Untitled - Barz and Hippo
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La storia si ripete. Ciclicamente, ondate di donne provenienti da un Paese la cui economia è in crisi si riversano là dove qualcuno ha bisogno di loro: un tempo erano spagnole o italiane, poi ci sono state le filippine, le rumene... sono migliaia di storie possibili, e quanto spesso dolorose, se non tragiche: ma Philippe Le Guay si concentra su un'idea gioiosa. Il film sfrutta una situazione paradossale per evitare i consueti stereotipi, per ritrarre con leggerezza personaggi e sentimenti, ma anche per tratteggiare con ironia conflitti e incomprensioni di una generazione. . scheda tecnica durata: 106 MINUTI nazionalità: FRANCIA anno: 2011 regia: PHILIPPE LE GUAY sceneggiatura: PHILIPPE LE GUAY, JÉRÔME TONNERRE fotografia: JEAN-CLAUDE LARRIEU montaggio: MONICA COLEMAN costumi: CHRISTIAN GASC musica: JORGE ARRIAGADA scenografia: PIERRE-FRANÇOIS LIMBOSCH distribuzione: ARCHIBALD FILM Interpreti: FABRICE LUCHINI (Jean-Louis Joubert), SANDRINE KIBERLAIN (Suzanne Joubert), NATALIA VERBEKE (María), CARMEN MAURA (Concepción), LOLA DUEÑAS (Carmen), BERTA OJEA (Dolores), NURIA SOLÉ (Teresa), CONCHA GALÁN (Pilar), MARIE-ARMELLE DEGUY (Colette de Bergeray), MURIEL SOLVAY (Nicole de Grandcourt), AUDREY FLEUROT (Bettina de Brossolette), ANNIE MERCIER (La signora Triboulet), MICHÈLE GLEIZER, (Germaine), CAMILLE GIGOT, (Bertrand), JEAN-CHARLES DEVAL (Olivier), PHILIPPE DUQUESNE (Gérard), CHRISTINE VÉZINET (Valentine). Philippe Le Guay Figlio dell’agente di commercio e barone Le Guay, è il fratello di Marie-Laure Le Guay e quindi il cognato dell'ex Primo Ministro Dominique de Villepin. Dopo studi all’Institut des Hautes études Cinématographiques e dopo essere stato docente di cinema a La Fémis, realizza il suo primo lungometraggio Les Deux Fragonard (1989) con Sami Frey e Joaquim de Almeida (dopo aver firmato o diretto corti come Il ne faut jurer de rien, Le clou, Grosse, 15 août che gli permettono di lavorare con Maurice Pialat e Jean-Louis Trintignant). La sua carriera si divide fra film tv e lungometraggi, spesso con il bravissimo Fabrice Luchini, come nel caso del godibile campione d’incassi francese Il costo della vita (2003) e nella commedia romantica Le donne del 6° piano. I suoi film tendono a coniugare l’intelligenza con la leggerezza e il divertimento. Fra le sue sceneggiatura si ricordano Un weekend su due (1990) e Lapse of Memory (1992), poi diretto da Patrick Dewolf con John Hurt e Marthe Keller come protagonisti. È apparso come attore nella pellicola Nudisti per caso (2003). la parola ai protagonisti Philippe Le Guay Nonostante sia reduce da un immenso successo di pubblico in Francia, con più di due milioni di presenze in sala, Philippe Le Guay presenta il suo Le donne del 6° piano alla stampa romana con una modestia e una generosità poco comuni. Innanzitutto si scusa di non parlare italiano, mentre racconta di aver dovuto imparare lo spagnolo perché due delle “sue donne”, le interpreti dei personaggi di Dolores e Pilar, non parlavano per nulla il francese (cosa che comunque gli ha regalato il piacere di poter dare istruzioni alle sue attrici senza che il protagonista, Fabrice Luchini, comprendesse nulla, mandandolo regolarmente in ansia). Ma chi sono queste donne del sesto piano? Delle chiassose e vivaci domestiche spagnole che abitano il sottotetto di un immobile borghese al centro di Parigi e cambiano per sempre la vita di un rigido agente di borsa e padre di famiglia: uno straordinario, comme d’habitude, Fabrice Luchini. Perché un regista francese decide di lavorare con un cast quasi tutto spagnolo? La motivazione principale che mi ha spinto a fare il film era esattamente quella di lavorare con delle attrici spagnole. Siamo in Europa, ma giriamo sempre con i nostri attori nazionali. Ho pensato alle attrici dei film di Almodovar, Carlos Saura, Bunuel, che ho amato tanto, poi mi sono ricordato dell’episodio storico dell’arrivo di un’ondata di governanti spagnole in Francia negli anni Sessanta e ho desiderato ardentemente fare questo film. Il produttore mi ha sostenuto, sono andato a Madrid tre settimane per il casting: alla mattina andavo al Prado e al pomeriggio, quando vedevo le attrici per i provini, mi pareva di rivedere i volti dei dipinti di Goya e Velasquez. A questo proposito, mi preme specificare che l’immigrazione di cui parlo non è l’immigrazione politica