”52 51 Clinton, pur avendo sostenuto apertamente l‟importanza dell‟azione multilaterale a livello internazionale, ha sempre tenuto conto della possibilità per il suo paese di agire in modo unilaterale di fronte alle crisi internazionali. 52 M. DE LEONARDIS, Alla ricerca della rotta transatlantica: le relazioni tra Europa e Stati Uniti dopo l’11 Settembre 2001, Centro Militare di Studi Strategici, 2008, p. 54 31 L‟iniziale mancato coinvolgimento della NATO nell‟intervento in Afghanistan fu una conseguenza delle lezioni che gli Stati Uniti avevano tratto dal conflitto in Kosovo. In apparenza questa azione militare sembrò unire le due sponde dell‟Atlantico, ma in realtà da una parte i paesi europei ebbero la sensazione che la loro lealtà venisse messa alla prova, inoltre videro una forte dipendenza dall‟alta tecnologia da parte degli Stati Uniti e una loro predominanza durante gli attacchi aerei; dall‟altra Washington definì eccessive le interferenze europee nella condotta delle operazioni militari. L‟esperienza in Kosovo fu alla base degli sviluppi successivi agli attacchi dell‟undici Settembre 2001: l‟Unione Europea ha cercato negli anni seguenti di evolversi rapidamente nel campo della politica estera e di sicurezza comune, mentre gli Stati Uniti hanno mostrato una preferenza verso l‟azione unilaterale, indipendentemente dalla disponibilità ad intervenire data dalla NATO. Nel Febbraio 2002 Wolfowitz, alla conferenza di Monaco sulla sicurezza, espresse il suo disappunto rispetto alla mancanza di capacità militari dell‟Unione Europea, inoltre aggiunse che i membri della NATO non dovevano considerarsi in una posizione privilegiata, poiché gli Stati Uniti in futuro si sarebbero sentiti liberi di scegliere i loro alleati indipendentemente dalla loro appartenenza all‟alleanza atlantica. La decisione di Washington di agire in modo unilaterale, per quanto giustificata dal tipo di strategia pensata per la lotta al terrorismo, sottovalutava la rilevanza del supporto politico degli alleati europei; inoltre ci sarebbero state conseguenze anche per la coesione interna alla NATO. Punto ancora più importante, gli Stati Uniti, durante la fase di sviluppo della strategia, non diedero molto peso alla questione della ricostruzione del paese: questo errore venne commesso prima delle operazioni militari in Afghanistan e quelle in Iraq. Solo dal 2003 la International Security Assistance Force53, attiva in Afghanistan, passò sotto il comando della NATO, coinvolgendo così sia gli Stati Uniti che i paesi europei. Ciò che più fece entrare in crisi le relazioni transatlantiche durante il primo mandato del presidente George W. Bush, fu l‟introduzione dell‟omonima dottrina, che cercava di giustificare un eventuale attacco preventivo da parte degli Stati Uniti contro i paesi sospettati 53 A tal proposito si veda il par. 1.3 32 di appoggiare il terrorismo internazionale e di possedere armi di distruzione di massa. Lo scontro tra Europa e Stati Uniti fu più duro che mai sulla questione dell‟intervento armato in Iraq: in particolare Francia e Germania si schierarono contro tale conflitto, mentre, più in generale, le opinioni pubbliche della maggior parte degli stati europei si opposero alla guerra, anche in quei paesi dove i governi si erano allineati con gli Stati Uniti. L‟allora Cancelliere tedesco Schröder, impegnato nella campagna elettorale per la rielezione, per trovare approvazione nell‟opinione pubblica, a maggioranza pacifista, escluse qualsiasi partecipazione della Germania ad un eventuale intervento militare in Iraq, anche se quest‟ultima avesse ottenuto l‟autorizzazione da parte dell‟ONU. Dopo la vittoria alle elezioni del 2002 il Cancelliere tedesco tornò sui suoi passi e rimarcò che la Germania avrebbe tenuto fede a tutti gli obblighi derivanti dalla sua appartenenza alla NATO. Questo comunque non portò ad un miglioramento delle relazioni tra i leader di Germania e Stati Uniti: a Washington infatti, nonostante il cambio di rotta nella politica di Schröder verso la guerra in Iraq, la Germania continuò ad essere vista come uno stato sleale e debole, sul quale gli Stati Uniti non avrebbero potuto fare affidamento. L‟amministrazione francese, a differenza di quella tedesca, non si dichiarò del tutto contraria all‟eventualità di un intervento militare in Iraq; ciò che la Francia riteneva prioritario era la legittimazione dell‟azione a livello internazionale. Per due mesi Francia e Stati Uniti collaborarono alla stesura del testo di una risoluzione, che venne poi approvata dal Consiglio di Sicurezza l‟otto Novembre 2002. L‟Iraq, secondo tale risoluzione, si trovava in materiale violazione dei suoi obblighi derivanti da precedenti risoluzioni relative alle ispezioni nel paese; inoltre la continua inadempienza di questi obblighi, ribaditi in questa risoluzione, avrebbe portato a serie conseguenze per il paese.54 Alla fine di Novembre, il governo iracheno consegnò un documento relativo alle armi di distruzione di massa ritenuto deludente sia dagli Stati Uniti che dalla Francia. L‟amministrazione americana riteneva che il comportamento dell‟Iraq costituisse una violazione della precedente risoluzione e, quindi, 54 UN Security Council Resolution 1441, adottata l‟8 Novembre 2002. (testo disponibile alla pagina http://www.un.org/Depts/unmovic/new/documents/resolutions/s-res-1441.pdf ; ultimo accesso 05/03/2011). 33 sosteneva anche di avere una giustificazione per poter intervenire militarmente. Su questo punto Washington si scontrò con Francia e Gran Bretagna, le quali sostenevano che ci fosse bisogno di un‟altra risoluzione da parte del Consiglio di Sicurezza ed infine gli Stati Uniti accettarono tale condizione. Il primo ministro francese e quello tedesco ritenevano che l‟azione militare dovesse essere tenuta in considerazione solo come la soluzione peggiore; inoltre, sostenevano che solo il Consiglio di Sicurezza potesse prendere decisioni riguardanti la situazione irachena. Il vero problema era che Francia e Germania affermavano la propria posizione come „europea‟, ma, come ricordò l‟allora segretario alla Difesa Rumsfeld, ci sono molti altri stati in Europa. A questo proposito è bene ricordare che dopo la fine della guerra fredda ci fu un allargamento della membership della NATO e, in date differenti, anche dell‟Unione Europea: in entrambe le organizzazioni vennero ammessi molti paesi ex satelliti dell‟Unione Sovietica, molti dei quali governati da amministrazioni filo-americane.55 Nel Gennaio del 2003, i leader di Danimarca, Gran Bretagna, Italia, Portogallo, Spagna, Repubblica Ceca, Polonia e Ungheria, tutti membri della NATO, parteciparono ad una dichiarazione a sostegno della politica dell‟amministrazione Bush; inoltre altri dieci paesi, Bulgaria, Estonia, Lituania, Slovacchia, Slovenia, Romania, Albania, Croazia e Macedonia, allora non ancora membri dell‟alleanza atlantica e nemmeno dell‟Unione Europea, firmarono in Febbraio un documento di supporto alla politica americana. Queste espressioni di appoggio verso le scelte di Washington relative alla situazione in Iraq, in particolare quella del secondo gruppo di paesi, vennero viste dal primo ministro francese Chirac come 55 Nel 1999 Repubblica Ceca, Polonia e Ungheria entrarono a far parte della NATO, nel 2004 divennero membri anche Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia; infine nel 2009 entrarono Albania e Croazia. L‟allargamento dell‟Unione Europea iniziò invece nel 2004 con l‟ammissione di Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria; nel 2007 sono state ammesse anche Bulgaria e Romania. 