Recensione - accademia degli intronati

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Recensione - accademia degli intronati
LUCA LUCHINI, Siena 1940-1944. Il dramma della guerra e della liberazione, Siena,
edizioni il Leccio, 2008, pp. 247.
Luchini propone, con questo suo libro, una ricostruzione degli anni del conflitto
vissuti dall’interno della quotidianità senese, a partire dalle prime reazioni all’annuncio
– diramato dalla radio alle 22.40 di domenica 25 luglio 1943 – dell’avvenuta
esautorazione di Mussolini e della nomina a Capo del Governo del maresciallo Pietro
Badoglio.
Le più immediate reazioni, anche a Siena, sono quelle della liberazione dei
prigionieri politici, dell’abbandono di insegne e distintivi fascisti (fino a ieri erano tutti
fascisti – annota l’arcivescovo Toccabelli – da oggi sono tutti antifascisti e nessuno è
stato fascista), della prima ricostituzione di aggregazioni politiche (presso la libreria
Ticci si ricostituisce il Partito Socialista ed elegge suo segretario Nello Ticci). A parte
pochi incidenti di lieve entità, comunque, la caduta del fascismo viene vissuta con
realtiva tranquillità nella nostra città e, tutto sommato, il terremoto più grosso di
questa prima fase del dopo-regime pare limitarsi al cambiamento della toponomastica
stradale che abbandona le intitolazioni acquisite nel Ventennio per riprendere quelle
tradizionali. Così, piazza Costanzo Ciano torna a chiamarsi la Lizza; viale Italo Balbo
recupera il nome di viale Curtatone; Camporegio riacquista il suo nome al posto di via
dei Martiri Fascisti; lo stadio Rino Daus torna Stadio Comunale e i due viali Trento e
Trieste cancellano le intitolazioni a Rino Daus e al XXVIII Ottobre.
Più concitati sono, invece, gli avvenimenti che seguono l’8 settembre: il “tutti a
casa” di Siena è scandito dal caos all’interno delle formazioni militari, dallo svuotamento,
abbandono e saccheggio delle caserme, da episodi clamorosi come quello del battaglione
del V bersaglieri che, proveniente da Volterra, si sbanda e si discioglie proprio alle porte
della città. Fra i pochi a vedere lucidamente in prospettiva, scrive Luchini, c’è Mario
Bracci che commenta “L’armistizio non è la pace; è una resa e quando ci si arrende non
si sa quale sarà la sorte”. Purtroppo, infatti, Bracci sarà buon profeta. A tale proposito,
l’Autore ricostruisce, con lo spirito e l’acribia del cronista, l’indomani dell’annuncio
di Badoglio: il ruolo del comando tedesco diventato quello di un “nemico in casa”,
le requisizioni delle scorte alimentari, la ricostituzione del Fascio Repubblicano e il
conferimento dei poteri a Giorgio Alberto Chiurco. Su questo personaggio complesso,
controverso e discusso, il libro di Luchini invita a riaprire la riflessione: Chiurco ebbe
una responsabilità innegabile in termini di coinvolgimento nel fascismo e di adesione
alla Repubblica di Salò, ma, altrettanto, non si può sorvolare sul fatto che fu anche
accusato dai tedeschi di eccessiva condiscendenza verso le posizioni della curia locale
e di boicottaggio delle azioni antipartigiane; che fu inventore dei Battaglioni Lavoratori
impiegati localmente in modo da evitare la deportazione in Germania degli uomini abili
alle attività lavorative; che non fu estraneo alla “soffiata” che permise alla maggior
parte degli ebrei senesi di mettersi in salvo la notte della retata fra il 5 e il 6 novembre;
che venne pregato, infine, dallo stesso Mario Bracci (probabilmente con il consenso o,
comunque, senza eccessivi ostacoli da parte del CLN) di non abbandonare il suo posto
all’approssimarsi del fronte perché era considerato l’unica autorità in grado di tenere a
bada le rappresaglie tedesche sulla popolazione.
Anche l’8 settembre provoca, peraltro, un contro-sisma toponomastico. Il
fascismo tornato al potere cancella, per vendetta, tutti i nomi di strade che hanno
riferimenti sabaudi o che comunque alludono alla monarchia: viale Vittorio Emanuele
III diventa via Risorgimento; tolta l’intitolazione alla regina Elena, il piazzale della
stazione diviene piazza della Repubblica (di Salò, ovviamente); piazza d’Armi, che già
si era vista affibbiare l’intitolazione a Vittorio Emanuele II, diventa ora piazza Ettore
Muti, e piazza della Posta, ormai piazza Umberto I, viene ribattezzata piazza dell’Unità
Italiana. Perfino strade che con i Savoia non c’entrano niente fanno le spese di questo
furore iconoclasta antimonarchico, e, così, via del Re (semplificazione dell’antico e
originale nome di via degli Alberghi del Re, datale quando a Siena nessuno sapeva
nemmeno che da qualche parte di mondo esistevano i Savoia) perde la corona e diventa
l’attuale via Cecco Angiolieri.