che è seguita alla guerra civile, ma è l’immigrazione essenzialmente economica che negli anni tra il 1955 e il 1965 ha portato molti abitanti delle zone rurali della Spagna a trasferirsi per lavoro in Francia. C’erano anche molti uomini tra loro, ma io mi sono interessato alle donne. Non invidio i registi che fanno i film di guerra o di azione con attori tutti uomini e troupes di soli uomini: dev’essere una gran noia. Con questo film, inoltre, ho scoperto la gioia di mettere insieme attori francesi e stranieri. In questo modo si spostano tutti i punti di riferimento, cambiano le prospettive, è tutto fresco e nuovo. Inoltre questa storia esprime un sentimento europeo, che mi tocca molto. L’Europa si è formata durante gli anni ’60, molto prima che l’Unione Europea diventasse una realtà politica. Gli spagnoli erano presenti, tra di noi, agli angoli delle strade, nei parchi... Tutto questo fa parte della storia comune dei nostri due paesi. Nello stesso modo in cui il personaggio di Jean-Louis scopre gli altri nel film, credo che il cinema sia stato inventato per mettere in scena un apprendimento. Filmiamo degli esseri umani per acquisire parte di loro, per arricchirci di qualcosa che non proviene da noi stessi. Che impressione avete trattenuto, con lo sceneggiatore Jérome Tonnerre, dai colloqui fatti con le vere ex domestiche spagnole che hanno lavorato in Francia quarant’anni fa? Nei ricordi delle donne che abbiamo intervistato c’era moltissima gioia. Nonostante lavorassero dalle 6 del mattino alle 11 di sera, erano felici di essere lontane dal franchismo e dall’oppressione maschile di padri e mariti. La sera stavano in compagnia, uscivano, andavano a vedere i match di boxe. Erano libere. In quell’esperienza c’era un principio di emancipazione. Il progetto del film ha una genesi autobiografica? In parte. Nasce sicuramente da un ricordo della mia infanzia. Mia mamma ad un certo punto assunse davvero una domestica spagnola, che si chiamava Lourdes, con la quale io trascorrevo la maggior parte del mio tempo, quando ero molto piccolo. Al punto che pare parlassi un misto di spagnolo e francese. Se c’è uno psicanalista in sala potrà facilmente capire che alla base di questo film c’è l’amore deluso che ho provato per quella donna. Poi, è scoccata la scintilla durante un viaggio in Spagna, quando ho incontrato una donna che mi ha raccontato della sua vita a Parigi negli anni ’60. L’idea di girare un film su questa comunità di domestiche spagnole mi ha conquistato. Ho scritto una prima versione su un adolescente trascurato dai genitori, che trova rifugio tra la domestiche del palazzo; poi ho cambiato punto di vista, ho immaginato che fosse il padre a scoprire questo universo al sesto piano. Abbiamo ambientato la nostra storia nel 1962, alla fine della guerra di Algeria, nella Francia di De Gaulle: si tratta di un’epoca recente, eppure sembra un’altra era, un altro mondo...Di autobiografico c'è anche mio padre che, come Luchini nel film, faceva l’agente di borsa e veniva da tre generazioni di agenti di borsa, che io ho interrotto facendo del cinema. Come il personaggio, mio padre aveva un’aria un po’ distante, da sognatore, era un po’ fuori da quel suo mondo. Purtroppo lui non si è mai trasferito al sesto piano con le domestiche. D’altronde è esattamente per questo che si fanno i film: per immaginare altre vite, altre possibilità, per sognare. Lei si sente più affine al personaggio di Luchini o dei suoi figli? Spero di non assomigliare troppo a questi ragazzini, a dire la verità. Sono ancora più rigidi del loro padre, più borghesi di lui; rappresentano la legge. Nella realtà accade spesso, se ci fate caso. Che struttura ha dato alla sua comunità spagnola? Non volevo che si trattasse di un’entità corale, ma di una galleria di ritratti molto individuali. Prima ho pensato a una donna che fosse repubblicana, arrivata in Francia per fuggire dal regime di Franco. Poi ho voluto l’opposto, una bigotta, super-religiosa, che va in chiesa tutti i giorni e non fa che litigare con la repubblicana. A tenerle a bada, c’è senza dubbio un misto delle due, il personaggio interpretato da Carmen Maura, che calma le donne e mitiga i conflitti. C’è Teresa che vuole un marito francese, e ovviamente c’è Maria, la nipote di Concepciòn, che viene in Francia per cercare un lavoro e intorno alla quale ruota tutta la storia... Il suo film ha del fiabesco... Il film si basa su un’utopia: si vuole credere che le classi sociali siano porose, e che il “borghese” possa trasferirsi al sesto piano, con le “domestiche”. Ma questa utopia viene respinta da entrambi i lati, dai borghesi che lo considerano uno scandalo, ma anche dalle domestiche. Carmen, interpretata da Lola Dueñas, crede nella lotta delle classi, va a chiedere al signor Joubert di restare al suo posto. Concepciòn, invece, farà tutto il possibile per impedire la relazione tra Maria e Jean-Louis. Anche se non lo dice mai, Concepciòn respinge con forza questa utopia d’amore. Crede nel principio del realismo. È lei che spinge Maria a partire, svelandole dove viene cresciuto suo figlio. E alla fine, quando Jean-Louis divorzia, lei preferisce mentirgli piuttosto che dirgli dove si trova Maria. Incarna un principio di realismo arcaico che contraddice la favola. Allo stesso modo, ho usato l’incoscienza del personaggio principale per smorzare il clichè del padrone che si innamora della servetta: Jean-Louis è attratto da Maria ma non ne è pienamente e immediatamente cosciente. Soprattutto, è attratto dal gruppo, dall’insieme di quelle donne, non solo dalla singola Maria. Il suo film non è solo una storia d’amore, è soprattutto un viaggio verso un altro universo... La trappola da evitare a ogni costo era di cadere in una storia in cui il datore di lavoro si innamora della sua domestica. Per questo ho voluto che non ci fosse una donna sola ma molte. Jean-Louis Joubert scopre una comunità, un’altra cultura che fa irruzione nella sua vita. È turbato, preoccupato e infine sedotto... il film propone la scoperta di un mondo sconosciuto eppure vicino. Adoro l’idea di vivere accanto alla stranezza. Basta un niente per uscire dal proprio mondo e scoprirne altri che si accompagnano, si sfiorano senza incrociarsi. È il concetto di “quarta dimensione” che appartiene alla fantascienza, ma che qui è trattato senza passare dalla fantasia. Dove ha trovato il materiale per descrivere l’universo della famiglia Joubert? Io stesso provengo da un ambiente borghese. I miei genitori vivevano nel 17° arrondissement di Parigi, mio padre faceva l’agente di cambio, e io sono stato mandato in collegio come i figli dei Joubert. . E il caso ha voluto che facessimo le riprese in un palazzo abbandonato che una volta ospitava gli uffici delle imposte, e che si trova a 30 metri dalla scuola che frequentavo da bambino. Abbiamo ricreato in quel palazzo l’appartamento dei Joubert, la scala di servizio e le piccole stanze nel sottotetto. Lassù, sono stati abbattuti i muri, rimpiazzati da sfondi per permettere la logistica delle riprese, dato che una cinepresa riusciva a malapena a entrare. Ma lo spazio delle stanze è assolutamente autentico. Anche gli italiani, specie quelli della regione delle Langhe, in passato sono emigrati in Francia. Come gli spagnoli, avevano origini rurali e una forte fede cattolica. Sì, sono a conoscenza anche di questa ondata migratoria. Nel mio film non a caso ho scelto Luchini, che è figlio di immigrati italiani, e Sandrine Kiberlain, che è figlia di immigrati polacchi. Quegli anni testimoniano di una grande possibilità di integrazione, mentre ora la Francia è più chiusa, le leggi più violente, lo straniero è visto come una minaccia. Volevo ricordare il grande valore della diversità. Che tipo di pubblico ha decretato il dilagante successo del film in Francia? All’inizio il pubblico era decisamente maturo. Un giorno, passando davanti ad una sala dove proiettavano il mio film, mi sono interessato all’entrata su come andavano le presenze e allora mi hanno pregato di entrare e di dire due parola alla fine della proiezione. Ho detto: “ma prima dei titoli di coda se ne saranno andati già tutti”. Mi hanno risposto: “non si preoccupi, sono tutti vecchietti, ora che recuperino le borse e gli ombrelli e si alzino in piedi…. avrà tutto il tempo!” Poi, però, il pubblico si è man mano variegato; sono andati a vedere il film dei ragazzi che non conoscevano la Francia degli anni ’60 e non sapevano nemmeno cos’era un “6° piano”. Ma c’è uno spirito di comunità, in questa storia, che è molto francese e rimanda al teatro di Marivaux e Molière e al cinema di Sacha Guitry e Jean Renoir. Il suo film è tenero con le domestiche spagnole ma molto duro con le signore francesi… Non con il personaggio della moglie, però. Lei non è come le sue amiche, viene dalla provincia e in Francia questo faceva moltissima differenza: è una donna più semplice e naturale, non giudica il marito, cerca di capire. E alla fine anche lei evolve a suo modo, cambia. È lecito pensare che il protagonista stia attraversando la cosiddetta crisi di mezza età? Io ci vedo piuttosto un uomo un po’ addormentato che ad un certo punto si risveglia. Avrei adorato fare il film con Mastroianni, se fosse stato ancora vivo. Recensioni Giancarlo Zappoli. Mymovies Parigi, 1960. Jean-Louis Jobert conduce la sua piatta vita di esperto finanziario vivendo con la moglie Suzanne e ricevendo ogni tanto la visita dei due figli mandati a studiare in collegio. Nella soffitta (definirla mansarda costituirebbe un eufemismo) vive un gruppo di donne spagnole spesso maltrattate dalla portinaia. Jean-Louis non si cura di loro fino a quando la vecchia governante non si licenzia per divergenze con Suzanne. Viene assunta la nipote di una delle iberiche, Maria, appena arrivata da Burgos. Jean-Louis comincia ad interessarsi a lei e, per traslato, alla vita delle sue compatriote che decide di aiutare nelle loro difficoltà quotidiane. Il cinema francese ha, tra le qualità che anche i più ostinati detrattori non possono non riconoscergli, quella di saper portare sullo schermo commedie la cui apparente leggerezza si rivela tale da farle apprezzare dal pubblico più vasto ma che, osservate con attenzione, si rivelano più significative di quanto non appaia a un primo sguardo superficiale. Quando poi si hanno a disposizione lo sguardo e il sorriso di un attore come Fabrice Luchini il gioco risulta ancora più facile. Perché non sono moltissimi gli attori che, come lui, sanno offrire con un rapido cambio di espressione la sensazione di una vita spesa nella più banale delle routine nel momento in cui intravede la possibilità di un cambiamento radicale. Basti ricordare, tra i film giunti in Italia, Confidenze troppo intime di Patrice Leconte. Sullo sfondo di questa storia di progressiva conoscenza reciproca (che nasce da un bisogno di condividere piccoli sprazzi di ordinaria umanità fra culture diverse e solo successivamente si trasforma in amore) si muove la Storia. Quella di una Spagna da cui si fugge perché il franchismo domina e quella di una Francia gollista in cui si può divorziare ma in cui regna il più ammorbante dei conformismi in ambito borghese. Osservate Sandrine Kiberlain nei suoi completi e perfino nelle sue camicie da notte sempre ispirate a un decoro formale in cui l'apparenza finisce con il costituire l'unica sostanza e avrete un ritratto perfetto di un'epoca a cui il tanto vituperato '68 avrebbe almeno dato una scossa. Fabio Fusco. Movieplayer.it Una famiglia borghese nella Parigi degli anni '60. Lui, Jean-Luis, lavora nel campo della finanza, mentre sua moglie Suzanne, una biondina algida e sempre composta, si divide tra gli appuntamenti con il sarto, gallerie d'arte e i salotti della città. Quando decidono di cambiare governante, assumono la bellissima Maria, una giovane spagnola che vive al sesto piano del loro stesso condominio, insieme a sua zia Concepcion e ad altre cameriere che lavorano presso le famiglie della zona. Al suo ingresso in famiglia, Maria chiede segretamente aiuto alle sue coinquiline per aiutarla a mettere tutto a posto prima del ritorno di Suzanne, perchè la casa è in condizioni disastrose, tra montagne di lenzuola sporche, strati di polvere e il lavello pieno di stoviglie da lavare. Nei giorni seguenti, oltre a rivoluzionare la casa dei Jobert da cima a fondo, la giovane spagnola ne sconvolgerà anche l'equilibrio. Prevedibilmente, Jean-Luis si prenderà una cotta per la nuova cameriera, ma non solo, perchè monsieur Joubert resterà folgorato anche dal mondo di lei, quattro adorabili e vivaci signore e il loro modo di parlare, pensare e cucinare. Senza svelare cosa succede ai Jobert, si può dire che il film ha il pregio di scorrere piacevolmente e senza che lo sviluppo sia troppo prevedibile. Anche la recitazione completa positivamente il quadro, con le buone interpretazioni di Fabrice Luchini, nel ruolo del timido Jean-Luis, le 'almodovariane' Lola Duenas e Carmen Maura, ma anche l'argentina Natalia Verbeke, bella in modo straordinario. Luchini si trova ad interpretare un uomo che non si è mai sentito davvero libero, e adesso Per il suo film, il regista ha lavorato su materiale autobiografico: avendo vissuto in una famiglia borghese, accudito molte ore al giorno da una governante spagnola, Le