34 “ […] il profilarsi di una lobby atlantica, che una volta entrata nella UE avrebbe contestato la leadership franco-tedesca ed agito da cavallo di Troia di Washington.”56 Parigi e Berlino si trovarono unite nella difesa della propria posizione di attori principali all‟interno del sistema internazionale, all‟interno del quale gli Stati Uniti non avrebbero dovuto poter prendere decisioni prescindendo dalle opinioni dei suoi alleati europei più influenti. Inoltre l‟asse franco-tedesco cercava di difendere e rafforzare la propria leadership all‟interno di un‟Unione Europea in via di espansione verso est, dove, come già detto, molti paesi appoggiavano la politica americana verso l‟Iraq. Nonostante le preoccupazioni per la propria predominanza nella regione, Francia e Germania non potevano presentare la propria posizione come quella europea riguardo al possibile intervento militare in Iraq, poiché in realtà non esisteva una opinione comune all‟interno dell‟Unione Europea.57 Nello stesso periodo la crisi nelle relazioni transatlantiche colpì direttamente la NATO: gli Stati Uniti, viste le critiche per non aver coinvolto i membri dell‟alleanza atlantica durante il conflitto in Afghanistan, pensarono di farli partecipare indirettamente alle operazioni in Iraq. La NATO, secondo la proposta americana, avrebbe dovuto fornire assistenza alla Turchia in caso di una rappresaglia irachena sul suo territorio, assistenza logistica ai paesi coinvolti nell‟azione militare e avrebbe dovuto ampiamente partecipare alle operazioni post-belliche. Francia, Germania, Lussemburgo e Belgio si dichiararono contrari a tale coinvolgimento, ma gli Stati Uniti fecero appello all‟articolo quattro58 del trattato istitutivo dell‟alleanza atlantica ed ottennero la possibilità di discutere tale proposta. Nel Febbraio 2003 si svolsero alcune riunioni del Consiglio Atlantico, durante le quali si lavorò per trovare una soluzione al dissenso dei membri contrari alle misure proposte da 56 M. DE LEONARDIS , Alla ricerca della rotta transatlantica: le relazioni tra Europa e Stati Uniti dopo l’11 Settembre 2001, Centro Militare di Studi Strategici, 2008, p. 65 57 Tale argomento è trattato nel par. 2.3 58 “Le parti si consulteranno ogni volta che, nell‟opinione di una di esse, l‟integrità territoriale, l‟indipendenza politica o la sicurezza di una delle parti fosse minacciata.” NATO, Institutive Treaty, art. 4 (disponibile alla pagina http://www.nato.int/cps/en/natolive/official_texts_17120.htm?selectedLocale=en; ultimo accesso 05/03/2011). 35 Washington; infine la decisione venne affidata al Defence Planning Committee (DPC), organo dal quale la Francia uscì nel 1966. Germania e Belgio diedero la propria disponibilità ad approvare le proposte degli Stati Uniti in sede di DPC, dopo che la Turchia ebbe presentato una richiesta di consultazioni. Il 18 Febbraio il DPC decise all‟unanimità di adottare le richieste a difesa della Turchia; decisione poi rivelatasi inutile, dal momento che quest‟ultima, infine, negò l‟autorizzazione al passaggio sul proprio territorio delle truppe d‟invasione americane. La Francia, appoggiata da Russia e Cina, informò che avrebbe posto il veto ad ogni risoluzione presentata al Consiglio di Sicurezza relativa alla situazione in Iraq, quindi nel momento in cui gli Stati Uniti cercarono una legittimazione dell‟uso della forza da parte dell‟ONU, vennero bloccati dal veto preannunciato della Francia. Questo non intaccò comunque la determinazione americana: gli Stati Uniti avrebbero potuto intervenire militarmente in Iraq giustificando tale azione come autorizzata dalle violazioni da parte di Saddam Hussein delle precedenti risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e, nel caso in cui fosse poi stata proposta una risoluzione di condanna contro gli Stati Uniti, questi ultimi avrebbero posto il veto contro tale provvedimento. Il dissenso di alcuni membri della comunità internazionale non impedì comunque agli Stati Uniti di intervenire militarmente in Iraq con il sostegno di una coalizione di volenterosi formata da quarantanove paesi, tra cui diciotto europei. La frattura delle relazioni transatlantiche sulla questione relativa all‟azione militare in Iraq fu dovuta principalmente ad errori diplomatici, infatti molte dichiarazioni da parte di politici assunsero toni molto accesi e portarono ad un peggioramento delle relazioni diplomatiche. “ Le bordate polemiche si potevano evitare, ma in fondo erano il riflesso del contesto strategico profondamente mutato rispetto alla guerra fredda. Durante quest‟ultima, la percezione comune di un reale pericolo sovietico impediva che i dissensi transatlantici diventassero risse politiche […].”59 59 M. DE LEONARDIS, Alla ricerca della rotta transatlantica: le relazioni tra Europa e Stati Uniti dopo l’11 Settembre 2001, Centro Militare di Studi Strategici, 2008, p. 71 36 Gli Stati Uniti, determinati ad intervenire in Iraq, non si preoccuparono del fatto che le motivazioni che avrebbero dovuto giustificare tale azione non erano del tutto dimostrabili; innanzitutto il legame tra al-Qaeda e il regime di Saddam Hussein non era verificabile, inoltre le armi di distruzione di massa non furono mai trovate. Il dissenso da parte di alcuni stati europei era quindi motivato, oltre che da divergenze politiche generali, anche dal fatto che Washington non presentò ai suoi alleati storici delle ragioni innegabili per appoggiare l‟azione militare. Per comprendere a fondo le differenze tra le concezioni delle relazioni internazionali sulle due sponde dell‟Atlantico, si devono inoltre analizzare le diverse aspirazioni politiche degli attori principalmente coinvolti: Unione Europea e Stati Uniti.60 Dopo la grave crisi nelle relazioni transatlantiche che ha avuto luogo durante primi mesi del 2003, si è verificato un riavvicinamento tra Unione Europea e Stati Uniti dovuto soprattutto alla debolezza interna di entrambi. George W. Bush dopo la vittoria alle elezioni presidenziali del 2004, ha dovuto rivedere la sua preferenza per l‟azione unilaterale, poiché le operazioni di ricostruzione in Afghanistan ed in Iraq richiedevano maggiori aiuti. Infatti la comunità e le istituzioni internazionali vennero poi coinvolte nelle operazioni di nation-building di entrambi i paesi. Un altro fattore che ha influito sul miglioramento delle relazioni transatlantiche è stato l‟uscita di scena, soprattutto dopo che il partito repubblicano perse le mid-term elections nel Novembre 2006, di alcuni membri dell‟amministrazione Bush che avevano contribuito ad accentuare le divergenze con gli alleati europei. Anche in Europa, i leader che maggiormente si erano opposti all‟intervento in Iraq, Chirac e Scrhöder, lasciarono il posto a due governanti filo-americani: Nicholas Sarkozy per la Francia e Angela Merkel per la Germania. L‟Unione Europea, inoltre, ha vissuto un periodo di forte incertezza a causa della bocciatura della Costituzione Europea in Olanda e in Francia, documento poi approvato in una versione meno ambiziosa al vertice di Lisbona del 2007. Alcuni intellettuali ritenevano che la minaccia del terrorismo a matrice islamica fosse più reale per gli Stati Uniti che per l‟Europa, poiché, essendo i principali alleati di Israele, venivano presi di mira in modo eccezionale; al contrario la sicurezza degli stati europei non 60 Tale argomento viene trattato nel par. 2.2 37 sarebbe stata direttamente minacciata. Come hanno dimostrato gli attacchi terroristici compiuti da al Qaeda nel Marzo 2004 a Madrid e nel Luglio 2005 a Londra, il terrorismo è una minaccia per la comunità internazionale in generale e per l‟Occidente in particolare; quindi Stati Uniti ed Europa devono collaborare all‟elaborazione di una strategia comune per rispondere in modo adeguato a questa sfida. I rapporti transatlantici sembrarono migliorare ancora di più tra Novembre 2004 e Gennaio 2005, quando gli Stati Uniti e i paesi europei apparvero in sintonia su alcune questioni internazionali: sia Stati Uniti che Unione Europea sostennero la «rivoluzione arancione» in Ucraina, apparvero d‟accordo anche sul sostegno al presidente dell‟Autorità palestinese Abu Mazen e sull‟isolamento di Hamas, così come sulla situazione in Darfur, in Kosovo ed in Libano. Inoltre sia i paesi europei che Washington si opposero al programma nucleare iraniano. È importante, comunque, ricordare che “ […] più che una vera e propria ricomposizione, i rapporti Europa-Stati Uniti vedono alla fine del 2007 un momento di tregua e di incertezza.”61 Infatti le questioni internazionali su cui Europa e Stati Uniti si trovarono d‟accordo e la maggiore partecipazione degli alleati europei alla ricostruzione di Afghanistan ed