Il volume di Luchini, nell’affontare la vicenda degli ebrei dopo l’8 settembre, riapre
poi la riflessione sul modo in cui anche Siena aveva accettato (forse sottovalutandone
la reale e tragica portata) senza troppi turbamenti le leggi razziali antiebraiche nel
1938: qualche debole resistenza (ad esempio, a rendere noti alle autorità i depositi di
correntisti ebrei presso il Monte dei Paschi) si era dissolta immediatamente; nessuno (o
quasi nessuno) si era scomposto di fronte alla istituzione di classi separate per gli ebrei
presso le scuole cittadine, o di gabinetti separati per i bambini di religione israelitica, o
per l’allontanamento dal servizio di eccellenti professionisti come lo psichiatra Nugel.
Non era mancato, in questa desolante panoramica di colpevole conformismo anteguerra,
nemmeno il meschino interesse personale di chi, intestatario prestanome di esercizi
commerciali che non potevano più avere come titolari i legittimi proprietari ebrei,
aveva approfittato della situazione per appropriarsi indebitamente dei beni affidatigli.
Sembra in parte rimediare a questa miseria l’atteggiamento di alcune famiglie
senesi o di singoli che, proprio nelle fasi più tragiche dell’occupazione tedesca dopo
l’armistizio, nel momento in cui è chiara la sorte che aspetta i concittadini di fede
ebraica quando sono rastrellati, rischiano in proprio, nascondendoli e proteggendoli.
Persone come don Luigi Rosadini, parroco di Vignano, o famiglie come gli Adami e i
Cardini, solo per fare alcuni esempi, dopo la fine della guerra saranno riconosciuti dal
governo israeliano “Giusti tra Nazioni” per la loro opera nei confronti dei correligionari
perseguitati per motivi razziali.
L’analisi di Luchini prosegue, poi, con la descrizione della vita al tempo dei
bombardamenti, anche con pennellate di vera e propria comicità: il protocollo per gli
impiegati del Monte dei Paschi, infatti, prevede che in caso di allarme per l’avvicinarsi
dei bombardieri, si concluda - se è possibile farlo in breve tempo, si specifica –
l’operazione con il cliente; che poi si raccolgano – ancorché alla rinfusa – titoli e soldi
dalla cassa e si depositino nella cassaforte; che ci si assicuri che quest’ultima sia ben
richiusa, e che, infine, ci si possa precipitare nel più vicino rifugio (quando pure – si
precisa – non si voglia fiduciosamente aspettare nei locali stessi della banca che il
pericolo sia passato).
L’inverno fra il ’43 e il ’44 è il momento peggiore: quello in cui viene bombardata
Poggibonsi e in cui anche Siena conosce la morte che arriva dal cielo: il bombardamento
dell’Osservanza (23 gennaio del 1944), oltre a distruggere l’antica basilica e le sue
opere d’arte, fa anche 25 vittime fra i civili.
Luchini ricostruisce, a questo punto, le tappe che – con forte accelerazione proprio
dovuta al pericolo di nuovi bombardamenti – portano al riconoscimento di Siena come
città ospedaliera, e all’intensificarsi dell’azione per mettere in salvo le opere d’arte che
ancora erano rimaste in città.
L’avvicinarsi del fronte vede precipitare la situazione con gli arresti dei partigiani
e la fucilazione di alcuni di essi il 13 marzo (né manca, in questo quadro tragico, un
sorriso con la narrazione – bilanciata nella pagina di Luchini fra levità e drammaticità
– del salvataggio di un partigiano ferito, curato da Carlo Luzzati, medico ebreo, e fatto
passare sotto il naso dei tedeschi da don Vivaldo Mecacci, curato di Molli, grazie alla
messinscena di un falso funerale).
Poi, finalmente, fra la fine di giugno e l’inizio di luglio, la liberazione sembra
ormai a portata di mano. L’Autore ricostruisce quei giorni convulsi con precisione
giornalistica, rivisitando l’inevitabile corollario di violenze che li accompagnò e li seguì:
dai partigiani vittime di rappresaglie, alle violenze delle truppe marocchine, al redde
rationem nei confronti di fascisti (quasi tutte persone di secondo piano, si specifica).
Soprattutto, però, Luchini sottolinea l’elemento (non del tutto comune, altrove, in quelle
fasi della storia) del passaggio, tutto sommato tranquillo, dei poteri locali dal governo
fascista ai liberatori, con il podestà Socini Guelfi che consegna il Palazzo Comunale
agli Alleati e se ne va tranquillamente a casa; con Chiurco a fare da sponda-fantasma
nei confronti del comando tedesco; con una transizione sostanzialmente cogestita, per
evitare altro strazio alla popolazione, fra CLN ed esponenti del tramontato regime.
Ci piace chiudere le annotazioni su questa ricostruzione di un periodo angoscioso
con una considerazione quasi scherzosa, ma sintomatica del modo di pensare della gente
di questa città: quando si procedette alla defascistizzazione dell’arredo iconografico
cittadino e alla rimozione di qualsiasi simbolo del regime, ci fu anche chi propose che
fosse distrutto il drappellone del palio dell’Impero, vinto dalla Giraffa nel 1936. Fu
preso per pazzo e non se ne fece niente, perché a Siena la storia può passare e con lei i
cambiamenti, ma il palio è palio e il palio non si tocca.
DUCCIO BALESTRACCI