Guay imparò da lei a parlare anche la sua lingua, e ovviamente ne assorbì la cultura. In seguito, l'incontro con una signora spagnola che aveva vissuto in Francia negli anni '60, ha spinto il regista a sviluppare lo script del suo film, che inizialmente vedeva protagonista un adolescente che viene "adottato" da un gruppo di cameriere che vivono nel suo stesso quartiere. Non a caso infatti, alcune tracce di questo script precedente, a parere di chi scrive, sono rimaste nella versione definitiva, con le caratterizzazioni dei figli dei Joberti, sviluppati in maniera più "incompleta" rispetto agli altri. Maurizio Acerbi. Il Giornale Sbaglia chi liquida l'ottimo Le donne del 6° piano come un film sull'eterna divisione tra classi sociali, dove i borghesi vengono demonizzati ed i poveri osannati. E non è un inno alla vera ricchezza spirituale che conta più di quella materiale. O meglio, la pellicola diretta da Philippe Le Guay è anche questo ma non solo. È un racconto molto più complesso, ricco, che offre allo spettatore diverse chiavi di lettura, ognuna meritevole di un approfondimento. È un film che parla di solitudine, di amore, di amicizia, di sofferenza, di pregiudizi duri da abbattere (da entrambe le parti), di comunità che diventano famiglie allargate, di incomunicabilità. È ambientato nella Parigi del '62 ma, a ben vedere, potrebbe essere verosimile anche mezzo secolo dopo. Jean-Louis Joubert è un agente di cambio assorbito dal lavoro. È sposato con Suzanne, di origine provinciale (per questo sempre un passo indietro rispetto alla borghesia metropolitana) e padre di due ragazzi che studiano in collegio. Una famiglia arida di sentimenti, gelida, distaccata, dove anche il bacio tra consanguinei è inesistente, pura utopia. Assume come cameriera la giovane Maria, una ragazza spagnola che abita sopra di lui, nel fatidico sesto piano, insieme ad un'allegra banda di domestiche emigrate dalla Spagna. Siamo in era franchista quando molti spagnoli vennero a rifugiarsi e lavorare in Francia per riuscire a mantenere la famiglia rimasta a casa. Attratto da questa chiassosa comunità, che si contrappone ai riti austeri del suo ambiente, ed invaghitosi di Maria, Jean-Louis si legherà sempre più al mondo bizzarro ma onesto di queste donne finendo per innamorarsi del loro piccolo universo al punto di trasferirsi, in un piccolo vano, sul loro piano. Occasione per sentirsi, per la prima volta nella vita, realmente vivo, Curzio Maltese. La Repubblica Non è difficile capire come mai Le donne del sesto piano sia stato un fenomeno d'incassi in Francia. Una commedia raffinata e popolare, allegra, di buoni sentimenti, ma senza retorica. Un risultato piuttosto raro, visti i tempi. In Italia non avrà magari lo stesso successo, un po' perché è molto francese, un po' perché non è abbastanza volgare da meritare una distribuzione industriale. E poi c'è il tema, l'immigrazione. Un fenomeno troppo recente da noi per riuscire a tradurlo in commedia. Si fanno in genere melodrammi, piuttosto noiosi, che è molto più facile. La maturità di questo film è la sua leggerezza. L'astuzia è nel parlare non dell'immigrazione di oggi, con il suo carico pesante di dolore e lacerazioni sociali, ma di quella degli anni Sessanta. La storia è ambientata nei quartieri borghesi della Parigi di de Gaulle, prima del fatidico '68. Una società dove ciascuno doveva stare al suo posto. Ai pian i nobili del bel palazzo vive la famiglia dei signori Joubert, nel gelido rispetto delle convenzioni. Il signore, Jean-Louis è un serissimo agente di Borsa, con un'unica ossessione nella vita: la cottura perfetta dell'uovo alla coque. Suzanne, la moglie che rientra ogni sera a casa estenuata da una giornata di frivolezze. Più due pargoli viziati e già benpensanti. Nella soffitta invece s'agita il mondo povero, rumoroso e caldo delle donne di servizio spagnole. Quando i signori Joubert decidono di fare a meno dell'anziana domestica impicciona, si rivolgono alla comunità spagnola e assumono Maria. L'ingresso della giovane e dolce Maria scardina le certezze dei Joubert. Jean-Louis scopre ossessioni più affascinanti delle uova e, inseguendo Maria, entra in contatto con l'universo del sesto piano, i balli, i canti, le preghiere e la paella, la sofferenza e la lieta fierezza della piccola comunità, sconosciuta eppure protettrice. Conosce la saggia Concepcion e la comunista Carmen, l'infelice Teresa, la pia e la