Iraq, non hanno cancellato il risentimento tra le due sponde dell‟Atlantico. Le differenze permangono a diversi livelli: da un punto di vista politico la questione dell‟Iran, in assenza di una strategia comune, potrebbe rivelarsi ancora più critica di quella irachena. Da un punto di vista economico il dollaro debole penalizza le esportazioni europee. Inoltre molte differenze rimangono anche sulle questioni ambientali che la comunità internazionale deve affrontare.62 61 M. DE LEONARDIS, Alla ricerca della rotta transatlantica: le relazioni tra Europa e Stati Uniti dopo l’11 Settembre 2001, Centro Militare di Studi Strategici, 2008, p. 91 62 Ibi, p. 91 38 2.2 «IMPERIALISMO» AMERICANO E «POTENZA CIVILE» EUROPEA Per comprendere a fondo le differenze nelle scelte politiche di Stati Uniti ed Unione Europea si deve tener conto delle diverse origini dei due attori internazionali. Gli Stati Uniti nascono dopo la conquista dell‟indipendenza da parte delle colonie di una grande potenza, la Gran Bretagna. Durante tutto l‟Ottocento la federazione di stati americani si concentrò sull‟espansione territoriale nel continente d‟appartenenza e sull‟organizzazione del proprio apparato amministrativo. Solo nel ventesimo secolo gli Stati Uniti si affermarono come grande potenza a livello internazionale con la partecipazione alle due guerre mondiali, coinvolgendo le proprie forze militari ma non il proprio territorio; dopo il 1945 acquisirono lo status di superpotenza nel sistema bipolare della guerra fredda. L‟Unione Europea iniziò a svilupparsi dopo la fine del secondo conflitto mondiale, attraverso la creazione di istituzioni comuni a tutti gli stati membri, prima attraverso la Comunità Europea del Carbone e dell‟Acciaio, poi con la Comunità Economica Europea. Queste istituzioni nacquero inizialmente per favorire l‟integrazione economica regionale, si svilupparono poi anche a livello politico al fine di rendere possibile una convivenza pacifica tra le nazioni del continente, evitando così il ripetersi di altri conflitti tra le grandi potenze della regione e per salvaguardare la democrazia. Mentre “ Nell‟idea americana di politica, soprattutto quella internazionale, è contenuta la premessa che la politica, sia un impegno del bene contro il male; […]. Ma c‟è anche una matrice profondamente cristiana, per cui la politica fa l‟uomo più simile a Dio […]. Ebbene una tale visione ancora eroica della politica in Europa non è più possibile.”63 Proprio da una visione per molti aspetti eroica della politica, in Europa è nato il totalitarismo e dato che l‟integrazione europea si è sviluppata anche per salvaguardare la democrazia ed 63 V. E. Parsi, L’alleanza inevitabile. Europa e Stati Uniti oltre l’Iraq, Università Bocconi Editore, Milano 2006, p. 240-241 39 evitare la nascita di altri regimi nella regione, la visione della politica sottostante la creazione dell‟Unione Europea è contrapposta a quest‟idea eroica di politica. Le istituzioni comuni europee sono nate dalla volontà di alcuni stati di autolimitarsi a vicenda nelle proprie mire espansionistiche e cedere parte della propria sovranità ad organismi sovranazionali, per intraprendere azioni diplomatiche comuni in periodi di crisi, mentre gli Stati Uniti, com‟è successo durante l‟amministrazione Bush, mostrano una preferenza per l‟azione unilaterale e tendono a ricorrere alla logica isolazionista nei periodi di crisi. Il dibattito sul tema se gli Stati Uniti siano o meno un impero è controverso e coinvolge innumerevoli intellettuali. Nonostante i molti nomi usati per definire quello che per alcuni è l‟impero americano, Washington non ha mai accettato esplicitamente tale definizione e il ruolo che ne deriverebbe, anzi, generalmente i rappresentanti delle diverse fazioni politiche concordano su questo punto, negando di fatto l‟esistenza di un impero americano. Come già detto, numerosi studiosi hanno trattato tale questione, ma, ai fini del mio elaborato, alcune opinioni meritano maggiore attenzione. Joseph Nye sostiene che gli Stati Uniti siano una superpotenza in termini di hard power e soft power, ma egli ritiene anche che “ […] equiparare la supremazia americana ad un regime imperiale sia concettualmente sbagliato […] il governo americano non controlla politicamente nemmeno gli attori più deboli del sistema internazionale ed è dunque ontologicamente incompatibile con la tradizionale definizione di potere imperiale.”64 Niall Ferguson, invece, sostiene che gli Stati Uniti siano un impero e che dovrebbero accettare tale ruolo per poterlo svolgere adeguatamente; egli crede che l‟esistenza di un impero liberale che possa garantire la stabilità del sistema internazionale sia un fatto positivo. Tuttavia Washington non è in grado di svolgere il ruolo imperiale in modo soddisfacente, poiché 64 M. DE LEONARDIS, Alla ricerca della rotta transatlantica: le relazioni tra Europa e Stati Uniti dopo l’11 Settembre 2001, Centro Militare di Studi Strategici, 2008, p. 191 40 riluttante ad impegnarsi a lungo termine nella gestione del sistema internazionale. 65 Henry Kissinger ritiene che la potenza americana sia un fatto innegabile, ma sostiene che il potere possa essere mantenuto solo con il consenso e che quest‟ultimo si possa ottenere solo attraverso delle efficaci azioni diplomatiche. “ […] non si può sostenere l‟egemonia senza il consenso. Il consenso richiede l‟esistenza di un‟alternativa peggiore della stessa egemonia. Il che spiega il motivo per cui la leadership globale americana si affermò nel Ventesimo secolo: in parte fu abilità, in parte fu fortuna, ma comunque c‟era sempre qualcosa di peggio.”66 Quindi per mantenere la propria predominanza a livello globale gli Stati Uniti necessitano del consenso alla loro leadership da parte dei membri della comunità internazionale. La mancanza di consenso alla supremazia statunitense da parte di alcuni membri dell‟Unione Europea è giustificata, in generale, da differenti visioni politiche da parte dei governanti, ma, secondo alcuni autori, gioca un ruolo particolare il modello sociale americano. Tale modello viene messo in discussione a causa dello scarso welfare state e delle enormi diseguaglianze tra le classi sociali. Secondo alcuni autori proprio le „ingiustizie‟ sociali costituiscono un grande pericolo per il mantenimento del dominio globale statunitense. Michael E. Cox ritiene che negli Stati Uniti si sia generata un tipo di prospettiva imperiale come conseguenza della leadership globale mantenuta da questi ultimi. In questa prospettiva le crisi di altre regioni o paesi vengono percepite dall‟egemone come problemi che devono essere risolti, mentre gli Stati Uniti vengono percepiti dall‟esterno come essenziali per il mantenimento della sicurezza nell‟ordine internazionale. 65 Fatto dimostrato, per esempio, dalla scarsa importanza data alle operazioni post-belliche dall‟amministrazione Bush durante l‟elaborazione delle strategie per i conflitti in Afghanistan ed Iraq. 66 J. L. GADDIS, Attacco a sorpresa e sicurezza: le strategie degli Stati Uniti, Vita e Pensiero, Milano 2005, p. 109 41 “ Infatti, come sovente sostengono gli americani […] , le responsabilità della leadership e la realtà del potere significano che i forti devono compiere il proprio dovere – anche se talvolta questo è ritenuto ingiusto – mentre i deboli sono obbligati ad accettare il proprio destino.”67 Anche questo autore ritiene, quindi, che sia importante tenere conto dell‟opinione esterna rispetto alla potenza degli Stati Uniti; egli però fa notare come, nonostante le critiche verso la potenza egemone e le sue scelte in materia di politica estera, la maggior parte degli attori della comunità internazionale “ […] è conscia del fatto che i benefici del vivere sotto l‟imperium americano compensano alla fine qualsiasi svantaggio.”68 Il quesito che di conseguenza alcuni intellettuali si sono posti è se l‟atteggiamento imperiale non sia anche la causa all‟origine di alcune forme di resistenza da parte di altri attori internazionali, così com‟è accaduto prima del conflitto iracheno da parte di alcuni paesi europei. Questo porta a chiedersi se le modalità attraverso le quali gli Stati Uniti esercitano il proprio potere non siano anche la causa del deterioramento delle relazioni transatlantiche di quel periodo: Joseph Nye ritiene che “ […] l‟America può in effetti essere l‟unica superpotenza mondiale, ma ciò non significa necessariamente che possa sempre procedere da sola e allo stesso tempo sperare di mantenere relazioni amichevoli o distese con gli altri Paesi.”69 I difetti, così come i pregi, dell‟ «impero» statunitense devono essere visti in relazione alle potenzialità dei possibili sfidanti per la conquista della leadership globale. Durante gli anni Novanta si sviluppò un dibattito relativo al tema se l‟egemonia americana fosse in ascesa o in declino dopo la fine della guerra fredda. A tal proposito Charles Kupchan ritiene che, nel decennio successivo alla fine della guerra fredda, si siano create due condizioni sufficienti a 67 M. E. COX, Il ‘nuovo’ impero americano, in V. E. PARSI – S. GIUSTI – A. LOCATELLI ( a cura di), Esiste ancora la comunità transatlantica?Europa e Stati Uniti tra crisi e distensione, Vita e Pensiero, Milano 2006, p. 93 68 Ibi, p. 94 69 Ibidem, p. 98 42 decretare la conclusione dell‟era unipolare. Innanzitutto sono sorti altri centri di potere che potrebbero emergere come avversari degli Stati Uniti: da un punto di vista economico e politico l‟Unione Europea si è stabilizzata e le sue istituzioni si sono rafforzate. Inoltre gli Stati Uniti hanno perso interesse a svolgere il compito di garanti dell‟ordine mondiale. “ […] la combinazione di isolazionismo e unilateralismo sarà letale per la superpotenza americana.”70 L‟Unione Europea ha sviluppato una forte rilevanza politica ed economica già a partire dagli anni Novanta con la creazione e la riforma di organi comuni. La questione principale per quanto riguarda il futuro dell‟Europa riguarda la creazione di una forza militare comune per limitare la dipendenza dagli Stati Uniti in materia di sicurezza. Questa necessità è stata constata in maniera più urgente dopo il 2001, quando la scelta degli Stati Uniti di agire unilateralmente, sottovalutando l‟importanza politica degli alleati europei, ha reso esplicita la perdita di importanza del vecchio continente agli occhi della superpotenza. Gli Stati Uniti da anni incoraggiano i paesi membri dell‟Unione Europea affinché sviluppino un apparato difensivo regionale rilevante a livello internazionale: principalmente questa richiesta si è fatta più insistente dopo l‟intervento della NATO nei Balcani, poiché alcuni esponenti politici americani ritengono che l‟Unione Europea debba essere in grado di gestire le crisi regionali in modo autonomo. Inoltre “ L‟Europa dovrà giocare nel prossimo futuro la propria carta per un nuovo ordine internazionale, fondato sulla pace e sulla giustizia tra i popoli. Muoversi per questi obiettivi esige la disponibilità di una forza di deterrenza, per poter svolgere autonomamente le operazioni di peace-keeping, quando esse si rivelino indispensabili. Una forza armata europea serve anche per essere politicamente credibili nei confronti di interlocutori che dispongono di questi strumenti in misura assai rilevante e che su questa disponibilità fanno leva al fine di imporre il proprio punto di vista sui caratteri del futuro ordine internazionale.”71 70 M. DE LEONARDIS, Alla ricerca della rotta transatlantica: le relazioni tra Europa e Stati Uniti dopo l’11 Settembre 2001, Centro Militare di Studi Strategici, 2008, p. 215 71 L. VIOLANTE, Un mondo asimmetrico. Europa, Stati Uniti, Islam, Einaudi, Torino 2003, p. 97 43 Dal punto di vista prettamente politico, l‟Unione Europea persegue fini comuni a quelli degli Stati Uniti: mantenere la pace nel sistema internazionale e difendere i valori occidentali di democrazia e libertà. La differenza tra le due sponde dell‟Atlantico sta nei mezzi utilizzati per raggiungere questi obiettivi: gli Stati Uniti, durante gli anni dell‟amministrazione Bush, hanno prediletto l‟uso della forza armata e l‟azione unilaterale, mentre l‟Unione Europea ha preferito risolvere le divergenze con altri attori del sistema internazionale, mettendo in atto efficaci azioni diplomatiche comuni ai membri delle istituzioni europee. In campo economico l‟Unione Europea ha acquisito rilevanza soprattutto nell‟ultimo decennio con l‟introduzione della moneta unica, principale rivale del dollaro: “ […] l‟UE non è e non vuole essere una potenza militare di rilievo. Al contrario, nell‟economia internazionale, il ruolo dell‟euro sta crescendo e questo costituisce il principale punto di forza dell‟UE.”72 Secondo alcuni intellettuali la leadership americana è minacciata proprio dai paesi emergenti a livello economico; inoltre la predominanza degli Stati Uniti viene sfidata anche a livello di soft power, poiché l‟amministrazione Bush ha prediletto l‟uso del proprio potenziale militare per mantenere la propria egemonia, a discapito della rilevanza culturale. Il dibattito relativo al futuro delle relazioni transatlantiche è molto articolato: da una parte ci sono quegli intellettuali che ritengono certo un declino dell‟egemonia americana nel breve periodo e un‟ascesa della «potenza civile» europea. Dall‟altra parte si trovano opinioni più realistiche che ammettono che la leadership americana potrebbe in futuro essere sfidata dall‟emergere a livello internazionale dell‟Unione Europea come attore politico predominante; tuttavia questa prospettiva non può ancora essere certa e nemmeno prossima al compimento a causa della non ancora chiara identità politica della comunità europea e delle sue fratture interne. 72 M. DE LEONARDIS, Alla ricerca della rotta transatlantica: le relazioni tra Europa e Stati Uniti dopo l’11 Settembre 2001, Centro Militare di Studi Strategici, 2008, p. 217 44 Una proposta alternativa a quelle che vedono come certo il declino di una delle due potenze, consiglia di individuare gli obiettivi comuni e fare ciò di cui tutta la comunità internazionale avrebbe bisogno: “ L‟Europa deve mettere da parte l‟antiamericanismo e gli Stati Uniti l‟antieuropeismo, non solo perché si tratta di sterili pregiudizi, ma anche perché i pericoli che incombono sull‟umanità richiedono a tutti i soggetti più forti un elevato senso di responsabilità. La partita del futuro non riguarda la supremazia tra i due continenti, ma la capacità di costruire insieme un nuovo ordine mondiale fondato sulla pace e sulla cooperazione.”73 2.3 QUESTIONI RILEVANTI ALL‟INTERNO DELL‟UNIONE EUROPEA E LORO CONSEGUENZE SUL RAPPORTO TRANSATLANTICO Durante le fasi di preparazione alla guerra in Iraq si è assistito ad una frattura interna all‟Unione Europea; infatti si sono creati al suo interno due schieramenti contrapposti: uno formato da Gran Bretagna, Spagna e Italia ed un altro composto da Francia e Germania. Nonostante entrambi i gruppi di paesi abbiano agito nell‟interesse dell‟Unione Europea, contrapponendosi, hanno danneggiato i minimi risultati che si erano raggiunti in materia di politica estera comune. Gran Bretagna, Italia e Spagna si schierarono con gli Stati Uniti poiché, secondo questi paesi, l‟identità politica dell‟Unione Europea era ancora troppo fragile a causa del persistere delle forti sovranità dei paesi membri: solo la potenza egemone poteva risolvere le crisi in altre regioni dando la possibilità all‟Europa di vivere in sicurezza e far evolvere le proprie istituzioni comuni. Francia e Germania, invece, ritenevano che l‟identità politica europea, già abbastanza definita, avrebbe potuto emergere a livello internazionale come contrappeso all‟egemonia americana. Attualmente si può ritenere che la spaccatura interna all‟Unione Europea relativa all‟intervento in Iraq, ha frantumato la poca unità creatasi 73 L. VIOLANTE, Un mondo asimmetrico. Europa, Stati Uniti, Islam, Einaudi, Torino 2003, p. 161 45 dopo anni di trattative; quindi si può definire la posizione di Gran Bretagna, Italia e Spagna più razionale: questi paesi, consapevoli della debolezza della coesione europea, hanno agito contrapponendosi a chi riteneva pronta l‟Unione Europea ad emergere come sfidante alla leadership americana. “ […] gli europei devono essere consapevoli