bella, Pilar e Dolores. Per la prima volta si sente a casa, in famiglia, euforizzato dalla gioia di vivere e dalla possibilità di divertirsi. Scopre la gioia di rendersi utile, dando un senso al proprio potere, al danaro. E' un'esperienza dalla quale Jean-Louis e neppure la moglie Suzanne riusciranno a tornare indietro. E quando il '68 arriverà per davvero, la loro rivoluzione si è già compiuta. La tradizione del rapporto fra padroni e domestici ha prodotto capolavori di profondità psicologica, nel cinema di Altman, Losey o Chabrol. Non è questa la pretesa del film di Philippe Le Guay, un'opera modesta, nel senso nobile del termine. La storia si muove con il passo lieve dell'ottimismo, fra ironia e utopia. Un po' come nel bellissimo ultimo film di Kaurismaki, Le Havre, ambientato fra gli immigrati africani di oggi. Senza lo stesso splendore cinematografico, ma con altrettanta passione umana e tenerezza, Le Guay confeziona una commedia umile e divertente, nostalgica ma attuale. Con qualche omaggio, en passant, agli universi sentimentali del grande Pedro Almodovar, non soltanto nella scelta delle attrici e di un'icona del cinema spagnolo come la sempre straordinaria Carmen Maura. Un discorso a parte meritano i protagonisti, la bravissima Sandrine Kiberlain, una delle migliori attrici francesi, ancora poco conosciuta in Italia, regala un'ampia gamma di variazioni al personaggio dapprima caricaturale e poi sempre più toccante di una signora borghese in guerra con se stessa. E soprattutto lui, il meraviglioso Fabrice Luchini. Autodidatta, figlio di immigrati italiani, Luchini negli ultimi tempi si è specializzato nelle parti di alto-borghese in crisi, prima ne Gli invitati di mio padre, quindi in Potiche-La bella statuina e ora in Le donne del sesto piano. Ogni gesto, ogni frase detta o non detta, ogni sguardo esitante o meravigliato, perfino ogni suo passo è da antologia dell'arte di recitare. Il suo Jean-Louis è un ritratto esemplare, un inno all'ottimismo: la vita può ricominciare anche a sessantanni. Gian Luigi Rondi. Il Tempo Spagnole a Parigi nei Sessanta. Tutte domestiche perché erano, in quegli anni, le filippine di oggi qui da noi. (...) L'incarico di raccontarci questa favoletta se l'è assunto, scrivendosi anche il testo, Philippe Le Guay di cui si son già viste anche nelle nostre sale delle commedie con morale gentile, tipo, fra le più recenti, 'Il costo della vita', interpretata, come il film di oggi, da Fabrice Luchini, accompagnato, in quella occasione, da Vincent Lindon. Qui si cerca il più possibile di tenersi in equilibrio fra i sentimenti e certe ironiche notazioni di costume. Si fa il punto su quella comunità spagnola tutta al femminile divisa tra devote e ribelli (in Spagna c'è ancora Franco), si tratteggia un po' quel quadretto familiare con l'intenzione di far sentire quanto il protagonista, pur bravo borghese, ne abbia una certa insofferenza specie quando comincia a confrontarne la freddezza con il genuino calore che scaturisce dalle abitanti del sesto piano. Tutto, però, più solo enunciato che non approfondito, con un disegno dei caratteri che, eccezion fatta per quello del protagonista, non è mai precisato a sufficienza: con il rischio, in tutti gli altri, di perdersi nel vago. Fabrice Luchini, al centro, non smentisce la sua fama, affidandosi molto più ai toni sfumati che non a quelli incisi. Come il suo personaggio chiedeva. Gianno Rondolino. La Stampa Che Le donne del 6° piano - ultimo film di Philippe Le Guay con l'eccellente Fabrice Luchini - abbia avuto in Francia un grande successo di pubblico è facilmente comprensibile. La storia di un ricco agente di cambio di mezza età alle prese con una moglie vanitosa e con una bella cameriera spagnola, ambientata a Parigi nel 1962, narrata con uno stile leggero e una caratterizzazione simpatica dei personaggi, non può che suscitare un piacevole interesse e una divertente adesione. Ma ovviamente anche fuori dalla Francia, in Italia e altrove, quella storia possiede una serie di elementi che possono coinvolgere lo spettatore. A partire, come si è detto, dalla caratterizzazione dei personaggi, che si presentano sullo schermo a poco a poco, arricchendosi d'un sottile fascino psicologico da una sequenza all'altra. Tutto si svolge con grande semplicità, di giorno in giorno, come se il film fosse una sorta di documentario che registra la vita quotidiana di un gruppo di persone e di due