che, non solo la secessione fisica, ma neppure quella politica tra le due sponde dell‟Atlantico può oggi rappresentare una risposta alle pur evidenti tensioni euroamericane. E, d‟altronde, solo restando ancorati al rapporto transatlantico, gli europei potranno rafforzare la propria comune identità continentale, […]”74 Proprio il problema dell‟identità politica dell‟Unione Europea è ancora oggi irrisolto. I paesi europei potranno definire una vera comunità politica nel momento in cui la sovranità statale delle singole nazioni avrà meno peso all‟interno dell‟Unione. Durante gli anni Novanta gli stati membri hanno lavorato e si sono impegnati per ridurre la propria sovranità, delegandone parte alle istituzioni comuni; allo stesso tempo i paesi dell‟Europa occidentale si sono impegnati a favore di un allargamento verso est dell‟Unione Europea, passo realizzatosi tra il 2004 e il 2007 con l‟ingresso di molti stati ex sovietici. Allo stesso tempo però la comunità europea si è rivelata incapace di influenzare politicamente i paesi del continente non ancora in grado di soddisfare i criteri per la partecipazione all‟Unione.75 Dopo l‟undici Settembre il contesto politico internazionale è mutato radicalmente, poiché la minaccia alla sicurezza internazionale può provenire anche da attori non statali. Quasi paradossalmente, all‟interno dell‟Unione Europea, dopo gli attacchi terroristici del 2001, si è verificata una riconsiderazione della centralità della sovranità statale a discapito delle istituzioni comunitarie. 74 V. E. PARSI, L’alleanza inevitabile. Europa e Stati Uniti oltre l’Iraq, Università Bocconi Editore, Milano 2006, p. 252 75 Durante i conflitti nei Balcani degli anni Novanta, l‟Unione Europea non ha saputo risolvere la crisi regionale senza l‟intervento esterno dell‟ONU e degli Stati Uniti. 46 “ Gli stati […] tornano a essere strumenti appropriati per fronteggiare le nuove minacce e le nuove sfide. Perché, fino a oggi e fino a prova contraria, gli stati […] restano gli unici depositari di quella componente fondamentale dell‟interesse nazionale che ha per oggetto la sicurezza e la difesa della comunità politica.”76 Secondo Robert Cooper la differenza tra Unione Europea e Stati Uniti si trova nel diverso approccio per il controllo delle minacce alla comunità internazionale. Gli Stati Uniti basano la propria strategia sull‟egemonia, mentre l‟Europa affronta le minacce inglobandole all‟interno dell‟Unione Europea, trasformandole in questioni di politica interna. Nel nuovo ordine internazionale, dove i nemici sono disposti ad utilizzare armi di distruzione di massa, la strategia europea di cooptazione non è sufficiente: è necessario che l‟Unione Europea si impegni nella creazione di una propria forza militare in grado di difendere il proprio territorio senza fare affidamento sulla potenza egemone. Vittorio Emanuele Parsi sostiene che, se da una parte gli Stati Uniti negli ultimi anni, ma soprattutto durante l‟amministrazione Bush, hanno sopravvalutato il ruolo della forza militare come mezzo di risoluzione delle crisi internazionali, l‟Unione Europea sembra sottovalutare il ruolo di tale fattore: “ L‟Europa vivrà anche in una sorta di paradiso kantiano, regolato dalle norme e non dalla forza, ma […] tutto ciò continua a essere possibile fino a che qualcun altro si incarica del «lavoro sporco» del mantenimento della sicurezza nel sistema.”77 La questione riguardante lo sviluppo di una forza armata comune dovrebbe rientrare tra le priorità europee, poiché le strategie di cooptazione e di negoziazione utilizzate dall‟Unione Europea per la soluzione delle controversie internazionali, verrebbero rafforzate dal fattore di deterrenza rappresentato dalla forza militare. Inoltre un‟Europa dotata di un adeguato apparato militare, potrebbe in futuro essere in grado di intervenire in aree di crisi cooperando 76 V. E. PARSI, L’alleanza inevitabile. Europa e Stati Uniti oltre l’Iraq, Università Bocconi Editore, Milano 2006, p. 260-261 77 Ibi, p. 276 47 con gli Stati Uniti, o perfino in modo autonomo. Finché la situazione di dipendenza europea dagli Stati Uniti in materia di sicurezza non verrà risolta, è improbabile che l‟Unione Europea riesca ad emergere come attore politico di contrappeso alla superpotenza americana; obiettivo che invece è stato raggiunto a livello economico. Oltre alle questioni della definizione dell‟identità politica e della creazione di un apparato militare europeo, si presenta anche una questione di tipo culturale assai complessa: “ […] vi sono molti inequivocabili segni che l‟attuale processo di unificazione europea comporterebbe la liquidazione non solo degli Stati nazionali ma anche di ogni identità storica, religiosa e culturale europea.”78 L‟appiattimento culturale europeo, secondo alcuni autori americani, renderebbe la regione non all'altezza di affrontare adeguatamente la sfida che la religione e la cultura islamica pongono a quella occidentale: “ Per vicinanza geografica e dipendenza economica dal petrolio del Medio Oriente, l‟Europa appare più esposta degli Stati Uniti ad una diffusione del terrorismo. Inoltre, […] l‟Europa, che taglia le sue radici cristiane, appare più vulnerabile degli Stati Uniti alla minaccia non militare del fondamentalismo islamico, ossia alla sua sfida identitaria.”79 Negli ultimi anni gli Stati Uniti hanno riaffermato la supremazia dei propri valori, radicati in una forte religiosità; allo stesso tempo si assiste all‟affermazione dell‟identità islamica, sia culturale che religiosa, a livello internazionale; l‟Europa invece mostra un appiattimento ideale e un distacco dalla sua tradizione cristiana e politica più antica: questo, secondo alcuni intellettuali, porterà al declino della centralità culturale e politica europea. Alcuni intellettuali ritengono inoltre che il declino della cultura europea avverrà a causa della scomparsa degli stati nazionali: con la creazione delle istituzioni comuni si dissolvono di fatto 78 M. DE LEONARDIS, Alla ricerca della rotta transatlantica: le relazioni tra Europa e Stati Uniti dopo l’11 Settembre 2001, Centro Militare di Studi Strategici, 2008, p. 220 79 Ibi, p. 93 48 le diverse identità nazionali, senza però creare una nuova nazione con interessi condivisi da tutti i cittadini europei. Questo innanzitutto porterebbe alla perdita di valori e credenze tipiche di ogni entità nazionale europea; inoltre creerebbe un terreno più fertile per lo sviluppo del terrorismo internazionale e per l‟avvento della cultura e della religione islamica.80 2.4 IL RUOLO DELL‟ALLEANZA ATLANTICA DOPO IL 2001 Con la scomparsa dell‟Unione Sovietica e la fine della guerra fredda venne meno la minaccia comune alla base della creazione dell‟Alleanza Atlantica; “ Data per spacciata verso l‟inizio degli anni Novanta da chi vedeva il suo destino legato in maniera indissolubile a quello del nemico per fronteggiare il quale era sorta, essa è invece sopravvissuta grazie alla ridefinizione della propria strategia.”81 Infatti già a partire dagli Novanta si è assistito ad una revisione dei ruoli, dei compiti e anche della membership della NATO che è ancora oggi in corso. I cambiamenti in materia di sicurezza avvenuti dopo gli attentati dell‟undici Settembre hanno reso il dibattito sui compiti e le strutture dell‟Alleanza Atlantica ancora più urgente di quanto non lo fosse già subito dopo la fine della guerra fredda.82 Dopo il 2001, anche la questione dell‟ampliamento della membership ha assunto una diversa dimensione rispetto al passato. 80 “ […] l‟Europa o ridiventerà cristiana o diventerà musulmana. Ciò che mi pare senza avvenire è la „cultura del niente‟ […] ” citato in M. DE LEONARDIS, Alla ricerca della rotta transatlantica: le relazioni tra Europa e Stati Uniti dopo l’11 Settembre 2001, Centro Militare di Studi Strategici, 2008, p. 221 81 V. E. PARSI, L’alleanza inevitabile. Europa e Stati Uniti oltre l’Iraq, Università Bocconi Editore, Milano 2006, p. 221 82 Per esempio, nonostante i Comandi NATO fossero stati riformati e ridotti già negli anni Novanta, nel 2003 vennero mutati radicalmente i compiti del SACLANT (uno dei due comandi supremi dell‟alleanza), trasformandolo in ACT, Allied Command Transformation: il SACLANT aveva “ competenze operative per una specifica area geografica (l‟Atlantico)” , mentre l‟ACT ha “ la responsabilità di promuovere e sovraintendere alla continua trasformazione delle forze militari e delle capacità dell‟Alleanza.” Esempio citato in M. DE LEONARDIS, Alla ricerca della rotta transatlantica: le relazioni tra Europa e Stati Uniti dopo l’11 Settembre 2001, Centro Militare di Studi Strategici, 2008, p. 121 49 L‟allargamento dello spazio euro-atlantico iniziò nel 1999 con l‟ingresso all‟interno dell‟Alleanza Atlantica di Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca. Nel 2004 sono poi entrati nella NATO altri otto paesi: Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Slovenia e Romania. L‟allargamento ad est dell‟Alleanza Atlantica ha coinvolto in entrambi i casi i rapporti con la Russia83: nel 1999, in un momento di debolezza del paese, venne attuata la prima espansione, nel 2004 venne invece effettuata in un momento in cui le relazioni tra NATO e Russia erano distese. Nel 2006 al summit di Riga i membri dell‟Alleanza Atlantica espressero un sostegno informale alla membership di Georgia e Ucraina, ma l‟ingresso di questi paesi avrebbe implicato un peggioramento delle relazioni con la Russia, già critiche in quel periodo. Nel 2008 anche Albania, Croazia e Macedonia vennero invitate ad entrare nella NATO. Questi cinque paesi sono oggi membri associati dell‟Alleanza Atlantica insieme ad Austria, Arzebaijan, Finlandia, Moldova, Svezia e Svizzera. Il problema, per quanto riguarda l‟allargamento della NATO a est, è come procedere all‟espansione dell‟Alleanza mantenendo buoni rapporti con la Russia. A fine 2007 le relazioni tra NATO e Russia non erano ottime a causa delle controversie relative allo status del Kosovo e relative al progetto di installazione di uno scudo antimissile sul territorio di Polonia e Repubblica ceca. La questione dell‟allargamento della NATO riguarda anche l‟Unione Europea: le due istituzioni “ hanno creato due architetture di integrazione quasi sovrapponibili, con l‟eccezione […] della Turchia.”84 Infatti la Turchia fa parte dell‟Alleanza Atlantica, ma non dell‟Unione Europea. Gli Stati Uniti sostengono che l‟allargamento delle due istituzioni, continuando a svilupparsi come processi paralleli, porteranno beneficio all‟Unione Europea che, non avendo una forza 83 La Federazione russa è tra i membri associati della NATO. 84 S. FRÖHLICH, L’espansione della Comunità euro-atlantica, in V. E. PARSI – S. GIUSTI – A. LOCATELLI ( a cura di), Esiste ancora la comunità transatlantica?Europa e Stati Uniti tra crisi e distensione, Vita e Pensiero, Milano 2006, p. 190 50 militare rilevante a livello internazionale, potrà sviluppare la propria visione strategica all‟interno della NATO. Il sostegno da parte di Washington a questo allargamento parallelo di Unione Europea ed Alleanza Atlantica è dovuto al fatto che, per combattere il terrorismo a livello globale, gli Stati Uniti necessitano di basi e di alleati in Europa, così come in Asia centrale.85 La questione dell‟allargamento della NATO coinvolge l‟identità ed i compiti di quest‟ultima se si considera l‟idea, evocata da molte parti, di ampliare la possibilità di ingresso nell‟Alleanza a livello globale. A tal proposito, in uno studio promosso dall‟ex primo ministro spagnolo Aznar86, sono stati proposti come candidati per la membership alla NATO Israele, Giappone ed Australia. L‟entrata di Israele nella NATO, nonostante la sua partecipazione al Dialogo mediterraneo dell‟Alleanza Atlantica, non è attualmente presa in considerazione, poiché gli altri paesi mediorientali potrebbero percepire la sua membership come una minaccia, cosa che nell‟attuale situazione sarebbe meglio evitare87. Più realistico appare prendere in considerazione l‟ingresso di Australia e Giappone poiché questi paesi condividono gli stessi valori ed interessi strategici dell‟Alleanza Atlantica. L‟idea di una «NATO globale» pare più realistica rispetto a quella di un ampliamento della membership a livello extra-regionale. L‟Alleanza Atlantica è globale nel senso che può operare in ogni parte del mondo, nonostante i suoi membri siano solo stati europei e nordamericani. Negli anni Novanta la possibilità per la NATO di svolgere i suoi compiti anche in regioni geograficamente non rientranti nei confini dell‟Alleanza, era vista positivamente a Washington, mentre la maggior parte dei paesi europei era riluttante di fronte a tale idea. Gli Stati Uniti concepivano queste operazioni in funzione della difesa dei comuni 85 Sia la Bulgaria che la Romania consentono alla NATO di espandersi fino al Mar Nero, inoltre la Romania è un importante alleato in Afghanistan poiché fornisce una base strategica nella zona del Mar Nero. Ecco perché gli Stati Uniti, dopo il 2001 si sono dimostrati favorevoli all‟ingresso di questi due paesi nell‟Alleanza Atlantica, mentre alla fine degli anni Novanta non si erano dimostrati entusiasti a tale proposta. 86 Tale studio viene citato in M. DE LEONARDIS, Alla ricerca della rotta transatlantica: le relazioni tra Europa e Stati Uniti dopo l’11 Settembre 2001, Centro Militare di Studi Strategici, 2008, p. 133 87 Alcuni paesi del Medio Oriente percepiscono come una minaccia Israele, poiché Washington è il suo principale alleato; quindi una sua partecipazione alla NATO non aiuterebbe a migliorare la situazione nella regione, dove i fattori di tensione sono già molti. 51 interessi, mentre gli europei erano restii ad accettare il concetto di intervento «out of area», poiché privilegiavano la tradizionale difesa del territorio comune rispetto a quella degli interessi. La determinazione degli Stati Uniti a far acquisire un ruolo globale alla NATO si basava, già negli anni Novanta, sul fatto che per combattere il terrorismo e la proliferazione delle armi di distruzione di massa, c‟era bisogno di un‟organizzazione pronta ad intervenire anche in altre aree del globo, per esempio in Medio Oriente. L‟Europa, d‟altra parte, era riluttante a far diventare l‟Alleanza Atlantica uno strumento globale della politica americana, soprattutto in regioni come il Medio Oriente, dove le politiche europee e statunitensi erano molto differenti. Già negli anni Novanta era visibile la differenza nelle visioni politiche americana ed europea: gli Stati Uniti, in quanto potenza egemone, tendevano (e tendono ancora oggi) a percepirsi come i guardiani del mondo e di conseguenza come indispensabili per la risoluzione delle crisi a livello globale. L‟Unione Europea invece non era (e non lo sarebbe tutt‟oggi) pronta per assumere tale ruolo, poiché impegnata nell‟istituzionalizzazione interna; di conseguenza era restia all‟idea di ampliare il ruolo della NATO a livello globale. “ Le due operazioni militari NATO degli anni ‟90, in Bosnia e Kosovo, definirono in pratica la questione dell‟«out of area», limitandola per il momento ai confini prossimi dell‟Alleanza. L‟impegno in Afghanistan ha di fatto abolito il limite della distanza e per quanto riguarda gli americani la questione è chiusa: non ci può essere più un out of area nella difesa contro il terrorismo.”88 Attualmente non si può ancora parlare di una NATO globale, ma solo di un suo approccio globale alla sicurezza: il compito dell‟Alleanza Atlantica consiste quindi nella difesa dei suoi membri dalle minacce globali. La NATO viene rivalutata negli Stati Uniti quanto più si rivela funzionale alla loro politica globale, quindi continuano a insistere affinché si ampli il raggio d‟azione dell‟Alleanza Atlantica; 88 M. DE LEONARDIS, Alla ricerca della rotta transatlantica: le relazioni tra Europa e Stati Uniti dopo l’11 Settembre 2001, Centro Militare di Studi Strategici, 2008, p. 138 52 “ Ciò può avvenire a diversi livelli, con una NATO a membership globale allargata alle grandi liberaldemocrazie extra-europee, o globale come campo d‟azione, o solo con approccio globale alla sicurezza. La soluzione adottata influirà sulla centralità della NATO per la politica estera americana e sul grado di coesione dell‟Alleanza.”89 È importante ricordare