diverse e contrapposte classi sociali (...). Ed è questo contrasto a costituire il filo conduttore della storia. Ma non si pensi a un conflitto sociale dichiarato, o meglio a un film «politico» che voglia contrapporre polemicamente i due gruppi e prenda una posizione ideologica dichiarata. Philippe Le Guay è un narratore «apolitico», che si limita a rappresentare una differente realtà umana e sociale nei toni di una commedia di costume. La Francia e la Spagna di cinquantanni fa, contrapposte l'una all'altra attraverso le situazioni differenti dei singoli personaggi, con vaghissimi accenni a De Gaulle e a Franco, non sono altro che lo sfondo ambientale su cui si svolgono i piccoli conflitti personali. L'amore che a poco a poco coinvolge Jean-Louis Joubert, l'agente di cambio francese, e Maria Gonzales, la donna di servizio spagnola, è una sorta di filo rosso che lega fra loro le diverse condizioni sociali. Ma ciò che conta, e che il film vuole mettere in luce, è la leggerezza dello stile narrativo, attraverso il quale tutti i problemi di varia natura che coinvolgono i personaggi devono rimanere sullo sfondo, perché sono i rapporti umani, sentimentali, a costituire il contenuto reale dell'opera. E non c'è dubbio che Le Guay sia riuscito nell'impresa. Sebbene, ad essere severi, si corre il rischio che lo svuotamento ideologico della storia appiattisca un po' la bellezza della rappresentazione, così delicata e per molti versi attraente e piacevolissima. Roberto Escobar. L'Espresso Si fatica ad accettarla, la favola bella di Le donne del sesto piano. Può mai un agente di Borsa parigino abbandonare il suo train de vie - il suo oeuf à la coque mattutino e il suo appartamento elegante - per trasferirsi nei pochi metri quadri d'una stanza per la servitù? In ogni caso, questo raccontano Philippe Le Guay e il cosceneggiatore Jérôme Tonnerre. A cinquant'anni suonati, Jean-Louis Joubert non è infelice, ma neppure felice. (...). E però - ecco l'inizio della favola - dalla Spagna arriva la giovane Maria. Siamo nel 1960, e per i francesi di buona famiglia le domestiche spagnole sono la normalità. Nella grande casa ad appartamenti dei Joubert ce ne sono cinque o sei, tutte alloggiate all'ultimo piano, quello della servitù. E lì finisce anche Maria, assunta da Madame Suzanne. A questo punto del racconto molti rischi gravano su "Le donne del sesto piano". Il padrone potrebbe insidiare la serva, o la serva potrebbe sedurre il padrone. Ancora, Maria e Suzanne potrebbero contendersi Jean-Louis. Peggio, il gruppo delle spagnole potrebbe esibirsi in qualche piazzata alla Almodóvar. Per fortuna, niente di questo accade. La sceneggiatura non rincorre cliché, e non generalizza. Al contrario, va alla ricerca dell'umanità dei protagonisti: del perbenismo superficiale ma incolpevole di Suzanne, degli slanci e dei timori di Maria, della solitudine un po' sciocca di Jean-Louis. E così siamo al fatto. Contagiato dalla vitalità delle spagnole, Monsieur Joubert lascia Suzanne e si trasferisce al sesto piano. Per la prima volta, dice, ho una casa davvero mia. Quanto a Maria, è così fresca e desiderabile che se ne potrebbe innamorare persino un agente di Borsa. Insomma, la commedia è diventata favola, e corre veloce verso un esito lieto. Alla fine, appunto, in un paesino assolato della Spagna di mezzo secolo fa Jean-Louis sorride felice a Maria, del tutto dimentico del suo oeuf à la coque. Ci si può credere? Detta così forse no. Ma la regia leggera di Le Guay e la recitazione trattenuta di Luchini e degli altri rendono verosimile l'inverosimile. Paolo Meregehetti. Corriere della Sera La particolare configurazione architettonica, a Parigi, dei condomini borghesi costruiti a cavallo tra Ottocento e Novecento aveva favorito una rigida divisione sociale: nel sottotetto, la cui altezza permetteva di ricavare stanze abitabili, era alloggiata la servitù mentre nei piani sottostanti stavano le famiglie presso cui prestavano servizio. Una separazione che si è imposta anche nel linguaggio quotidiano se ancora oggi quei «monolocali», spesso affittati a studenti stranieri e non più alle domestiche, vengono indicati come «chambres des bonnes». Una definizione che unisce connotazioni di censo e insieme di classe e a cui il cinema francese aveva fatto spesso ricorso, da quando Robert Lamoureux vi trovava la fidanzata ideale in Papà, mamma, la cameriera e io (perché naturalmente per farla accettare