però che, nonostante durante il secondo mandato del presidente Bush la sua amministrazione abbia attenuato l‟impostazione unilateralista che aveva portato a sottovalutare il ruolo della NATO nel 2003, alcune delle coalizioni di volenterosi create dagli Stati Uniti dopo l‟undici Settembre 2001 potrebbero istituzionalizzarsi e di conseguenza far si che si verifichi nuovamente una frattura nelle relazioni tra America ed Europa. “ […] l‟unilateralismo americano, che sia motivato da idealismo o da mera politica di potenza, mette in crisi la principale delle istituzioni della comunità di sicurezza, cioè la NATO.”90 “ […] ci si deve chiedere se la NATO sia ancora espressione di una solida relazione transatlantica, di una forte condivisione delle prospettive strategiche di Europa e Stati Uniti o se sia invece divenuta solo uno schermo che copre i dissensi tra gli alleati e rinvia una rottura già aperta.”91 L‟atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti dell‟Alleanza Atlantica è fondamentale per determinarne il futuro: l‟amministrazione Bush, nel momento della preparazione dei conflitti in Afghanistan ed Iraq, ha ritenuto che la partecipazione della NATO avrebbe limitato la libertà d‟azione americana e quindi ha optato per la formazione di coalizioni ad hoc, lasciando spazio all‟intervento dell‟Alleanza solo ad operazioni militari concluse. Il risultato dell‟operazione in Afghanistan, essendo la più importante finora attuata dall‟Alleanza Atlantica, sarà determinante per il futuro della NATO. Per quanto riguarda questo intervento, 89 Ibi, p. 140 90 V. E. PARSI, L’alleanza inevitabile. Europa e Stati Uniti oltre l’Iraq, Università Bocconi Editore, Milano 2006, p. 220 91 M. DE LEONARDIS, Alla ricerca della rotta transatlantica: le relazioni tra Europa e Stati Uniti dopo l’11 Settembre 2001, Centro Militare di Studi Strategici, 2008, p. 152 53 gli Stati Uniti ritengono insufficiente l‟impegno militare europeo92; inoltre restano i contrasti sulle tattiche utilizzate che causano a volte vittime tra i civili. Se da una parte c‟è dissenso all‟interno della NATO sui metodi militari usati in Afghanistan, vi è d‟altra parte consenso sull‟importanza data alla sicurezza del paese: la ricostruzione sarà possibile solo se verrà mantenuta la sicurezza. “ […] lo scenario internazionale richiede certamente l‟uso dello strumento militare, che però non è da solo sufficiente ad affrontare le nuove sfide, […]”93 In un sistema internazionale profondamente mutato dalle nuove minacce che si trova a dover affrontare, è importante che le organizzazioni internazionali si impegnino a collaborare tra loro. All‟interno della NATO il dialogo politico-diplomatico tra i membri, ma anche con i partners, deve essere intensificato e si deve creare collaborazione tra le forze che mantengono la sicurezza nelle diverse regioni del globo dove l‟Alleanza Atlantica è attiva e le organizzazioni che promuovono lo sviluppo di tali aree. Gli Stati Uniti devono prendere atto che la loro egemonia viene sfidata sia dall‟ascesa di potenze non occidentali, che dalla frattura interna all‟Occidente stesso: la NATO sarebbe in pericolo nel momento in cui gli Stati Uniti ritenessero superfluo ricomporre le divergenze interne all‟Occidente al fine di affrontare le sfide esterne ad esso. Infine, come ricorda Ted Hopf, un‟alleanza autoritativa, quale è la NATO, può sopravvivere se si verificano tre condizioni: “ […] una cultura quotidiana condivisa, l‟assenza di alternative, partecipanti soddisfatti. L‟alleanza degli Stati Uniti con l‟Europa appare in difficoltà in ciascuno dei tre ambiti.”94 92 Nonostante dopo il vertice di Riga del 2006, siano stati assegnati alla missione ISAF settemila uomini in più, l‟impegno della NATO era ritenuto ancora insufficiente, poiché molti paesi erano (e sono ancora oggi) limitati nella partecipazione alla missione da problemi di politica interna. 93 M. DE LEONARDIS, Alla ricerca della rotta transatlantica: le relazioni tra Europa e Stati Uniti dopo l’11 Settembre 2001, Centro Militare di Studi Strategici, 2008, p. 150 94 T. HOPF, Dissipare l’egemonia: l’unilateralismo degli Stati Uniti e l’erosione dell’autorevolezza transatlantica, in V. E. PARSI – S. GIUSTI – A. LOCATELLI ( a cura di), Esiste ancora la comunità transatlantica?Europa e Stati Uniti tra crisi e distensione, Vita e Pensiero, Milano 2006, p. 122 54 Dal punto di vista culturale l‟Unione Europea promette di generare in futuro una cultura quotidiana in contrasto con quella americana: il modello di democrazia sociale europeo, con un forte welfare state, si propone come un‟alternativa al modello statunitense dove la privatizzazione dei servizi crea un dislivello tra le classi sociali inconcepibile in molti degli stati europei. Inoltre la preferenza dell‟amministrazione Bush per l‟azione unilaterale, ha fatto si che si generasse insoddisfazione verso la predominanza degli Stati Uniti a livello internazionale e che quindi le alternative politico-culturali acquisissero maggiore rilievo a livello globale rispetto agli anni Novanta. L‟Alleanza Atlantica è sopravvissuta alla crisi nelle relazioni tra Europa e Stati Uniti del 2003, ma si deve lavorare ancora molto perché il nuovo ruolo della NATO come organizzazione che interviene «out of area» venga accettato da tutti i membri, affinché sia preparata ad intervenire per rispondere alle nuove minacce globali, quali terrorismo, proliferazione delle armi di distruzione di massa e gli stati canaglia. 55 CONCLUSIONE L‟intento di questo elaborato è quello di analizzare gli elementi di continuità e discontinuità nella politica estera statunitense dopo l‟undici Settembre 2001, rispetto ai tradizionali ideali della politica americana. Inoltre, è stato esaminato come le relazioni transatlantiche siano giunte ad un punto di rottura all‟inizio del 2003, osservando l‟impatto delle scelte in materia di politica estera prese da Unione Europea e Stati Uniti. Innanzitutto sono stati analizzati brevemente gli ideali tradizionali della politica americana che influenzano ancora oggi le scelte in materia di politica estera: è possibile notare come, in periodi di crisi a livello internazionale, gli Stati Uniti siano ricorsi più volte nel corso del Ventesimo secolo all‟isolazionismo. Solo dopo il secondo conflitto mondiale si sono uniti in modo permanente ad altri paesi, attraverso la partecipazione ad organizzazioni multilaterali, quali per esempio la NATO e l‟ONU. A partire dagli anni Novanta gli Stati Uniti hanno ricoperto il ruolo di potenza egemone nel sistema internazionale. Inoltre, per tutto il decennio seguito al crollo dell‟Unione Sovietica, hanno cercato di cooperare all‟interno delle organizzazioni internazionali, ma non si sono mai negati il diritto di agire in modo unilaterale. Con la presidenza di George W. Bush c‟è un ritorno alla preferenza per l‟azione unilaterale che era stato quasi del tutto abbandonato dalla precedente amministrazione. A questo proposito sono state esaminate le differenze tra l‟amministrazione Clinton e la presidenza di George W. Bush. La maggiore discrepanza tra le due amministrazioni si è rilevata negli approcci alle relazioni internazionali: Clinton ha prediletto, durante tutti gli anni Novanta, l‟azione in seno alle istituzioni multilaterali, mentre il presidente Bush ha mostrato una preferenza per l‟azione unilaterale da parte degli Stati Uniti a livello internazionale. L‟importanza dei fatti avvenuti l‟undici Settembre 2001 è stata esaminata in relazione alle conseguenti decisioni in materia di politica estera prese dall‟amministrazione Bush. 56 Innanzitutto gli attacchi terroristici di quel giorno hanno infranto il senso di invulnerabilità degli Stati Uniti. In secondo luogo, da un punto di vista prettamente politico, quegli eventi sono stati utilizzati come pretesto dal presidente Bush per attuare un tipo di politica che prima non sarebbe mai stato accettato dall‟opinione pubblica e dal Congresso. Già durante gli anni Novanta gli Stati Uniti avevano mostrato interesse verso l‟intervento militare all‟estero, ma solo quando la lotta al terrorismo è divenuta una priorità si è potuta