ai genitori, non trovava di meglio che assumerla in casa come domestica... tanto già abitava nel sottotetto!) fino ai rifugi di tanta Nouvelle Vague che in quelle stanze sotto il cielo si consumava di fantasie e di amori. Nel film di Philippe Le Guay, presentato fuori concorso all’ultimo festival di Berlino, le stanze del sesto piano tornano ad essere occupate dalle «bonnes», dalle domestiche. E siccome siamo nei primissimi anni Cinquanta, quelle del film sono tutte spagnole, venute da oltrepirenei, per rimpiazzare le donne bretoni che l’età o il nuovo benessere fa allontanare da questo servizio (come in Italia era successo con le venete: ricordate la Gravina dei «Soliti ignoti»?). Il film comincia proprio con questo «traumatico» cambio della guardia: la vecchia domestica dei Joubert lascia il posto e su consiglio delle amiche, la signora Suzanne si decide ad assumere una cameriera spagnola, Maria. Tanto, come le hanno fatto notare, l’unica loro esigenza è quella di andare a messa la domenica, «alla funzione delle sei del mattino!». Perfetta nell’assolvere ai propri doveri, irreprensibile nel cuocere l’uovo alla coque del padrone di casa solo tre minuti e mezzo («un uovo troppo cotto o duro ti fotte la giornata» sentenzia), inattaccabile dal punto di vista della pulizia personale (questa invece è la fissazione di madame), Maria conquista ben presto la fiducia dei Joubert. E soprattutto quella di monsieur Jean-Louis, titolare di una rispettata agenzia di investimenti borsistici, meticoloso, pignolo, metodico ma soprattutto vulnerabile di fronte al calore umano e alla contagiosa allegria che si respira al sesto piano, dove oltre a Maria vivono la zia Concepción, la «militante» Carmen, la pia Dolores, la platinata Teresa e, quando il marito la maltratta troppo, anche la remissiva Pilar. Una comunità chiassosa e variegata, dove si litiga, si balla, ci si prende in giro ma soprattutto ci si aiuta scambievolmente. Dove cioè ci sono tutte quelle virtù e anche quei piccoli difetti che mancano totalmente nella famiglia Joubert. Ed è qui che il film trova la sua energia e il suo divertimento, in questo ritratto a due toni e due tinte, tra i bridge di madame Suzanne e le uscite domenicali delle cameriere spagnole, tra le ambizioni «letterarie» della padrona di casa e la rassicurante concretezza di Maria, tra l’asettico mondo della borghesia parigina (il ritorno a casa dei due figli dal collegio è un piccolo gioiello di satira classista) e la calda solidarietà delle «donne del sesto piano». Un contrasto che la sceneggiatura ingigantisce con abile ironia, come quando affida a Carmen una breve ma efficace lezione sulla guerra civile spagnola o quando accende in Jean-Louis i segni di una «gelosia» di cui neppure lui sa bene spiegare la ragione. Perché naturalmente Maria non è solo efficiente e premurosa, è anche piuttosto carina e se la signora Joubert vede le nemiche del suo menage nelle facoltose e intraprendenti clienti del marito, lo spettatore non impiega molto a capire che la vera tentazione per il signor Joubert potrebbe venire solo dal sesto piano. Ma attraverso un percorso che è prima di tutto «esistenziale». L’idea vincente di questa commedia piacevole e simpatica, infatti, è nella sua capacità di raccontare il confronto tra due mondi che si incontrano ogni giorno ma che sembrano incapaci di capirsi e di parlarsi: lo scontro tra due culture sostanzialmente opposte, una accogliente e aperta, l’altra sospettosa e chiusa. Raccontato con affetto ma anche senza dimenticare la voglia di lasciare il segno di qualche belle e profonda unghiata. Fulvia Caprara. La Stampa Gesti impercettìbili, come un saluto esitante, uno sguardo che si addolcisce, un indugio lieve nel decidere di andarsene oppure di restare, accompagnano, dal primo all'ultimo minuto, l'interpretazione di Fabrice Luchini nel film di Philippe Le Guay Le donne del sesto piano. Il modo in cui, ogni mattina, a colazione, l'attore spezza il guscio dell'immancabile uovo «a la coque», diventa termometro infallibile dei suoi stati d'animo. Luchini non è bello, non è giovane, non ha niente di particolarmente affascinante, eppure, nell'immensa galleria dei suoi personaggi, spesso signori compassati alle prese con sentimenti che non sanno gestire, non c'è mai un ritratto venuto male. Nei suoi occhi rotondi, nel suo viso qualunque, scorre il romanzo di questi tempi, uomini a disagio, donne combattenti.