giustificare tale ambizione come parte della strategia elaborata per combattere il terrorismo a livello globale. Per quanto riguarda la percezione della minaccia del terrorismo internazionale, c‟è stato, dopo l‟undici Settembre 2001, un cambiamento nel trattamento a livello giuridico degli attacchi terroristici: se prima erano considerati crimini internazionali, dopo il 2001 vengono considerati come atti di guerra. Le decisioni in materia di politica estera prese dall‟amministrazione Bush durante i primi mesi in carica si sono rivelate in linea con la tradizione politica americana. Solo dopo l‟undici Settembre, con l‟enunciazione della Dottrina Bush, si è assistito ad un cambiamento rilevante rispetto alle precedenti amministrazioni. L‟intervento armato statunitense in Afghanistan dell‟Ottobre 2001 è stato legittimato a livello internazionale come risposta ad un atto di guerra costituito dagli attacchi terroristici dell‟undici Settembre. Nonostante fosse giustificato dal naturale diritto di ogni stato all‟autodifesa, tale intervento ha scatenato le polemiche degli alleati europei, poiché la preferenza degli Stati Uniti per l‟azione unilaterale e la conseguente creazione di coalizioni ad hoc, hanno portato ad una diminuzione della rilevanza dell‟Alleanza Atlantica e, di conseguenza, del peso di alcuni stati europei a livello internazionale. L‟analisi della politica estera americana attuata in relazione all‟intervento armato in Iraq ha rivelato come gli Stati Uniti si siano spinti oltre il lecito attraverso l‟enunciazione della „nuova dottrina dell‟attacco preventivo‟ ideata da George W. Bush. La difesa degli interessi nazionali e della sicurezza del territorio sono state le priorità del quarantatreesimo presidente, che ha agito seguendo la corrente egemonista del pensiero realista. Generalmente si può affermare che la politica attuata dall‟amministrazione Bush non ha tenuto conto dei limiti 57 posti dal diritto internazionale e dalle organizzazioni multilaterali di cui gli Stati Uniti sono membri. È stato inoltre trattato il tema dell‟esportazione della democrazia mediante l‟intervento militare. A tal proposito sono state analizzate diverse opinioni di intellettuali ed osservatori: la legittimità di tale azione non è stata generalmente riconosciuta in nessuno dei pareri esaminati, ma troviamo differenti livelli di critica alla politica attuata dagli Stati Uniti verso l‟Iraq. All‟inizio del 2003 si è verificata una crisi interna all‟Alleanza Atlantica dovuta alle diverse visioni degli alleati riguardo all‟intervento militare in Iraq. Già prima del 2003, si era assistito ad un allontanamento tra gli alleati europei e i nordamericani a causa della volontà del presidente Bush di intraprendere un‟azione militare unilaterale contro l‟Afghanistan nell‟Ottobre 2001. Nel 2003 si è invece assistito ad una crisi più profonda tra i membri della NATO. L‟Alleanza Atlantica, marginalizzata nel 2001, è stata coinvolta indirettamente nel 2003 nell‟intervento in Iraq: i compiti degli alleati hanno riguardato principalmente la ricostruzione del paese al termine delle operazioni militari. Sempre nel 2003 l‟ISAF, forza istituita per la ricostruzione dell‟Afghanistan nel 2001 sotto il comando inglese, è passata sotto il comando dell‟Alleanza Atlantica. Il coinvolgimento degli alleati europei nelle operazioni di peace-keeping e nation-building può essere interpretato in modo negativo alla luce delle lacune relative alla ricostruzione presenti nelle strategie elaborate dall‟amministrazione americana relative agli interventi in Afghanistan ed Iraq. La crisi nel rapporto transatlantico è stata analizzata anche in relazione alle tematiche rilevanti all‟interno dell‟Unione Europea: il dissenso creatosi in Europa sulla questione dell‟intervento armato in Iraq ha dimostrato che i paesi europei non hanno ancora una forte identità comune e, di conseguenza, la creazione di una politica estera collettiva non è ancora del tutto attuabile. Per esaminare più a fondo la crisi nelle relazioni transatlantiche, sono state analizzate alcune opinioni rilevanti nel dibattito relativo al tema se gli Stati Uniti costituiscano un «impero» e se l‟Unione Europea rappresenti un‟alternativa all‟egemonia americana. Gli Stati Uniti non possono essere definiti un impero, ma si può definire imperialistica la logica sottostante ad 58 alcune loro scelte di politica estera. L‟Unione Europea, secondo alcuni, rappresenta un modello politico e sociale alternativo a quello offerto dagli Stati Uniti e c‟è chi sostiene che la sempre maggior rilevanza dell‟Unione Europea a livello internazionale farà si che quest‟ultima si imponga come sfidante alla leadership americana. Visioni più realistiche mettono in risalto le carenze europee in materia difensiva: la creazione di un apparato militare competente a livello internazionale dovrebbe essere tra le priorità di un‟Unione Europea che vuole scindere i propri interessi strategici da quelli americani, ma per ora la NATO rimane il più efficace strumento difensivo per l‟Europa. Le questioni relative all‟identità e all‟allargamento della membership restano attualmente le problematiche più rilevanti all‟interno dell‟Unione Europea, quindi è oggi ancora irrealistico pensare che gli stati europei siano in grado di imporsi come sfidanti per l‟egemonia nel sistema internazionale. Per quanto riguarda l‟evoluzione dell‟Alleanza Atlantica, sono state analizzate le principali modifiche apportate a tale organizzazione a partire dagli anni Novanta. Le questioni della membership e del ruolo della NATO sono tuttora le tematiche più rilevanti. Il dibattito relativo alla questione degli interventi «out of area», già iniziato durante gli anni Novanta, si è sviluppato soprattutto dopo il 2001 con gli interventi in Afghanistan ed in Iraq. Tale dibattito riguarda la legittimità d‟intervento dell‟Alleanza Atlantica in territori che non rientrano nei suoi confini. Attualmente gli interventi «out of area» rientrano nei compiti dell‟Alleanza, ma non c‟è ancora un consenso unanime sui limiti di tale concetto: gli Stati Uniti ritengono che la partecipazione alla ricostruzione dell‟Afghanistan abbia di fatto abolito i limiti territoriali nelle azioni della NATO; mentre i paesi europei sono generalmente più restii ad accettare un approccio globale alla sicurezza da parte dell‟Alleanza Atlantica. Dall‟analisi effettuata con il presente elaborato si può constatare come la strategia di politica estera attuata dall‟amministrazione Bush sia stata caratterizzata, per certi versi, da un forte attaccamento alla tradizione politica americana. Tuttavia l‟introduzione di una nuova dottrina relativa all‟attacco preventivo, così come la volontà di esportare la democrazia e il modello politico americani attraverso l‟uso della forza armata, hanno rappresentato due novità per la politica americana e per la comunità internazionale. Gli Stati Uniti hanno sempre avuto la 59 possibilità di attaccare preventivamente i paesi che avrebbero potuto rivelarsi una minaccia, e in passato l‟hanno fatto più volte, ma solo dopo il 2001 questa prerogativa americana è stata sostenuta pubblicamente ed è diventata parte della strategia per la sicurezza nazionale. Lo studio della politica estera americana affrontato in questo elaborato prende in considerazione gli anni della presidenza di George W. Bush (2001-2008). Durante il primo mandato dell‟amministrazione Bush si è assistito ad una grave crisi delle relazioni tra Europa e Stati Uniti, a causa della preferenza di questi ultimi per l‟azione unilaterale e la creazione di coalizioni ad hoc. Con il secondo mandato del presidente Bush, la politica estera degli Stati Uniti è tornata ad un approccio alle relazioni internazionali basato sulla cooperazione, coinvolgendo nuovamente nelle strategie di politica estera le istituzioni multilaterali e le alleanze permanenti. Un vero miglioramento nel rapporto transatlantico è stato tuttavia visibile solo dopo l‟elezione del presidente Obama: dopo il 2008 si è verificato uno sviluppo positivo nella collaborazione tra Europa e Stati Uniti sulle questioni rilevanti a livello internazionale. 60